Beatles E Affini. Una postilla: Antologie Rossa e Blu. Shankar-Harrison Collaborations – Apple Box Set

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Come promesso l’integrazione sulle uscite che riguardano l’universo Beatles!

Il 19 ottobre usciranno le due antologie 1962-1966 e 1967-1970, entrambe doppie, nella nuova edizione rimasterizzata vanno ad integrare la ripubblicazione avvenuta lo scorso anno dell’intero catalogo dei Beatles e quindi escono anche loro nella collaudata versione digipack a tre ante (la chiamiano così, non è colpa mia, conoscevo gli armadi a più ante), non ricordo se Deluxe ma, fortunatamente, contrariamente a quanto annunciato, a prezzo speciale, ovvero doppi al prezzo di uno (attenzione solo fino alla fine dell’anno, poi tornano a prezzo pieno). Lo stesso giorno, secondo la EMI Italiana, ma nei siti inglesi e forse americani riportano il 29 novembre, esce anche la versione superlimitata quadupla che raccoglie i due dischi insieme come dall’immagine che vedete all’inizio del Post. Il prezzo, sempre contenuto, è quello di un doppio. Questa versione sarà in produzione solo fino al 31 dicembre 2010 (ci sarà da crederci visto che il Box Mono che doveva essere pure quello limitato lo trovate ovunque?).

L’altro Box è un cofanetto di 17 CD che raccoglie la produzione di molti degli artisti che erano sotto contratto per la Apple Records in quegli anni (tra il 1968 e il 1973). I dischi saranno disponibili anche sciolti, ognuno opportunamente rimasterizzato e con varie bonus tracks (erano già usciti tutti ma fa niente!). Quindi chi ha mancato al primo giro i CD di Badfinger, Jackie Lomax, Billy Preston, James Taylor (il primo), Mary Hopkin, John Tavener, Modern Jazz Quartet, Doris Troy, Radha Krishna Temple, può colmare questa lacuna.

Il cofanetto contiene anche una antologia Come And Get It – The Best Of Apple Records con alcuni brani anche di artisti diversi da quelli oggetto di ristampa: tipo Iveys, Black Dyke Mills Band, Brute Force con King of Fuh, Trash con una versione strepitosa di Golden Slumbers/Carry That Weight, Hot Chocolate Band con Give Peace A Chance, Ronnie Spector e tanti altri per un totale di 21 brani. Questo è il primo CD poi ci sono i 14 album e infine, visto che giustamente molti si erano incavolati, sono stati aggiunti due ulteriori CD che raccolgono il materiale inedito che avrebbe dovuto essere disponibile solo per il download digitale alla fine dei singoli album interessati e qui costituisce una sorta di appendice. Questa à la lista dei brani.

 

Bonus CD 1:

  1. Dear Angie (mono mix) (Apple SAPCOR 12 (U.K.)/ST-3364 (U.S.), 1970)
  2. Think About the Good Times (previously unreleased mono mix)
  3. No Escaping Your Love (mono mix) (non-LP B-side – Apple 14 (U.K.), 1969)
  4. Arthur (previously unreleased remix)
  5. Storm in a Tea Cup (mono) (from Wall’s Ice Cream EP – Apple CT 1, 1970)
  6. Yesterday Ain’t Coming Back (previously unreleased mono mix)
  7. Love Me Do (previously unreleased instrumental version)
  8. Get Down (previously unreleased extended stereo version) (original version was a bonus track on 1992 reissue of No Dice – Capitol CDP 7 98698 2)
  9. Money (earlier version) (bonus track on 1995 reissue of Straight Up – Capitol CDP 7 81403 2)
  10. Flying (earlier version) (bonus track on 1995 reissue of Straight Up – Capitol CDP 7 81403 2)
  11. Perfection (earlier version) (bonus track on 1995 reissue of Straight Up – Capitol CDP 7 81403 2)
  12. Suitcase (earlier version) (bonus track on 1995 reissue of Straight Up – Capitol CDP 7 81403 2)
  13. Sweet Tuesday Morning (earlier version) (original version was a non-LP B-side – Apple 40 (U.K.), 1972)
  14. Mean Mean Jemima (bonus track on 1992 reissue of No Dice – Capitol CDP 7 98698 2)
  15. Loving You (bonus track on 1992 reissue of No Dice – Capitol CDP 7 98698 2)
  16. Get Away (previously unreleased version)
  17. When I Say (previously unreleased version)
  18. The Winner (previously unreleased version)
  19. I Can Love You (previously unreleased version)
  20. Piano Red (previously unreleased)

All tracks performed by Badfinger.

Bonus CD 2:

  1. Quelli Erano Giorni (2010 Remix) (non-LP single – Apple 2 (IT), 1969 – also bonus track on 1991 reissue – Capitol CDP 7 97578 2)
  2. Que Tiempo Tan Feliz (2010 Remix) (non-LP single – Apple H380 (Spain), 1968 – also bonus track on 1991 reissue – Capitol CDP 7 97578 2)
  3. An Jenam Tag (2010 Remix) (non-LP single – Apple 2 (DE), 1969)
  4. Le Temps Des Fleurs (2010 Remix) (non-LP single – Apple 2 (FR), 1969)
  5. Quand Je Te Regarde Vivre (non-LP single – Apple 34 (FR), 1971)
  6. Watashi O Kanashimi To Yonde (non-LP single – Apple 34 (JP), 1971)
  7. Jefferson(non-LP B-side – Apple 39 (U.K.), 1971
  8. Going Back to Liverpool (bonus track on 1991 reissue – Capitol CDP 7 97581 2)
  9. Sour Milk Sea (mono mix) (Apple SAPCOR 6 (U.K.)/ST-3354 (U.S.), 1968)
  10. The Eagle Laughs at You (mono mix) (Apple SAPCOR 6 (U.K.)/ST-3354 (U.S.), 1968)
  11. Little Yellow Pills (mono mix) (Apple SAPCOR 6 (U.K.)/ST-3354 (U.S.), 1968)

Tracks 1-7 performed by Mary Hopkin.
Tracks 8-11 performed by Jackie Lomax.

Per concludere, il 19 ottobre su etichetta Dark Horse Records esce il box limitato Collaborations attribuito a Ravi Shankar e George Harrison. La distribuzione nel mondo dovrebbe essere a cura della Rhino Records ma visto che in Italia i CD di Harrison sono distribuiti dalla EMi per il momento non esce di nessuna etichetta, credo ma non sono sicuro.

Comunque si tratta di un Box con 3 CD e 1 DVD, libro di 56 pagine con prefazione di Philip Glass, ovvero si tratta di album suonati da Ravi Shankar con la produzione di George Harrison con l’eccezione di Shankar, Family And Friends che è un disco “misto” di rock e musica indiana con la partecipazione di Ringo Starr, Billy Preston, Jim Keltner, Tom Scott, Klaus Voormann e Hari Georgeson (!). Poi ci sono, sempre in CD, Music Festival From India e Chants Of India. Il DVD contiene il concerto completo alla Royal Albert Hall del 1974 in stereo e 5.1 più vario materiale extra.

Ad aprile Ravi Shankar ha compiuto 90 anni!

Penso sia tutto. Di Lennon e McCartney ho già riferito, se avrò ulteriori notizie integrerò. Sembra che il 5 ottobre esca tutto il “cucuzzaro” di John Lennon senza problemi di ritardi, una volta tanto.

Bruno Conti

Artisti Di Belle Speranze? Ted Lukas & The Misled – Learn How To Fall

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Ted Lukas & The Misled – Learn How To Fall – Nine Alarm Records

Sempre alla ricerca di nomi da cancellare dalla lista dei “rockers estinti” mi sono imbattuto in questo Ted Lukas & The Misled, o meglio mi ero imbattuto qualche tempo fa, poi come spesso capita, per ragioni di tempo l’ho messo da parte (con la sua bella plastichina, com’è solito dire un mio amico) salvo ritrovarmelo per le mani in questi giorni. Giustamente mi sono detto, se l’ho preso un motivo ci sarà e quindi me lo sono ascoltato e mi sono trovato di fronte a un sano, onesto CD di rock americano, avrei detto Americana, ma memore di quanto dettomi da Dan Stuart, che odia il termine, propendo per un roots rock con venature power-pop (piaciuto, come dire tutto e niente).

Nelle sue parole (di Ted Lukas) all’inizio (a cavallo fine anni ’80 principio ’90) era un pop-punk stile Descendents in un gruppo che si chiamava Apocalypse Hoboken e che non ha lasciato tracce. Poi ci sono stati gli Hushdrops un trio che faceva del power pop influenzato dalla musica inglese e, finalmente, a metà anni ’90 arrivano i Barely Pink (di cui avevo un disco e che forse hanno influenzato la mia scelta di prendere questo Learn how to fall un po’ al buio, chiamiamolo un rischio calcolato). I Barely Pink facevano cover di Big Star e Cheap Trick qundi il genere ve lo potete immaginare. Nel 1998 nascono gli Hangtown (da non confondere con gli Hangdogs, che casino!) altro gruppo su quelle coordinate sonore ma che aggiunge al power-pop, twang e roots music e che registra alcuni album di buona qualità (per la verità due più un Ep nel 2006 quando Lucas aveva già intrapreso la carriera solista). Se li trovate è tutta musica buona.

D’altronde uno che nel suo MySpace alla voce Influenze cita, anzi, estraiamola a viva forza questa lista, perchè vale più di una dotta recensione: Life, love, God, my wife and kids, Beatles AND Stones, Lennon AND McCartney, the BLUES, ’77 punk, 50’s rockabilly, the Smiths, GP (Parker and Parsons), EC (Clapton and Costello), Dylan, Marley, Big Star, TODD, Weller, Neil (Young and Finn), all things Allman, Nick Lowe, Peter Case, Nils, the BOSS, Bramhall I & II, brothers SRV + JLV, the KING (B.B., Albert, Freddie, and oh yeah…Elvis), and you!

Mica male come gusti e per la serie “hanno detto di lui” che assomiglia a Paul Westerberg e Replacements (e glielo appoggio), Steve Earle e Tom Petty (e sono di nuovo d’accordo), io aggiungerei alcuni altri “beautiful losers” tipo Tommy Keene (di cui è uscita una bellissima doppia antologia You Hear Me: A Retrospective 1983-2009, imperdibile!), Graham Parker e il Ryan Adams più rocker (è un po’ che tace, stranamente).

A questo punto potrei andarmene a casa (se non ci fossi già) e farla finita qui! Ma due parole (anche tre) su questo disco diciamole. La prima è che nonostante la “strana” etichetta super autogestita l’album è approdato anche sulle nostre lande e con qualche ricerca si trova in giro. La seconda è che un altro personaggio di quelli giusti è coinvolto in questo progetto: trattasi di Eric Ambel, eminenza grigia del rock alternativo americano, prima nei Del Lords e poi collaboratore, tra gli altri, di Bottle Rockets, Blue Mountain, lo stesso Steve Earle, Dan Baird dei Georgia Satellites e una infinità di altri tra cui Ted Lukas.

Questo è il suo terzo album da solista, 10 pezzi (come negli altri due, Distracted del 2002 e Misled del 2008, evidentemente è una regola di vita): accompagnato da un terzetto di prodi collaboratori ( i Misled) ci regala una serie di brani, ricchi di riff ed energia, a partire dall’iniziale The Hard Truth che esce dritta dritta da qualche perduto disco dei Big Star, con il suo misto di jingle-jangle e raffinato rock, belle armonie e la tagliente slide dell’ottimo Sonny John Sundstrom. Forgive & Forget ricorda molto il sound del gruppo del suo ingegnere del suono (tale Eric Ambel).

Couldn’t say Goodbye, quasi Tom Pettyana ma anche con sonorità elettroacustiche alla Ryan Adams è un raffinato mid-tempo che placa le acque prima di rituffarci nelle deliziose atmosfere della title-track, power pop ancora a cavallo tra acustico ed elettrico. Hooked on You con i suoi grintosi riff si colloca a metà strada tra Stones e Replacements ancora con una bella slide che celebra le operazioni.

Catching up to you è una power ballad che ricorda anche la California dei primi anni ’70 e il country-rock di quegli anni, Eric Ambel aiuta con delle belle armonie vocali. Precious Times è un brano acustico cantautorale (eccolo là, ogni tanto mi scappa) con tanto di contrabbasso che però non entusiasma più di tanto. Molto meglio il ritorno degli Stones era Sticky Fingers della riffata Nothing’s ever good enough, qui la voce sottile di Ted Lukas non soddisfa appieno, però c’è di peggio, ce ne faremo una ragione, sempre presente la solista di Sundstrom che inanella una bella serie di assoli in tutto il disco. Anche Your Own Worst Enemy è senza infamia e senza lode, carina (non so se sia un’offesa dire carina di una canzone). Il finale è affidato alla rockeggiante The More Things Change con Ted Lukas che per l’occasione rispolvera la sua solista (all’inizio era un chitarrista) per un doppio assalto di 6 corde dai canali dello stereo con Ambel che aggiunge la sua “Silent Chug” Guitar alle operazioni per una gloriosa conclusione.

In definitiva del sano e onesto rock, come dicevo c’è molto di peggio in giro (ma anche di meglio). Categoria Carbonari giustamente!

Bruno Conti

Vecchie Glorie 2. Bachman & Turner

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Bachman & Turner – Bachman & TurnerCadiz/Edel

A volte ritornano. Mi asterrei, comunque senza infamia e senza lode. Non c’è più l’overdrive watch?v=rVtX_lfZTzA, in tutti i sensi. Però piacevole, ricordano molto i vecchi tempi (c’è in giro molto di peggio)!

Bruno Conti

Un Bel Poker Dal Passato. Jefferson Airplane Live


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Jefferson Airplane – Signe’s Farewell – Live At The Fillmore Auditorium 10/15/66

Jefferson Airplane – Grace’s Debut – Live At The Fillmore Auditorium 10/16/66

Jefferson Airplane – We have Ignition – Live At The Fillmore Auditorium 11/25/66 & 11/27/66 2CD

Jefferson Airplane – Return To The Matrix 02/01/68 2 Cd/Tutti e quattro Collectors’ Choice Music Live

Non si può mai stare tranquilli. Oggi pensavo di parlare di tutt’altro poi mi dicono, guarda che sono usciti quattro CD dal vivo inediti dei Jefferson Airplane e allora andiamo sul pezzo!

Questa volta in Italia siamo in netto anticipo, negli States sono annunciati per il 26 ottobre prossimo e io infatti ero tranquillo non li avevo ancora manco inseriti nelle anticipazioni e invece, tac, da oggi sono già nei negozi italiani.

Di cosa si tratta dunque? Sono quattro nuove perle della stessa serie di concerti d’archivio che qualche mese fa aveva portato la Collectors’ Choice a pubblicare Live dei Poco, Hot Tuna, Johnny Winter e John Denver ma a quattro CD tutto d’un botto dei Jefferson non ero preparato.

E, purtroppo, sono tutti e quattro molto belli e interessanti, in questo momento sto ascoltando quello del Matrix del 1968 che secondo le leggende metropolitane è uno dei concerti più belli della loro carriera, quando erano al massimo del loro splendore: ci sono brani come Share a little joke e la versione strumentale di Ice Cream Phoenix che sono stati eseguiti solo in un’unica occasione, questa ( e che sarebbero apparsi su Crown of Creation solo qualche mese dopo)! E altri come Kansas City e Two Heads che vengono eseguiti per l’ultima volta. C’è anche l’unica versione dal vivo conosciuta del brano Blues From An Airplane che appariva nel primo album. Oltre naturalmente a Somebody to love, Won’t you try/Saturday Afternoon, White Rabbit, Fat Angel, She Has Funny Cars e gli altri classici dell’epoca. Il tutto è registrato in un glorioso Mono. Come faccio a sapere tutto ciò? Semplice, se lo sarà letto sul libretto! E invece no, perché il libretto non c’è. Mi sono documentato. Inutile dire che il concerto è bellissimo con l’accoppiata Marty Balin – Grace Slick in grandissima serata, due dei più grandi vocalist della storia del rock.

Anche gli altri CD hanno un loro perché! I primi due sono interessantissimi: registrati il 15 e il 16 ottobre del 1966 segnano il passaggio di consegne tra Signe Toly Anderson la cantante che appariva in Takes Off, il primo album e Grace Slick che subentra la sera successiva. I due concerti hanno un repertorio molto differente pur se registrati a distanza così ravvicinata: nel primo c’è una lunga Jam iniziale che sommata alla prima esecuzione dal vivo in assoluto di 3/5 Of A Mile in 10 Seconds fanno un bel quindici minuti, oltre a Come Up The Years per l’ultima volta e anche Chauffeur Blues che era un po’ il brano topico e tipico della Anderson non verrà mai più eseguito dal vivo da Grace Slick, per rispetto di chi l’aveva preceduta nel gruppo. Oltre a tutto da quello che si può sentire non sembra una serata triste di addii con Marty Balin e Bill Graham che urlano più volte il nome di Signe.

La sera dopo, stesso locale e repertorio rivoluzionato con brani tratti dai due concerti registrati in quella giornata con Grace Slick che acquista fiducia ed autorevolezza da uno show all’altro.

Poco più di un mese dopo come dice il titolo del doppio CD, Have Ignition i Jefferson Airplane sono pronti a decollare. Il miglioramento qualitativo del gruppo, come avrebbe detto il buon Giuanin Brera, è stato sesquipedale, Jorma Kaukonen sta diventando un chitarrista formidabile, Jack Casady era già uno dei migliori bassisti al mondo, e il triplo intreccio delle voci di Kantner, Slick e Balin comincia a svilupparsi alla grande. Oltre a tutto cominciano ad apparire i brani di Surrealistic Pillow e anche se non siamo ai livelli del concerto del Matrix del 1968 si tratta pur sempre di un signor concerto.

Tutto questo po’ po’ di roba dovrebbe essere pure a prezzi assai contenuti e la qualità sonora è più che buona. Devo aggiungere altro? Mani al portafoglio e iniziate a piangere. Se proprio dovete scegliere i due doppi sono ovviamente maggiormente consigliati ma la curiosità di sentire una radicale rivoluzione avvenuta in due giorni rende interessanti anche gli altri due. Fate vobis, siete informati!

Bruno Conti

Un’Altra Cosa Da Fare A Denver…Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss

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Nathaniel Rateliff – In Memory Of Loss – Rounder/Decca-Universal

Come avrete intuito dal titolo, questo signore vive a Denver, Colorado dove svolge l’attività di giardiniere, ma è anche uno dei nuovi (giovane non gli si addice, avendo già superato la trentina) talenti nell’arte del cantautore, Singer-Songwriter suona più fascinoso. In effetti il “gruppo”, come dice lui in alcune interviste, sarebbe Nathaniel Rateliff and the Wheel, ma il suono che fuoriesce dalle casse del mio impianto è indubitabilmente quello di un solista, oserei dire addirittura di un folksinger, per quanto dotato di una bellissima voce.

Già, la voce è la prima cosa che si nota ascoltando questo In Memory Of Loss: nelle anticipazioni parlavo di voce “strana”, quella che ti colpisce fin dalle prime note di Once In A Great While, il brano di apertura di questo album e che poi ti accompagna in un viaggio lungo tredici canzoni. Brani morbidi, di impianto acustico, ma con una bella tessitura sonora costruita con la collaborazione del produttore Brian Deck (vi parlavo di Califone e Iron and Wine, tra i suoi clienti ma ha prodotto anche Modest Mouse e Josh Ritter nei suoi studi di Chicago), piccoli particolari sonori, oltre all’immancabile chitarra acustica arpeggiata, un piano qui, un violino là, una sezione ritmica discreta ma presente (e qui mi ha ricordato vagamente un’altro gruppo, i Swell Season), una voce femminile, Julie Davis che suona anche il contrabbasso (come nel brano d’apertura e nei video che potete vedere è co-protagonista con Rateliff), l’armonica, quando serve anche delle chitarre elettriche e il risultato è affascinante.

Devo ancora decidere se il disco mi piace soltanto o mi piace molto ma non fa molta differenza. Il filone, se volete, è quello del neo-folk che vede tra i suoi nuovi luminari i mai troppo incensati Mumford And Sons che continuano imperterriti a scalare le classifiche in tutto il mondo e che al momento sono in tournée proprio con Rateliff, ma anche i Low Anthem, i già citati Iron Wine (tutti gruppi caratterizzati da un cantante con una voce “particolare”) ma non mancano influenze indirette, tra gli artisti ascoltati in gioventù nella cittadina di 60 anime nel Missouri dove viveva Rateliff cita Van Morrison, e qualcosa si sente, Muddy Waters e Beatles, anche in questo caso, la conclusiva Happy Just to Be sembra la gemella separata alla nascita di Across The Universe, almeno nella parte iniziale e nel ritornello il tema ritorna ma il brano è talmente bello che non puoi arrabbiarti.

La critica inglese, provvida di 4 stellette ha ricordato la voce di Johnny Cash, ma anche quelle di Tim Hardin e Guy Clark, quindi non si vola bassi. Al sottoscritto ricorda anche qualcosa del Cat Stevens di Catch Bull At Four e, per le atmosfere, i grandi Mark-Almond (quelli con la K, da non confondere, Jon Mark e Johnny Almond) nei loro momenti più rarefatti.

Il disco è stato scritto come “offerta d’amore” per una donna che voleva conquistare (e come dice in una intervista è andata bene perché l’ha sposata) e quindi pur nella sua malinconia splende un fondo di ottimismo, come ad esempio nella bellissima Every Spring Still con i suoi improvvisi crescendi strumentali che ricordano i citati Mumford and Sons e il cantato a più voci mutuato dal folk più tradizionale.

Ma poi a ben vedere il disco in un certo senso è quasi autoreferenziale, quando in certi momenti ti trovi a dire, “ma questa la conosco”, mi ricorda qualcosa, poi riflettendo concludi “ma certo, o pirla, ti ricorda un brano precedente, ma sempre suo!). Ci sono momenti assai rarefatti, quasi scarni come in We Never Win, solo voce e un organo di coloritura, altri più espansivi (sempre con quel raddoppio di voci affascinanti) come la trascinante Brakeman (che è quella che mi ha ricordato il citato Cat Stevens).

Un’altra caratteristica del disco è che le canzoni sono quasi tutte molto brevi, non fai in tempo ad annoiarti anche nei brani meno memorizzabili, come la triste Longing and Losing, molto minimalista. Oil And Lavender con la sua voce risonante e profonda ti ricorda mille cose che non riesci ad afferrare e anche questo è il merito di un grande autore(il recensore di Mojo, ha parlato di musica dei silenzi). Poi improvvisamente quando credi di avere capito tutto la musica diventa più complessa, entra un’armonica e ti trovi a cavallo tra il country più nobile e Dylan, come nella stupenda You’ve Should’ve Seen The Other Guy, con i vocalizzi improvvisi nel finale.

Altro brano di grande spessore e con un arrangiamento molto più grintoso, Whimper and Wail, si avvale anche di un violino sinuoso, oltre che di una sezione ritmica più presente e ci riporta ai signori già citati più volte che non dirò nuovamente ma già sapete. Boil and fight sempre raccolta ma espansiva (l’uso di più voci, come gia detto, aiuta) introduce anche il suono di un vibrafono che si aggiunge ai soliti strumenti appena accennati. When We Could mi ha lanciato un flash (un’impressione brevissima e sfuggente) di You’ve Got A Friend, ma il filone è quello, singer-songwriters acustici.

A lamb on the stone con le sue immagini bucoliche ci rimanda ai grandi spazi dell’America ma anche ad un mondo che non c’è più, e qui una citazione per il Van Morrison pastorale del periodo Californiano è d’obbligo, il brano scivola via che è un piacere su una sezione ritmica agile e vagamente jazzata e con piano e una chitarra elettrica che aprono il suono verso sonorità tipicamente americane, assolutamente una piccola delizia sonora.

Prima della conclusione Beatlesiana c’è spazio ancora per un piccolo acquarello sonoro folk, i due minuti scarsi di When You’re Here solo voce e chitarra acustica, dolcissima.

Sì, direi che mi piace molto, e poi ha anche una bella faccia, sincera, non so se c’entra ma aiuta.

Bruno Conti

Vecchie E Nuove Glorie. Black Country Communion – Black Country

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Black Country Communion – Black Country – Mascot/Provogue/Edel

Per tutti quelli che hanno sentito il nuovo corso di Robert Plant come un tradimento, per quelli che amano il vecchio “classico” hard rock, in una parola per i nostagici della musica (buona) degli anni ’70 ecco pronto un nuovo supergruppo che unisce appunto “vecchie” e nuove glorie del rock duro ma ruspante.

Quando sono andato a controllare, tra l’altro, con mia somma sorpresa, ho scoperto che Glenn Hughes, il vecchio bassista di Trapeze e Deep Purple (tra tanti, ma ha suonato anche con i Phenomena, Gary Moore, Hughes/Thrall, con i Black Sabbath e con Tony Iommi da solo) ha “solo” 58 anni essendo del 1952. Quindi quando è uscito il primo disco dei Trapeze nel 1970 aveva a malapena 18 anni. Poi si è sniffato tutto il pianeta ma da anni è libero da ogni dipendenza e la voce non ha perso un grammo della sua potenza, ovviamente per gli amanti del genere.

Gli altri tre sono a loro volta dei numeri uno nei loro strumenti: Joe Bonamassa è forse il miglior chitarrista rock-blues delle ultime generazioni, un prodigio di tecnica autore di molti ottimi album e concerti più volte citato con ammirazione nelle pagine di questo blog.

Jason Bonham, il batterista è uno di quei rari figli d’arte che sembra in grado di ripetere le gesta del genitore (l’unico che non ha fatto rimpiangere il grande Bonzo nelle rare reunion dei Led Zeppelin). Derek Sherinian, il meno conosciuto, ex tastierista dei prog-metaller Dream Theater è stato consigliato al gruppo dal produttore Kevin Shirley, in quanto Bonamassa non voleva la formula del power trio.

Il nome del gruppo non ha connotati “oscuri” ma più semplicemente la parte iniziale del nome (il Communion l’hanno dovuto aggiungere perché c’erano già dei gruppi con lo stesso nome), Black Country indica un parte geografica del Regno Unito da cui provengono sia Hughes che Bonham (quella dove ci sono le miniere di carbone e molte fabbriche, da qui il nome). Fine della breve parentesi culturale.

Nell’ambito dei moderni supergruppi i loro rivali potrebbero i Them Crooked Culture di Grohl, Homme e John Paul Jones ma lo stile è diverso i Black Country Communion anche per la presenza di Glenn Hughes sono più song oriented come dicono quelli che parlano bene mentre i TCC sono più portati alla jam. Ma la presenza di Bonamassa alla chitarra si sente e come, gli assoli si sprecano, la batteria viene percossa con inusuale veemenza da Bonham e Hughes, come dicevo, ha ancora la voce dei tempi d’oro. Il suono è quello, Deep Purple, Led Zeppelin, Black Sabbath aggiornati ai giorni nostri ma non troppo.

Però il tutto è fatto molto bene (niente di trascendentale, l’autorevole Mojo gli ha comunque dato le sue belle 4 stellette e per un disco del genere è un evento): è il classico disco di cui è bello vergognarsi, se siete un po’ passatelli come il sottoscritto, andare in giro con il lettore portatile per ascoltarlo (non ho mai tempo per ascoltare tutto, quindi sfrutto ogni occasione) magari sul tram ed essere guardato con curiosità, come a dire “ma che cacchio ascolti” (a tutto volume).

Qualche titolo! Il singolo One last soul molto riffato ma anche con la giusta melodia che gli consente un sentire quasi radiofonico ricorda più band come Journey e Van Halen che il classic rock già citato ma i brani di Bonamassa (pochi per la verità), come la lunga Song Of Yesterday che ricorda un misto tra Hendrix e Led Zeppelin con qualche citazione di Free e di Bonamassa stesso e anche un breve intermezzo di cornamuse e tin whistle e la granitica The Revolution In Me con le tastiere di Sherinian in evidenza, bilanciano le cose.

L’unica cover è Medusa un vecchio brano di Hughes che si trovava sul secondo disco dei Trapeze del 1970 (era anche il titolo) e gli permette di sfoderare la sua voce più al naturale senza le forzature tipiche da metallaro, con quei vaghi retrogusti funky e soul che hanno contrassegnato anche il suo stile di bassista ( e suona ancora un gran bene lo strumento).

L’unico tour de force (ma gli assoli ci sono in tutti i brani e il virtuosismo, anche un po’ tamarro di tanto in tanto, non manca nel resto del disco) lo trovate nella conclusiva Too late for the sun, oltre undici minuti di grande rock come si faceva un tempo, le chitarre schitarrano, il basso basseggia, la batteria rolla, le tastiere…mmhh e il lupo ululà. Mi è venuto così ma vi posso assicurare che nella seconda parte del brano ci danno dentro veramente alla grande.

Per amanti del genere hard and heavy ma con gusto e classe.

Bruno Conti

Novità Di Settembre Parte IV E Ultima. Paula Cole, Nathaniel Rateliff, Camel, Manhattan Transfer, Matt Costa, Kenny Wayne Sheperd, Grateful Dead Eccetera

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Nel terzo aggiornamento sulle novità di settembre avevo lasciato alcuni “arretrati” che mi stavo dimenticando di completare ma ora provvedo. Prima due o tre precisazioni veloci: per il box di Bowie Station To Station il 28 settembre uscirà (almeno in Italia) solo la versione “normale” tripla mentre per la Deluxe non si sa. Idem per la Deluxe di Bitches Brew di Miles Davis che a oggi non si sa quando uscirà sul nostro mercato (doveva essere nei negozi ad inizio settembre). Per finire la carneficina pure la versione con libro di Lonely Avenue il disco di Ben Folds con Nick Hornby non dovrebbe essere nei negozi il 28 mentre uscirà la versione standard.

Qualcuno mi ha chiesto come faccio a sapere le date esatte di uscita (almeno per l’Italia) e poi, soprattutto, aggiornarle, cosa che non fanno i “gornalisti ufficiali” portati allo sgub alla Biscardi. Questo con grande scorno di chi acquista (o vorrebbe acquistare) i nuovi dischi alle date annunciate e spesso non aiutati dagli addetti nei negozi che, a loro volta, brancolano nel buio. Semplice: sono le mie vecchie fonti del negozio ormai defunto che campeggia nell’insegna del Blog e il desiderio di fare comunque un servizio utile a chi legge questo sito. Possono esserci degli errori anche qui perché sbagliare è umano ma perseverare è diabolico.

Per fare un esempio, Nathaniel Rateliff (senza la e finale come erroneamente indicato nel post precedente) è un interessantissimo nuovo cantautore americano il cui album di esordio In memory of loss sta uscendo nel mondo un po’ a macchia di leopardo, a maggio negli States, tra luglio e agosto in Inghilterra e ora qui da noi (in effetti la data doveva essere il 28 settembre ma già non lo vedo nelle liste di conferma per cui potrebbe essere uno degli ulteriori rinvii). Comunque, visto che si tratta di un disco che mi è molto piaciuto. ve ne parlerò a breve con un post ad hoc. Merita decisamente, ottime critiche tutte meritate, una voce “strana” e quindi molto interessante e uno stile che congloba influenze classiche che vanno da Van Morrison a Cat Stevens (per il sottoscritto) ma con ampi legami con il nuovo filone folk anglo-americano che va dagli Iron and Wine e Califone (stesso produttore) passando per Low Anthem, Mumford and Sons, ma anche David Gray e Ray LaMontagne, uno molto bravo insomma.

Un’altra molto brava è indubbiamente Paula Cole che ha pubblicato in questi giorni il suo nuovo album Ithaca su Decca Records per il mercato americano (si spera una pubblicazione anche italiana visto che fa parte della Universal). E’ il suo quinto album (più un Greatest Hits nel 2006): bellissima voce, forse qualcuno la ricorda perché era la vocalist di supporto di Peter Gabriel nel Secret World Tour, quella che duettava con Peter in Don’t Give Up, mentre gli ex-ragazzini forse la ricordano come colei che cantava I Don’t Want To Wait la sigla di Dawson’s Creek (peraltro brano molto bello). Anche su questo poi ci ritorno perché la “signora” mi piace molto.

Matt Costa è uno degli artisti che incide per la Brushfire l’etichetta di Jack Johnson, Mobile Chateau è il suo terzo album e segna un deciso cambio di atmosfere musicali. Questa volta si vira verso la psichedelia dei Sixties, si parla di 13th Floor Elevators, Zombies, Donovan, Electric Prunes, visto che l’argomento mi attizza sento e poi riferisco. Anche questo in uscita il 28 settembre ma già rinviato mentre negli States è uscito il 21 settembre.

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Il Chick Corea Songbook dei Manhattan Transfer in America è uscito esattemente un anno fa ma è passato un po’ sotto silenzio, il 28 settembre prossimo esce anche in Italia per la Edel. Il titolo dice tutto!

Il box dei Camel Rainbow’s End che esce prossimamente (ormai sulle date non mi sbilancio, no questo è confermato per il 28 settembre) è un ulteriore cofanetto quadruplo della Universal sempre a prezzo speciale e sempre senza inediti ma per chi non possiede nulla di questo ottimo gruppo del Progressive Rock inglese è manna dal cielo. Come al solito molto curato e, ripeto, ottimo prezzo.

Quel cofanetto dei Grateful Dead (quintuplo) raccoglie, in vinile 180 grammi e a tiratura limitata i primi 5 album di studio del gruppo californiano. Anche questo doveva uscire il 28, in America è uscito il 21 settembre qui poi si vedrà. Sul loro sito sono disponibili anche un nuovo capitolo della serie Road Trips e un cofanetto dei concerti del 1989 a Hampton sotto la vecchia ragione sociale Warlocks http://www.dead.net/.

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Tra i dischi confermati in uscita martedì 28 anche il nuovo disco dal vivo di Kenny Wayne Sheperd (solo import) Live In Chicago, con Hubert Sumlin, Willie Big Eyes Smith, Buddy Flett e il grande chitarrista cieco Bryan Lee con cui spesso si scambiano collaborazioni. Questo è un chitarrista di quelli tosti e il disco in concerto finalmente gli rende giustizia.

Esce anche il nuovo David Sylvian Sleepwalkers per la sua etichetta Samadhisound distribuzione Self e sempre per la stessa distribuzione su etichetta PIAS il disco dell’attore Tim Robbins con la Rogue Gallery Band, prodotto da Hal Willner e di cui si parla molto bene.

Per finire su una nota lieta finalmente esce anche in Europa (con una bonus track rispetto all’edizione americana, cazzarola!) su etichetta Naive il nuovo Cyndi Lauper Memphis Blues di cui vi avevo parlato molto bene a metà agosto questo-le-mancava-cyndi-lauper-memphis-blues.html oppure potete leggere la recensione sul Buscadero di ottobre (tanto è la stessa).

That’s All Folks!

Bruno Conti

Vecchie Glorie 1. Pete Brown & Phil Ryan – Road of Cobras

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Pete Brown & Phil Ryan – Road of Cobras – Proper/Ird

Chi è costui? O anche chi era costui? (era un po’ che non lo dicevo!). Propenderei per la prima domanda visto che questo gentiluomo inglese è ancora vivo e vegeto e il giorno di Natale compirà 70 anni! Allora chi è? La firma Bruce/Brown vi dice nulla?

Esatto, si tratta proprio dell’esimio paroliere dei Cream e poi della carriera solista di Jack Bruce, quello che ha scritto I Feel Free, White Room, Sunshine of your love (questa firmata pure da Eric Clapton) ma anche la meravigliosa Theme From An Imaginary Western per Jack Bruce (grande versione dei Mountain) con cui ha firmato gli interi album Songs for a Taylor, Harmony Row e Into The Storm, uno più bello dell’altro.

Come se tutto questo non bastasse è stato anche il fondatore dei due gruppi che vedete qui sopra: Pete Brown & His Battered Ornaments, autori di due ottimi album di blues-jazz-rock fiatistico ed entrati nella storia anche perché il giorno prima del concerto gratuito dei Rolling Stones ad Hyde Park in memoria di Brian Jones il resto del gruppo ha estromesso Brown dalla formazione, non solo, non contenti di tutto ciò hanno anche cancellato tutte la parti vocali già incise dallo stesso Brown per il secondo album Mantlepiece. Alla faccia dell’ammunitamento! (In quel gruppo militavano ottimi musicisti, a partire dal futuro Colosseum Dick Heckstall-Smith passando per il chitarrista Chris Spedding). Imperturbabile (almeno mi immagino) Pete Brown ha fondato i Piblokto! più rock-blues oriented, senza i fiati con Jim Mullen, futuro chitarrista dei Brian Auger’s Oblivion Express e con Morrissey (non quello), Dick il sassofonista, nel duo Morrissey-Mullen autori di un ottimo jazz-rock. A un certo punto alla fine della carriera dei Piblokto entra in formazione anche il tastierista Phil Ryan che farà in tempo ad incidere un solo singolo prima dello scioglimento del gruppo.

Se volete i dischi di entrambi i gruppi si trovano in due ottimi twofer della BGO che raccolgono le discografie complete delle formazioni dove ha militato Pete Brown.

Se vi state chiedendo perché mi sono dilungato in questo excursus nel passato e temete che possa avere a che fare col fatto che potrebbe non esserci molto da dire su questo disco avete indovinato! O meglio ci sarebbe, ma forse è meglio non farlo. Comunque qualche breve cenno lo merita e non è proprio così orribile. Per gli amanti del genere e collezionisti può essere interessante, gli altri meglio alla larga!

Già ma che genere è? Il solito di quarant’anni fa però annacquato in una simil fusion-jazz-rock-blues alquanto blanda, quasi vicina a certo smooth-jazz (che ha i suoi estimatori e quindi questo disco un suo pubblico potrebbe averlo).

Il nostro amico non aveva una voce fantastica già ai tempi (e quindi capite il perché dell’estromissione) però era adeguata ed era un grande autore di testi ed occasionalmente della musica nonché come Mayall un ottimo bandleader capace di guidare nei propri dischi fior di musicisti.

Anche questo Road of Cobras in questo senso non tradisce le aspettative: alcuni brani sono di buona qualità, ad esempio l’iniziale Flag A Ride, con Mick Taylor alla chitarra solista e Clem Clempson alla seconda chitarra, oltre ad un’ottima sezione fiati, Phil Ryan alle tastiere e una sezione ritmica di valore. Ma aldilà del tipo di suono, ci sono le due vocalists, le voci femminili, Helen Hardy e Rietta Austin (che sarebbero anche brave), che sono ovunque, irritanti in un modo incredibile, coprono la voce di Brown e sbucano da ogni piega degli arrangiamenti spesso in primo piano. In Between Us a duettare con Pete Brown c’è Maggie Bell (la gloriosa voce degli Stone the Crows, la Janis Joplin inglese) che con mio grande rammarico (lo so il tempo passa!) sembra un’ottima anziana cantante, una vecchia gloria appunto, ma non più la forza della natura che era un tempo (non è la regola, Van Morrison e Tom Jones, coetanei, anzi anche più anziani, hanno ancora una voce della Madonna!). In questo brano ci sono anche Jim Mullen alla chitarra e Annie Whitehead al trombone, il tutto molto picevole per carità ma non è che mi fanno stracciare le vesti.

Insomma ci siamo capiti, Mick Taylor torna in un brano 13th Floor, Clem Clempson e Jim Mullen sono presenti in altri tre o quattro brani, le due voci femminili continuano a imperversare in quasi tuttile canzoni, finché nell’ultima, jazzata, Couldn’t We Try Again? Helen Hardy viene promossa a voce solista per duettare con Brown con ottimi risultati, ma allora ditelo!

Che altro? What Else? come direbbe l’ottimo George. C’è anche un duetto con l’inossidabile Arthur Brown (questo è proprio lui, quello di Fire e non sono parenti) e con le immancabili coriste c’è una overdose di voci in Sneaky Spot Trading Man (vi risparmio la battuta crudele).

Boh, fate un po’ voi! Io la buona volontà ce l’avevo messa. I due CD della BGO ve li consiglio caldamente, questo meno (gli avvisi per i naviganti non sempre segnalano bel tempo, servono anche per evitare le piccole calamità).

Bruno Conti

Non So…Neil Young – Le Noise

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Neil Young – Le Noise – Reprise/Warner Music

Mumble…mumble si legge nei fumetti quando il personaggio della situazione medita, rumina, borbotta o brontola, di solito all’interno del fumetto (Zio Paperone è uno specialista). E’ un po’ quello che sta facendo chi vi scrive in relazione a questo nuovo Le noise, la collaborazione tra Neil Young e Daniel Lanois, non vorrei espormi per paura poi di pentirmi di quello che dico o per paura poi di cambiare idea (potrebbe succedere con successivi ascolti).

Diciamo che sono otto brani per circa 38 minuti di musica, tutti nuovi, due sono acustici e sono molto belli: Love and War addirittura mi sembra tra le cose migliori mai scritte da Young sull’argomento amore e guerra che ciclicamente torna nella sua produzione, prima il Vietnam, poi l’Iraq due volte e infine l’Afghanistan sono stati spesso nelle sue canzoni e questa volta questi argomenti ritornano per parlare “dei giovani che vanno in guerra e lasciano a casa delle giovani mogli. Le vedo cercare di spiegare ai loro bambini e vedo tante di loro fallire…”. Il tutto accompagnato da una chitarra acustica spagnoleggiante che crea atmosfere tipicamente younghiane, sentite mille volte eppure quando sono belle come in questo brano, sempre nuove.

Non volevo parlare della parte elettrico-elettronica subito ma visto che siamo in ballo. Il brano successivo, che si chiama Angry World, è un’altra delle tante facce della stessa storia e mi pare bene venga esemplificata nella parte finale del brano quando la voce (e le chitarre) di Neil Young filtrate nelle diavolerie elettroniche di Lanois creano (mi è sembrato di capire, ma potrei sbagliare) una sorta di doppio loop che dai due canali dello stereo ripete all’infinito a mo’ di eco, We hate e Love in una perenne lotta mentre la chitarra innesca un feedback micidiale. E questa non è una novità nel canone del canadese, ma un conto è costruire un disco dal vivo come Arc/Weld dove il primo disco è costituito da tutti i finali in feedback dei brani più feroci in un collage sonoro che mette a dura prova le capacità dell’ascoltatore (come aveva fatto anche Lou Reed con il suo Metal machine music), un altro conto è appropriarsi della tecnologia, quel terribile vocoder utillizzato in Trans, per creare un disco che mutuando un termine fantozziano era, e diciamocelo, “una cagata pazzesca”, e, infine, ben altro è quello che hanno fatto Young e Lanois in questo disco, con brani che hanno comunque una loro melodia e il timbro inequivocabile della buona musica.

In pratica Neil Young ha preso le sue chitarre elettriche, ha alzato il volume a manetta (ad esempio nell’iniziale Walk With Me), Lanois ha applicato una quantità spropositata di eco, il suo basso dove serviva, filtri alla voce di Young e poi i due canadesi hanno “giocato” sulle canzoni nuove scritte da Neil. Risultato finale?

Ma parliamo dell’altro brano acustico del disco, si chiama Peaceful Valley Boulevard, una bellissima ballata acustica di oltre sette minuti anche questa tra le migliori canzoni prodotte dal Neil Young in solitaria, negli ultimi album in particolare ma anche in generale, un sound spaziale, altamente evocativo e con il suo meraviglioso falsetto trattato con appena un filo di eco.

Sul resto non mi pronuncio, posso solo dire che nessuno dei brani è brutto o inutile, cosa che non si poteva dire per tutti i contenuti di Fork in the road e Living with War, però mi ritrovo ad attendere alla fine di ogni riff l’entrata pantagruelica dei Crazy Horse con una rullata e un giro di basso, se non ci sono Talbot e Molina vanno bene anche Rosas e Cromwell.

Attendo alla finestra di leggere altri commenti e riascolto pazientemente il CD, poi, forse, vi faccio sapere! Nei negozi dal 28 settembre se volete farvi la vostra opinione perché vale comunque l’acquisto.

Bruno Conti

Una Donna “Indipendente” – Michelle Malone – Moanin’ In The Attic

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Michelle Malone Banned – Moanin’ In The Attic – SBS Record

Questa signora è indipendente in tutti i sensi: perché, da anni, si è creata la sua etichetta discografica e perché non fa parte di nessun filone musicale o genere particolare. Nella sua musica confluiscono mille influenze, dal blues al rock classico, al southern rock, agli amati Stones, ma poi viene frullato tutto e il risultato è una delle più eccitanti, e sconosciute, voci femminili in circolazione. Una vera rocker in gonnella che si mangia Sheryl Crow per colazione (e badate bene che a me la Crow, pur con le sue cadute di stile, piace parecchio), compete con Bonnie Raitt e Susan Tedeschi come chitarrista (soprattutto slide ma ha anche una grinta riffaiola degna del miglior Keith Richards) e ha una “gemella virtuale” nella altrettanto poderosa Dana Fuchs che probabilmente (anzi sicuramente) a livello vocale le è superiore ma in quanto a grinta è una bella lotta.

La nostra amica è originaria di Atlanta, Georgia, una delle patrie del southern rock e ha iniziato la sua carriera nel 1988 con l’album New Experience (votato tra i Top 5 dell’anno da, tra tutte le riviste, Playboy), è stata subito “scoperta” da Clive Davis che l’ha messa sotto contratto per la Arista, affidandola alle cure di Lenny Kaye (Patti Smith Band e “inventore” di Nuggetts) che ha prodotto il suo disco con i Drag The River Relentless tra gli osanna della critica e discrete vendite. Risultato: scaricata in un nanosecondo. Da lì ha iniziato il suo pellegrinaggio transitando anche per la Velvel records di Walter Yetnikoff un altro dei grandi della musica “prodotta”.

Per farla breve, come tanti prima e dopo di lei, ha deciso di fondare la propria etichetta e distribuirsi in proprio (croce e delizia degli appassionati, perché i risultati sonori spesso sono decisamente migliori ma trovare i dischi diventa un’impresa): risultato, secondo Wikipedia la sua discografia consta di 14 album, secondo il suo sito http://michellemalone.com/, dove li trovate tutti (meno un paio) sono 12 in studio e 11 dal vivo, mica male per una che gira con una chitarra con la scritta “Indipendent”.

Quindi questo è l’undicesimo dal vivo e, forse, il migliore, registrato l’8 maggio di quest’anno all’Eddie’s Attic di Atlanta (anzi per la precisione a Decatur, ho dato un’occhiata e dalla lista di musicisti che ci hanno suonato mi è venuta voglia di trasferirmi lì!). Particolare non trascurabile quel giorno era il suo compleanno, ma veniamo alle operazioni.

Si parte con un’orgia di slide intitolata Tighten Up The Springs dove la brava Michelle ricorda una sorta di Thorogood in gonnella con un groove boogie scatenato che apre la danze alla grande e poi sfocia nell’eccellente Undertow, uno dei suoi brani migliori, ancora con la slide in evidenza ma anche la chitarra nell’altro canale dello stereo non scherza e comincia a macinare assoli (il sound è molto vintage e ricorda quello dei grandi dischi dal vivo degli anni ’70, Johnny Winter Live, i Vinegar Joe di Elkie Brooks e Robert Palmer per chi li ricorda, una Bonnie Raitt infoiata dagli AC/DC e l’immancabile Janis Joplin).

I musicisti della sua band con tanto di batterista donna (Katie Herron) e con l’eccellente Jonny Daly alla chitarra sanno come costruire un groove ma sono anche capaci di finezze all’interno di un brano, ad esempio Camera un ondeggiante e vagamente funky canzone dove Michelle Malone estrae anche l’armonica d’ordinanza e ci delizia con la sua grinta mista a dolcezza. Flagpole mi ricorda quei brani southern-rock alla Outlaws con un misto di acustico ed elettrico, tra country e rock, con il ritmo che accelera in un crescendo inarrestabile e dove le chitarre prima acustiche e poi elettriche si scatenano ben coadiuvate da un pianino insinuante e tu ti ritrovi con il piedino che segue irretito il tempo sempre più coinvolgente.

Ma la nostra amica è anche balladeer di grande fascino e lo dimostra nel duetto con l’ospite Tim Tucker nella delicata Go easy, un brano di quelli che non si dimenticano, molto bello. Beneath The Devil Moon del 1997 è uno dei dischi migliori della sua discografia (ma ce ne sono di brutti?), quello dove appaiono come ospiti le Indigo Girls e che contiene In The Weeds una bellissima rock ballad qui ripresa in una versione monstre di oltre dieci minuti, dove Michelle Malone e il suo gruppo dimostrano di essere all’altezza della loro fama come uno dei migliori Live Acts in circolazione (un’altra che, soprattutto dal vivo, non scherza un c…o è Grace Potter & The Nocturnals peccato per l’ultimo disco). Il crescendo chitarristico nella parte centrale ti inchioda alla poltrona e se ami il rock puro e duro godi come un riccio.

Miss Mississippi è quasi meglio, introdotto da una Michelle Malone in trip vocale si dipana lentamente come un figlio illegittimo di On The Road Again e di Lagrange degli ZZTop tra sventagliate di chitarra, armoniche impazzite e la sezione ritmica implacabile e la Malone che invoca la presenza di qualche ZZTop tra il pubblico, poi evolve, dopo qualche cazzeggiamento con il pubblico e altre schitarrate in libertà, in una versione micidiale di Roadhouse Blues dei Doors con Tim Tucker che ha aggiunto il suo piano al procedere delle operazioni.

Teen lament se non sapessi che si chiama così perché c’è scritto sulla copertina del disco potrebbe essere una versione al femminile di Honky Tonk Women degli Stones, stesso DNA, probabilmente stessi accordi, ma chi se ne frega, il risultato è fantastico, rock coinvolgente come poche volte capita di sentire e una Malone ormai preda dei suoi istinti di diabolica performer che improvvisa sul nome Tim una improbabile lista di variazioni sul tema, da sentire per credere.

Dopo un altro gagliardo rock che risponde al nome di Yesterday’s Make Up c’è anche tempo per una cavalcata rock-blues vecchio stile che risponde al nome di Restraining Order Blues dove la slide fa la sua riapparizione e per un bis sul tema nell’ottima Rooster 44 prima di concludere le operazioni in una orgia di boogie e rock and roll, Traveling and Unraveling altri dieci minuti di musica ad altissima tensione con i musicisti ancora preda dei fumi del R&R di qualità e chitarre in libertà come nei concerti che si rispettino.

Il brano finale è un sentito omaggio ai più volte citati Rolling Stones, tutti calmi, tranquilli e seduti ad ascoltare una bella versione di Wild Horses.

Per i fans e gli estimatori un disco da non perdere, per chi non conosce un eccellente punto di partenza. Musica Viva e dal vivo.

Bruno Conti