“One Man Band” – Tim “Too Slim” Langford – Broken Halo

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Tim “Too Slim” Langford – Broken Halo – Underworld Records

Non sono mai stato un grande fan dei dischi “acustici” fatti dai gruppi rock (se hanno sempre suonato boogie, blues o comunque musica elettrica una ragione ci sarà!) o delle prove in solitaria dei leaders dei suddetti gruppi, ma devo ammettere che questo disco di Tim Langford, più noto per essere la carismatica voce solista e chitarrista dei Too Slim & The Taildraggers (too%20slim%20and%20the%20taildraggers), un suo certo fascino ce l’ha.

E’ già la seconda volta che il nostro amico si cimenta in questo formato, lo aveva già fatto nel 1999 con un disco intitolato Pint Store Blues e ora si ripete con questo Broken Halo, anche se onestamente, ripeto, lo preferisco quando si cimenta con il boogie-southern-blues-rock del suo gruppo, questo disco non è affatto malvagio: registrato solo con l’ausilio di chitarra acustica, slide, dobro e ukulele (quest’ultimo uno strumento che negli ultimi anni sta vivendo una nuova giovinezza), si passa dal blues acustico di un brano come You Hide It Well che potrebbe provenire dalle Plantation sessions pre-elettriche del grande Muddy attraverso brani strumentali come l’iniziale La Llorona, con un dobro o una slide, che è parente non alla lontana del Cooder autore di musica da film o ancora Princeville Serenade un delizioso duetto tra dobro e ukulele che ha un fascino senza tempo. Three Chords come dice il titolo è un semplice e delicato country-blues quasi sussurrato da Langford che con i pochi strumenti di cui si è circondato per questo disco costruisce un brano molto accattivante, per poi ripetersi, nella più grintosa Shaking A Cup, che pur nei limiti imposti dal suono spartano si avvale anche di un’armonica e di alcune piccole percussioni.

Forty Watt Blues utilizza addirittura una drum machine che non risulta fastidiosa com’è spesso caratteristica di questi marchingegni e anche il linguaggio volutamente crudo del testo lo avvicina agli stilemi classici del genere. In Broken Halo, oltre alla batteria elettronica si sente anche un basso elettrico che accentua questo effetto da one man band, ma devo ripetere che a questo punto l’avrei preferito con un gruppo vero? Non devo! Il trucchetto viene ripetuto per North Dakota Blues con risultati più soddisfacenti per chi scrive e presumo anche per chi ascolta, visto che Tim Langford è comunque un chitarrista più che adeguato anche quando suona una chitarra acustica e soffia nella sua armonica. Per Dollar Girl, il terzo e ultimo brano ad avvalersi dei ritmi programmati, Langford ne scova uno più movimentato che regala una maggiore vivacità alle procedure sonore. Long Tail Black Cat ci riporta al suono acustico con un walkin’ blues arcano ben eseguito sulla slide risonante del buon Tim, mentre la conclusiva Gracie è una delicata e sentita ballata che racconta la scomparsa della nonna e gli effetti degli eventi sul nonno e sulla famiglia vista con gli occhi disincantati di un bambino, e risulta uno dei brani più belli dell’album. Come ci si potrebbe aspettare da uno che suona Reverend Guitars il disco è forse troppo “canonico” ma piacevole, se preso a piccole dosi.

Bruno Conti

La Vita In Un Film – The Walkabouts

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The Walkabouts – Life: The Movie – Glitterhouse 2012 – DVD

L’occasione (finalmente) di parlare dei Walkabouts, viene data dall’uscita del primo DVD ufficiale del gruppo con oltre 3 ore di materiale esclusivo, contenente un concerto a Praga della durata di 70 minuti, un documentario “on-the-road” di 40 minuti, 9 videoclip ufficiali, e interviste con i cinque componenti della Band. Alcune notizie per i “neofiti”: i Walkabouts provengono da Seattle (la città più piovosa dell’America), sono uno dei gruppi tra i più longevi della scena alternativa americana degli anni ’80, con una carriera quasi trentennale alle spalle, certificata da una ventina di dischi e numerosi tour in giro per il mondo. Autori di un folk-rock dalle tinte “dark”, caratterizzato dall’alternanza vocale fra Chris Eckman e Carla Torgeson, i Walkabouts, fin dalle prime incisioni, sono una notevole eccezione nel panorama musicale di Seattle. L’affiliazione alla Sub Pop, etichetta principe del fenomeno “grunge”, porta alla pubblicazione di Cataract (89), Rag & Bone (90), Scavanger (91), e di alcuni EP ricchi di inediti; con New West Motel (92) arriva la svolta, con un suono più organico che in passato, basato sull’alternanza tra elettrico e acustico, il tutto inserito in un contesto lirico e musicale che richiama le atmosfere “noir”. Con il bellissimo Satisfied Mind (93) disco di “cover” cui partecipano ospiti di rilievo come Peter Buck (R.E.M.) e Mark Lanegan (Screaming Trees), il gruppo mostra il proprio lato più acustico e folk, mentre l’energico Setting The Woods On Fire (94) chiude il cerchio del primo periodo.

Nel frattempo Eckman e Torgeson (ai tempi coniugi) si esibiscono anche come duo sotto il nome di Chris & Carla, incidendo album come il live Shelter For An Evening (93), Life Full Of Holes (95), un altro live Nights Between Stations (95) e Swinger 500 (98). In seguito la Band passa alla Virgin tedesca che dà alle stampe Devil’s Road (96) e il successivo Nighttown (97) che allarga gli orizzonti musicali verso scenari notturni e metropolitani. Altro importante cambio di etichetta con la Glitterhouse, con il loro disco più ambientale Trails Of Stars (99), cui segue qualche mese più tardi il secondo disco interamente composto da “cover” Train Leaves At Eight (2000), dove il gruppo rende omaggio ad autori europei, rileggendo con misura brani di Jacques Brel, Goran Bregovic e il “nostro” Fabrizio De Andrè (Disamistade). Anche Ended Up A Stranger (2001) arricchito dalla presenza di membri dei Willard Grant Conspiracy non delude le aspettative dei fans, mentre dopo varie antologie Drunken Soundtracks e Watermarks (2002), Shimmers (2003), compaiono gli episodi solisti di Chris Eckman The Black Field (2004) e Carla Torgeson Saint Stranger (2004).

Con Slow Days With Nina (2003) un tributo a Nina Simone, inizia il periodo più recente, cui fanno seguito Acetylene (2005), il live Prague (2007), lo splendido Travels In Dustland (2011), senza dimenticare il progetto di Chris con i sorprendenti Dirtmusic BKO (2010).

La “line-up” del gruppo in questo concerto tenuto nel 2005 all’Akropolis di Praga, oltre ai due indiscussi leader, vede al basso Michael Wells, Terri Moeller alla batteria, e lo storico Glenn Slater alle tastiere, per una scaletta composta da questi brani:

1  – Fuck Your Fear

2  – Coming Up For Air

3  – Devil in the Details

4  – Jack Candy

5  – Whisper

6  – Acetylene

7  – Northsea Train

8  – Kalashnikov

9  – Grand Theft Auto

10  Good Luck Morning?

11 – Snake Mountain Blues

12 – Have You Ever Seen

13 – Something’s Gone Wrong Again

Nel documentario invece i Walkabouts vengono monitorati in modo intimo durante i trasferimenti fatti durante la tournee di quell’anno, con approfondite interviste ai membri della Band. Chiude il DVD una retrospettiva di tutti i video ufficiali del “combo” americano, su tutti il classico successo The Light Will Stay On.

I Walkabouts possono essere portati a esempio come una formazione che, con il passare degli anni e la continua produzione di dischi, ha maturato di volta in volta una proposta musicale personale. Nei primi anni della loro carriera infatti avevano un suono che oscillava tra folk e new wave, in seguito si sono focalizzati su un loro tipo di folk-rock (a partire da Satisfied Mind sino a Devil’s Road), mentre a partire da Nighttown hanno trasformato il loro suono, legato alla tradizione folk, in un rock oscuro, urbano, con sfumature più notturne. Per gli appassionati di Chris & Carla (Walkabouts) un DVD da avere assolutamente, per tutti gli altri, un modo intelligente per iniziare ad accostarsi a questa originale Band, dalla bravura indiscussa.

Tino Montanari

Da Denton, Texas Un Altro Bravo! Chris Watson Band – Pleasure And Pain

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Chris Watson Band – Pleasure And Pain – Gator Music/IRD

E questo ragazzi è bravo! Niente “pain” solo “Pleasure”, per Chris Watson e la sua band da Denton, Texas. 25 anni circa, questo è il suo secondo disco dopo l’esordio del 2009 con Just For The Show. Se non fosse esistito 30 anni fa e oltre da oggi un certo Stevie Ray Vaughan saremmo a parlare in termini ancora più lusinghieri di questo ennesimo rappresentante del blues texano, cionondimeno non posso che apprezzare la musica che fuoriesce dai “solchi virtuali” di questo album (perché il suono è vintage). Il giovane ha molte frecce al suo arco, non solo ottimo chitarrista, in grado di spaziare in tutti i sottogeneri del Blues, del soul e del funky, ma anche cantante con una voce di quelle “importanti” ed espressive.

Buon autore anche, che non guasta, e pure in grado di scegliere buone cover nel repertorio dei musicisti che ama: soprattutto Sean Costello viene citato e ripreso in alcuni brani che lo rappresentavano in modo deciso. E quindi il gospel tradizionale Going Home viene ripreso in una versione scintillante, aperta da rullate di batteria ripetute che ci spediscono direttamente in un groove funky e coinvolgente, mutuato dalla versione di Costello, ma ricco di brevi interventi chitarristici e cantato con un calore e una partecipazione evidenti anche all’ascoltatore occasionale, non guastano gli interventi di Kristin Major, la voce femminile di supporto. Stesso discorso per l’ancor più funky Hard Luck Woman (firmata direttamente da Costello), ancorata in questo caso da un giro corposo del basso di Chris Gipson e cantata con voce “nera” e robusta da Watson che lavora di fino alla chitarra anche in senso ritmico.

Ma la varietà è uno degli imperativi di questo Pleasure And Pain, se lo volete sentire in un grintoso shuffle Texano alla Stevie Ray, completo di assolo bruciante, lo trovate nell’eccellente Untrue. O anche nei territori tra blues e soul cari al Robert Cray degli esordi in una “choppatissima” title-track cantata e suonata divinamente. Non manca una bellissima deep soul ballad come Heartache, con il corposo contributo di una sezione fiati e della voce della Major. Non c’è un brano scarso tra i dodici che compongono questa proposta indipendente a livello discografico: dall’iniziale Heart On My Sleeve, sempre funky nei ritmi e nella voce e aggressiva negli interventi della solista.

Un altro punto di contatto, in comune con Sean Costello, è l’amore per la musica del grande Bobby Womack, di cui viene ripresa una scintillante Check It Out nella terza ed ultima cover di questo CD. E che dire di Wanted man che in un colpo solo rende omaggio al blues classico e a Jimi Hendrix, con uno slow blues che ci consente di apprezzare la tecnica chitarristica di Chris Watson, prima di concludere con soul uptempo di pura scuola Memphis, ancora con le voci di Watson e della Major che si incrociano gioiosamente sul tappeto sonoro di un organo vintage che fa da apripista ad un assolo delizioso che conclude in gloria questo disco che ci porta la conferma di un nuovo talento da tenere d’occhio. Mi ripeto perché merita, è proprio bravo, gli avrei dato un giudizio ancora più favorevole ma aspettiamolo con fiducia ad altre prove!

Ha anche un suo canale su YouTube, dove carica ottima musica dal vivo ChrisWatsonBand. La ricerca della buona musica continua.

Bruno Conti   

Come Se Gli Anni ’70 Non Fossero Passati Take 2! Nuovamente Blindside Blues Band – Generator

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Blindside Blues Band – Generator – Shrapnel/Blues Bureau

Ne sarebbe uscito anche uno dal vivo, poco tempo fa, un CD+DVD Live At The Crossroads, registrato al Rockpalast del 2010, ma per l’occasione ci concentriamo su questo Generator, che segna il ritorno alla Shrapnel di Mike Varney, a una ventina di anni dall’esordio come Blindside Blues Band, ma Mike Onesko, il cantante, chitarrista e leader del gruppo, era già in pista da una ulteriore ventina di anni, quando diciassettenne esordiva nel 1972 nella sua prima formazione, i Sundog, casualmente un power-rock-blues trio. Cosa è cambiato da allora? Direi poco o nulla: il bassista, Kier Staeheli pompa sempre sul suo strumento, il batterista, Emery Ceo, picchia pure lui sul suo attrezzo e le chitarre (perché nel frattempo si è aggiunto anche Jay Jesse Johnson in pianta stabile), direi che schitarrano!

Come si diceva in relazione alla doppia uscita a cavallo tra 2010 e 2011, Smokehouse Sessions e Rare Tracks come-se-gli-anni-70-non-fossero-mai-passati-blindside-blues.html , per questi signori gli anni ’70 è come se non fossero mai finiti, la forma è sempre quella di un rock-blues heavy, ma molto heavy, che sconfina spesso e volentieri nell’hard rock, picchiato ma sempre di buona qualità, per gli amanti del genere e quindi delle sensazioni forti, sarà musica di grana grossa ma suonata decisamente bene. Il blues più che altro è nella ragione sociale del gruppo, ma volendo da lì, alla lontana si prende spunto per questo violente cavalcate chitarristiche: Mike Onesko, era da mesi che mi scervellavo, mi girava intorno ma non riuscivo ad afferrarlo, ha una voce che mi ricorda un ibrido tra quella di Jim Dewar, il non dimenticato cantante del gruppo di Robin Trower, musicista con cui ha più di un punto in comune musicalmente, uno in particolare, tale Jimi Hendrix e Stan Webb dei Chicken Shack, altra band che negli anni ’70 fondeva blues con un rock ad alta concentrazione chitarristica. Archelogia del rock?

Probabilmente sì, ma con questi dischi che sembrano delle “ristampe” di un genere più che di un titolo, si tratta solo di constatare un fatto assodato. E in fondo non c’è niente di male. Se molti di questi brani, tutti rigorosamente firmati da Mike Onesko, sembrano provenire da vinili d’epoca dei nomi citati ma anche, sparo a caso, Black Sabbath, Deep Purple, Led Zeppelin, Cactus, Beck,Bogert & Appice o in anni recenti, con più classe e con pari energia, i primi Gov’t Mule, quelli più selvaggi e rock o i Black Mountain, senza tastiere e spunti psichedelici, ma con una seconda chitarra solista aggiunta in questo Generator, spesso in modalità slide, dicevo se sembrano provenire da un’epoca remota ma in fondo sono ancora di moda come dimostrano anche altre formazioni “attuali” come gli Howlin Rain, si tratta di quei piaceri proibiti che si praticano davanti a uno specchio, cosa avete capito, facendo della sana air guitar!

Quando i tempi rallentano come in Wandering man le cascate di note delle chitarre di Onesko e Johnson si gustano con maggior piacere invece che colpirti con violenza tra i denti come nelle tiratissime e riffate Gravy Train e Power Of The Blues o nei ritmi più funky alla Beck di Bluesin’ con i coretti femminili della figlia di Onesko, Angelika. In fondo i titoli non sono importantissimi, sono undici brani che superano abbondantemente l’ora di musica in questo dischetto e che sono un pretesto per ascoltare due chitarristi di buon valore duettare e duellare dai canali dello stereo, gli appassionati e i fans del gruppo sanno cosa aspettarsi e la musica, violenta quanto si vuole, non scade mai nell’heavy metal più bieco, per chi non ama il genere astenersi, per gli altri un buon album nella discografia della Blinside Blues band.

Bruno Conti

Proprio Bravi Questi “Pickers”! Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick

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Keller Williams & The Travelin’ McCourys – Pick – Sci Fidelity CD

Keller Williams è un musicista eclettico.

Cantante, chitarrista, compositore, one man band, percussionista (bella pettinatura anche, NDB*), ha al suo attivo una lunga serie di albums (nonostante la giovane età), da solo o in collaborazione con diverse band del circuito jam: ha infatti collaborato e girato in tour con gli String Cheese Incident (e questo disco di cui mi accingo a parlare esce per l’etichetta di proprietà dei ragazzi del Colorado), Umphrey’s McGee, Yonder Mountain String Band, oltre ai Rhythm Devils, cioè il combo di Mickey Hart e Bill Kreutzmann dei Grateful Dead.

Come possiamo vedere tutte band che hanno come comune denominatore la creatività e la capacità di improvvisazione oltre, con l’eccezione dei Devils, a un contatto ben definito con la musica della tradizione americana, che sia country, bluegrass o folk. Williams ha poi sempre amato i cosiddetti “pickers”, cioè gli specialisti degli strumenti a corda tradizionali, suonati con l’uso dei polpastrelli (gli Incident sono a loro volta dei pickers eccellenti), ed era quindi nelle cose che il suo cammino si incrociasse con quello dei Travelin’ McCourys (che non sono altro che la Del McCoury Band senza Del, quindi Rob e Ronnie McCoury, Jason Carter ed Alan Bartram).

La famiglia McCourys è da sempre una delle eccellenze assolute nel mondo del bluegrass tradizionale, non li scopro certo io, e Pick, frutto della collaborazione con Williams, è un bel disco di pura bluegrass music, con una spiccata tendenza alla jam, in cui i cinque lasciano correre in libertà le dita in una gara di bravura mai fine a sé stessa, ma con grande creatività e coesione, come se suonassero insieme da una vita. Le dodici canzoni presenti sono per una buona metà opera di Williams, mentre per il resto troviamo riedizioni di brani già noti dei McCourys, oltre ad alcune covers, un paio delle quali davvero sorprendenti.

Il disco non è forse al livello delle cose migliori di band come Old Crow Medicine Show (nei quali però la componente rock non è da sottovalutare), Black Twig Pickers o Trampled By Turtles, ma è di sicuro una proposta sopra la media. E dire che l’album parte quasi in sordina, come se i cinque stessero scaldando i motori, ma poi dal quinto brano in poi il disco decolla ed arriva fino alla fine come un treno in corsa.

Apre le danze Something Else, un brano invero dalla melodia un po’ contratta, anche se il dialogo tra gli strumenti funziona subito molto bene (violino e mandolino su tutti); meglio American Car, più solare e ritmata (anche se il ritmo è dato dagli strumenti a corda, la batteria è assente), mentre Messed Up Just Right ha un motivo molto old fashioned, sembra proprio un brano supertradizionale, con l’amalgama tra gli strumenti e le voci (a turno cantano tutti) che cresce ulteriormente.

Mullet Cut non è un granché come canzone in sé, ma i cinque compensano con la bravura negli incroci e stacchi strumentali; l’album si impenna con Graveyard Shift (di Steve Earle, tratta proprio da The Mountain, il disco che Steve aveva inciso con la Del McCoury Band), un country-blues molto pimpante, nel quale domina il banjo di Rob, anche se gli altri non si tirano certo indietro. I Am Elvis ha un inizio attendista, nel quale i nostri sembra quasi che stiano accordando gli strumenti, poi il violino di Carter dà il via ed il brano parte in quarta, un perfetto viatico per le dita capaci dei nostri pickers (ed il brano mi ricorda quasi i Dead più bucolici). What A Waste Of Good Corn Liquor (un brano dei McCourys originali) è puro bluegrass, dal refrain che più tradizionale non si può, uno dei brani migliori fino ad ora; Broken Convertible è un divertente country-grass con tendenza spiccata alla jam, cinque minuti di piacere per le orecchie.

L’album volge al termine, ma i cinque non mollano la presa, anzi iniziano proprio ora le sorprese: I’m Amazed è una tonica e corroborante versione di un brano dei My Morning Jacket, piena di assoli (grande il banjo), mentre Price Tag è una versione in puro bluegrass style, a dir poco stupefacente, di una nota canzonetta pop insulsa di tale Jessie J (è stato un vero tormentone alla radio), una trasformazione che mi ha lasciato a bocca aperta. Come prendere una ciofeca e farne un grande brano: neanche Rick Rubin avrebbe osato tanto. Chiudono il disco una versione molto traditional di Sexual Harassment (un brano di John Hartford) e la veloce e corale Bumper Sticker, che vede anche il vecchio Del McCoury alla voce solista (ed il carisma si sente subito).

Un dischetto tonico, una collaborazione azzeccata: speriamo soltanto che non rimanga un episodio a sé stante.

Marco Verdi

Se Ne E’ Andato Anche Jon Lord, “Il tastierista” Del Rock E Dei Deep Purple

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Jon Lord – Leicester 9/6/1941 – Londra 16/07/2012

E quindi alla fine se ne è andato anche Jon Lord, uno dei grandi tastieristi del rock, fondatore dei Deep Purple nel 1968, soffriva da circa un anno per un tumore al pancreas e ieri per un embolia polmonare il suo cuore ha cessato di battere.

Anche in questo anno in cui aveva scoperto la malattia non aveva smesso di fare musica, una delle sue ultime composizioni si chiamava From Darkness To Light e per settembre 2012 aveva programmato una nuova versione del suo celebre Concerto For Group And Orchestra con la partecipazione di Bruce Dickinson, Joe Bonamassa e Steve Morse tra gli altri.

Rimarrà celebre, oltre che per la sua lunga carriera, per avere scritto con gli altri componenti del gruppo, soprattutto Smoke On The Water e Child In Time, che erano le occasioni per dare libero sfogo al suo virtuosismo su quell’organo Hammond da lui collegato agli amplificatori Marshall per chitarra in grado di creare quel suono inimitabile che è una delle creazioni più originali dell’hard rock.

Se ne era andato dai Deep Purple da una decina di anni ma nei suoi concerti non mancava mai anche la musica del suo gruppo storico.

Brutta annata per la musica il 2012: Riposa In Pace anche tu!

Bruno Conti

Una Signora Del Blues “In Difficoltà”! Debbie Davies – After The Fall

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Debbie Davies – After the fall – MC Records

Come molti uomini e donne che si sono avvicinati al Blues anche Debbie Davies ha iniziato ad incidere tardi. Il suo primo album, Picture This, è uscito nel 1993 per la Blind Pig quando aveva già 41 anni. Ma era reduce, come è giusto che sia, perché poi paga i suoi dividendi, da una lunga gavetta in precedenza: nativa di Los Angeles, negli anni della sua formazione ha sempre operato in California, prima in band locali e poi nel gruppo Maggie Mayall and The Cadillacs. Se non puoi esordire nei Bluesbreakers ti accontenti della formazione della moglie. Ma poi, pensate (mi sento un po’ Paolo Limiti!), nel 1988 è stato “arruolata” negli Icebreakers di Albert Collins come seconda chitarrista (una tradizione delle grandi band blues nere era quella di avere spesso un ulteriore elemento di valore come musicista ritmico e di supporto alla solista del leader, spesso un bianco) e in quegli anni ha suonato anche in Sense Of Place di John Mayall, quindi si può dire che comunque ce l’ha fatta a coronare il suo sogno!

After The Fall è il suo 11° album, il primo per la MC Records e, come dice il titolo, nasce in seguito ad una “caduta”, sia fisica che, aggiungo io, di ispirazione. Cerco di spiegare meglio: il penultimo disco, Holdin’ Court, era un CD tutto strumentale distribuito dalla Vizz Tone, che non mi aveva convinto fino in fondo (anche se non era sicuramente un brutto disco), in quanto uno dei pregi dei dischi di Debbie Davies è anche la voce ed era uscito dopo l’eccellente Blues Blast su Telarc,uno dei suoi migliori in assoluto, con la partecipazione di alcuni illustri “colleghi” come Tab Benoit, Coco Montoya e Charlie Musselwhite e, a seguire, c’era stata anche l’apparizione nel disco dal vivo di Tommy Castro con la Legendary Rhythm and Blues Cruise Revue. Poi sul finire del 2010 le cose hanno iniziato ad andare a rotoli per questa “signora del Blues”, prima la scomparsa dell’amica e compagna di molte avventure nel Blues, Robin Rogers, seguito da una caduta vera e propria a livello fisico che le ha provocato la frattura di un braccio e un lungo periodo di inattività, che per una artista che vive proprio con i proventi delle esibizioni dal vivo è stata una sorta di iattura che l’ha costretta a vendere, come racconta lei stessa, tutto quello che non era legato al pavimento della sua abitazione, alcune chitarre comprese.

Ma Debbie Davies è una battagliera e queste “disgrazie” sono diventate l’oggetto di alcune delle migliori canzoni di questo nuovo album, alcune sue, altre scritte dal collaboratore storico e batterista da tempo immemorabile Don Castagno. Il risultato è un disco gagliardo e chitarristico, con brani come The Fall, Done Sold Everything e Little Broken Wing che raccontano di questi eventi con il suo solito stile che mescola blues classico e blues-rock con classe e competenza e la bella voce ancora squillante nonostante gli anni che passano. Tra gli ospiti del disco l’ottimo tastierista Jeremy Baum che con hammond B3 e piano aggiunge un tocco southern al brano di apertura, Don’t Put The Blame On me, firmato da Castagno e Jon Tiven e che ha un bel tiro rock nelle chitarre. Ma anche le atmosfere tra “Big Easy” e Litte Feat di Goin’ To A Gaggle o la già citata Done Sold Everything che conclude con un potente duetto chitarristico con Dave Gross che rinverdisce i fasti di quelli con Albert Collins dei tempi che furono, sono due brani che confermano la ritrovata grinta vocale e strumentale.

Ottimo pure lo slow blues “cattivo”, nel titolo e nella realizzazione musicale, I’ll Feel Much Better When You Cry, con in evidenza l’organo di Bruce Katz che è l’altro tastierista fisso presente nell’album. Non male il tributo all’amica scomparsa, la dolce e sinuosa Down Home Girl, ma tutto il disco segnala un ritorno alla miglior forma della nostra amica e si presenta come uno dei prodotti migliori di blues elettrico usciti in questo 2012. Se vi piacciono gli assolo di chitarra elettrica ma anche brani con una costruzione sonora elegante e cantati da una bella voce femminile grintosa quanto basta non andate a cercare lontano, in questo After The Fall troverete quello che cercate, anche un boogie strumentale sparatissimo come R.R. Boogie in chiusura di disco. Consigliato.

Bruno Conti

“Texan Troubadour”! Walt Wilkins – Plenty

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Walt Wilkins – Plenty – Ride Records 2012

Se dovessi stilare una lista personale di songwriters texani, Walt Wilkins sarebbe il primo nome da inserire. Texano autentico, Walt è cresciuto tra Austin e San Antonio, ha suonato per anni la chitarra solista in bands di altri cantautori, influenzato da personaggi come Lowell George, Kevin Welch, l’idolo locale Pat Green, prima di iniziare una sua solida carriera solista. La mia conoscenza con Walt Wilkins avvenne grazie alla copertina (una foto del ponte del Nashville) del suo terzo disco Rivertown (2002), che completava un bel trittico iniziato con l’album d’esordio Bull Creek Souvenir (1994), seguito da Fire Honey & Angels (2000). Dopo l’interessante Mustang Island (2004), Walt da vita ai Mystiqueros (una specie di supergruppo), una formazione con ottimi musicisti della scena locale di Austin, modificando il suo “sound” tra reminiscenze country anni ’70 e l’anima più rock della West Coast, una simbiosi che si realizza nell’ottimo Diamonds In The Sun (2007).

In questo nuovo lavoro Plenty si presenta con una band tosta che si compone dei chitarristi Brett Danaher, Joe Newcomb, Marcus Eldridge, Ray Rodriguez alle percussioni e batteria, Ron Flynt al piano, Dick Gimble al basso, Lloyd Maines alla pedal-steel, le vocalist Lisa Morales, Kelly Mickwee,  la bella moglie Tina Mitchell Wilkins (con due album solisti al suo attivo Espiritu (2006) e Morning Glory (2011), e aiutato dal talento di validi autori come Monte Warden, Billy Montana, Liz Rose, e la brava cantautrice Lori McKenna.

L’iniziale Just Be è una country-ballad che gode dell’apporto di una pedal-steel, l’unica firmata da Wilkins in solitaria, le altre sono tutte collaborazioni con i nomi citati, ed è seguita da una acustica e romantica Hang On To Your Soul con il violino in evidenza. Ain’t It Just Like Love e Soft September Night sono due brani dalla ritmica intensa, dove brillano dobro, chitarre e nuovamente pedal-steel. Something Like Heaven firmata da Liz Rose ruba il cuore, una ballata notturna con un superba atmosfera, dove uno straordinario Walt Wilkins si cala nella parte, regalandoci la “perla” del CD, cui fa seguito un altro pezzo leggero e delicato come Rain All Night, sostenuto dalle armonie vocali dalle “ladies”. Si torna alle sfumature country con A Farm To Market Romance, mentre Maybe Everybody Quit Cheatin’ e Like Strother Martin sono piccoli gioielli, semplici, lineari, di pura musica texana, che evocano i grandi cantautori country-folk degli anni ’70 (uno su tutti il suo mentore Gram Parsons). Gray Hawk è scritta a quattro mani da Liz e Lori McKenna, un brano lento dalla melodia delicata, con il notevole supporto del controcanto di Lori, per la seconda “gemma” del disco. Chiudono una Under This Cottonwood Tree che parte lenta ma poi si sviluppa con l’aggiunta della ritmica e centrali interventi delle chitarre e della steel, mentre Between Midnight & Day è una delicata composizione per voce e chitarra, cantata da Walt con voce calda, dolce e penetrante.

Con Plenty, Walt Wilkins ci propone country-folk-ballads di buon spessore che canta molto  bene, con personalità e temperamento, storie che esprimono sentimenti semplici e comuni, capaci di emozioni intense che catturano inesorabilmente, ed arrivano al profondo del cuore. Wilkins è stato da molti accostato a gente come Kevin Welch, Chris Knight, Pat Green, Sam Baker (tra la crema dei songwriters texani), ma sarebbe ora che gli venissero riconosciute anche le sue qualità nell’ambito dell’attuale scena musicale americana.

Tino Montanari

Chi Arriva E Chi Parte. Lianne Le Havas e Franco Ratti

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Oggi stavo scrivendo due recensioni contemporaneamente ma poi non ho avuto il tempo di concluderne nessuna, per cui ho deciso di fare questo breve Post dedicato a due persone: una nuova musicista che si affaccia sulla scena musicale, Lianne Le Havas, notevole talento vocale che ha pubblicato in questi giorni il suo debutto discografico per la Warner Bros Is Your Love Big Enough?  (anche se saltuariamente con una produzione un po’ “tamarra”, leggasi moderna e commerciale, stesso “problema” di Kiwanuka) e che sto ascoltando (anche questo in contemporanea) e su cui ho intenzione di tornare con maggiori particolari nei prossimi giorni, perché è veramente brava (guardatevi il video sotto).

Sarebbe piaciuta sicuramente a Franco Ratti, che ci ha lasciato nei giorni scorsi (mercoledì 11 luglio) all’età di 59 anni (ne avrebbe compiuti 60 il 23), factotum dell’IRD, fondatore della Appaloosa e in oltre 40 anni di militanza musicale, uno dei “Carbonari” per eccellenza della nostra musica, quella “buona”, a prescindere dal genere. Grande appassionato e conoscitore, è stato anche collaboratore del Mucchio Selvaggio e poi redattore dell’Ultimo Buscadero agli inizi e poi saltuario, ma sempre presente, collaboratore dello staff del Buscadero fino ai tempi recenti, quando la salute non era più dalla sua parte ma la passione e la voglia di lottare non erano mai mancate. Oltre alla sua attività alla IRD aveva anche pubblicato per molti anni una rivista bimestrale, Out Of Time, dedicata agli amanti della musica indipendente e di qualità delle piccole etichette. Ieri c’è stato l’ultimo saluto di famiglia, amici e “partners in crime”.

Questo è il link per la pagina del suo sito, con il testo di una della sue canzoni preferite http://www.ird.it/

Ci mancherà!

Bruno Conti

E Intanto L’Alligator Non Sbaglia Un Disco! Rick Estrin And The Nightcats – One Wrong Turn

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Rick Estrin And The Nightcats – One Wrong Turn – Alligator Records

C’era un vecchio disco di Luca Carboni che si intitolava “E Intanto Dustin Hoffman Non Sbaglia un Film” e per un lungo periodo, in effetti, il titolo ha corrisposto alla verità, ma da allora, purtroppo, anche il grande attore Americano i film ha iniziato a sbagliarli, e a raffica. Ultimamente la Alligator Records di Chicago http://www.alligator.com/, con la politica dei piccoli passi, all’incirca un disco al mese, anche qualcosa di meno, parafrasando quel vecchio titolo, si potrebbe dire che “difficilmente” sbaglia un album. Entrando nel loro sito si viene accolti proprio dalla musica di Rick Estrin e di questo One Wrong Turn, ma risalendo a ritroso si trovano le ultime uscite, tutte ottime, di Lil’ Ed & The Blues Imperials, Anders Osborne, Curtis Salgado, Janiva Magness e Joe Louis Walker e per settembre si annuncia il nuovo Michael Burks. E questa è solo l’annata 2012.

Già il precedente Twisted del 2009, quello che sanciva la fuoriuscita di Little Charlie Baty dalla formazione e l’ingresso del nuovo chitarrista Chris “Kid” Andersen, era un buon disco. Pur non spostando di molto gli equilibri sonori, considerando che l’autore principale della band, nonché armonicista e cantante, è sempre stato Rick Estrin. Ma l’adozione di “nuove” sonorità chitarristiche, pur inserite nel suono volutamente vintage del gruppo, aveva dato nuova freschezza al sound del gruppo. One Wrong Turn mi sembra un ulteriore passo in avanti: sempre sapendo cosa aspettarsi, ovvero un disco di Blues, nell’insieme dei dodici brani contenuti, ogni tanto, ci sono degli scatti qualitativi che in molti dischi dell’attuale scena blues non sempre è facile trovare (mi sto arrampicando sugli specchi per non dire che molti album che escono ultimamente, soprattutto quelli più classici e canonici, spesso sono anche tremendamente “pallosi”, e diciamolo!). Va bene il rigore e l’aderenza alle norme ma qualche sussulto ogni tanto non ci sta male. E nel dischetto di cui ci stiamo occupando alcuni brani, soprattutto nella seconda parte del disco, ma direi in generale, questi sussulti li regalano. Se dovessi dare una definizione “fulminante” di questo CD potrei dire che sembra un album “bello” di Duke Robillard, con una varietà anche maggiore. Così quelli che si annoiano a leggere le recensioni possono dedicarsi ad altro.

Per chi volesse approfondire vi segnalo il classico Lucky You a “train time” con l’armonica di Estrin e la chitarra “vibrata” di Andersen a scambiarsi fendenti, i tempi scanditi di Callin’ All Fools, prima a tempo di organo, suonato dal bassista Lorenzo Farrell, e armonica e poi con il notevole solo in crescendo della chitarra di Andersen, per non dire del divertente e salace boogie “I Met Her On The” Blues Cruise dove fanno capolino anche i fiati e vengono citati nomi (e cognomi) di illustri colleghi impegnati a soddisfare durante la crociera una intraprendente signorina, e non solo a livello musicale, con tanto di finale a sorpresa. C’è il dolce sound anni ’50 di Movin’ Slow ma anche il suono più ribaldo e sixties, di nuovo con uso d’organo, della title-track One Wrong Turn, con la chitarra di Kid che sferraglia di gusto a fronteggiare l’armonica spiegata di Estrin.

Ci sono soprattutto un paio di strumentali: la jazzata Zonin’, in perfetto stile “Wes & Jimmy”, con organo e chitarra, nel finale anche con wah-wah, a contendere la scena al sax dell’ospite Terry Hanck  e lo strepitoso brano firmato da Kid Andersen, The Legend Of  Taco Cobbler, che nei sei minuti e mezzo del brano (ri)percorre la storia della musica, dai ritmi country & western dell’inizio, passando per surf, beat sixties, dove svisa di gusto con l’organo, per arrivare ad un travolgente finale retro-futuribile dove le sonorità della chitarra si avviano verso tonalità degne del Jeff Beck più sfrenato dei primi anni, varrebbe da sola il prezzo di ammissione. Ma possiamo aggiungere anche la divertente (e Mayalliana, alla Turning Point) Old News, solo voce, armonica e battito di mani e la trascinante You Ain’t The Boss Of Me, scritta e cantata dal batterista J. Hansen, con tutto il gruppo che gira a mille. E non dimenticherei neppure lo slow blues Broke and Lonesome guidato ancora una volta dalla lancinante chitarra di Andersen.

Bruno Conti