Qui Lo Dico E Qui Lo Nego! Paul McCartney – Live In Los Angeles

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Oggi un Post veloce “In Breve” (non ho avuto tempo), per Beatlesiani. Vi ricordate che qualche anno fa è stato pubblicato un EP/CD single a tiratura limitata di Paul McCartney, intitolato Amoeba’s Secret? Con 4 brani registrati in occasione della sua esibizione all’Amoeba di Los Angeles (uno dei negozi di dischi più sfizioso del mondo), il 27 giugno del 2007. Ebbene, in questi giorni, sul suo sito per i membri premium di paulmcartney.com c’è la possibilità di scaricare gratuitamente tutti i 14 pezzi del concerto. Però,  se conoscete qualcuno in Inghilterra o in Irlanda, il Daily Mail, per un giorno solo, ha regalato il CD fisico ai suoi lettori insieme al giornale. Si chiama Paul MCCartney Live In Los Angeles e ha questo contenuto:

1. Drive My Car
2. Only Mama Knows
3. Dance Tonight
4. C Moon
5. That Was Me
6. Blackbird
7. Here Today
8. Back In The USSR
9. Nod Your Head (previously unreleased)
10. House Of Wax (previously unreleased)
11. Get Back
12. Hey Jude
13. Lady Madonna
14. I Saw Her Standing Her There

Buona ricerca!

Bruno Conti

Ancora Del “Nuovo Blues Inglese”! Bex Marshall – House Of Mercy

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Bex Marshall – House Of Mercy – House Of Mercy Rec. 

La ragazza (signora) in questione, Bex Marshall, è una ruspante musicista inglese, nativa del Devonshire ma con base a Londra, cantante e chitarrista di vaglia, voce rauca e potente, figlia tanto di Janis Joplin quanto di Maggie Bell (per la quota inglese), con una passione per il blues, innervato da rock, soul, country, persino bluegrass e folk, ha uno stile chitarristico incentrato sull’uso di Resonator, Slide e un suo modello “Electric Lady” Guitar, che la avvicinano tanto a Ry Cooder quanto a Bonnie Raitt, sempre per non fare nomi. Questo House Of Mercy è il terzo album della discografia e anche il suo migliore, caratterizzato da un suono rootsy, una bella presenza sonica, ricco nella strumentazione, con un ampio carnet di ospiti e collaboratori. Si scrive tutte le sue canzoni, le canta con grinta, si produce con ottimi risultati e il risultato finale, anche se non entrerà nella Hall Of Fame della storia della musica Blues, è più che rispettabile, con una grande varietà di temi sonori.

Dall’iniziale The House Of Mercy, che parte grintosa e bluesy, con la chitarra e il resonator di Bex che duettano con l’organo di Toby Baker, sottolineata dalle armonie gospel di Shola Adegoraye, di volta in volta introduce il violino di Eileen Healy, l’armonica di Barry Marshall-Everitt, il dobro del veterano BJ Cole, l’accoppiata banjo-mandolino di Don Wayne & Dale Reno degli Hayseed Dixie che ci spediscono in territori country-bluegrass, ma il tutto è ancorato dal basso sinuoso dell’ottimo Barry Payne e dalla batteria di Crispin Taylor e se aggiungiamo le percussioni di Danny Bryan, fanno undici musicisti utilizzati in questo brano, alla faccia della produzione in proprio! E i risultati si sentono, perché il brano ha una qualità superiore che non sempre è facile riprodurre nel resto del disco, ma ci provano. In Love, sempre Blues Gospel di spessore, con doppia voce femminile di supporto e resonator di Bex Marshall in primo piano, il tipo di musica ha qualche punto di convergenza con quella di Dana Fuchs e Beth Hart, altre due “jopliniane “paladine del blues meticciato con soul e rock, se non altro per il tipo di voce da giovani “vecchie”. Ma anche quando va quasi in solitario, come nella coinvolgente Bite Me, solo Mandolino, Resonator e Percussioni, il tutto suonato in autarchia e con un contributo dell’armonica di Steve Lockwood, la tensione sonora non si affloscia. Anche Gone Fishin,’ con in pista tutto il suo armamentario di strumenti a corda , elettrica, slide e resonator, coinvolge l’ascoltatore, sempre con un suono ricco di particolari.

Rent My Room è un brano di stampo “sudista” (non dell’Inghilterra), musica che si nutre di soul (piano e organo), gospel (ancora le ottime armonie di Shola Adegoraye, nome impronunciabile ma bella voce, che ben si appaia con quella roca e vissuta della Marshall) e il lavoro qui più raffinato della solista. Rattlesnake è un blues di quelli ricchi di atmosfera e con slide e resonator ancora ben presenti e anche Tough Times con l’aggiunta del banjo di Don Wayne Reno ai ricchi e corposi suoni della band di Bex Marshall si aggira sempre su quel tipo di sound, carnale e profondo nelle radici. Ma avendo a disposizione i musicisti degli Hayseed Dixie (anche Jake Byers al contrabbasso è della partita) e un virtuoso come BJ Cole al dobro (niente pedal steel in questo disco), una capatina in territori country-bluegrass mi pare quanto meno doverosa, e la resonator acustica della Marshall si intreccia con gli altri suonatori in un vorticoso brano strumentale come l’ottima Big Man. Il Blues richiama subito al dovere in Bourbon Street, altro episodio ricco dei migliori elementi della musica americana delle radici, suonato e cantato con grande passione. Barrys Song (l’apostrofo se lo sono dimenticato nella tastiera) è un brano solo voce, chitarra acustica e armonica, che mi ha ricordato la migliore Melissa Etheridge, sia per il tipo di voce che per il risultato finale, una piccola oasi di pace prima della conclusione a tempo di rock-blues di Guilty che “riporta tutti a casa”. Se amate il genere, un altro nome da appuntarsi!   

Bruno Conti 

Chi L’Avrebbe Detto? Ci Sono Ancora! Pogues In Paris – The 30th Anniversary Concert At The Olympia

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Pogues In Paris – The 3oTH Anniversary Concert At The Olympia – Polydor/Universal 2CD – DVD – Blu-Ray – 3 LP – 2 CD+DVD+DVD

“Shurely Shome Mishstake” potrebbe biascicare Shane MacGowan, invece no, sono proprio loro, 30 anni dopo, ancora vivi e vegeti (chi più chi meno), a festeggiare il loro anniversario “Dans La Ville Lumiére, oui”, come si lancia ogni tanto Shane nel suo perfetto francese tra una canzone e l’altra, peraltro più comprensibile di quanto dica in inglese, usando locuzioni brevi e concise. Uno si chiede come faccia il suo fegato a resistere dopo così tanti anni, ma lo stesso si diceva di Keith Richards, che probabilmente ci seppellirà tutti (o Pete Townshend e Mick Jagger che in canzoni e interviste dicevano di volere morire giovani, ma poi ci hanno ripensato). In ogni caso, questa registrazione dei due concerti che i Pogues hanno tenuto all’Olympia di Parigi l’11 e il 12 settembre scorsi, supera le più rosee previsioni e le attese, evidentemente Shane e soci hanno una autonomia di almeno due giorni (di più non so, infatti a Londra per Natale, faranno una solo data) e in quell’ambito di tempo (e nei 90 minuti del concerto) sono in grado di regalare uno spettacolo coi fiocchi, i controfiocchi e il pappafico. Il suono è volutamente confuso e casinaro, ma quella è sempre stata la loro caratteristica, se il punk incontra il folk a metà strada e poi soccombe alle sue superiori melodie lasciando solo la sua energia, una ragione (e forse più di una) ci sarà.

Il 7 luglio del 1988 al Palatrussardi di Milano assistevo (o meglio non assistevo, visti i risultati) ad un concerto che sulla carta avrebbe dovuto essere strepitoso: i Pogues, i Los Lobos e Stevie Ray Vaughan insieme (e c’era forse anche Paolo Bonfanti ad aprire). Superato il caldo africano e l’acustica atroce mi sono scontrato con due artisti nella loro fase distruttiva, uno Stevie Ray Vaughan “fatto” e svogliato, peggio anche che nel live ufficiale che non ha mai reso merito alle sue virtù di performer straordinario e uno, Shane MacGowan bellicoso e incazzoso con il pubblico e i suoi compagni della band, e i Los Lobos onesti e gagliardi ancorché inascoltabili a causa dell’acustica e per il pubblico che erà lì per ascoltare solo La Bamba. A quasi 25 anni, smaltita e dimenticata la delusione, almeno i Pogues, che non hanno mai avuto un Live ufficiale degno della loro fama, perché Streams Of Whiskey il CD dal vivo in Svizzera del 1991 era diciamo “bruttarello” sia a livello tecnico che di contenuti, dicevo che i Pogues hanno questa nuova occasione per dimostrare il loro valore e, come in altre recenti reunion di “lunga gittata”, vedasi Zeppelin, ci riescono pienamente.

24 canzoni, un’ora e mezza di musica su due CD o su un DVD, con un secondo (costoso) DVD che li accompagna nella loro prima avventura in terra di Francia nel lontano 1986, i Pogues sciorinano il meglio del loro repertorio e la loro bravura dal vivo (non dimentichiamo che anche Joe Strummer era stato chiamato brevemente come sostituto di MacGowan nel suo periodo più buio): Spider Stacey, Jem Finer, James Fearnley, Andrew Ranken, Darryl Hunt e due veterani della scena musicale inglese e irlandese, come Philip Chevron (nei Radiators From Space) e Terry Woods (già negli Sweeney’s Man e nella prima versione degli Steeleye Span), tutti costoro sono musicisti formidabili e le versioni che scorrono dei loro brani sono eccellenti, dall’iniziale Streams Of Whiskey fino alla indiavolata conclusione con una Fiesta che viaggia al di là di qualsiasi limite di velocità, passando per classici come A Pair Of Brown Eyes, Dirty Old Town di Ewan MacColl, The Sicked bed Of Cuchulainn che chiude il primo CD. E poi ancora l’amatissima Sally MacLennane, Rainy Night In Soho, The Irish Rover con fisarmonica e flautini che attizzano un pubblico più che ben disposto (e ottimamente ripreso, come la band), l’immancabile Stars Of the County Down e la meno conosciuta Poor Paddy On The railway. In Fairytale Of New York anche se non c’è più la compianta Kirsty MacColl (figlia di Ewan) come seconda voce femminile (credo sia Joyce Redmond), Shane MacGowan azzecca una interpretazione vocale quasi perfetta (ma quasi, non esageriamo) per quello che rimane il loro più grande successo.

Quindi, nessun errore, sono proprio loro, da domani nei negozi!

Bruno Conti

Novità Di Novembre Parte II, Patti Smith, O.A.R., Peter Frampton, Jason Isbell, Coldplay, Chris Isaak, Kid Rock, Patsy Cline, Joe Cocker

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Torna la rubrica delle novità, o meglio quello che avanza dai Post dedicati ai singoli dischi o dalle anticipazioni a più lunga gittata. Questa settimana, uscite del 20 novembre partiamo con tre titoli in DVD.

Il primo, Chris Isaak Behind The Sun Live è un DVD relativo al tour dell’artista californiano durante il quale, come nel disco omonimo di studio, ha eseguito i classici del periodo dei Sun Studios. Pubblicato per il mercato americano dalla Vanguard Records è stato registrato negli studi del famoso Austin City Limits per la PBS.

Quello dei Coldplay, Live 2012 edito come al solito dalla EMI, è un CD+DVD (o viceversa) relativo all’ultimo tour della band inglese. Il CD contiene estratti dai concerti di Parigi, Montreal, Madrid, Los Angeles e dal Festival di Glastonbury, 15 brani in tutto. Il DVD parrebbe avere una valanga di materiale in più perché riporta 26 tracce. In effetti ne ha uno in più e due bis, però il CD dura 66 minuti e il DVD 104 minuti, sono riportate cinque cosiddette Intermissions. Ovviamente è disponibile anche in Blu-Ray + CD. Dal vivo sono bravi e devo dire che a me piacciono, sarà un “piacere proibito”ma chissenefrega!

Anche per il primo DVD ufficiale di Patti Smith dal vivo (finora solo documentari e qualche semibootleg) non è che si siano sforzati. Live At Montreux 2005 (anche in Blu-Ray), Eagle Rock/Edel dura ben 83 minuti, però il concerto, fatto durante il tour per la promozione di Trampin’ è gagliardo e ben registrato, così potrò vedere bene e da vicino un concerto della grande Patti, visto che al leggendario concerto di Bologna del 9 settembre 1979 avevo visto poco e sentito anche meno, a seconda dei refoli di vento. Questo il contenuto: TRACKLISTING 1) Redondo Beach 2) Beneath The Southern Cross 3) Dancing Barefoot 4) Free Money 5) Ain t It Strange 6) 25th Floor 7) Like A Rolling Stone 8) 7 Ways Of Going 9) Peaceable Kingdom 10) Because The Night 11) Not Fade Away / Memento Mori 12) People Have The Power

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Sempre a proposito di leggende degli anni ’70, la prossima settimana, sia in CD che in DVD, esce anche FCA! 35 An Evening With Peter Frampton. Ossia il concerto per il 35° di Frampton Comes Alive. I capelli sono un ricordo ma la classe di Peter Frampton c’è ancora, quel disco ai tempi aveva venduto dei gazillioni di copie ma era anche un bell’album, caramelloso a tratti ma con la grinta dei vecchi Humble Pie dietro l’angolo e l’uso del talkbox fu una sorpresa per molti (anche se Joe Walsh e gli Steppenwolf lo inmpiegavano da anni). Sempre Eagle Rock, ma questa volta si sono sprecati: Il doppio DVD dura bem 189 minuti e contiene ben 26 brani: Disc One: 1) Something s Happenin 2) Doobie Wah 3) Lines On My Face 4) Show Me The Way 5) It s A Plain Shame 6) Wind Of Change 7) Penny For Your Thoughts 8) All I Wanna Be (Is By Your Side) 9) Baby, I Love Your Way 10) (I Wanna) Go To The Sun 11) (I ll Give You) Money 12) Shine On 13) Jumpin Jack Flash 14) Do You Feel Like We Do Disc Two: 1) Asleep At The Wheel 2) Restraint 3) Float 4) Boot It Up 5) Double Nickels 6) Vaudeville Nanna And The Banjolele 7) Road To The Sun 8) I Don t Need No Doctor 9) Black Hole Sun 10) Four Day Creep 11) Off The Hook 12) While My Guitar Gently Weeps. Il triplo CD è anche più lungo e di brani ne riporta 30!

Altro disco dal vivo interessante, ma relativo ai nostri giorni, è quello di Jason Isbell & The 400 Unit Live From Alabama, non è come qualcuno ha erroneamente scritto il primo disco in concerto dell’ex Drive-by-Trucker (anche se per la verità Live At Twist And Shout era un mini album con 6 brani, ma di oltre mezz’ora). Quel dischetto finiva con Into The Mystic, questo con una versione incendiaria di Like A Hurricane. Registrato ad Agosto, fa parte della serie dei “cotto e mangiato”, subito pubblicato, come dovrebbe essere sempre per i dischi dal vivo. Questi i brani:

 

1. Tour of Duty
2. Decoration Day
3. Goddamn Lonely Love
4. Heart On A String
5. Danko/Manuel
6. In A Razor Town
7. Alabama Pines
8. Outfit
9. Cigarettes and Wine
10. TVA
11. The Blue
12. Dress Blues
13. Like A Hurricane

C’è anche il doveroso omaggio a due componenti (oltre a Levon Helm) della leggendaria Band, una bellissima Danko/Manuel.

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Ancora un disco dal vivo, in versione doppia, anzi doppiamente doppia, perché c’è la versione in 2 CD e quella in DVD. Esce per il momento sul mercato americano, etichetta Wind-Up O.A.R. (Of A Revolution) Live On Red Rocks. Si tratta della prima volta della band americana accompagnata in tour da una sezione fiati, nel famoso anfiteatro vicino a Denver, Colorado.

Nuovo disco anche per Kid Rock, l’ex rapper tramutato in rocker prosegue con questo Rebel Soul la sua positiva trasformazione in erede di Lynyrd Sknyrd, Aerosmith e soprattutto di Bob Seger, il suo vero punto di riferimento. Continua a non farmi impazzire, però devo ammettere che qualche buon pezzo negli ultimi album c’è spesso e volentieri. Etichetta Atlantic, con Parental Advisory perché la parolaccia scappa sempre..

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Per finire vi segnalo un paio di stranezze del mercato discografico.

Prima di tutto il nuovo album di Joe Cocker Fire It Up, che per i misteri della discografia, nei mercati dei paesi più importanti, tipo Gran Bretagna e Stati Uniti, uscirà tra alcuni mesi, mentre in alcuni paesi, tipo Germania e Italia, è già uscito la scorsa settimana su etichetta Sony/BMG, anche in versione speciale con 2 bonus tracks e DVD live con 6 brani extra,

E di questo disco di Patsy Cline On The Air: Her Greatest TV Performances vogliamo parlarne? A quasi 50 anni dalla morte, la Hip-o-Select ha ritrovato e rimasterizzato questi nastri dal vivo, di qualità ottima per l’amor di Dio, ma se si chiama “Il meglio delle sue esibizioni televisive“, non c’erano anche le immagini?Evidentemente no, ma un po’ di sana polemica non guasta mai, comunque, al di là di queste perplessità, vale assolutamente la pena, sono 14 brani registrati tra il 1962 e 1963, tra i quali San Antonio Rose, al Greg Reeves Show il 28 febbraio, cinque giorni prima della sua morte. I classici, Crazy, Walkin’ After Midnight e I fall To pieces ci sono tutti.

Anche per oggi è tutto.

Bruno Conti

Blues “Nostrano”, Grinta E Qualità! Nerves And Muscles – New Mind Revolution

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Nerves And Muscles – New Mind Revolution – Holdout’n Bad

Mi capita molto spesso, quasi giornalmente, di ascoltare e recensire CD che provengono da un’area cosiddetta Blues, nel 95% dei casi si tratta di materiale di provenienza americana o inglese (con qualche deviazione in giro per il mondo), ma anche in Italia c’è una forte presenza di musicisti che amano le 12 battute o “la musica del diavolo”, questo nuovo super gruppo, i Nerves And Muscles, ne è un esempio. Per chiarire subito, fin dall’inizio, rimanendo nel campo della statistica, New Mind Revolution è meglio almeno dell’80% della produzione d’oltremanica e oltreoceano, testi e musica sono eccellenti, la produzione e i conseguenti suoni sono brillanti e ben definiti, gli arrangiamenti sono vari e sempre ricchi di belle sorprese, le voci dei protagonisti sono al di sopra della media! Ma è solo Blues? Un tempo, alla fine anni ’60, nel mitico British Blues si trovavano i Bluesbreakers di Mayall, o i Fletwood Mac, i Savoy Brown, ma anche gruppi come Free, Led Zeppelin, Jeff Beck Group, che certo blues non si potevano definire, ma avevano anche le 12 battute nel loro DNA, e pure negli States c’erano la Butterfield Blues Band o i Canned Heat ma Bloomfield, Kooper & Stills potevano tranquillamente incidere la loro Supersession e i musicisti bianchi collaboravano con i grandi “neri” come Muddy Waters e Howlin’ Wof in sessioni infuocate o si appropriavano, spesso in modo truffaldino, del repertorio degli stessi, spacciandolo per loro. Quindi, nei dischi di quegli anni, confluivano nella musica, elementi rock, gospel, soul, della roots music che non aveva ancora un nome ma già esisteva.

Paolo Cagnoni e i suoi soci in questa avventura Nerves And Muscles, Tiziano Galli, Max Prandi e Angelo “Leadbelly” Rossi, si impadroniscono di questo spirito per realizzare New Mind Revolution, che oltre ad essere un signor disco, lo ribadisco, pesca a piene mani nella tradizione per realizzare un prodotto fresco e brillante, frizzante nei suoni, con le chitarre che si rincorrono nei canali dello stereo, l’armonica che impazza ovunque, ad esempio il vocione di Tiziano Galli che si accoda ai grandi del genere, ingentilito dalla voce di Milena Piazzoli,  per raccontare la storia delle cinque ragazze coinvolte nel crollo di un vecchio e fatiscente edificio nell’ottobre del 2011, in una canzone come 3.95 Euro Blues che denuncia e “soffre” come nel grande Blues. Quando in Black Line Angelo Leadbelly” Rossi prende la guida del gruppo, il suono vira verso un blues più vicino alle radici, con l’acustica in primo piano e sempre con la voce femminile di supporto.

La musica poi, nel patronimico della band, Nerves And Muscles diventa una jam session virtuale con Muddy Waters, con l’armonica di Marcus Tondo (altro protagonista del disco) a dettare i tempi e duettare con le chitarre incattivite di Rossi e Galli, mentre Max Prandi oltre a dettare i ritmi con la sua batteria scandita, si occupa con classe e grinta del reparto vocale. Silver Dust Is Fallin’ Down con un groove metronomico della sezione ritmica di Prandi e Joy Allucinante (un nome, un programma), al basso, consente ai due chitarristi di costruire giri armonici più vicini al rock classico, mentre Angelo inchioda una notevole performance vocale, che sfocia in una breve coda strumentale, più di tocco che di cattiveria. Ask The Dust (John Fante’s Boogie)” parte gentile ed acustica, su uno sfondo di percussioni, poi viaggia a tempo di boogie, con voci e armonica che si intrecciano con il classico train sonoro della batteria, prima dell’ottimo solo conclusivo della chitarra di Galli, in linea con i grandi del genere. Frankie and Isabel è una filastrocca gospel, se esiste questo tipo di forma vocale, semplice e gentile, un omaggio a due bimbi.

Torna il blues-rock, duro e puro, “bad” come si conviene in New Mind Revolution, sempre con armonica e chitarra, questa volta slide, a supportare la voce di Max Prandi, che in qualità i batterista, qui e altrove, ben evidenzia il fattore ritmico della musica. Sometimes è una sorta di “intermezzo” elettro-acustico, mentre White Flowers On Your Dress con il ritmo sospeso e ossessivo, è una sorta di omaggio al John lee Hooker meets Jimi psichedelico (se è mai esistito qualcosa di simile), con la chitarra di Paolo Cagnoni che fa una delle sue rare apparizioni per duettare con gli altri solisti. Smashed To the Ground con la sua bella slide che viaggia spedita potrebbe stare in qualche disco degli Allman o del Clapton più arrapato mentre scambia fendenti con la solista e con quelle di Rossi e di Prandi, all’occasione anche alla chitarra. Searching My Salvation è uno strano gospel soul visionario non dissimile da certe cose del Mayall californiano più intrippato e meno rigoroso. Take me Away è di nuovo l’occasione per Angelo Rossi per riportare l’asse del gruppo verso lidi più tradizionali, subito “smentiti” nello slow atmosferico quasi westcoastiano di Over My Poor Bones, che poi si stempera a tempo di jam con la chitarra di Galli protagonista, a conferma della varietà di temi di questo album, che si conclude con il blues “arcano” ed acustico di Too Late To Shed Tears, di nuovo con Angelo “Leadbelly” Rossi alla voce. Una bella sorpresa, inutile dire che è consigliato a chi ama la buona  musica, senza preclusioni di genere.

Bruno Conti     

Sono Solo In Due Ma… Ann Rabson With Bob Margolin – Not Alone

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Ann Rabson W/Bob Margolin – Not Alone – Vizztone

Il nome forse non è conosciuto da moltissimi, ma Ann Rabson è una veterana della scena Blues, dal 1987 leader e fondatrice della band Saffire – the Uppity Blues Women, un trio acustico di musiciste nere dell’area di Washington, DC che poi furono messe sotto contratto dall’Alligator nel 1990 e per una decina di anni sono state una delle formazioni più interessanti nell’ambito del blues tradizionale, con un ultimo album, Havin’ The Last Word, pubblicato nel 2009, dopo una pausa discografica di una decina di anni, e che ha segnato lo scioglimento definitivo del gruppo. Non casualmente, la prima uscita delle Saffire, una cassetta autogestita uscita nel 1987, si chiamava Middle Age Blues, in quanto Ann Rabson all’epoca dell’esordio aveva 42 anni (una cosa comunissima per i bluesmen neri in generale). Lo stile del gruppo ha sempre conglobato blues ma anche barrelhouse, perché la Rabson è un’ottima pianista(nelle Saffire,  anche chitarrista), gospel, soul e tutte le musiche collegate, con tocchi di boogie-woogie e pre-war blues, facendo avvicinare il suo stile a quello di Bonnie Raitt e soprattutto Rory Block. Ann Rabson ha registrato anche tre album solisti, nel corso degli anni 2000, e in questo nuovo Not Alone, si presenta in compagnia di Bob Margolin, altro musicista che vive a pane e Blues.

Come ci ricorda lei stessa nelle note dell’album, la gente spesso pensa che il blues sia sempre e comunque una musica triste, ma questo, secondo, il suo ragionamento, non dovrebbe essere vero in ogni caso. Però poi si incarta un po’ su sé stessa, dicendo che però, in questo disco, che doveva raccogliere materiale felice, anche cattivo (nasty) e in grado di sollevare l’animo dell’ascoltatore, ci sono molti brani che sono, in effetti, tristi. E allora, diciamolo, brani come Guess I’m A Fool di Memphis Slim, uno dei rari cantati da Margolin, ma anche la stessa Let’s Got Get Stoned, un celebre e bellissimo brano di Ashford & Simpson che hanno cantato in mille, a partire da Joe Cocker e Ray Charles, tanto per citare due “minori”, la nostra amica Ann dice che ha un testo piuttosto triste (ma la melodia è ultra accattivante). Anche How Long Blues, il classico di Leroy Carr non è allegrissima, ma al di là degli stati d’animo della musica blues, che fin dal nome non evoca tarantelle, pizze e mandolini, il disco della Rabson ci permette di gustare una cantante ancora nel pieno della sua potenza vocale, con un timbro forte e sicuro, che risalta in molti classici del genere, dal gospel blues di I’m Going To Live The Life I Sing About In My Song, più una dichiarazione d’intenti che un titolo, dove l’accoppiata del piano con la chitarra elettrica di Margolin dona uno splendore malinconico alla maestosa vocalità di Ann.

Oltre che “stoned” in Let’s Get Drunk and Truck si assaporano altre euforie, quasi a tempo di old time blues jazzato anni ’20 e nella citata How Long Blues si tocca il piano blues più classico e tradizionale, rigoroso ma di gran classe grazie alla bella voce della Rabson, Bob Margolin canta in modo adeguato il secondo verso ma non c’è paragone (con tutta la simpatia per il grande Bob, una vita nel blues), tra i due interpreti a livello vocale. In Ain’t Love Margolin si cimenta anche alla slide mentre Ann eccelle al piano e alla voce. Guess I’m A Fool è affidata a Margolin che pur essendo il “with” del disco, si ritaglia alcuni spazi solisti nell’album. Caledonia, a tempo di boogie, ci permette di apprezzare le capacità strumentali di entrambi ma soprattutto della Rabson, che come detto, oltre che notevole cantante, è una brava pianista. Uno dei due brani diciamo “contemporanei” è firmata dallo stesso Margolin che la canta anche, Let It Go, mentre No Time For The Blues è firmata da quella EG Kight, spesso ricordata su queste pagine virtuali e che fa parte di quella scuola di vocalist che oltre alla Raitt e alla Block, annovera tra le sue fila anche Kelley Hunt e la stessa Susan Tedeschi. Is You Is Or Is You Aint My Baby è un brano di uno dei re del divertimento, Louis Jordan, mentre la conclusiva River’s Invitation è una bellissima canzone di Percy Mayfield che consente a Margolin di dare un consistente contributo anche a livello vocale, oltre che con la sua slide insinuante. Rimane la divertente Anywhere You Go di Roy BookBinder e possiamo fare calare il sipario su questo piacevole Not Alone, forse indirizzato soprattutto agli”specialisti” del settore Blues, ma che ha una sua varietà di fondo che lo può fare apprezzare un po’ da tutti, insomma non è “palloso”!

Bruno Conti

Giù Il Cappello Davanti Al Bisonte! Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill

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Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill – Reprise/Warner 2CD

Lo dico subito così mi tolgo il pensiero: questo è il miglior disco di Neil Young da 22 anni a questa parte, cioè da Ragged Glory, anch’esso guarda caso inciso in compagnia dei Crazy Horse.

Non che in questi anni il canadese non abbia fatto dei bei dischi, anzi, in alcuni casi si è espresso tra l’ottimo e l’eccellente (il recente Le Noise, ma anche Prairie Wind, Broken Arrow e Chrome Dreams II erano a mio parere grandi album), ma con Psychedelic Pill (primo disco di materiale originale insieme ai Crazy Horse dal 2003, Greendale, un disco per molti irrisolto ma che a me era piaciuto molto) siamo decisamente su un altro pianeta.

E’ chiaro ora che Americana, il disco uscito quest’estate sempre in compagnia di Frank “Poncho” Sampedro, Billy Talbot e Ralph Molina, nel quale Neil rivisitava a modo suo alcuni classici della musica popolare statunitense (e non solo, basti pensare a God Save The Queen), era una sorta di riscaldamento in previsione di questo album: ebbene, in Psychedelic Pill (non un gran titolo, e la copertina è anche peggio) Young ritrova quella ispirazione e quella continuità dei tempi belli, con una serie di canzoni di primissima scelta, eseguite con la solita maestria (e con il tipico suono quasi da garage band degli Horse) ma con un feeling in dosi da cavallo, anzi da bisonte, visto di chi stiamo parlando.

Ancora prima dell’uscita del disco, su internet impazzavano le notizie sulla durata dei brani, soprattutto Driftin’ Back, che apre il disco: più di ventisette minuti, di gran lunga la canzone più lunga mai messa su disco da Neil, ma anche altri due brani superano il quarto d’ora ed uno “solo” gli otto minuti.

Ebbene, di certo qualcuno parlerà di ripetitività ed autoindulgenza: non date retta, qui c’è solo grande musica, non un secondo di noia, in pratica più di ottanta minuti di goduria pura.

Prendete proprio la già leggendaria Driftin’ Back: dura quasi mezz’ora, ma credetemi non me ne sono accorto! Inizio acustico affascinante, poi la band entra quasi di soppiatto alla fine della prima strofa e da lì il quartetto non si ferma più: bella melodia, assoli continui di Young, ma il suono è fluido e rilassato, anche se il ritmo è cadenzato. Di sicuro una delle canzoni dell’anno.

Psychedelic Pill, la canzone, è quella che mi piace meno (ma è anche la più breve, circa tre minuti e mezzo): chitarre dure, voce quasi filtrata, un brano “normale”. Con Ramada Inn (quasi diciassette minuti) ricomincia lo sballo: fluida, lirica, armoniosa, ricorda capolavori del passato come Cortez the Killer, mentre la più breve Born In Ontario è saltellante e decisamente orecchiabile, con i tre cavalli pazzi che non perdono un colpo e Neil che arrota da par suo.

Il primo CD, circa cinquanta minuti, è finito, ed io mi sarei anche accontentato, ma ancora non sapevo che il secondo è ancora meglio.

Certo, non c’è un brano alla Driftin’ Back, ma la qualità media è addirittura superiore, a partire da Twisted Road, una rock song molto immediata con un testo nostalgico che parla di Bob Dylan, Roy Orbison e Grateful Dead, ed un canto appassionato da parte di Young.

She’s Always Dancing è uno dei brani meno nominati negli articoli che ho letto finora, ma forse è quello che preferisco: le chitarre qui si induriscono leggermente, ma è il modo con cui Young suona che è sublime, non sarà un mostro di tecnica, ma sopperisce con dosi di pathos immense, e poi ha uno stile che riconosci dopo due note (qui alcuni passaggi mi rimandano a Like A Hurricane).

For The Love Of Man è un lento, sempre elettrico ma con accompagnamento leggero, e toni quasi gospel, ma ha una delle melodie più suggestive e toccanti mai scritte dal nostro: qualche brividino lungo la spina dorsale è garantito.

Chiude la maestosa Walk Like A Giant (altri sedici minuti), una cavalcata possente ed un refrain splendido, un’altra delle candidate al premio di miglior brano del disco (alla fine c’è anche spazio per una ghost track, cioè una versione di Psychedelic Pill con un mix alternato, molto migliore anche nella parte vocale).

Che altro dire? Per me, un mezzo capolavoro: a quasi settant’anni Neil Young è ancora un numero uno.

Marco Verdi

Una Nuova Grande Band!?! The Departed – Adventus

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The Departed – Adventus – Thirty Tigers CD

The Departed, come forse qualcuno ricorderà, sono la nuova band di Cody Canada. Mandati definitivamente (purtroppo) in pensione i Cross Canadian Ragweed (pare per dissapori tra Cross e Ragsdale), Canada ha fondato lo scorso anno questo nuovo combo, in compagnia di un altro CCR (Jeremy Plato, al basso), di Seth James, co-leader della band, del tastierista Steve Littleton e dal batterista Dave Bowen (sostituito presto con Chris Doege). I cinque hanno esordito un anno fa con This Is Indian Land, un album di sole cover di autori originari dell’Oklahoma (da Bob Childers a Kevin Welch, passando per gente più famosa come J.J. Cale e Leon Russell), il classico disco di rodaggio, ma è con questo Adventus (con una strana copertina di un poliziotto con un proiettile ficcato nell’orecchio, uno scatto, pare, effettuato durante un concerto dei Led Zeppelin negli anni settanta) che il gruppo texano-oklahomano inizia la sua vera e propria carriera.

Il fatto che l’album sia attribuito al gruppo e basta (il precedente era uscito come Cody Canada & The Departed) la dice lunga: i Departed non sono più la backing back di Canada, ma un vero e proprio ensemble affiatato, con due leader al 50% (Canada e James, entrambi validi chitarristi e cantanti) che si dividono il ruolo di frontman senza problemi. Adventus, che in latino significa avvento o venuta, è un vero e proprio punto di partenza, per una band che, novella fenice, è sorta sulle ceneri dei Cross Canadian Ragweed, proseguendone il discorso ma aggiungendo diversi nuovi spunti interessanti. Infatti la musica proposta dal quintetto parte sì dal country-rock venato di radici dei CCR, influenzato dal movimento Red Dirt, ma amplia la gamma sonora, introducendo elementi sudisti, una ancora maggiore vena rock, ed un’attitudine da vera bar band, che sa far parlare le chitarre e scrivere melodie coinvolgenti e piene di pathos. Sembrano un gruppo che suona insieme da anni, tanta e la compattezza e l’affiatamento che si palesa in questo disco: avevo personalmente temuto che Canada, dopo lo scioglimento dei CCR, si potesse perdere un po’ per strada, ma ora sono contento di dire che ha messo su una band che potrebbe addirittura anche fare meglio.

L’avvio è ottimo: Worth The Fight è un rock’n’roll tosto e chitarristico, con la sezione ritmica che pesta in maniera forsennata, con più di un rimando agli Stones (ma quelli cattivi!), un tiro micidiale, un brano che non fa prigionieri. Burden vede James alla voce solista, una voce molto diversa da quella di Canada, meno roots è più soulful, negroide e potente: Burden è una grande ballata sudista molto anni settanta, di quelle che un gruppo come i Lynyrd Skynyrd una volta faceva ed ora non più. Prayer For The Lonely (ancora James, ma che voce) è una splendida rock song guidata da un bel riff di organo e sostenuta da un irresistibile ritornello corale ed una melodia di prim’ordine. Un inizio che mi ha spiazzato, mi aspettavo sì un bel disco, ma non ero preparato a questa intensità. Blackhorse Man vede il ritorno di Canada al microfono, per una ballata (sempre molto elettrica) che ha Neil Young nei suoi cromosomi; Hard To Find è puro southern soul, bello anche qui l’uso dell’organo da parte di Littleton.

L’uptempo Hobo è il brano più legato alle sonorità dei Ragweed, ed è l’unica che vede Plato alla voce, mentre Flagpole ci colpisce ancora in pieno volto con una sventagliata elettrica ed un sound pieno e corposo: questo è rock’n’roll deluxe, gente, grande musica. Per contro Cold Hard Fact è acustica e folkie, ma ascoltate che feeling e che melodia intensa ed emozionante: un brano sontuoso, finora il migliore del disco (per ironia della sorte la meno rock dell’album). Demons, ancora elettrica (grande uso di wah-wah) è solida come la roccia, mentre Set It Free, pur avendo delle belle chitarre in primo piano, è meno immediata delle altre. L’album, quasi un’ora spesa benissimo, si chiude con Better Get Right, cadenzata è con la gran voce di James ancora protagonista, l’acustica e tenue 250.000 Things, lo strumentale Make It Wrong, quasi una jam nella quale i cinque lasciano liberi gli strumenti in maniera molto fluida, e la conclusiva e pianistica Sweet Lord, un commiato in tono minore ma con immutato pathos. Avevamo una grande band (i Cross Canadian Ragweed), ora ne abbiamo trovata una, forse, migliore.

Marco Verdi

“Uno Strano Disco Di Blues?” David Maxwell – Blues In Other Colors

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David Maxwell – Blues In Other Colors –  Blue Duchess/Shining Stone

La tradizione di dischi che fondono musica occidentale ed orientale, rock e musica modale, blues e musica Indiana o Africana, è abbastanza consolidata. Mi viene da pensare soprattutto a Ry Cooder che di questi “melting pot” è sempre stato un po’ specialista: che siano state le collaborazioni con Ali Farka Touré o quelle con V.M. Bhatt per la Water Lily Acoustics, il buon Ryland è sempre stato all’avanguardia di questi incroci musicali. Appunto l’etichetta Water Lily, negli anni ’90, aveva pubblicato una serie di dischi che testimoniavano dei vari incontri del musicista indiano con colleghi occidentali, di volta in volta, oltre a Cooder, Jerry Douglas & Edgar Meyer, Taj Mahal, Bela Fleck e altri meno noti. Vishwa Mohan Bhatt è famoso anche per essere l’inventore del Mohan Veena, una sorta di incrocio tra chitarra e sitar che viene suonato anche da musicisti occidentali tra cui il bassista dei Counting Crows, Matt Malley e soprattutto Harry Manx, un inglese nativo dell’isola di Man, ma che vive da tempo in Canada e che ha passato cinque anni in India ad approfondire lo studio dello strumento con il suo inventore V.M. Bhatt.

E qui arriviamo a questo disco di David Maxwell, che è un famoso pianista e tastierista blues-soul-jazz che nel corso degli anni ha suonato con gente come Freddie King, Otis Rush, Buddy Guy, Bonnie Raitt, Lowell Fulsom, Junior Wells e anche con John Lee Hooker e Muddy Waters (ma ce ne sono una valanga di altri, ha suonato anche con Cotton, Robillard, Ronnie Earl, Kim Wilson, voi li pensate, lui ci ha suonato). Ha vinto anche degli importanti riconoscimenti nei circuiti Blues per la sua collaborazione con Louisana Red del 2009, You Got To Move e per un disco particolare, Conversations In Blue, dove ha registrato le sue parti di piano su nastri di materiale già esistente inciso da Otis Spann, con ottimi risultati. Ma Maxwell, nei suoi giri per il mondo ha sviluppato anche una passione particolare per la musica etnica e qui arriviamo a questo Blues In Other Colors, che nasce proprio dalla sua frequentazione con Harry Manx e da lì il progetto si è allargato fino a comprendere musicisti che fondono vari generi, non solo Blues e musica indiana, attraverso il piano di Maxwell e la chitarra e il Mohan Vina (per dirla all’occidentale) di Manx, ma anche musica dal Marocco, attraverso l’oud e il raita di Boujmaa Razgui, dalla Turchia, con il ney di Fred Stubbs. E ancora, percussioni indiane ed africane suonate da Jerry Leake, il tutto mescolato a sonorità blues, jazz e rock con gente come Troy Gonyea (membro della blues band di Maxwell) che suona una minacciosa e gagliarda slide elettrica in un brano come Cryin’ The Blues e nella conclusiva Just The Blues si adopera all’acustica, ma questi due brani sono duetti diciamo più “tradizionali” con il piano dello stesso Maxwell.

E’ in brani come l’iniziale Movin’ On, dove è schierata l’intera formazione dei partecipanti, che l’interazione tra il piano fluido e bluesato del titolare si mescola alla percussioni di Leake, al Mohan di Manx che suona come una slide “sofferente” e al contrabbasso di Marty Ballou, un musicista che viene dal jazz, per creare una fusione di suoni che senza essere innovativa in modo sconvolgente è più piacevole e fruibile di quanto ci si possa aspettare. In Blue Dream l’incrocio si fa più complesso, con l’uso del Wurlitzer elettrico di Maxwell, che dona una patina jazzata al tutto (e anche qui erano cose che si erano già sentite dai tempi degli Oregon), ma le sonorità da sitar del vina, una batteria aggiunta e le mille percussioni astruse di Leake sono comunque fascinose. In Interlude A è il momento dell’oud di Razgui di duettare con il piano, mentre in Big Sky, cascate di mohan vina si insinuano su un tappeto jazz-blues con una ritmica completa e le percussioni di Leake. L’ Interlude B è l’occasione per sentire brevemente oud e raita marocchino mentre Harry’s Raga tiene fede al proprio titolo con il mohan vina che ricorda moltissimo un sitar mentre il Turkish Ney (che è una sorta di flautino, in mancanza di migliore definizione) di Stubbs dà un’aria vagamente celtica alle procedure. Rollin’ On con il suo basso elettrico, la batteria e il pianino scatenato di Maxwell impegnati a duettare con la chitarra di Manx, per una volta è un blues tradizionale quasi barrelhouse. In definitiva non aspettatevi sconvolgimenti particolari ma questo “Blues in altri colori” si ascolta con piacere e allo stesso tempo è interessante per le contaminazioni tra i vari tipi di musica, senza essere un capolavoro. Vogliamo definirlo “uno strano disco di Blues”?  

Bruno Conti

Non Sono Le Quattro Di Vivaldi, Ma Anche Queste “Stagioni” Piacciono! Paul Kelly – Spring And Fall

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*NDB In considerazione del fatto che i “miei collaboratori” ultimamente sono particolarmente prolifici, molte delle ultime uscite discografiche (soprattutto tra i cosiddetti “carbonari”) passano velocemente alla sezione recensioni, come nel caso di questo nuovo Paul Kelly, domani i Departed (spesso quando nessuno ne ha ancora parlato in Italia). Quindi la parola a Tino e la ricerca continua sempre.

Paul Kelly – Spring And Fall – Gawd Aggie Recordings – 2012

Tra i tanti piaceri musicali del vostro umile recensore (che si diletta a scrivere piacevolmente su questo blog), vi è anche quello di far conoscere artisti meritevoli, in questo caso l’australiano Paul Kelly, una gloria nazionale in patria (attivo fin dal 1974), ma al di fuori di “Down Under” lo conoscono in pochini (ma buoni). Vediamo di rimediare. Sesto di nove figli, Paul nasce ad Adelaide nel 1955 e dopo la scuola alla Christian Brothers School (dove impara a suonare la tromba), si trasferisce a Melbourne, dove la fiorente scena musicale dei pub gli permette di farsi notare con un suo gruppo, i The Dots, e di incidere i primi due album, Talk e Manila, dove si intravede un talento in gestazione, ma già con il seguente Post la versione australiana di Rolling Stone lo premia come miglior disco del ’85. A quel punto Kelly forma una nuova band (Coloured Girls) e incide Gossip (86,) straordinario doppio album, una raccolta di 24 canzoni che cementano la sua reputazione come cantautore di livello assoluto, seguiranno poi Under The Sun (88), So Much Water So Close To Home (89), Comedy (91), Hidden Things (92) incisi con la storica formazione dei The Messengers.  E ancora, negli anni seguenti, altri dischi splendidi per quanto sottovalutati, ad esempio Deeper Water (95), (probabilmente il suo capolavoro), sino ad arrivare a questo 19° lavoro in studio, Spring And Fall (preceduto da un megabox di 8 CD di materiale dal vivo inedito).

Paul Kelly, accompagnato dal noto produttore australiano e polistrumentista GregJ” Walker e dal nipote Dan Kelly alle chitarre, ha registrato l’album in un paese isolato tra le colline di Victoria, e come ospiti utilizza altri validi musicisti, tra i quali ricorderei i fratelli Dan e Peter Luscombe al pianoforte e batteria, Attila Kuti al violino, e le coriste, Laura Jean, nonché le bravissime sorelle Linda e Vika Bull. La particolarità del disco, una specie di “concept album”, è che si tratta di canzoni d’amore, (ognuna con collegamenti con il brano che segue), e tutto l’album nel suo insieme è una storia d’amore. Si inizia con una dolcissima New Found Year, seguita dal valzer cadenzato di When a Woman Loves a Man valorizzato dall’armonica, mentre For The Ages è un brano pop leggero ma elegante. Gonna Be Good , Someone New e Time And Tide sono da catalogare alla voce “ballate”, cantate al meglio da Paul, e hanno un calore che non è facile riscontrare nei dischi di oggi. L’influenza di Dylan si fa sentire in Sometimes My Baby, e a seguire una Cold As Canada dalla struttura melodica di grande impatto, e l’armonica dona nuovamente spessore ad una grande canzone che cattura sin dal primo ascolto, mentre I’m On Your Side dalla ritmica dolce, ha le chitarre sempre in evidenza. None of Your Business Now inizia con la voce in falsetto, poi entrano il violino e il dobro che accompagnano il brano verso i binari della musica tradizionale americana, e il disco si chiude con una pacata Little Aches And Pains con spunti di chitarra e slide, mentre una notevole “ghost track” (ormai quasi una regola) dimostra ulteriormente il valore di questo “veterano”.

Anche in questo Spring And Fall, composto da dodici canzoni scritte scrupolosamente dall’autore, si nota una vena compositiva invidiabile, dove le semplici ballate rendono piacevole l’ascolto e la pacata tonalità di Paul Kelly, ben si adatta agli arrangiamenti, retti principalmente dal suono della chitarra e dall’uso dell’armonica a bocca, strumento troppo spesso dimenticato negli ultimi tempi.

In definitiva un disco di pregevole fattura, ben confezionato (ma per ora di difficile reperibilità), che ci mostra un autore che ancora dopo 30 anni di carriera ha molte frecce al suo arco e che propone musica di qualità; chissà che al buon Kelly con questo CD (che non farà rimpiangere i soldi spesi), dai toni autunnali e per cuori ricettivi e sensibili, arrivi una certa visibilità e il meritato successo.

Tino Montanari

NDT.: Una menzione per la bellissima copertina di Peter Salmon-Lomas!