Le Chitarre E La Voce Di John Hiatt Tornano A Ruggire Nel Nuovo The Open Road

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Dopo un paio di album interlocutori (anche se Master of Disaster non era male) John Hiatt torna con questo The Open Road ai livelli di eccellenza che gli competono: un disco che rivaleggia come qualità con Perfectly Good Guitar e Stolen Moments e non è molto lontano dalla vette di Bring the Family.

Lo fa con un disco che lui stesso definisce garage rock, un ritorno alla formula infallibile, chitarra, basso e batteria, una voce alla cartavetrata, ma di marca e pedalare. Quando l’ispirazione c’è, e quindi le belle canzoni ti sostengono, tutto gira alla perfezione.

In questo disco ci sono undici brani, uno più bello dell’altro: si parte con il rock vibrante della title-track, The Open road, il classico brano a trazione chitarristica, una di quelle canzoni che non vorreste finisse mai e se finisce schiacciate il tasto repeat e riparte più bella della prima volta e così via, Doug Lancio ci mette del suo, non avrà la classe dei suoi predecessori Ry Cooder e Sonny Landreth, ma ha grinta da vendere e la sua chitarra sprona Hiatt a sfoderare la sua migliorare interpretazione da lunga pezza.

Haulin’ rimane su questi ritmi rock and roll, coinvolgenti e di facile assimilazione ma di gran classe; Go Down’ Swingin’ è una delle sue classiche “hard ballads”, dolci dentro ma ruvide all’esterno, orecchiabili melodie come piovesse, arrangiamenti semplici semplici ma di grande spessore sonoro.

L’intermezzo blues (ma con forti venature di rock cantautorale come è caratteristica imprescindibile della musica di Hiatt) si apre con Like A Freight Train, un blues duellato tra la voce grintosa di John e la slide malandrina di Lancio e prosegue con una travolgente My baby, sempre con atmosfere incandescenti che ti acchiappano (come direbbero i supergiovani).

L’intermezzo in salsa country&western della deliziosa Homeland ti spiazza per un momento, ma poi le continue aperture melodiche del brano ti conquistano. Wonder Of Love è un’altra di quelle meravigliose ballate che l’Hiatt più ispirato sfodera nei suoi album migliori, mentre What Kind Of Man mi ha ricordato moltissimo le atmosfere irresistibili di Thing Called Love, Hiatt canta alla grande, la ritmica pompa e la chitarra disegna i suoi ghirigori.

Movin’ On, sempre sul tema del viaggio verso mete non definite ma bramate,  che caratterizza questo The Open Road e lo differenzia dal viaggio verso casa degli album precedenti, è un’altro brano dall’andatura ondeggiante che ti cattura in questo interscambio tra la voce magnifica di Hiatt e la slide di Doug Lancio, ottima, come in tutti brani, e citiamola, la sezione ritmica composta da Kenneth Blevins e Patrick O’Hearn.

Fireball Roberts ancora slide e voci sugli scudi, ha atmosfere più sognanti ed attendiste ma si fa apprezzare comunque, mentre la meravigliosa ballata Carry You Back Home cantata meravigliosamente da John Hiatt è semplicemente, indovinato, meravigliosa!

Per una volta mi sbilancio: quattro stellette o se preferite il Voto 8. Tra i dischi dell’anno (anche se siamo solo all’inizio).

Da domani nei negozi.

Bruno Conti

Basia Bulat – Errata Corrige

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Una precisazione doverosa!

Mi scuso con i lettori di questo blog, ma ho commesso un errore: la recensione che avete letto alcuni giorni orsono non è relativa a Basia Bulat, o meglio, non è relativa all’ultimo album Heart of my own, ma a quello del 2007 Oh My darling, causa scambio dei CD nelle relative custodie. Per cui ho sentito entrambi i dischi, poi al momento di scrivere ho dissertato molto positivamente sull’album sbagliato.

Confermo tutto ciò di positivo che ho detto anche se riferito al soggetto sbagliato e mi scuso vivamente per l’errore madornale (unica scusante la mia situazione familiare non fantastica di questo periodo). Mi riprometto, nei prossimi giorni, di sistemare la situazione recensendo il dischetto giusto.

Scusate e alla prossima.

Bruno Conti

Johnny Cash – 26/02/1932-12/09/2003

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Johnny Cash – American VI: Ain’t No Grave

Oggi, giorno in cui avrebbe compiuto 78 anni, esce il sesto ed ultimo capitolo della serie American Recordings, prodotta da Rick Rubin.

L’ultimo capitolo?

Bruno Conti

george harrison – 25/02/1943-29/11/2001

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Oggi avrebbe compiuto 67 anni!


Tribute to George – While My Guitar Gently Weeps
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Domani è il compleanno di Johnny Cash (anche il mio, ma è un brutto periodo)!

Bruno Conti

Piccoli Talenti Crescono! Basia Bulat – Heart Of My Own

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A differenza del post su Findlay Brown, questa volta il titolo non contiene punti interrogativi. I talenti crescono e si vede: questo Heart Of My Own è il secondo album di Basia Bulat dopo l’ottimo Oh, My darling del 2007 e conferma tutto quello di buono che si era detto su di lei.

Prima di tutto, due anzi tre brevi premesse: ma che ci sia un ritorno dell’ukulele? Questo è il secondo album, in un breve arco di tempo, dove mi capita di ascoltare lo strumento preferito di Peter Sellers in evidenza, prima il disco di Freedy Johnston e ora questo della Bulat. Seconda premessa: o i viaggi di Carmen Consoli in Nord-America cominciano a sortire i loro effetti oppure la Carmencita nazionale e Basia Bulat sono due gemelle separate alla nascita, anzi frutto di un parto tri-gemellare con l’irlandese Dolores O’Riordan; sono stato l’unico a notare queste similutidini nel modo di cantare? In Gold Rush (Bellissimo titolo e bellissimo brano) e in I’m Forgetting Everyone Basia Bulat sfoggia questo leggero vibrato, piccole pause, modo di respirare tra una parola e l’altra che ricorda la Consoli ma anche la O’Riordan, piccole piacevoli impressioni. Terza premessa: una ragazza, canadese, di Toronto ma residente a London, Ontario che suona dulcimer, autoharp, ukulele, chitarra acustica e piano non si deve meravigliare se viene accostata a Joni Mitchell. Non sarà vero ma è suggestivo. E poi guardate la foto!

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Veniamo a questo Heart of My Own, sono i brani più complessi dagli arrangiamenti quasi barocchi quelli che colpiscono di più: dal valzerone trascinante e in crescendo di The Shore, dove la chitarra acustica (o è l’autoharp citato) iniziale viene implementata, man mano, da una seconda voce femminile, una batteria, una sezione di archi con il ritmo di valzer che si fa più serrato e ricorda, per certi versi, la musica del Sufjan Stevens più pop. Molto bella anche la malinconica If only You che ricorda le conterranee Natalie Merchant e Sarah McLachlan, soprattutto la prima, per le avvolgenti melodie e il cantato molto partecipato. I bonghetti che introducono la deliziosa e delicata I’m Forgetting Everyone, e poi costituiscono la base ritmica del brano, sono genialmente minimali e sostengono la voce, occasionalmente raddoppiata della Bulat. Gold Rush (un omaggio al loner canadese?), oltre alle vicinanze consoliane, ripropone i bonghi du cui sopra ma rinforzati da una sezione di archi evocativa e avvolgente.


Basia Bulat – Go On (Live)
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L’iniziale Go On è un’irresistibile intramuscolare con uso di ukulele, mentre Run negli accordi iniziali mi ha ricordato moltissimo il Bowie di Space oddity, poi entrano battiti di mani, percussioni, archi e le atmosfere tornano tipicamente canadesi, fughe orchestrali alla Arcade Fire e cantato alla Merchant.

La musica non perde mai una patina di colori pop che la rende appetibile e perfino, orrore, orecchiabile (infatti alcuni suoi brani, come inevitabile nei tempi che viviamo, sono stati utilizzati per delle pubblicità di automobili, non cito le marche) ma sa essere anche minimale come in Sugar and Spice dove il leggero vibrato della sua voce si libra su una base di archi pizzicati. Non male anche l’altro breve intramuscolo folk di Sparrow dove compare anche una evocativa armonica a bocca.

La title-track, mossa e vivace, ha una introduzione che ricorda molto l’inizio di The Days of pearly Spencer (Il Volto della vita), ma è un attimo poi si apre ad atmosfere ariose ed avvolgenti che ricordano i brani più belli della Merchant, peccato che la voce della Bulat, bella ed espressiva, in questo brano, in fase di missaggio, scompaia nel gorgo degli strumenti, il brano è comunque molto bello.

Il disco dura solo trentacinque minuti, ma non un minuto va sprecato, ve lo consiglio vivamente, oltre a tutto è distribuito regolarmente anche nelle nostre lande a cura della Rough Trade/Self.

Bruno Conti

Novità Marzo-Aprile 2010 – Buona Musica In Arrivo

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Solita fila di immaginette, ma buona musica in arrivo: intanto è confermato per il 2 marzo (forse prima) il nuovo John Hiatt Oper Road che lo vede tornare ad uno stile grintoso ed energico, decisamente più rock dell ‘ultimo Same Old Man, merito della nuova band che lo vede affiancato dal chitarrista Doug Lancio, che ha collaborato recentemente all’ultimo bellissimo Downtown Church di Patty Griffin e in passato con Allison Moorer, Jack Ingram, Todd Snider, Matthew Ryan, tutta gente tosta; al basso, il virtuoso Patrick O’Hearn e alla batteria Kenneth Blevins che ha, più o meno, le stesse frequentazioni di Lancio. Comunque molto bello, un ritorno alla miglior forma per Hiatt, sentirete! Solita etichetta New West.

Per sentire il nuovo Jeff Beck, Emotion and Commotion bisognerà aspettare fino alla metà di aprile, uscirà (si spera) su Rhino Records e, ancora una volta, il buon Jeff ci stupirà con un album eclettico: a fianco dei soliti collaboratori, Vinnie Colaiuta alla batteria, Jason Rebello alle tastiere e la prodigiosa ragazzina Bassista Tal Wilkenfeld, ci saranno anche tre voci femminili, Imelda May, Olivia Safe e l’ottima Joss Stone, in decisa ripresa, in due brani, tra cui, una vigorosa rilettura di I Put A Spell On You. Due sono anche i brani ripresi dal repertorio di Jeff Buckley, Lilac Wine e Corpus Christi Carol (l’album esce ai primi di aprile, in periodo pasquale). Tra le sorprese, in alcuni brani, l’utilizzo di una orchestra di 64 elementi, tra gli altri in Somewhere Over The Rainbow (ma sarà difficile superare Pupoeilprincipe) e Nessun Dorma!?!, incrociamo le dita.

Il disco di Ry Cooder con i Chieftains, San Patricio non esce il 17 marzo come qualcuno potrebbe pensare, ma la settimana prima e si preannuncia come un evento musicale. Una collaborazione tra musicisti americani, irlandesi, messicani, spagnoli, tra gli altri: Linda Ronstadt, Moya Brennan dei Clannad, Lila Downs, Carlos Nunez, Los Centonzles, Liam Neeson e molti altri, racconta la storia, non del santo, ma del battaglione San Patricio, un gruppo di irlandesi immigrati negli Stati Uniti che defezionò dall’esercito americano per partecipare a fianco dei Messicani alla guerra tra Messico e America del 1846-1848. Epico! Questo è il trailer.

Peter Wolf, per i distratti, è stato per molti anni il cantante della J.Geils Band, una band che negli Stati Uniti negli anni ’70 rivaleggiava con gli Aerosmith come epigoni degli Stones, tra l’altro con un approccio molto rock-soul-blues, nella migliore tradizione di Jagger & Co. Wolf non ha perso le buone abitudini, e questo nuovo Midnight Souvenirs, lo vedrà duettare con Merle Haggard, Neko Case e Shelby Lynne, nella consueta infuocata miscela di country, soul, rock e folk che caratterizza le sue ultime opere, come l’ottimo Sleepless che è entrato nella lista dei Top 500 di Rolling Stone All Time. Uscita metà aprile.

Un Geniale Artigiano Della Melodia – Freedy Johnston Rain On The City

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Negli anni ’90 Freedy Johnston aveva sfornato una serie di album di geniale e fulminante cantautorato in salsa power-pop, sulla scia del primo Costello o del suo discepolo americano Marshall Crenshaw: dischi come Can You Fly del 1992 o This Perfect World del 1994 rimangono dei gioiellini da avere (se li trovate!) in una ideale discoteca di quella decade. Ma tutta la produzione di quegli anni ci presenta il lavoro di un cantante genialmente artigianale, un cesellatore di note ma capace di energiche sferzate power-pop.

Il 2010 ce lo riconsegna accasato ad una piccola etichetta (la Bar None, la stessa doveva aveva esordito nel 1989), dopo anni passati con la Elektra che nel 2001 lo ha “mollato” ai primi segni della crisi discografica mondiale. In quattro e quattr’otto, otto anni appunto, il nostro amico è tornato, ammorbidito nel suono ma sempre geniale nei testi e negli arrangiamenti semplici ma accattivanti dei suoi brani.

Questo Rain In The City mi ricorda anche il Pure Pop For Now People di Nick Lowe, per esempio nelle irresistibili armonie di The Other Side Of Love, dalle reminiscenze Beatlesiane, con quel piano elettrico che fa molto Beatles For Sale o nel power pop vigoroso e sapido del potenziale singolo (ma esistono ancora?) Don’t Fall In Love With A Lonely Girl, perfetto!

Questo è il brano che dà il titolo all’album.

Ma anche il semi-folk dell’iniziale Lonely Penny – un ukulele, una chitarra elettrica con vibrato, un harmonium, un basso elettrico- non dispiace, come i ritmi brasileiri di The Kind of Love We’re In. Molto bella anche la malinconica Central Station che racconta di un padre che muore con accorata partecipazione sulla scia del miglior Paul Simon. It’s Gonna Come Back To You ricorda il R&R acustico alla Budddy Holly mentre la conclusiva What You Cannot See, You Cannot Fight ci riporta al Freedy Johnston narratore di storie, un figliol prodigo che ritorna dal padre vedovo per ricordare insieme “mamma”, ma non c’e melodramma solo compartecipazione senza falsi pudori.

C’è spazio anche per il gradevole country-rock di Livin’ Too Close To The Rio Grande (l’album è stato registrato in quel di Nashville) e ancora per il pop perfetto di Venus Her Name che ricorda il Johnston degli anni ’90.

Bruno Conti

Shannon McNally Coldwater

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Torniamo al dovere del “bravo Blogger” (come il bravo presentatore di Frassica): ovvero ricerca e condivisione di musica valida dal mondo intero. Questa volta parliamo di una delle voci femminili più interessanti della scena indipendente americana, Shannon McNally e del suo nuovo album Coldwater.

Bella e brava, o come direbbe Paolo Hendel “una bella topona”, detto con affetto se no mi massacrano, una semplice constatazione, verificare da foto e video

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I suoi dischi, in Italia, sono come l’Araba Fenice, introvabili, quest’ultimo Coldwater, in particolare ha avuto una vita travagliata (come la Fenice è risorto dalle sue ceneri), registrato in quel di Coldwater, Mississippi agli Zebra Ranch Studios, è l’ultima opera portata a termine da Jim Dickinson, ma nasce da più lontano, dal 2007, da un album registrato per la Back Porch, completato e mai pubblicato.

Ma questa è una storia già conosciuta dalla McNally, nel 1997, fresca dalla laurea in antropologia delle religioni viene messa sotto contratto da una major, la Capitol, the next big thing, la nuova Sheryl Crow o Maria McKee, mandata in studio con Greg Leisz, Jim Keltner e Benmont Tench, il risultato Jukebox Sparrows verrà pubblicato nel 2002!! Capito l’andazzo, la nostra amica decide di dedicarsi ad ad una carriera più defilata ma non priva di soddisfazioni discografiche. Gli album si susseguono, lei si circonda di ottimi musicisti, registra in coppia con Neal Casal, collabora con Dave Alvin e alla fine del percorso approda a questo Coldwater.

Nel frattempo ha formato una band, gli Hot Sauce, con il batterista Wallace Lester (anche suo compagno di vita e padre della bambina avuta recentemente), il bassista Jake Fussell e l’ottimo chitarrista Eric Deaton (che ha sostituito l’altrettanto bravo Dave Easley che giganteggiava nel live North American Ghost Music del 2006). Deaton è più knopfleriano rispetto al torrenziale Easley ma altrettanto valido nell’economia del nuovo disco, che ha spostato gli orizzonti sonori verso uno stile Roots Americana con venature country got soul. La voce di Shannon McNally ha sempre quello strano sapore sudista (pur essendo una nativa di New York, Long island) che la avvicina a colleghe come Lucinda Williams o Mary Gauthier, ma al sottoscritto ricorda anche la già citata Maria McKee, entrambe godono di questo dono di natura di avere una voce perennemente “imbronciata”, alla “cosa ci faccio qui?”, altra socia del club, Stevie Nicks.

Jim Dickinson ha rivestito la musica di sapori sudisti, bluesy, ma anche dylaniani, l’attacco di batteria iniziale da This Is Ain’t My Home viene direttamente da Blonde on Blonde, poi si sviluppa in un country blues tra i primi Dire Straits e l’ultima Lucinda Williams, in sottofondo o in primo piano c’e sempre il suo pianino malandrino che duetta con le linee di chitarra di Eric Deaton. Jack B. Nimble è un capitolo perduto dell’opera di Lee Clayton, dove il country con influenze dylaniana si incontrava con la chitarra fiammeggiante di Philip Donnelly. Lonesome, Ornery and Mean è una cover di un brano del grande Steve Young, ma la faceva anche Waylon Jennings all’epoca degli Outlaws, country music per chi non ama Nashville. Lovely è una ballata stupenda dal retrogusto soul alla Curtis Mayfield, raffinata e coinvolgente, ricorda per certi versi il Dylan romantico di Blonde on Blonde, visto dalla parte femminile: Shannon McNally la canta con una “soprannaturale leggiadria”, ogni nota cesellata, l’epitome del “cool”, non saprei dire in italiano, brano meraviglioso, punteggiato dalla chitarra delicata di Deaton, praticamente una meraviglia. Deliziose anche Bohemian Wedding Prayer Song e la pianistica Freedom to stay. Dal passato viene ripresa una Bolder Than paradise che dava il titolo all’EP di esordio del 2000, sempre molto laidback, mentre la conclusione è affidata, poteva essere diversamente, ad una cover di Dylan, Positively 4th Street, rivisitata con dolcezza e personalità, altra piccola gemma di questo “tesoro nascosto”. Occhio, perchè si fatica parecchio per trovarlo, download digitale o cd che sia, ma ne vale la pena.

Bruno Conti

Dal Festival Di San Siro – Inteso Come La “Montagnetta” Di Milano

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Maurizo “Gnola” Glielmo & Jimmy Ragazzon – Blues, Ballads & Songs (Good Company 2010)

Il titolo dice più o meno tutto! Se volete gradire, ottima musica dalle terre lombarde. Giovani veterani!

Bruno Conti

Sanremo 2010- Sono Solo Canzonette

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Oppure come disse Jannacci Enzo, professione medico chirurgo, “trattasi di canzonette”! Quindi?

Quindi, la situazione sarà “drammatica” ma non è seria: mi pare di ricordare che per parlare di plagio bisogna avere copiato almeno otto battute di un brano musicale, quindi parliamo di somiglianze, vogliamo chiamarli appropri indebiti, ma in fondo chissenefrega.

Appurato che la terza serata è stata la migliore, quella con gli ospiti che reinterpretavano brani celebri di Sanremo e qualche loro successo, promozione è il termine nobile, per gli addetti ai lavori markettone, veniamo alle ultime novità nell’ambito “copia tu che copio anch’io”, “le note sono sette” e come dissi in un vecchio post “Anche Mozart Copiava”. C’è pure il libro.

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Pupoeilprincipe sono i vincitori di categoria: Italia Amore mio ricorderebbe, nell’ordine, Il Portiere di Notte di Ruggeri, Il Bandito e il campione di De Gregori, One More Cup of Coffee di Dylan e, a furor di popolo Somewhere over the rainbow dal Mago di oz, c’è nessun altro?

Simone Cristicchi, secondo con Acqua e sapone degli Stadio (lo ha ammesso, una citazione!, ma consistente) e una sigla di un cartone giapponese.

I Broken Heart College, terzi,  in Mesi avrebbero preso qualche idea da Beautiful Soul di Jesse McCartney e T’appartengo di Ambra (non Sto Partendo, come ha scritto un rimbambito su un blog – mi dicono che sono stato io, non padroneggio la materia Non è la Rai).

Citazioni d’onore per Valerio Scanu che avrebbe rivisitato Di te di Gatto Panceri, Fabrizio Moro un paio di brani di Caparezza, Nina Zilli da Amy Winehouse e quindi per la legge del contrappasso da Giusy Ferreri e Nino D’angelo la famosa Tarantella del Gargano.

E poi, Basta! Stop!

Da domani torno ai miei amati “cantanti e gruppi sconosciuti” all over the world, per carbonari e dischi Ufo, d’altronde se non ne parliamo noi nei blog chi ne parla? Di Sanremo trovate ovunque.

Bruno Conti