Con Un Leggero Anticipo O In Clamoroso Ritardo. Comunque un Gran Disco! Sean Rowe – Magic

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Sean Rowe – Magic – Collar City 2009 – Anti Records 22-2-2011

Devo dire che più lo sento più mi piace, sono ormai diversi giorni che mi sto coccolando questo album di Sean Rowe con una serie continua di ascolti e non mi sono ancora stancato.

Qualche giorno fa un mio amico mi ha segnalato questo disco dicendomi che avrebbe potuto essere interessante parlarne sul mio Blog. Il nome Sean Rowe e il nome Magic in effetti qualcosa mi dicevano e allora ho approfondito e mi sono ricordato che un paio di anni fa mi avevano dato una copia di questo Cd acquistata in America e ascoltato distrattamente mi era parso interessante ma non avendo ancora il Blog era rimasto lì tra coloro che son sospesi.

Riascoltato oggi e alla luce della prossima pubblicazione, il 22 febbraio, di questo album da parte della Anti sono andato in rete a fare qualche ricerca e sono venute fuori alcune cose interessanti. Intanto a differenza di quello che dicono molti siti questo non è il disco di esordio di Rowe (ne aveva già pubblicato uno nel 2003 intitolato 27) ma non è neppure il secondo perché scavando ancora ne è saltato fuori un altro uscito in precedenza.

Ma concentriamoci su questo disco: sono stati fatti paragoni con Van Morrison, Leonard Cohen, perfino Bruce Springsteen, Al Green, Gil Scott-Heron non si vola mica bassi ma uno non è comunque preparato a quello che ascolterà quando parte la prima canzone, Surprise (titolo profetico, come quello dell’album), un inizio lento, in sordina, con gli strumenti che entrano di volta in volta e poi si materializza questa Voce incredibile, dai toni baritonali, bassa, profonda e risonante che intona i primi versi “You were nothing but the fragrance of an old dream/that was just time playing tricks with my mind…” e ti ritrovi scaraventato in un un mondo musicale che è attiguo a quello del Van Morrison di Astral Weeks per il tipo di testi che parlano per immagini e non seguono delle storie precise, a quello di Leonard Cohen per queste atmosfere rarefatte e sospese, a quello di Greg Brown aggiungo io (altro grandissimo cantautore nativo della Iowa, con una discografia impressionante per qualità e quantità che, se già non conoscete, vi invito caldamente a visitare) la cui voce glabra ed espressiva in grado di spaziare dal folk, al blues, al rock con una duttilità magica e dalle tonalità particolari che salgono ma soprattutto scendono in profondità e si avvicinano a quelle di Sean Rowe, o così mi è parso di cogliere in vari momenti.

Tornando a Surprise, il brano di apertura di questo album, è una delle tre canzoni presenti che si basa su una strumentazione chiamiamola tradizionale, preferite elettrica, rock diciamo: chitarra, basso, batteria, delle tastiere discrete ma quello che balza subito all’occhio o all’orecchio è la voce che è la vera protagonista di tutto l’album, espressiva e coinvolgente, partecipe e magica, appunto. Già il primo brano varrebbe il prezzo di ammissione ma nei dieci brani che lo compongono il disco non ha episodi minori. Sia nelle atmosfere soffici e rarefatte (ma non siamo in un ambito folk tradizionale) della dolce Time To Think dove la voce di Rowe è supportata dalle armonie di Cara-May Gorman che unite all’acustica arpeggiata, ad un cello insinuante e alle tastiere creano un sound che richiama anche la malinconia di Nick Drake, sia in episodi notturni e sospesi come la bellissima Night dove l’acustica pizzicata e una chitarra elettrica che incombe nel sottofondo donano aspetti quasi misteriosi alla voce ancora magnifica del nostro amico.

Ma anche in un brano come Jonathan dalla struttura rock tradizionale che dopo il solito inizio interlocutorio e sospeso si trasforma in un pezzo dal drive aggressivo quasi alla Dire Straits, con un ritornello quasi orecchiabile (doppio quasi anche se non ci sarebbe nulla di male) e attimi di furore vocale che ti colpiscono per la straordinaria intensità che li percorre.

Old Black Dodge è il brano che più mi ha ricordato stilisticamente il Greg Brown citato prima, ancora una voce femminile di supporto a quella di Sean che ora sussurra ora apre la voce in modo quasi doloroso solo con l’accompagnamento folk minimale di una chitarra acustica e qualche effetto sonoro di sottofondo e i suoi vocalizzi particolari nel finale. Wet se possibile è ancora più scarna, solo una chitarra elettrica arpeggiata e questa voce quasi dolorosa che sale e scende e ti cattura fino all’esplosione finale dove entrano degli archi, piano, basso e batteria, ancora un cello e Rowe libera la voce verso vette quasi Morrisoniane, ricercate ed immediate al tempo stesso, in un modo che fa godere l’ascoltatore o almeno questo è l’effetto che ha avuto sul sottoscritto.

The Walker ancora con quelle stupende armonie vocali che completano in modo quasi telepatico il canto sommesso di Sean Rowe è un altro momento di dolce malinconia sottolineata da un pianoforte discreto e appena accennato. American è il brano che più mi ha ricordato Leonard Cohen una meravigliosa ballata che è difficile descrivere tanto è bella, si può solo ascoltare e godere delle sue immagini sonore ancora una volta nobilitate da questa voce meravigliosa. Wrong Side of The Bed con un inizio quasi alla Taxman è il terzo pezzo chiamiamolo “rock” che non ha nulla da invidiare alle atmosfere più sospese del resto del disco, anche quando i tempi si animano, i ritmi si fanno più serrati la musica non perde quella sorta di vago misticismo tra folk e gospel che pervade i solchi di questo album (se ci fossero ancora e perché le ambientazioni ricordano quelle dei grandi dischi in vinile del passato), inconsueta e particolare ma sempre rock!

Si finisce con The Long Haul un altro brano che mette in evidenza le grandi virtù interpretative della voce di questo signore che potrebbe essere una delle più gradite sorprese musicali di questo 2011 che sta iniziando e che vi segnalo come avevo fatto (in altri ambiti sonori) per Otis Gibbs, un altro sicuro talento e uno strano personaggio anche nella vita privata Sean_Rowe.

Vorrei citare anche Troy Pohl che suona tutto (meno il campanello di casa): Chitarre elettriche ed acustiche, basso, piano, organo, synth e contribuisce in modo fondamentale al sound del disco anche come produttore!

Il disco ufficialmente esce per la Anti/Epitaph il 22 febbraio ma girando in rete si trovano ancora delle copie della versione pubblicata a livello indipendente. Se volete ulteriormente approfondire la conoscenza di questo artista di Albany, NY questo è il suo sito index.html.

Senti che voce e ricordate dove ne avete letto le gesta per la prima volta (almeno in Italia)!

Bruno Conti

Più Che Un Titolo, Una Esortazione! Mark Robinson – Quit Your Job Play Guitar

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Mark Robinson – Quit Your Job Play Guitar – Blues Boulevard/Music Avenue – 11-02-2011

Il titolo è indubbiamente suggestivo ma è aderente alla realtà; è quello che ha fatto Mark Robinson, ad un certo punto, dopo anni di carriera a mezzo servizio ha deciso di mollare il suo lavoro fisso di produttore di video per l’università di Bloomington, Indiana e di lanciarsi a tempo pieno nella musica.

Si è spostato a Nashville, ha aperto il suo studio di registrazione e ha iniziato a produrre dischi per altri, fare l’insegnante di chitarra, il musicista on the road, il  tutto sempre lavorando a questo Quit Your Job – Play Guitar che già uscito, con ottime recensioni, sul mercato americano nel 2010 e vedrà una distribuzione europea a febbraio per i tipi della Blues Boulevard.

L’album è una riuscita miscela di blues, rock, roots music, southern rock, rilassato ed energico al tempo stesso, una sorta di JJ Cale più robusto (ma ovviamente non più bravo!), con l’aiuto di alcuni musicisti locali, qualche amico famoso, Johnny Neel alle tastiere e Tracy Nelson, alle armonie vocali, Mark Robinson confeziona un disco molto piacevole che oscilla tra il rock-blues rootsy dell’ottima Runaway Train, con slide ed armonica a duellare tra loro su un deciso ritmo boogie e i tempi rilassati e sornioni della cover della celeberrima Sleepwalk dal repertorio di Santo & Johnny passando per un southern-rock bluesato e intenso come nell’iniziale Poor Boy.

Payday Giveaway è una bella ballata midtempo energica e piena di soul con le tastiere di Neel e la voce di Nelson a sostenere la voce vissuta e la chitarra di Robinson. Il blues è sempre presente come in This Old Heart ma non è il classico Chicago Blues ma appare percorso da questi sapori twangy e roots con un leggero retrogusto country-got soul ma anche southern dell’organo di Neel. Quando addirittura non si sposta verso sonorità folk blues come in Memphis Won’t Leave me Alone. C’è spazio anche per brani più canonicamente blues, come lo slow intenso che risponde al nome di The Fixer, con quel suono laidback ma tecnicamente molto raffinato della chitarra.

Back In The Saddle con l’aggiunta di una sezione fiati si sposta addirittura verso sonorità alla Stones del periodo Sticky/Exile o del Clapton periodo Delaney, vogliamo dire country-rock got soul, ovviamente siamo su un altro piano come classe e risultati e la voce di Robinson non è particolarmente memorabile ma il genere ha i suoi estimatori. Backup Plan si sposta addirittura in quel di New Orleans e dintorni a conferma dello spirito eclettico di questo CD. I Know You’ll Be mine ha una sua grinta rock-blues ma la voce di Robinson purtroppo non decolla al pari della musica. Il brano migliore è la conclusiva Try One More Time una bella ballata ariosa che aldilà dei limiti vocali di Robinson si dipana con un arrangiamento dalle tematiche sonore ancora una volta sottolineate dalle armonie vocali gospel della Nelson e di Vickie Carrico, la sezione fiati, ancora l’organo di Neel che regalano quel gusto southern al brano.

Bruno Conti

Lost Treasures! Morly Grey – The Only Truth

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Morly Grey – The Only Truth – Sundazed

Originari di Alliance, Ohio i fratelli Mark & Tim Roller (Roller Brothers non sarebbe stato un nome malvagio per un gruppo) sono più noti (con l’aggiunta dei batteristi Paul Cassidy e Bob LaNave) come i Morly Grey, un gruppo che manda un brivido di piacere tra i collezionisti e gli appassionati di psichedelia. Il loro unico album, questo The Only Truth uscito in origine per la Starshine Records è (era) considerato uno dei pezzi più pregiati, misconosciuti e rari della musica americana di quegli anni, molto ricercato perché mai ufficialmente ristampato se non in versioni “pirata” ricavate dal vinile originale e quindi di scarsa qualità e non autorizzate.

La Sundazed colma questa lacuna con la prima uscita ufficiale in CD (e doppio vinile) di questo “classico perduto”. Prima di un esame più approfondito vorrei dire che questo disco non è il capolavoro assoluto di cui si è spesso parlato ma è sicuramente un album molto buono, ottimo addirittura che si assicura il giusto posto in quel filone che possiamo definire progressivo-psichedelico-garage che ispirato dal power trio rock di formazioni come Cream e Blue Cheer si avvicina alle sonorità di gruppi come la James Gang o i primi Grand Funk.
Una sezione ritmica agile ma anche rocciosa con il basso sinuoso e rotondo di Mark Roller su cui si inseriscono le continue improvvisazioni della chitarra del fratello Tim, il primo batterista Paul Cassidy divide gli interventi vocali con Mark Roller come nella raffinata You Came To Me dove fa capolino anche una chitarra acustica come nella successiva, sognante Who Can I Say You Are dove un inizio alla Who (o alla Blue Cheer) si stempera in un brano dalla struttura più semplice ma sempre ricercata con le chitarre sempre in evidenza.

L’iniziale Peace Officer viceversa era una gagliarda cavalcata rock-blues nei territori sonori dei gruppi citati prima con chitarra, basso e batteria a dividersi i compiti nei migliori stilemi del genere. Cassidy è l’autore del brano I’m Afraid altro esempio della psichedelia gentile e ricercata del trio mentre Our Time comincia ad aprirsi, nei suoi oltre sei minuti, verso una musica più improvvisata che, curiosamente, ricorda anche la musica dei primi Yes, quelli più progressivi che sinfonici anche se non ci sono le tastiere a moderare il suono e quindi la chitarra è libera di sbizzarrirsi in lunghe improvvisazioni anche con il wah-wah.

After me again ricorda nelle sue armonie vocali anche il sound westcoastiano con vigorose iniezioni psichedeliche nella parte strumentale. A feeling for you è un momento più tranquillo e riflessivo (ma sempre rock) che prelude al centrepiece del disco, la lunghissima ed improvvisata title-track The Only Truth, oltre 17 minuti di musica dove risiede la fama del disco, continui cambi di tempo a cura del nuovo batterista Bob LaNave che si occupa anche delle parti vocali, mentre Tim Roller è libero di intrecciare con il fratello Mark lunghi passaggi strumentali che da momenti pastorali si tramutano in feroci cavalcate chitarristiche e poi di nuovo in intermezzi acidi e psichedelici conditi da brillanti soluzioni musicali.

Se tutto ciò non vi basta la Sundazed ha aggiunto al disco originale che qui si concluderebbe tre bonus tracks (oltre ai 2 brani che comprendevano il singolo di esordio) tra cui le lunghissime, quasi dieci minuti a testa, None are for me e Come Down, altri brillanti esempi della capacità di improvvisazione di questi Morly Grey, che con la giusta distribuzione discografica e diffusione della loro musica avrebbero potuto lasciare un segno più evidente delle loro notevoli capacità. Il suono del disco, masterizzato da Bob Irwin, è eccellente, il contenuto pure, direi che tutto è perfetto. Un pensierino o anche due sull’acquisto di questo disco lo farei!

Bruno Conti

Non Solo Southern Rock. Billy Crain – Skeletons In The Closet

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Billy Crain – Skeletons In The Closet – Slidebilly Records

Ci sono dei dischi (che sono tanti, molto più di quello che si pensa) che navigano in una sorta di limbo che si trova tra le riviste di settore, il mondo degli appassionati, la rete e altre forme di divulgazione e che attendono che qualcuno li scopra o quantomeno che contribuisca alla diffusione degli stessi. Senza la pretesa di essere il Piero Angela della situazione con un approccio scientifico (che non sempre paga) altri appassionati cercano di approfondire con piglio critico per scremare e andare a pescare quello che di valido c’è in circolazione magari avvisando sulle eventuali bufale. Ovviamente chi scrive esprime un parere non sempre condivisibile per cui è importante anche dare il maggior numero possibile di informazioni e riferimenti per aiutare il lettore.

Questo disco (che è in circolazione da un po’ di tempo) fa parte della categoria dei dischi che vale la pena di cercare (perché anche questo è un problema non indifferente): si tratta del primo album solista di un personaggio che mi diceva qualcosa a livello mnemonico. Crain, Crain, Tommy Crain, quello è il fratello, per oltre 15 anni chitarra solista nella Charlie Daniels Band, Billy ha iniziato la carriera con lui poi ha militato in molti gruppi che hanno fatto la storia del Southern Rock, prima la Henry Paul Band dell’ex chitarrista degli Outlaws, poi il country dei Bellamy Brothers, passando per Sue Medley una canadese di cui mi ero occupato ai tempi per il Buscadero, per le sue contiguità musicali con Mellencamp e Hiatt. Billy Crain ha fatto anche l’autore di brani for hire, scrivendone uno in particolare, Let’er rip che è finito sul disco di esordio delle Dixie Chicks, che ha venduto 13 milioni di copie e poi ha collaborato con molti altri artisti country.

Nella scorsa decade il richiamo sudista si è fatto sentire di nuovo e Crain è entrato nella ultima formazione degli Outlaws sempre a fianco di Henry Paul. E quindi arriviamo a questo Skeletons in The Closet che porta alla luce i suoi “scheletri nell’ armadio”, che non sono nulla di cui vergognarsi anche se ad un primo impatto, anzi prima, leggendo le note di copertina, alla scritta “ Billy Crain did everything but mix on this records”  mi è venuto uno scioppone perché di solito non è una buona notizia. Il mondo è tappezzato di solo album fai da te che si sono rivelate delle cioffeghe terribili!

E invece devo dire che mi sono ricreduto perché il nostro amico suona bene tutti gli strumenti presenti in questo album ma soprattutto chitarre, chitarre e ancora chitarre, molte chitarre, acustiche ed elettriche ed il suono della sua solista è quello che domina questo CD. Che non è un disco di southern rock come si potrebbe pensare bensì classico rock americano con molte venature country che possono ricordare i primi Eagles o i Poco tanto per fare dei nomi ma anche gli stessi Outlaws che hanno sempre avuto una forte componente country nel loro sound.

Il suono è fresco e pimpante, la voce non è fantastica ma molto funzionale, la produzione è semplice ma curata, i brani in sé non sono memorabili, tra power pop, country, rock da FM e southern ma miscelati insieme sono molto piacevoli e quando la canzone inizia ad ammosciarsi o ad annoiare Billy Crain ti piazza uno o più assoli di chitarra, ficcanti e piccanti, con un gusto sempre molto vario che vivacizza l’ascolto e rende il sound meno “commerciale”, quello che potrebbe essere il difetto del disco si rivela il suo pregio perché il nostro amico non è un caciarone proto-metallaro ma un musicista di ottime virtù e l’ascoltatore quando le chitarre salgono al proscenio trova pane per i suoi denti.

Vi potrei citare l’iniziale Rise Up, l’ottima Muddy Waters o White Picket Fence, quella che tanto ricorda i Poco degli anni d’oro o ancora l’eccellente Hard Times At Ridgemont High, ma i titoli non vi direbbero niente senza il CD tra le mani come succede al sottoscritto per cui mi limito a consigliarvi questo genuino artefatto di artigianato rock americano, è buona musica, garantito! File under Rock.

Bruno Conti

Un Grande Disco “Hendrixiano”. Randy California – Kapt. Kopter and The (Fabulous) Twirly Birds

 

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Randy California – Kapt. Kopter and The (Fabulous) Twirly Birds – Esoteric Recordings

Questo disco credo sia stato l’album più Hendrixiano mai uscito senza il nome di Jimi Hendrix sulla copertina del disco stesso e anche il migliore, aggiungo (forse con l’eccezione dei primi dischi di Robin Trower).

Emuli hendrixiani negli anni a seguire ce ne sono stati a bizzeffe ma nessuno ha raggiunto l’intensità e la “precisione” di questo disco, forse perché Randy California aveva condiviso una parte del tragitto della carriera di Hendrix quando negli Stati Uniti si esibiva ancora come Jimmy James  and the Blue Flames prima di venire “scoperto” da Chas Chandler. California (così soprannominato da Hendrix per non confonderlo con un Randy Texas che già suonava nel gruppo) sostiene addirittura di essere stato lui a proporsi e di avere mostrato alcune tecniche bottleneck ad un interessato Jimi e non viceversa. Ma non lo sapremo mai: il fatto sicuro è che quando Hendrix si trasferì in Inghilterra per iniziare la sua carriera leggendaria Randy non lo poté seguire in quanto allora era solo un 15enne prodigio (prodigio ma troppo giovane per espatriare secondo le leggi americane) e quindi gli Experience in versione quartetto sono rimasti una chimera.

Ma il giovane Wolfe sotto l’egida del “patrigno”  Ed Cassidy (che aveva sposato la mamma di Randy ma soprattutto ero un notevolissimo batterista di stampo jazz) fonda gli Spirit, che secondo molti sono stati il più grande gruppo progressive (e psichedelico, acid-rock perfino) di quegli anni e forse di sempre, i più bravi, i più eclettici, con quella capacità di fondere l’improvvisazione del jazz con il vigore del rock. Ma saltiamo la storia degli Spirit pari pari e arriviamo all’inizio del 1972, il suo ex gruppo, senza California, ha pubblicato Feedback, che era non un grande disco per usare un eufemismo, e il nostro amico entra in studio per registrare quello che sarà il suo primo album da solista (e unico perché poi si riapproprierà del marchio Spirit). Lo spirito di Hendrix aleggia sulle operazioni anche per il bassista, tale Clit McTorius (spiritosi!) altri non era che Noel Redding che si era portato al seguito il batterista Henry Manchovitz al secolo Leslie Sampson.

Il trio registra tre brani, l’iniziale, poderosa e portentosa, hendrixiana fino al midollo ma nel miglior senso del termine, Downer, una esplosione di chitarre impazzite, voce filtrata e ritmiche spezzate che ancora oggi suona “moderna” come quasi tutta l’opera del mancino di Seattle. La somiglianza con i brani di Hendrix è impressionante, potreste presentarlo in un blind test a qualche vostro amico e spacciarlo per un inedito senza problemi di sorta, e pure di quelli belli watch?v=b0TcAs65YbYLe chitarre impazzano da un canale all’altro dello stereo, Randy California filtra la sua voce sotto tre tonnellate di eco (negli Spirit il cantante principale era Jay Ferguson) e inizia la seconda fase della sua carriera, quella della divulgazione del Credo hendrixiano che avrà il suo compimento negli Spirit riuniti che spesso riprenderanno brani di Jimi Hendrix o di Dylan, ma con spirito hendrixiano, negli anni a venire, con risultati spesso eclatanti (qualcuno ha detto Spirit of ’76?).

Devil, il secondo brano del disco, con le sue atmosfere pigre e sognanti, già indica la strada futura e qui agisce la seconda formazione che si alterna negli otto brani originali del vinile dell’epoca: Cass Strange che è lo pseudonimo scelto da Ed Cassidy e i bassisti Tim McGovern e Larry “Fuzzy” Knight, inutile dire che la qualità della musica è sempre sopraffina. I don’t Want Nobody è la prima cover, un brano di James Brown, che viene sottoposto alla cura California e pur mantenendo dei tratti “neri” nei coretti di mamma e sorella Wolfe e nel basso superfunky, a tutti gli effetti è un’altra “meraviglia” rock con vorticose chitarre ovunque. Day Tripper è la prima delle due cover dei Beatles, con il celeberrimo riff sparato a volumi incredibili mentre anche Mother and Child Reunion di Paul Simon subisce lo stesso trattamento heavy-psichedelico a metà strada tra vecchi e nuovi Spirit risultando comunque sempre godibilissima e feroce al tempo stesso. La formazione con Redding torna per le sperimentazioni ancora in salsa simil-funky futurista di Thing Yet To Come e per la seconda cover dei Beatles, quella Rain che alla sua prima apparizione (e ancora oggi) fu uno dei primi brani psichedelici e acidi della storia del rock, inutile dire che questa versione accentua gli aspetti più sperimentali del brano, li dilata, ma secondo me non li supera, pur restando una ottima versione, la conclusiva Rainbow è un altro breve sketch tipicamente californiano (nel senso di Randy) mentre le tre bonus di questa riedizione della Esoteric (che è uguale a quella fatta dalla Sony) sono i due lati del 45 giri promozionale dell’epoca: una divertente e trascinante Walkin’ The Dog e l’ennesima omaggio all’arte di Hendrix con la deliziosa Live For The Day che illustra il suo lato più black. Conclude le operazioni lo strumentale inedito Rebel registrato nel corso delle stesse sessions.

Randy California muore per annegamento nel tentativo riuscito di salvare l’allora dodicenne figlioletto Quinn, al largo delle Hawaii il 2 gennaio 1997.

Bruno Conti

Vecchie Glorie 5. The Nighthawks – Last Train To Bluesville

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Ogni tanto ritorno a questa rubrica, oggi parliamo di Blues!

The Nighthawks Last Train To Bluesville – Rip Bang Records

Ormai anche i Nighthawks hanno superato la boa dei 35 anni di carriera visto che sono in attività dal lontano 1972 (anche se in effetti il primo album, il leggendario Rock’n’Roll risale al 1974) e quindi anche loro per rinverdire vecchi fasti, cercare nuovi stimoli approdano al disco Unplugged, si “accontentano” di farlo per un canale satellitare radiofonico BB King’s Bluesvile Channel irradiato da Sirius Xm che se non appare clamoroso e “glamorous” è sicuramente sincero e ruspante.

Il risultato non ha fermato la loro lenta decadenza (anche se dispiace dirlo) e dopo questo CD anche un altro dei membri fondatori della band ha lasciato l’ovile, parliamo del batterista e secondo vocalist Pete Ragusa che segue il bassista Jan Zukowski e il chitarrista originale Jimmy Thackery, il più bravo e decisivo del gruppo che ormai manca dal 1986 ma continua da allora una carriera solista che nel suo caso non ha mai segnato passi falsi anzi ogni disco è una piacevole sorpresa rimanendo a livelli qualitativi elevatissimi, ma questa come si usa dire è un’altra storia. Ma quando vogliono “tirano ancora”! Guarda qua.

Casualmente (o forse no?) a sostituire Ragusa è arrivato Mark Stutso che è stato per 18 anni il batterista di Jimmy Thackery & The Drivers, corsi e ricorsi storici.
I tempi gloriosi di Open All Night e Jacks and Kings tanto per citare due dei dischi fondamentali e must have della loro discografia sono da tempo alle spalle ma questo disco acustico anzi unplugged ha ancora delle frecce al suo arco anche se mi sembra inferiore al precedente American Landscape vincitore del Wammie Award per il miglior gruppo blues dell’area di Washington e che brillava soprattutto per alcune cover veramente notevoli, un paio di Dylan She Belongs To Me e Most Likely You Go.. e una pimpante Down in The Hole di Tom Waits.
Il repertorio di questo ultimo Last Train To Bluesville, come da titolo, è molto più orientato verso la ripresa di classici e quindi scorrono ben tre brani dal repertorio di Muddy Waters aka McKinley Morganfield, un Little Walter, un Chuck Berry, un Sonny Boy Williamson, un Bo Diddley e la ripresa in chiave più bluesy di I’ll Go Crazy di James Brown.
Completano l’opera la divertente hit dell’era pre- R&R scritta da Leiber & Stoller e resa famosa da Big Joe Turner The Chicken and The Hawk e una versione di Rainin’ In My Heart non quella di Buddy Holly ma il brano di Slim Harpo (James Moore).

Alcuni brani come la cover di Nineteen Years Old cantata da Mark Wenner, il cantante e armonicista che rimane l’unico membro originale della band, hanno echi del vecchio fuoco che ha sempre animato i Nighthawks e anche in questa dimensione acustica rendono un’idea della loro classe, la slide acustica di Paul Bell e l’armonica di Wenner duettano con grande vigore e Mark canta con trasporto ma in altri brani come nella cover della già citata I’ll Go Crazy cantata da Ragusa i risultati sono alquanto loffi (dal dizionario italiano: floscio, moscio, insulso).
Il disco è tutto in bilico, altalenante tra questi due aspetti, ad esempio You Don’t Love Me che è stata scritta da Bo Diddley ma tutti ricordiamo nella riscrittura di Willie Cobbs e nella versione fenomenale degli Allman Brothers (e che è stata cantata anche da Rhianna, ebbene sì!), dicevo che questo brano è bello vivo e pimpante mentre Rainin’ in my heart la trovo al limite del soporifero.
Comunque nel suo insieme il disco si guadagna una stiracchiata sufficienza, c’è di meglio in giro ma anche molto e sottolineo molto di peggio.

Bruno Conti

Troppa Grazia! Jeff Beck – Live And Exclusive From The Grammy Museum

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Jeff Beck Live And Exclusive From The Grammy Museum – Deuce Music/Atco

Jeff Beck è un arzillo signore che porta molto bene i suoi 66 anni (al di là dell’improponibile colore corvino dei suoi capelli) e in questo ultimo periodo ha ripreso a fare musica con gusto e vigore. Diciamo che questa rinascita musicale (e di qualità) più o meno coincide con le apparizioni al Crossroads Guitar Festival di Clapton, prima nel 2004 e poi con la sua nuova scoperta, la giovanissima Tal Wilkenfeld nel 2007. Il suo disco del 2003 Jeff, diciamolo francamente e usando un’espressione gergale faceva abbastanza “cagare”. OK, sarà stato pure candidato al Grammy ma quella svolta elettronico/chitarristica era penosa, poi dal 2004 una sorta di rinascita graduale, con qualche ricaduta, tipo la partecipazione in un episodio di American Idol nel 2007 accompagnando Kelly Clarkson non entrerà nella storia del rock (anche se era un brano di Patty Griffin Up On the Mountain). Poi la partecipazione al Crossroads del 2007 che segnava la partenza di un tour culminato in una serie di concerti che hanno visto la pubblicazione del CD Live At Ronnie Scott’s (con la partecipazione di Eric Clapton, Joss Stone e Imogen Heap) poi ampliato in un DVD molto più lungo che ha vinto il Grammy come miglior DVD musicale l’anno successivo ed è stato certificato disco di Platino per le vendite. E’ stato anche “eletto” nella Rock And Roll Hall Of Fame nel 2009 con la presentazione dell’amico/nemico Jimmy Page.

Ai Grammy del 2010 ha suonato How High The Moon in onore di Les Paul con Imelda May al canto. Nel mese di aprile è uscito il nuovo album Emotion & Commotion, il suo migliore da lunga pezza, di cui vi ho parlato diffusamente. Ora esce questo album dal vivo che non ha una reperibilità fantastica, almeno in Europa e ancora una volta conferma il suo stato di grazia e ci ritorniamo fra un attimo. Ma non è finita, per la serie “troppa grazia” alla fine di febbraio uscirà un altro CD dal vivo (e DVD o BluRay, molto meglio, visto la maggiore durata) intitolato Rock’n’Roll Party (Honoring Les Paul) accompagnato da Imelda May con la sua band e ospiti come Brian Setzer, Gary Us Bonds e Trombone Shorty, ma questa è un’altra storia!

Torniamo a questo CD, che ha un unico difetto, la brevità, solo 32 minuti. Per il resto è un ottimo concerto solo strumentale con l’eccezione appunto di How High The Moon. Nel quartetto che accompagna Beck non c’è più la Wilkenfeld al basso, purtroppo, sostituita dalla pur brava Rhonda Smith ma c’è un esplosivo Narada Michael Walden alla batteria e il solito Jason Rebello alle tastiere. Il nostro amico conferma di essere uno dei più grandi chitarristi della storia del rock (e dintorni), la famosa triade Clapton, Beck & Page è sempre stata ai gradini del piedestallo dove stava Jimi Hendrix anche se la rivista Rolling Stone lo ha piazzato solo al 14° posto ( ma in altre è nei Top 3)!

Sono otto brani, metà tratti dall’ultimo Emotion & Commotion: la versione di Corpus Christi Carol adattata da Benjamin Britten (non la versione vocale ripresa da Jeff Buckley), l’esplosiva Hammerhead, una bella versione di Over The Rainbow che più la sento più mi piace, Nessun Dorma che sarà “tamarra” a livello di idea e concetto ma suonata da Jeff Beck ha un suo fascino particolare. Non manca la sua versione personale e fantastica di A Day In The Life, per chi scrive la più bella canzone in assoluto dei Beatles e che in questa versione strumentale oltre a vincere premi ovunque si segnala per un gusto ed una tecnica sopraffini. Completano la scaletta lo slow Blues Brush With The Blues l’unico brano decente dell’album Who Else e la cover di People Get Ready senza la partecipazione del vecchio pard Rod Stewart.

Registrato dal vivo al Grammy Museum di Los Angeles il 22 aprile del 2010, questo è il Jeff Beck che ci piace, efficace, conciso ed ispirato!

Bruno Conti

Mojo Presents Harvest Revisited

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Mojo Present Neil Young Harvest Revisited

Di solito non recensisco, sia pure in breve, i CD allegati alle riviste (e Mojo e Uncut ne hanno fatti alcuni veramente belli nel passato) ma questa volta faccio un’eccezione!

Attenzione! Non si tratta di una compilation come New Harvest che era allegata a Mojo di Agosto 2009 ma proprio dell’intero album, brano per brano, rivisitato da dieci eccellenti artisti che rifanno nell’esatta sequenza il celebre disco di Neil Young Harvest, uscito nel 1972 ma, e qui forse è il punto debole dell’operazione, iniziato a concepire nel gennaio del 1971. E’ proprio vero che se le inventano tutte per “creare” un anniversario anche quando non esiste. Però devo dire che poi l’esecuzione è stata stupenda.

Innanzitutto cè un bello speciale di 25 pagine dove illustri colleghi di Young scelgono e commentano le 50 più belle canzoni del canadese. C’è anche una bella intervista e una serie di articoli che tracciano la genesi e la storia di questo grande album e chicca finale questo CD che contiene i 10 brani originali. Com’è? Vale la pena di sborsare i 9.50 euro che ti chiedono in Italia per rivista + CD. Assolutamente.

Si parte con una eccellente versione di Out On The Weekend cantata dalla rivelazione canadese Doug Paisley autore di Constant Companion uno dei dischi più belli di questo 2010 appena finito. Kelley Stoltz rivede la title-track di Harvest in modo minimale e rarefatto, una piccola perla acustica. La cover di A Man Needs A Maid (come sapete in questo disco non c’è un brano brutto, se non l’avete già è anche l’occasione per acquistarlo, sperando che l’anno prossimo non ne esca qualche versione Deluxe), con la voce di Danny Wilson il leader di Danny and The Champions Of The World che molto ricorda quella di Young, è molto bella, un piano, un banjo, delle tastiere sparse e la bellezza del brano emerge in tutto il suo splendore.

Jane Weaver è l’unica donna presente. La versione che la cantante di Liverpool fa del superclassico Heart Of Gold ovviamente non può competere con l’originale ma cionondimeno risulta affascinante nella sua sognante qualità, con delle sonorità sospese sulla vocalità della Weaver sostenuta da una seconda voce femminile (o è sempre lei con l’aiuto del multitracking?). Matthew Houck (Phosphorescent) presenta una cover di Are You Ready For The Country che cerca di ricreare il dualismo elettrico/acustico di questo brano e direi che ci riesce anche lui (un altro dei talenti emergenti nel 2010).

I Villagers (ovvero Conor O’Brien) un’altra delle sorprese più positive dell’anno trascorso sono alle prese con quello che Neil Young considera il brano più importante e duraturo del disco (lo dice nell’intervista). Il nostro amico ci mette molto di suo, pur mantenendo la melodia originale della canzone, e il risultato è affascinante, molto vicino alle sonorità ricercate e complesse di quel bellissimo disco che si chiama Becoming A Jackal anche-lui-di-nome-fa-conor-the-villagers-becoming-a-jackal.html.

Di Neville Skelly, un altro musicista di Liverpool di cui ignoravo l’esistenza e che nato come appassionato di big band swing si è trasformato in un epigono di Scott Walker, Tim Hardin, Dion o quantomeno ha cercato ispirazione in questi territori sonori. E a giudicare dal risultato ottenuto in questa versione di There’s A World direi che l’ha trovata! In effetti prima ho mentito, o meglio ho detto una mezza verità, anche le Smoke Fairies sono un duo “femminile” e la loro ripresa a più voci della bellissima Alabama non fa rimpiangere le armonie vocali di CSN&Y. Una delle sorprese piacevoli di questo CD. Avevo sentito il loro album Through Low Light And Trees e mi era piaciuto (anzi ve lo consiglio) ma in questa versione del brano di Young mi hanno, ripeto, sorpreso piacevolmente. The Needle and The Damage Done è un brano quintessenzialmente younghiano ed è difficile riproporla; Sam Amidon ci prova, armato solo della sua chitarra acustica, e in parte riesce nella difficile impresa anche se non raggiunge i vertici toccati nel suo disco I See The Sign.

Last but non least Chip Taylor, il veterano di Nashville realizza il capolavoro di questo album, una versione straordinaria di Words (Between The lines Of Age) sospesa tra la voce vissuta ed espressiva di questo grandissimo musicista e un arrangiamento chitarristico che rivaleggia con quelli di Young, forse superando addirittura l’originale, memorabile!

Bruno Conti

Una Delle Mie Preferite (E Più Brave) Di Sempre! Joan Armatrading – Live At The Royal Albert Hall

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Joan Armatrading – Live At The Royal Albert Hall – Hypertension 2CD+DVD

Visto che incredibilmente non ne parla nessuno torno a una delle mie cantanti preferite degli anni settanta e ottanta, ma anche di sempre. Una delle più brave in assoluto, negli anni ’70 in particolare i suoi dischi hanno quasi sfiorato la perfezione, una serie di dischi di qualità strepitosa, da Back To The Night all’omonimo Joan Armatrading (forse il più bello in assoluto) passando per Show Some Emotion, To The Limit, l’EP How Cruel e il live Steppin’ Out del 1979, raramente si era assistito ad una sequenza di album di quella consistenza. Anche il primissimo Whatever’s For Us in collaborazione con Pam Nestor già mostrava in embrione i segni di questo talento assoluto.

Nata a St.Kitts nel dicembre 1950 (quindi anche lei ha già varcato la fatidica soglia dei 60 anni, non l’avrei detto) ma residente in Inghilterra dal 1958 la prima cosa che colpisce di questa incredibile cantautrice è la sua voce: potente, duttile, in grado di passare da tonalità basse ad un falsetto intrigante nello spazio di un attimo, è stata paragonata a Nina Simone per il modo di cantare e devo dire che non siamo lontani. Lo stile  musicale partendo da un folk di base, spazia per il rock, la canzone d’autore, il jazz e mille altre influenze con un risultato unico e di qualità assoluta. L’altro particolare sorprendente è quello che questa musica e i suoi dischi, soprattutto in Inghilterra ma anche in America hanno sempre venduto moltissimo entrando spesso nei Top 10 delle classifiche. E molte sue canzoni sono anche orecchiabili e piacevoli quasi un’eresia per molti colleghi cantautori, uomini e donne.

Anche gli anni ’80, che hanno segnato una svolta più rock e commerciale (ma sempre a livelli sublimi) con dischi come Me Myself I, Walk Under Ladders, The Key sono iniziati molto bene, poi progressivamente, sia il successo che la qualità hanno iniziato a scemare (anche se rimanendo a livelli superiori del 99% rispetto a quello che c’era in circolazione allora e oggi!). Io sono rimasto un fedelissimo e la critica ( di cui immodestamente faccio parte visto che spesso l’ho recensita sul Buscadero) l’ha sempre portata in palmo di mano però, obiettivamente la produzione ha iniziato a scarseggiare e ad essere meno interessante. Canzoni belle ce ne sono sempre state ma meno che ai tempi d’oro, anche se la voce non ha perso un briciolo del suo fascino con il passare degli anni.

Poi, improvvisamente, a metà degli anni 2000, forte di un nuovo contratto con la Hypertension Joan Armatrading ha spostato i suoi orizzonti musicali verso il Blues. E l’ha fatto a ragion veduta, ha studiato molto la chitarra (e altri strumenti) tanto da diventare una ottima solista anche all’elettrica e ha rivisto il blues ma sempre nella sua ottica di cantautrice quindi con materiale originale scritto per l’occasione e sonorità che inglobano anche tutte le esperienze passate. Con il disco Into The Blues del 2007 ha raggiunto due invidiabili obiettivi, è stata la prima artista inglese femminile ad andare direttamente al n° 1 delle classifiche Blues di Billboard ed al contempo è stata nominata per un Grammy nella stessa categoria. Stesso risultato per il successivo This Charming Life, uscito a marzo dello scorso anno e che, francamente, di blues ne aveva molto meno, segnando invece un ritorno al sound delle origini.

A fronte di tutto ciò nell’aprile del 2010 la nostra amica si è presentata sul palco di una Royal Albert Hall che segnava il tutto esaurito (in Inghilterra è sempre popolarissima, una sua antologia a metà anni duemila è entrata ancora nei top 30) e ha sciorinato il meglio del suo repertorio in un concerto veramente bellissimo che è stato immortalato per i posteri in questo doppio CD con DVD incorporato.

Intanto sembra che abbia fatto un patto con il diavolo (o con il suo parrucchiere) visto che i capelli sono ancora nerissimi anche se in una nuova pettinattura con frangetta improponibile, che sostituisce l’afro degli anni classici. Però vocalmente e musicalmente è ancora impeccabile, è diventatata una chitarrista bravissima e aiutata dal fatto che indossa quei nuovi microfoni con l’antennina è libera di dare sfogo alle sue velleità di solista. I tre musicisti che suonano con lei sono pure molto bravi, a partire dal più noto, il prodigioso bassista fretless e contrabbassista John Giblin che ha suonato con tutti, dai Brand X ai Simple Minds, passando per John Lennon, Paul McCartney, Kate Bush e Baglioni e Ramazzotti, pure Battisti in Una Giornata Uggiosa! Il tastierista e il batterista (che cava dal cilindro anche un notevole assolo di sax in uno dei momenti salienti dal concerto durante una versione sgarciante della bellissima Love And Affection) non sono da meno.

Visto che siamo entrati nel vivo del concerto, lo stesso dura quasi due ore, 22 canzoni che ripercorrono il meglio della sua carriera rese in versioni che si avvicinano per potenza e intensità, anche dopo tutti questi anni, agli originali: e quindi scorrono classici come l’iniziale Show Some Emotion che oscilla tra tenerezza ed improvvise esplosioni jazz in un continuo cambio di tempi musicali, l’elegiaca All The Way From America, la lunga ed improvvisata (e geniale nelle sue soluzioni musicali) Tall In The Saddle, le recenti Into The Blues e This Charming Life che hanno già lo status di nuovi classici. Sto citando alla rinfusa senza seguire la scaletta del concerto: sempre molto belle la dolcissima The Weakness In Me e le trascinanti Best Dress On, Call Me Names e Drop The Pilot, veramente inarrestabile. Ma non si possono dimenticare la meravigliosa Willow cantata anche in coro da un pubblico entusiasta, la raffinata Me Myself I (ne ha scritte proprie tantissime di belle canzoni).

Nel concerto si ascolta veramente il meglio della sua produzione in un continuo susseguirsi di assoli di piano, organo e synth oltre alle chitarre della Armatrading alle prese con una tecnologica pedaliera che le permette di variare a piacimento volumi e tonalità del suo strumento con grande gusto e tecnica. E poi c’è “La Voce” che rimane uno strumento formidabile capace di infinite nuances di coloritura, sempre sicura e precisa, veramente unica nel panorama mondiale.

Non posso che consigliarlo a tutti, fans e novizi, veramente una bella sorpresa di fine anno o inizio 2011. Perché l’unica cosa negativa è la non facile reperibilità e il prezzo non bassissimo (anche se in rete si trova a prezzi interessanti).

Che dire, una vera meraviglia e scusate l’entusiasmo, ma per me l’Armatrading è stata, con Sandy Denny e dopo Joni Mitchell, la migliore cantautrice degli anni ’70. Confermo e accendo!

Non avendo trovato video recenti live di buona qualità in YouTube e avendo visto il DVD che ha una qualità eccellente i due filmati inseriti sono i bonus del DVD stesso, uno live in Denver e l’altro un video clip watch?v=fi8VBXA9Vzo. Ma il concerto è tutta un’altra cosa, da avere!

Bruno Conti

Il Notaio Conferma. Grande Disco! Gregg Allman – Low Country Blues

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Gregg Allman – Low Country Blues – Rounder/Universal 18-01-2011 USA – 25-01-2011 ITA

E come avrebbe potuto essere diversamente? Comunque, come sempre, ho applicato il sistema San Tommaso, provare per credere! Dopo un prolungato e approfondito ascolto del disco non posso che confermare le sensazioni (e recensioni) positive che hanno accompagnato questo nuovo album di Gregg Allman. Il settimo da solista dopo quasi 13 anni dal precedente e il primo disco di studio dalla morte dell’amato produttore Tom Dowd.

Greg Allman è stato quasi forzato a questo disco, spinto dall’incontro avvenuto con T-Bone Burnett, nuovo Re Mida della musica di qualità che raramente sbaglia un colpo. Anche in questo caso ha radunato un manipolo di validi musicisti ai Village Recorder Studios di Los Angeles nel gennaio 2010, oltre ai soliti Dennis Crouch e Jay Bellerose che costituiscono una sezione ritmica collaudatissima, c’è Doyle Bramhall II alle chitarre elettriche e slide, lo stesso T-Bone Burnett alla chitarra, una aggiunta di gran pregio nella figura carismatica di Dr.John, grande pianista e amico di Gregg, che in un divertente aneddoto racconta essere la prima volta che si rivedevano dai tempi in cui erano completamente strafatti, “con il naso al pavimento” dice letteralmente (anche se questo non ha impedito ad entrambi di fare dell’ottima musica). C’è anche una ottima sezione fiati guidata dal trombettista Darrell Leonard che ai tempi di Delaney & Bonnie aveva lavorato con il fratello Duane.

Il risultato, come avrete letto in varie riviste, è ottimo e potrete verificarlo tra qualche giorno anche se per i soliti misteri del mercato internazionale in Italia uscirà una settimana dopo rispetto agli Stati Uniti.

E’ il primo disco per la nuova etichetta Rounder e consta di dodici brani, intrisi di blues e interpretati alla grande da Gregg Allman che ultimamente ha recuperato una invidiabile forma dopo il trapianto al fegato dello scorso giugno (la foto allegata è di gennaio di quest’anno). Il disco però era stato inciso prima dell’intervento ma non si direbbe dalla voce del nostro amico che appare calda ed espressiva come nei giorni migliori dei primi Allman Brothers o dell’album Midnight Rider. Il Blues, rivisto attraverso un’ottica sudista come musicista con il fratello Duane, ma anche come semplici appassionati in veste di ascoltatori è sempre stato la colonna sonora della vita degli Allman e in questo disco, con l’aiuto di T-Bone Burnett che da una montagna di 10.000 brani Blues più o meno oscuri ne ha ricavati una ventina da proporre per il disco e questi dodici (ma pare ne siano stati registrati 15) sono il risultato finale.

Il suono è quello classico di Burnett che dice di essersi rifatto anche alle sonorità pulite ed efficaci delle produzioni di Tom Dowd, uno dei più grandi in questo lavoro, ma mi sembra di rilevare anche un certo tipo di suono che si rifà ai vecchi dischi Chess o addirittura in un ambito più “bianco” alle prime produzioni della Blue Horizon di Mike Vernon, quando il suono si elettrificava ma rimaneva rispettoso del grande Blues di Chicago.

Questo è vero a maggior ragione soprattutto nei primi quattro brani: dall’iniziale Floating Bridge proveniente dal repertorio di Sleepy John Estes, una sorta di hard country-blues con il piano di Dr.John e la slide di Bramhall a punteggiare il cantato molto cadenzato di Gregg Allman, la sezione ritmica tiene un bel beat e la canzone è molto bella. In Little by little entra il classico suono dell’organo Hammond e la voce di Allman ci riporta agli esordi della sua carriera, il brano è di Junior Wells ma il piano di Dr.John lo tramuta verso lidi più pianistici e la chitarra di Bramhall è pungente ma non pervasiva (come è nel suo stile). Devil Got My Woman è uno dei classici del blues, un brano di Skip James, dalle sonorità arcane estrinsecate in una lunga introduzione solo voce e chitarra acustica a cui si aggiungono gli altri musicisti per una canzone che profuma di blues d’altri tempi, Greg Allman è sempre molto ispirato alla voce che viene usata con rinnovato vigore. I Can’t Be Satisfied suona come nei vecchi dischi di Muddy Waters, di cui era un cavallo di battaglia, rivista in un’ottica molto rispettosa senza troppi fronzoli ma suonata come Dio comanda da quegli ottimi musicisti e anche se la voce non è quella di Waters è altrettanto significativa e riconoscibile, non puoi sfuggire è lui, “quello degli Allman Brothers”!

Finita la prima parte a questo punto entrano i fiati e Blind man è un brano strepitoso, scritta da Little Milton ma resa celebre da Bobby Blue Band, rivive nella interpretazione di un Allman pimpantissimo a livello vocale, grande brano che ripropone il blues fiatistico dei primi anni ’60 in modo strepitoso. L’unico brano inedito di questo disco, scritto con la collaborazione di Warren Haynes, Just Another Rider è una perla di southern rock classico che ci riporta ai fasti dei tempi d’oro (e magari futuri visto che T-Bone Burnett è stato cooptato per produrre il prossimo disco di studio degli Allman Brothers e se il buongiorno si vede dal mattino…). Bello anche l’assolo, presumo di Doyle Bramhall, che non ha l’intensità di quelli di Haynes e Trucks ma notevole gusto.

Please Accept My Love è un brano di B.B King ma in questa versione sembra venire da un vecchio disco di Fats Domino, puro New Orleans anche per la presenza di Dr.John, ma chi ne esce alla grande è ancora Gregg Allman che canta con una verve incredibile, con fiati, chitarre e tastiere che gli danzano intorno in maniera deliziosa mentre la sezione ritmica swinga alla grande. I’ll Believe I’ll Go Back Home faceva parte del repertorio di John Lee Hooker ma viene rivisitata in una versione pià accelerata, quasi country-blues, diversa dallo stile ieratico di Hooker ma altrettanto efficace. Tears Tears Tears di nuovo con l’Hammond e il piano, e i fiati, in evidenza è un classico slow blues jazzato dal repertorio di una delle altre grandi icone del suono di New Orleans, Amos Milburn che prediligeva solitamente tempi più intrisi di boogie and roll ma sapeva anche dosare le emozioni su tempi più rilassati, il buon Gregg canta sempre alla grande.

My Love is your love è un brano non conosciutissimo del repertorio di Ivory Joe Hunter, sempre le 12 classiche battute del Blues rinforzate da un coro di voci femminili che di tanto in tanto sottolinea la voce di Allman. Il risultato finale mi ricorda anche i prima citati musicisti del British Blues revival, Fleetwood Mac, Chicken Shack, Savoy Brown ma anche il primo Mayall. Così, una impressione personale!

Checking On My Baby di Otis Rush è puro, non adulterato, classico, Chicago Blues diretto ed immediato e in una versione che rende giustizia all’originale, Rush è insuperabile alla chitarra (anche se Bramhall fa del suo meglio) ma la parte vocale di Gregg Allman è di caratura superiore.

Come nella conclusiva Rolling Stone uno dei brani tradizionali che hanno fatto la storia del Blues (e della musica, dando il nome a un gruppo, una rivista e uno dei brani più belli di Dylan): questa versione ha un arrangiamento strepitoso, una sorta di lento avanzare ritmico, un qualcosa che si avvicina ma non ti raggiunge mai, incalzante, minaccioso (il diavolo, un amante tradito, chi può dirlo), scandito dal piano di Dr.John, dalla slide acustica di Doyle Bramhall II, dalla sezione ritmica quasi primitiva e dalla voce ispirata di Gregg Allman. Veramente un gran finale per un disco che riporta agli antichi fasti uno dei musicisti e delle voci più importanti della scena musicale americana. Duane Allman è stato sempre giudicato il più bravo ma in questo disco Gregg si ripropone ai suoi migliori livelli qualitativi. Non solo Blues ma Musica con la lettera maiuscola per un inizio scoppiettante del 2011!

Bruno Conti