SPQA (Sono Pazzi Questi Americani) – Marah – Life Is A Problem

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Marah – Life Is A Problem – Valley Farm Songs

David Bielanko è uno dei più geniali songwriters in circolazione e i Marah sono la sua creatura. Ma se fosse un capo pellerossa il suo nome potrebbe essere solo “Cavallo Pazzo”. Nella quindicina di anni circa di esistenza del gruppo (ma discograficamente dal 2000) hanno pubblicato una decina di album (compresi Live, abum natalizi e un primo album registrato nel 1998, pubblicato a livello super-indipendente lo stesso anno e ripubblicato nel 2004) e cambiato formazione un “centinaio di volte”. Gli unici punti fermi sono sempre stati David e il fratello Serge Bielanko (che un paio di anni fa ha abbandonato, definitivamente, momentaneamente, chi può dirlo, il gruppo per crescere in modo più “normale” la figlia).

Se non riuscite a trovare questo disco niente paura, non è casuale,è proprio voluto: infatti Life Is A Problem, come loro annunciano orgogliosamente è uscito in vinile apribile, download digitale e cassetta!!! Capite il perché dell’acronimo alla Asterix come titolo del post. Per la serie facciamoci del male ma viviamo liberi e felici. Tra l’altro hanno un bellssimo sito con uno spazio dedicato espressamente a questo disco e mille altre informazioni http://www.marah-usa.com/

Facciamo un passo, anzi alcuni passi indietro: corre l’anno 2000 e esce il loro primo album Kids in Philly per l’etichetta di Steve Earle, E-squared/Artemis, viene accolto, giustamente, con critiche trionfali, tipo “Ho visto il futuro del Rock’n’Roll è il suo nome è Marah”, bè, insomma non proprio ma quasi. Giustamente per festeggiare l’evento inizia il valzer delle defezioni e delle sostituzioni, cambi di componenti del gruppo come piovesse. Comunque si ri-assestano nel 2001 e vanno in Galles per registrare un nuovo album, Float Away With The Friday Night Gods (alla faccia del titolo), con il produttore Owen Morris (quello dei primi dischi degli Oasis): risultato, un disco con un sound molto brit-pop che allontana una parte dei fans e ne crea di nuovi. Ma, attenzione, nella traccia iniziale, Float Away, alla chitarra e armonie vocali appare Bruce Springsteen che nel frattempo è diventato un loro fan. Quindi tutto fantastico! Non direi: cosa potrebbe capitare? Fallisce la loro etichetta. Ma i nostri amici non mollano e nel 2005 pubblicano If You Didn’t Laugh, You’d Cry, il loro disco migliore, pubblicato dalla Yep Rock, riceve, di nuovo, critiche fantastiche, Stephen King, noto appassionato di rock, lo sceglie come miglior disco dell’anno paragonandoli al giovane Springsteen e ai primi U2 (e comunque le cinque stellette fioccano)!

Per farla breve, arriviamo al 2008, il gruppo ha preparato il nuovo album Angels of Destruction e sono pronti a partire per il tour ma avviene una sorta di ribellione e alla richiesta di allontanare la nuova pianista e cantante Christine Smith i fratelli Bielanko rispondono cacciando tutto il resto del gruppo.

Arriviamo ai giorni nostri e a questo Life Is A Problem, registrato dalla coppia Bielanko-Smith in una fattoria nella zona Amish della Pennsylvania! (per risparmiare sul budget). Nelle loro intenzioni doveva essere un album folk ma ne viene fuori, nelle loro stesse parole “A folked up mess of American Rock and Roll”. Tradotto in parole povere un disco R&R lo-fi (ma non nel senso indie del termine ma per le scarse risorse utilizzate): la Christine Smith, oltre al piano si è arrangiata a suonare anche la batteria e David Bielanko ha suonato un po’ tutto il resto oltre che cantare, con un piccolo aiuto da alcuni amici.

Qualche titolo? Muskie Moon è presentata come la loro Satellite of love, ma a me ha ricordato anche certe cose dei Mott The Hoople, Valley Farm Song è una sgangherata pop-punk-folk-song con tanto di cornamuse, Within’ The Music è il prototipo delle delicate e deliziose folk songs acustiche ma venate di pop d’autore che avrebbero dovuto costituire il corpo del nuovo album. Life is A problem è un glorioso esempio di quel rock lo-fi di cui vi parlavo, mentre High Water è una stupenda ballata vagamente country con tanto di banjo e vaghe reminiscenze del sound “povero ma ricco” dei Slim Chance di Ronnie Lane. Il resto ve lo potete leggere nell’apposito spazio dedicato all’album nel sito del gruppo. Le presentazioni di Bielanko sono geniali e divertenti.

Le loro Basement Tapes? Potrebbe essere! La reperibilità è simile.

Bruno Conti

Ce La Fa o Non Ce La Fa? Non Ce La Fa! John Mellencamp – No Better Than This

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State lontani! Non è contento! Purtroppo come disse Ezio Greggio: “Non Ce La Fa”. La telenovela si conclude per il momento. No Better Than This è posticipato a settembre!

Bruno Conti

Solo Del Sano Buon Vecchio Southern Rock Parte II – JJ Muggler – Hard Luck Town

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JJ Muggler Band – Hard Luck Town – JJMugglerband

Qui si ritorna ai gloriosi anni ’70, non solo per i contenuti musicali, ma anche per la reperibilità dei dischi.
Secondo il loro sito dovrebbero avere fatto quattro CD come JJ Muggler Band (ma il condizionale è d’obbligo vista la confusa narrazione della loro storia riportata nel sito stesso): cercando nei portali di vendita più famosi da Amazon a CD Universe le date di uscita sono quanto di più ballerino si possa immaginare, si sparano date che oscillano tra 1990, 1993, 1996 a 2007, 2009 con assoluta noncuranza.
Loro per non farci mancare nulla non mettono date nei CD, ma sono molti precisi su formazioni, autori, ringraziamenti e dediche varie. Ma poi in fondo che ci frega! Sono bravi? Sì. Che genere fanno? Southern Rock. C’è da sapere altro?
Si autodefiniscono la prima Southern Band proveniente  da New Orleans, Lousiana e se non sono sudisti loro chi altri lo è? Gli unici dati certi sono i due membri fondatori del gruppo e unica costante nella loro storia: Calvin Huber, bassista e voce solista e Jude Lirette, batteria e percussioni.

Gli altri vanno e vengono. Al momento, in questo “nuovo” Hard Luck Town, fanno parte della formazione Jay B. Elston e Tommy Chadwick che sono le due chitarre soliste nonché cantanti. Completa la formazione il tastierista, e quarto cantante, Wayne Lohr.
E fanno del southern rock coi fiocchi, i controfiocchi e il pappafico, a grandissimi livelli, si diceva all’inizio, come se gli anni ’70 non fossero mai passati o loro fossero negli anni ’70 (che è poi più o meno la stessa cosa).
Sono tutti brani originali ma i punti di riferimento sono Allman Brothers, Marshall Tucker Band, Charlie Daniels Band quando virano maggiormente verso il country, ZZTop quando la passione originale per il blues prende il sopravvento.

Apre le danze Hard Luck Town che pare sparata fuori direttamente da un vinile degli Allman o dei Marshall Tucker, le due chitarre soliste, spesso all’unisono, che imperversano dai canali dello stereo, un organo vintage, il ritmo del batterista Jude Lirette sostenuto da un secondo percussionista Glen Sears, presente praticamente in tutto il CD, gli ingredienti essenziali del southern eseguiti con gran classe e pulizia sonora, si sente che sono dei veterani ma l’entusiasmo non fa loro difetto, quando serve la terza chitarra (che c’è) non la suona il primo venuto ma Brian Stoltz dei Neville Brothers. Dixie Road ancora con Stoltz alla slide sembra una outtake perduta e ritrovata da Brothers & Sisters degli Allman. King Muggler ha nel suono elementi del funky di New Orleans, Nevilles e Radiators i primi nomi che vengono in mente, eseguito con grande ritmo e fluidità.

Leanne a cavallo tra country e cajun illustra un altro dei vari lati della musica del gruppo, a seconda di chi compone e si alterna alla voce, ritmi e generi si alternano con grande varietà sempre ferma restando la matrice “sudista” del suono.
Higher Than The Mountain ancora con le caratteristiche chitarre che viaggiano all’unisono è un brano Allmaniano fino al midollo mentre Spanish Moss è un bel blues, sapido al punto giusto.

Hurtin’ Blues con l’armonica di Nelson Adelard aggiunta al suono già carico di elementi del gruppo viaggia verso i ritmi più “cattivi”, più rock-blues del genere. Gibbons a Good Time già dal titolo è un sentito omaggio al barbuto leader degli ZZTop, boogie blues alla grande.
Cocaine Lady è un brano dalle atmosfere più rarefatte, più ricercate ma sempre grintose, con una slide minacciosa che caratterizza il sound e ci porta verso il rock-blues chitarristico più classico.
Molto belle anche Jewels e Over You con il suo classico debito al suono dei fratelli Allman.
Conclude Around The Neighborhood, una strumentale country con dobro, mandolini, armoniche e chitarre acustiche sugli scudi.
Non ci sarà niente di nuovo sotto il sole ma erano anni che non sentivo un disco di southern rock fatto così bene, anzi no, questo fa il paio con i Dixie Tabernacle!

Bruno Conti

Come Due Piselli In Un Baccello. Aynsley Lister – Tower Sessions

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Aynsley Lister – Tower Sessions – Manhaton Records

Niente paura non vi devo parlare per l’ennesima volta dell’ultimo Jonny Lang, semplicemente mi sembrava simpatico rispolverare la vecchiia gag di Stanlio e Olio in quanto i due giovani rampanti bluesmen dalle opposte coste dell’oceano mi sembrano appunto come due piselli in un baccello, ma veniamo a Aynsley Lister.

Questo Tower Sessions è il classico “finto” disco dal vivo, una categoria (sia pure esigua) che non finisce mai di stupirmi: in pratica si tratta di cun album Live ma senza il pubblico.
Naturalmente la giustificazione data da parte di Aynsley Lister sul suo sito non è che convinca molto: in pratica il concerto dal vivo, quello classico, con il suo bel pubblico, era stato registrato, proprio lì al Tower di Winchester, Regno Unito ma lo “spirito” non era quello giusto, la formazione allargata a quattro che ha registrato questi concerti era da poco insieme e non rodata, quindi il risultato finale e il suono non era quello che si aspettavano. E allora di nuovo tutti insieme appassionatamente al Tower per registrare questo CD e, miracolo, tutto funziona alla perfezione, devo dire anche per chi ascolta il risultato finale.

Aynsley Lister è un giovane (ma non più giovane) di 33 anni che approda con questo al suo undicesimo disco ( il Live Pilgrimage in collaborazione con Ian Parker e Erja Lyytinen come Blues Caravan compreso): una carriera discografica con i suoi alti e bassi iniziata nel lontano 1996 e che ha molte similitudini con il suo omologo americano Johnny Lang. Entrambi iniziano come giovani prodigi del Blues e poi, un poco alla volta spostano il proprio raggio d’azione verso una musica più vicina al rock mainstream senza mai dimenticare il primo amore.

A differenza di Lang, Lister non ha una voce eccezionale (almeno per il gusto del sottoscritto)  ma più che adeguata alla bisogna e adattabile alla svolta più rock intrapresa con l’album Equilibrium dello scorso anno. Questo Tower Sessions, scherzi a parte, non avrà il pubblico presente ma documenta un signor concertp, vivo e pimpante con la nuova formazione allargata a quattro elementi il suono è più brillante e vario che nei dischi precedenti e Lister rimane un chitarrista dalla tecnica formidabile in grado di sciorinare una serie di assoli fantastici e molto diversificati tra loro come i brani che li ospitano.

Si parte dal classico rock-blues tiratissimo dell’iniziale Soundman con il suono dell’organo che fa da collante alla furia chitarristica di Lister che sfocia in un gagliardo assolo con wah-wah da antologia del rock, si passa al boogie blues con slide d’ordinanza (evidentemente la frequentazione concertistica sudista con ZZTop e Lynyrd Skynyrd ha dato i suoi frutti) dell’ottima Sugar Low.

Poi, subito, in apertura di concerto, arriva una delle due cover previste dal programma: si tratta di Purple Rain, uno dei cavalli di battaglia del repertorio di Lister ma che, per vari motivi non aveva mai trovato posto nei dischi in studio e dal vivo della sua discografia, questa è la volta buona per ascoltare la sua versione, molto richiesta dai suoi fans. Il brano ormai è diventato una sorta di standard del rock degli ultimi anni ed è anche uno dei pochi brani di Prince che mi piace e parecchio, sarà pure un brano “ruffiano” con i suoi stop and go che portano al crescendo finale ma ha un suo perché e questa versione, molto fedele all’originale, differisce proprio nell’assolo finale meno catartico che nella versione di Prince, ma molto misurato e tecnicamente ineccepibile oltre che godurioso come si conviene a questo tipo di assoli.

Il blues viene celebrato ancora nell’ottimo strumentale Quiet Boy! che evidenzia la grande fluidità della chitarra di Lister, mentre Early Morning era la classica rock ballad che faceva la sua bella presenza nell’ultimo disco di studio, nella versione dal vivo acquista ulteriore vivacità. What’s it all about è un altro bel midtempo rock che illustra di nuovo la varietà di stili del “ragazzo” che si consolida nell’ottima Hurricane, sempre su questi lidi rock più mainstream ma di spessore e la chitarra scivola sicura sulla base creata dall’organo hammond dell’ottimo Dan Healey.

Hero segue le piste dei grandi gruppi blues-rock britannici dei primi anni ’70 con i suoi riff ficcanti e precede il classico blues d’atmosfera, With Me Tonight, con i suoi cambi di tempo e assolo liberatorio. Rimane la cover immancabile,  che rivela gli amori giovanili e le influenze dell’età adulta, la classica Crosstown Traffic del sempre più inarrivabile Jimi Hendrix a quarant’anni dalla sua scomparsa. Conclude una piacevole In The Morning ancora con la slide in evidenza.

Bruno Conti

Uno Degli Ultimi Numeri Uno! Sleepy LaBeef – Roots

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Sleepy LaBeef – Roots – Ponkmedia.

L’8 gennaio di quest’anno abbiamo festeggiato il 75° Anniversario dalla nascita di Elvis Presley, il 26 febbraio (lo ricordo perché è anche il mio compleanno) Johnny Cash avrebbe compiuto 78 anni ed è stato commemorato con la pubblicazione dell’ American Recordings VI: Ain’t No Grave.

Il nostro amico Sleepy Labeef (nato Thomas Paulsley LaBeff il 20 luglio del 1935 a Smackover, Arkansas) ha appena festeggiato i suoi 75 anni.

Sicuramente la fama goduta dal nostro amico non è nemmeno un millesimo di quella dei due artisti che abbiamo appena citato e questo sinceramente è un vero peccato: per chi volesse colmare questa lacuna esiste un bellissimo box della Bear Family di 6 CD, Larger Than Life, oppure per i più risparmiosi, sempre su Bear Family, è uscito un ottimo Sleepy Rocks.

E vi posso assicurare che Sleepy rocca ed eventualmente rolla come pochi, la sua carriera ormai si estende per oltre 6 decadi, dai gloriosi anni ’50 quando contendeva a Elvis e agli altri grandi la corona di re del rockabilly fino ai giorni nostri con questo Roots di cui mi accingo a parlarvi.

Intanto mister Sleepy è un personaggio straordinario, 6’7” di altezza (sono più 2 di metri), praticamente fisicamente è la “custodia” di Johnny Cash, ma anche vocalmente le similitudini tra i due sono notevoli: entrambi in possesso di una voce baritonale inconfondibile, quella di Labeef non da segni di cedimento e rimane uno strumento formidabile in questo nuovo disco.

Il CD riporta un copyright del 2008 ma i siti americani lo danno per uscito nel novembre 2009 e giunge sui nostri lidi solo oggi, ebbene è un vero peccato perché questo album rivaleggia con il meglio della produzione American Recordings curata da Rick Rubin negli ultimi anni di vita di Johnny Cash.

Non avendo trovato un mentore di quella fama e non avendo le possibilità finanziarie e gli “amici” importanti di Cash Sleepy Labeef ha deciso di fare tutto da sé e i risultati sono per certi versi sono straordinari: dovete sapere che Labeef è soprannominato (a parte Sleepy per la conformazione degli occhi) “The Human Jukebox”, con un repertorio di oltre 6.000 brani da cui ha scelto i 17 che sono stati registrati per questo Roots.

E qui siamo andati veramente alle “radici” della musica americana sia nella scelta dei brani che per il sound utilizzato per questo disco: nato probabilmente dalle necessità di budget si è trasformato in un geniale risultato. La base è formata solo da una chitarra acustica Martin e dalla voce di Labeef, alle quali sono state aggiunte, basso e batteria minimali suonati dallo stesso Sleepy, qualche altra chitarra dall’inesauribile riserva del nostro amico, un piano e una fisarmonica di tanto in tanto, una voce femminile in un paio di brani (Sweet Evelina e In The Pines, affascinanti).

Un suono minimale che mette in evidenza il profondo baritono di Labeef, una delle voci più straordinarie del rockabilly americano (country più rock&roll gli ingredienti principali) ma anche della musica americana tout-court: si parte con una rilettura fantastica di Cotton Fields che molti ricordano nella versione dei Creedence ma che qui fa scintille con la chitarra-dobro del nostro amico, una fisarmonica malandrina e “quella voce” unica. Baby To Cry è un altro esempio di questa capacità di interpretare la grande tradizione country-folk della musica americana con una maestria incredibile e divertendosi pure. What Am I Worth ha qualche grado di parentela con il boom chika boom inconfondibile del Cash dei tempi d’oro.

Sweet Evelina di cui si diceva è un esempio dell’approccio minimale citato, la voce profonda e risonante di Labeef, una dolce controparte femminile, una chitarra acustica strimpellata e una fisarmonica danno risultati che solo sentendo si possono gustare, sono difficili da raccontare.

Completely destroyed avrebbe fatto il suo figurone in qualsiasi capitolo delle American Recordings, scarna ed essenziale ma ricca da pathos e che dire di Foggy River con il vocione di Labeef che raggiunge profondità quasi “minerarie”. Ma le gemme sono tantissime, da Gotta Travel On a Miller’s Cave passando per Philadelphia Lawyer e Have I Told You Lately (proprio quella di mastro Van Morrison) per terminare con una versione seminale di Amazing Grace.

Ma non c’è un brano scarso o inutile, tutto fondamentale e altamente consigliato.

Qui potete vedere la “personcina” nei tempi gloriosi watch?v=GYBxCgYNcv0 e qui ai giorni nostri: dal suo sito risulta che quest’anno ha fatto ancora una quarantina di concerti ma fino a qualche anno fa ne faceva duecento all’anno.

Bruno Conti

I Casi Della Vita. Phoebe Snow – Live

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Phoebe Snow – Live – Verve/Universal 2008/9

Non è nuovo, non è in offerta, ma è indispensabile! Uno dei più bei dischi dal vivo degli ultimi anni da parte di una delle più belle voci in circolazione. Perché proprio oggi? E’ il suo compleanno, è nata a New York City il 17 luglio 1952 e sta lottando per la sua vita a causa di un ictus avuto il 19 gennaio di quest’anno.

Visto che mi sono imbattuto casualmente in questa notizia, avendo recensito questo stupendo album un paio di anni fa per il Buscadero e avendo perso una persona cara per lo stesso motivo mi è sembrato giusto farvi partecipi della notizia.

Auguri, forza e andatevi a sentire ed eventualmente comprare questo album, sono soldi spesi più che bene! Grandissima voce e grande musica!

Bruno Conti

Un Nuovo Disco Degli Stones? Non “Quelli”… Angus And Julia Stone – Down The Way

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Angus And Julia Stone – Down The Way – Flock/Pias/Self

In Australia il disco è già uscito da alcuni mesi, andando direttamente al numero 1 delle classifiche, guadagnando il disco di platino e continua a resistere nella classifiche di Down Under. Da noi ha visto la luce ai primi di giugno molto in sordina e senza particolari battages pubblicitari.

Disco straordinario? Non direi, ma si fa ascoltare, il filone è quello del neo-folk meglio se di coppia, à la Swell Season ma con meno sentimenti coinvolti (sono fratelli, veri, non di quelle coppie più o meno fasulle che circolano al momento).

I tipi li vedete nella foto, lei sembra la tipica “fatina” ma con un “certononsoche” nello sguardo e con una voce dolce e sottile, lui è un po’ più “stropicciato” voce non memorabile con una leggera zeppola ma efficace, quando cantano in armonia di tanto in tanto la chimica di famiglia a qualcosa porta.

Li hanno paragonati a Joanna Newson (ma lei non è così avventurosa nella ricerca sonora) e Josh Rouse (senza la fissa per gli anni ’70 e la musica ispano-brasiliana) ma hanno delle frecce al loro arco.

Il disco è lunghetto, quasi 70 minuti per 13 brani, ma ha i suoi momenti: Yellow Brick Road, e già il titolo aiuta, è una ballata country-rock dal crescendo notevole cantata da Angus, più di sette minuti sulle strade della California, con una solitaria chitarra acustica che introduce il tema, man mano entrano il piano, una pedal steel, una sezione ritmica younghiana (nel senso di Neil) che prepara la strada per una piacevole cavalcata chitarristica nella seconda parte del brano, belle anche le armonie vocali dei fratelli che danno profondità al brano, davvero niente male.

Quando nelle ballate elettroacustiche (che sono preponderanti) sale al proscenio la voce dolce e infantile di Julia, come nell’iniziale Hold on, potrebbe prevalere una certa “zuccherosità” che si cerca di evitare, non sempre riuscendoci, con arrangiamenti più complessi di archi, scansioni ritmiche più movimentate e atmosfere sognanti e romantiche.

Black Crow cantata da Angus, con le consuete e piacevoli armonie della sorella, ha vaghi ma non troppo agganci con il sound degli ottimi Mumford And Sons (non dimentichiamo la “sorellina minore” Laura Marling che veleggia lungo le stesse coste), mentre l’otttima For you rivela un lato più passionale e movimentato di Julia Stone, con quella voce particolare che potrebbe ricordare anche una Bjork meno inquietante o la Jesca Hoop di cui vi ho riferito mesi orsono, la voce “profonda” del fratello dona maggiore spessore al sound del brano.

Big Jet Plane ha un’aria quasi solare, vagamente orecchiabile (per questo e per il precedente album A Book Like This sono stati scomodati paragoni con i Fleetwood Mac degli anni ’70, quelli californiani, ma con una certa aria sprezzante, come se fosse un demerito, dimenticando che in quel particolare filone musicale Buckingham, Nicks e McVie erano quasi intoccabili, averne di così bravi e infatti qui non ci siamo).

Santa Monica Dream è un acquarello acustico che vorrebbe avere velleità alla Nick Drake, ma rimane impalpabile e sospiroso.

Di Yellow Brick Road abbiamo detto, And The Boys è il singolino ed è il brano che più evidenzia le qualità (e i difetti) dei brani dei fratelli Stone: una innata abilità nel costruire dei piccoli crescendo pop, vagamente cameristici negli arrangiamenti anche complessi, non sempre memorabili sul lato della orecchiabilità ma evidentemente ci stanno lavorando e agli australiani sono piaciuti comunque watch?v=RUDc1frz22E

On the Road a guida Angus, con il suo banjo pizzicato, le chitarre country-rock e quell’armonizzare innato nelle voci dei fratelli ci riporta su territori weastcostiani e non è un delitto. Walk It Off con le sue chitarre pizzicate e gli archi di supporto ritorna su territori vicini al folk ma con i suoi piacevoli saliscendi sonori e la voce di Julia Stone tiene lontana la noia e rievoca quelle atmosfere neo-folk(rock).

Hush, con il suo sottile soffio di armonica cita di nuovo il Neil Young più morbido e, mi ripeto, non è un delitto di lesa maestà, lo fanno in tanti, niente di nuovo sotto il sole ma quella sottile aria di malinconia dona al fascino del brano.

Draw Your Swords, dove nella parte iniziale sussurra anche fratello Angus (ma appare nel testo anche la famosa parolina di 4 lettere), si risolleva nella seconda parte dove la canzone si movimenta maggiormente dopo un inizio francamente soporifero e diventa perfino coinvolgente e vibrante, dalla polvere agli altari, son strani questi fratelli Stone, ma bravi.

I’m Not Yours e The Devil’s Tears sono altre variazioni sul tema e continuano questo alternarsi di voci, una la canto io poi tocca a te, qui cantiamo insieme, in questa democrazia famigliare che ti fa sentire (ma guarda!) in famiglia. Siccome il disco era “cortino” c’è anche una “traccia nascosta”, Old Friend, la numero 14 del disco.

Che dire, per gli amanti della musica morbida ma di buona fattura. Presa a piccole dosi, dà le sue soddisfazioni.

Bruno Conti

Novità Luglio Parte III. Alcune Precisazioni. Mellencamp, Los Lobos, Albert King With Stevie Ray Vaughan

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Sempre indefesso al lavoro nonostante il caldo: alcune informazioni utili. Il CD+DVD o DVD di Albert King In session With Stevie Ray Vaughan di cui si erano perse le tracce sembrerebbe, da alcune informazioni desunte da siti americani, ulteriormente rinviato a fine settembe (ma non è sicuro). Su una nota più positiva, meritoriamente, sembra che la Universal italiana abbia anticipato l’uscita del nuovo album di John Mellencamp No better than this al 27 luglio, quindi con quasi un mese di anticipo sull’uscita americana, da confermare, quando ho altre notizie vi faccio sapere.

Anche l’uscita del nuovo Los Lobos Tin Can Trust, prevista per il 3 agosto negli States e l’8 agosto in Inghilterra, dovrebbe essere anticipata dai “prodi” dell’IRD all’ultima settimana di luglio.

Per la data di uscita del box quadruplo di John Mayall So many Roads, tra il 7 luglio della data italiana (che parrebbe già passata, strano!) e il 3 agosto di quella USA, si sarebbe raggiunto un compromesso per il 27 luglio.

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Tra le conferme dell’ultima ora, il 3 agosto esce anche l’atteso nuovo album degli Arcade Fire, The suburbs, recensione non appena possibile.

That’s all folks, alla prossima.

Bruno Conti

Speravo Meglio! Sheryl Crow – 100 Miles From Memphis

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Sheryl Crow – 100 Miles From Memphis – A&M/Universal

Per dirla tutta sarebbe, “Speravo meglio ma temevo il peggio!”, per questo settimo album di studio di Sheryl Crow dall’esordio avvenuto nel 1993 con il classico Tuesday Night Music Club (che rimane il suo migliore) si erano spese parole più che lusinghiere che annunciavano un ritorno alle origini, sonorità ispirate a Delaney & Bonnie, al soul degli anni ’70, alla musica di Memphis, tutte informazioni che lasciavano presagire un disco fantastico, ma allo stesso tempo si leggeva di collaborazioni con Justin Timberlake, ma anche con Keith Richards, quindi voci contrastanti e avevo sospeso il mio giudizio promettendovi di parlarne non appena lo avessi sentito e quindi eccoci qua!

Il disco esce la settimana prossima, consta di 12 brani, è stato prodotto da Doyle Bramhall II (il pard di Eric Clapton degli ultimi anni) e Justin Stanley (che è uno dei tanti “E chi è costui? che costellano il panorama musicale americano, ex membro dei Noiseworks e marito di Nikka Costa, ha prodotto Jet, Jamie Liddell, Baby Animals e viene accreditato anche come produttore di Ryan Bingham ma non me lo ricordo, forse nel prossimo disco). Sto menando un po’ il can per l’aia? Veniamo al dunque?

Per gradi, con calma, ci arriviamo! Il primo brano Our Love Is Fading, per cominciare, è fantastico, oltre 6 minuti di rock-soul-blues-errebi nella migliore tradizione del Clapton a trazione Delaney & Bonnie dei primi anni ’70, con chitarre, fiati impazziti, organo e tastiere, ritmi rock che vanno a braccetto con il miglior R&B, coretti irresistibili e groove inarrestabile, partenza micidiale con citazioni di classici del soul nel testo e un finale chitarristico che mi fa sospettare una comparsata del buon Eric oppure Doyle Bramhall ha sfoderato la grinta dei giorni migliori.

Il chitarrista nel secondo brano Eye to Eye è il buon Keith Richards senza ombra di dubbio, Sheryl Crow dice di avere subito pensato a lui per questo brano in quanto trattasi dell’unico bianco in grado di creare un riff reggae con l’autenticità di un giamaicano (e poi è suo amico, uno degli Stones, si chiama marketing ragazzi!): devo essere sincero, mmmhh, mmmhh… e non ho il mal di pancia.

Vogliamo parlare della tanto strombazzata (e temuta dal sottoscritto) collaborazione con Justin Timberlake nella cover di Sign Your Name di Terence Trent D’Arby? Sono stati scomodati riferimenti al classico sound degli Studi della Hi-Records quelli dei dischi di Al Green, per il classico thud-thud dei ritmi, a me pare un discreto brano di nu soul dove Timberlake fa i coretti tra tanti altri, niente di memorabile, sembra quasi un brano di Terence Trent D’Arby! Appunto!

Summer Day, il singolo, è un piacevole brano di stampo radiofonico che ricorda le cose migliori di inizio carriera di Sheryl Crow, fiati e archi non troppo invadenti, coretti accattivanti, un ritornello orecchiabile, molto fresco, commerciale ma nella migliore tradizione del classico pop.

L’album è stato registrato parte agli Henson Studios di Los Angeles e parte agli Electric Studios di New York, quindi direi che siamo a più di cento miglia da Memphis, che sarebbero quelle che separano Kennett, Missouri (dove è nata Sheryl Crow) dalla città del Tennessee (dove invece è nato, sorpresa, Justin Timberlake). Long Road Home è un altro brano nello stile tipico della Crow con qualche fiato in più mentre Say What You Want ha un bel groove seventies, ritmi funky con un bel basso che pompa, allla Sly Stone, una armonica reminiscente di Stevie Wonder, fiati esuberanti, non male.

Peaceful Feeling è anche meglio, il basso pompa ancora più alla grande, ci sono riferimenti più o meno velati a Dance to the music e Summer Breeze comunque il piedino fatica a rimanere fermo, qui siamo proprio in un delirio di soul anni ’70 e pure di quello buono. Stop è la prima ballata del disco ed è anche molto bella, molto melodrammatica ma come dovrebbero essere questo tipo di brani, cantata con grande partecipazione, con le sue pause ad effetto, i suoi archi, tutti gli elementi giusti al posto giusto, praticamente perfetta, veramente molto, ma molto bella, uno dei brani migliori nella discografia di Sheryl Crow.

Sydeways è una cover di un grande successo di Citizen Cope (ammetto che con conoscevo, conosco Citizen Kane), che appare pure a duettare nella sua canzone, il brano è un altro lentone ad effetto che ha un suo perché ma non è bella come la precedente comunque molto piacevole e lui ha una bella voce, molto sensuale che ben si accoppia con quella della nostra amica Sheryl.

100 Miles From Memphis, dopo tante promesse, finalmente ci trasporta in quel di Memphis, primi anni ’70 in piena epoca Hi-records con i fantasmi di Al Green, Ann Peebles e Willie Mitchell che aleggiano sulla musica (anche se, per la precisione, solo Mitchell non c’è più), bello l’assolo di chitarra, credo del solito Bramhall che ogni tanto si lascia andare. Roses and Moonlight è un funky vagamente futuribile alla Curtis Mayfield o alla Isaac Hayes, con tanto di wah-wah d’epoca, derivativo ma molto piacevole, forse un tantinello troppo tirata per le lunghe.

Last but not least, anzi, forse il momento migliore, è la cover della leggendaria I want You back dei Jackson 5 dove per l’accasione la Crow sfodera una tonalità che ricorda in modo impressionante il Michael Jackson poco più che bambino di quegli anni: un tributo al musicista con il quale ha iniziato la sua carriera come corista nel Bad Tour della fine anni ’80 e in ogni caso una bella canzone che non perde mai la sua esuberante freschezza con il passare delle decadi. Bella versione che conclude in gloria un disco che ha i suoi alti e bassi ma che nel complesso, pur senza entusiasmare, mi sembra meglio del precedente Detours. Promossa con riserva, da risentire! watch?v=7Y_G5QPFMfs

Bruno Conti

Una Festa Per gli “Amici” Della Chitarra. Lee Ritenour – 6 String Theory

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Lee Ritenour – 6 String Theory – Concord/Universal

Devo dire che quando l’ho ricevuto per recensirlo per il Buscadero il mio primo pensiero è stato “ma quanti anni sono che non ascolto un disco di Lee Ritenour?“. Risposta, almeno due o tre…decadi: ai tempi mi piaceva e parecchio, dischi come Captain Fingers, Rio, Rit rimangono nell’immaginario collettivo degli amanti della chitarra, quello stile che si era soliti definire fusion, credo ancora oggi. Ha suonato anche nei Fourplay e in milioni di dischi come sessionman, ma non era più nelle mie traiettorie di ascolto. Già leggendo le note del disco ho cominciato a ricredermi, poi ascoltandolo mi ha convinto definitivamente. La premessa è quella che vi deve piacere il suono della chitarra elettrica ma non solo jazz e fusion in quanto in questo CD convivono mille generi e mille personaggi.

Si passa dal feroce duello iniziale tra le chitarre di John Scofield (in grande spolvero) e Lee Ritenour in Lay It Down, con un Harvey Mason devastante alla batteria al blues canonico e di grande qualità di Am I Wrong con Keb’ Mo’ e Taj Mahal alle chitarre, voce e armonica.L.P. (For Les Paul) è un bel tributo strumentale ad uno dei grandi innovatori della chitarra con Pat Martino alla seconda chitarra e Joey De Francesco all’organo, jazz di gran classe. Non manca il rock-blues devastante di Give Me One Reason, una cover di Tracy Chapman, con Joe Bonamassa e Robert Cray, voci e chitarre a duettare con Ritenour, la sezione ritmica, per gradire, è formata da Vinnie Colaiuta e la giovane prodigiosa bassista di Jeff Beck, Tal Wilkenfeld.

68 e In Your Dreams sono due fantastici brani strumentali, dove ad affiancare Colaiuta e la Wilkenfeld, c’è un quartetto di chitarre soliste da sballo, Neal Schon, Steve Lukather e Slash più Ritenour nel primo, senza Slash nel secondo e qui ci sarà anche un po’ di autocompiacimento, guarda come sono bravo, no sono meglio io, ma le chitarre viaggiano comunque. My One and Only Love è un breve duetto con George Benson, non particolarmente memorabile, mentre la cover di Moon River sempre con Benson è un divertente omaggio all’era di Wes Montgomery e Jimmy Smith con Joey De Francesco nella parte dell’organista.Why I Sing The Blues più che una canzone è la storia della vita di B.B.King che ancora una volta ce la regala con l’appoggio di un dream team formato da Vince Gill, Keb’ Mo’ e Johnny Lang che si alternano con King alla voce e alla chitarra solista, Lee Ritenour gode con loro. Daddy Longlicks è un breve strumentale con Joe Robinson (non conosco, leggo che è un giovane fenomeno della chitarra australiano vincitore di Australia’s Got Talent nel 2008, una volta c’era la Corrida, vincevano la puntata, tu dicevi “Va che bravo!”,  poi salvo rari casi, non ti rompevano più le balle).

La cover di Shape of my heart di Sting è l’occasione per ascoltare un trio inconsueto, con Ritenour e Lukather affiancati da Andy McKee che è un virtuoso della chitarra acustica con le corde d’acciaio (in inglese suona meglio steel string acoustic guitar) e si ripete nella sua ottima composizione Drifting. Freeway Jam è proprio il vecchio brano di Jeff Beck scritto da Max Middleton, con il batterista originale di Beck Simon Phillips e un trio di chitarristi assatanati, lo stesso Ritenour, un ottimo Mike Stern e il giapponese Tomoyasu Hotei che non conoscevo ma ragazzi se suona! Per la serie ma Ritenour invece li conosce proprio tutti (i chitarristi) c’è anche spazio per Guthrie Govan, il chitarrista degli ultimi Asia, che imbastisce un duetto con la Tal Wilkenfeld, Fives che conferma tutto quanto di buono si è detto su di lei, il futuro del basso elettrico. Il finale con un Capriccio classico di Luigi Legnani in duetto con Shoun Boublil c’entra come i cavoli a merenda, ma bisogna capirli “Son chitarristi”.

Un appetizer!

Bruno Conti