Novità Di Gennaio Parte III. Arbouretum, Aaron Neville, Alasdair Roberts, Bad Religion, Carrie Rodriguez, I Am Kloot, Steve Lukather, Chris Darrow, Black Sorrows, Arhoolie 50th Anniversary, Eccetera

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Terza settimana di uscite discografiche per il mese di gennaio, questi sono i titoli in uscita ufficiale (più o meno) il 22 gennaio. Magari alla fine vi aggiungo un paio di anticipazioni importanti di quelle del 29, mentre i titoli che non vedete, li trovate abitualmente con recensione ad hoc, oppure mi sono dimenticato. Le date sono quelle ufficiali, ma, ogni tanto, escono leggermente prima o dopo. Partiamo (casualmente) con tre autori che iniziano con A.

Gli Arbouretum, disco dopo disco, si sono creati un seguito a livello di culto, e ora con questo Coming Out Of The Fog, che esce per la Thrill Jockey, sembrano pronti al salto di qualità. Sono stati presentati come un incrocio tra Richard Thompson e Neil Young con i Crazy Horse, con qualche tocco di psichedelia come sovrappiù, e forse è eccessivo, quello che è indubbio è che sono bravi e questo album è uno dei mìgliori dell’inizio 2013.

L’omone nero dalla voce vellutata, ossia Aaron Neville, dopo avere girovagato per molte etichette, alla fine approda anche lui alla Blue Note, che da quando ha come presidente Don Was si è lanciata nel recupero dei grandi non solo del jazz, e quindi dopo Van Morrison ecco Neville. Ma non solo, il disco, My True Story, oltre che dallo stesso Was, è prodotto da Keith Richards, che naturalmente suona anche la chitarra, insieme a Benmont Tench alle tastiere, Greg Leisz, pure lui alle chitarre, Tony Scherr al basso (Bill Frisell, Norah Jones) e George Receli (Bob Dylan), alla batteria. Il repertorio è quello classico, che Aaron Neville rivisita con la sua voce unica: Be My Baby delle Ronettes, Gypsy Woman di Curtis Mayfield con gli Impressions, ma anche materiale antecedente dell’epoca doo-wop e R&B, un trittico dei Drifters, Money Honey, Under The Boardwalk, This Magic Moment, Tears On My Pillow di Little Anthony & The Imperials, Work With Me Annie di Hank Ballard e altre delizie d’epoca. 

Alasdair Roberts potrebbe essere un nome che ai più non dice nulla, ma è anche lui uno dei nomi più importanti del folk inglese, e scorrendo le note di molti dischi del genere è facile incontrarlo. Prima con gli Appendix Out e poi come solista ha già pubblicato una decina di album (anche collaborazioni con Will Oldham e Jason Molina dei Songs:Ohia e Magnolia Electric Co.). Ma essendo scozzese anche con Karine Polwart, Jackie Oates, John McCusker, Dougie MacLean. Questo nuovo album che esce per la Drag City, A Wonder Working Stone è attribuito a Alasdair Roberts & Friends, anche se non ci sono nomi famosi è il “gruppo” che si chiama così: il musicista più famoso è il chitarrista Ben Reynolds dei Trembling Bells, che svolge il compito che fu di Richard Thompson nei Fairport Convention. Anzi, già che ci siete, se già non li conoscete, appuntatevi anche i Trembling Bells, se vi piacciono Fairport, Pentangle e Incredible String Band. Due segnalazioni al prezzo di una (cioè zero!).  Non ci sono video nuovi per cui ho messo quello che vedete sopra (o meglio ce ne erano due parlati, umorismo scozzese, se volete watch?v=v53IbsFRM6M

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Due gruppi e una solista sopraffina (almeno per me)

I Bad Religion hanno superato i 30 anni di carriera e nelle varie fasi hanno registrato una ventina di album. Questo True North esce come di consueto per la Epitaph (visto che l’hanno fondata loro) e non si discosta dal consueto punk/hardcore melodico, con qualche deriva vagamente hard/metal. Se vi piace il genere non vi deluderanno e se no amici come prima.

Nuovo disco anche per gli I Am Kloot, il terzetto inglese di Manchester pubblica il nuovo album, il sesto di studio più una BBC Session, si chiama Let It All In, viene pubblicato dalla Sheperd Moon e le critiche preventive della stampa inglese sono piuttosto buone, con qualche voce fuori dal coro soprattutto da parte di alcuni quotidiani (Guardian, Indipendent e Financial Times). Sentiremo. Genere? Boh: Alternative, Indie? Il disco è prodotto da due degli Elbow, Guy Garvey e Craig Potter.

Ho sempre avuto una speciale predilezione per Carrie Rodriguez sin dai tempi dei suoi dischi in coppia con Chip Taylor e poi mi sono piaciuti anche quelli come solista (2833294701c51bca19320a9fa8169be6.html, nonostante la scritta criptica al link trovate la recensione dell’ultimo disco di covers), di questo nuovo Give Me All You Got si dice un gran bene, pare che sia il suo migliore in assoluto, anche se al sottoscritto anche She Ain’t Me, quello prodotto da Malcolm Burn, piaceva parecchio. La cantante e volinista è proprio brava, ha una bella voce, scrive ottime canzoni (alcune anche con Chip Taylor, che appare nell’album come cantante), l’etichetta è la Ninth Street Opus, il produttore è Lee Townsend (Bill Frisell, Loudon Wainwright III, Kelly Joe Phelps), tra i musicisti Don Heffington alla batteria è il più noto. Tutti particolari non inutili, perché i dettagli danno un’idea dell’insieme. kLtAzzlwiuw Recentemente (a fine 2011) la Rodriguez aveva pubblicato anche un album in coppia con Ben Kyle We Still Love Our Country, molto bello.

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Una “strana” trilogia di uscite.

Ogni tanto Steve Lukather pubblica un album da solista (questo è il settimo), Transition che esce come al solito per la Mascot/Provogue fa parte di quelli da “cantautore” rock e non da virtuoso della chitarra, anche se ovviamente nel disco comunque si schitarra. Mah, non so, lascio a voi il giudizio, dovevo fare la recensione in anteprima ma poi ho optato per Robben Ford e forse è stato meglio.

Viene ripubblicato dalla Drag City il terzo album da solista di Chris Darrow (pensate che il leggendario ex leader dei Kaleidoscope non ha neppure una pagina come solista su Wikipedia, mentre spesso ce l’hanno anche “cani e porci”, inteso proprio in senso letterale, gli animali hanno le loro belle paginette), il disco si chiama Artist Proof ed uscì in origine nel 1978. Anche se non è il suo migliore in assoluto per gli amanti di country-rock, folk-rock e psychedelia gentile qualche spunto di interesse potrebbe esserci.

Sempre per amanti della buona musica, in questo caso australiana, esce il nuovo disco dei Black Sorrows, la grande band di Joe Camilleri che fonde con stile e classe Van Morrison, Graham Parker e Willy Deville (e non sto scherzando). Il nuovo disco, il primo dopo alcuni anni di pausa, si chiama Crooked Little Thoughts ed è addirittura un triplo, e questa è la buona notizia. Sono tutte nuove canzoni, 24 in tutto, raccolte in un Deluxe Edition con tanto di libro per la Head Records, però costa sui 65 dollari australiani e questa è la brutta notizia. Comunque abbiamo provato a richiederlo in Australia e qualcuno sul Blog (non appena arriva) provvederà a recensirlo (penso chi scrive, ma non è detto). Se volete approfondire nel Blog trovate questo: joe+camilleri

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Altra uscita interessante (e costosa) è questo box quadruplo che celebra i 50 anni di attività della Arhoolie Records, si chiama They All Played For Us e gioca sul doppio significato del titolo: “hanno suonato tutti per noi” in questo caso significa che in una serie di concerti tenutisi a Berkeley in California il 4-5-6 febbraio del 2011, tutti costoro hanno suonato per celebrare questa grande etichetta. Chi c’era?  Ry Cooder, Taj Mahal, Santiago Jimenez Jr., Laurie Lewis, Peter Rowan, Treme Brass Band, Maria Muldaur, Campbell Brothers, Savoy-Doucet Cajun Band, Country Joe McDonald, Barbara Dane and Bob Mielke’s Jazz Allstars e molti altri, tutto rigorosamente dal vivo e quindi inedito.

E con questo concludiamo il “giro” per questa settimana. La settimana prossima “ufficialmente” ma per i misteri della discografia potrebbero circolare prima e quindi ve li anticipo, solo come copertine, poi ne parliamo la prossima volta.

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That’s All.

Bruno Conti

P.s

Esce anche questo domani!

Massimo Bubola – In Alto I Cuori – Eccher Music/Self

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Una Bella Storia D’Amore…Finita Male! Christopher Owens – Lysandre

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Christopher Owens – Lysandre – Fat Possum/Turnstile/Pias 2013

Confesso di conoscere poco o nulla dei Girls, formazione indie-rock che aveva riscosso un discreto successo con l’esordio discografico Album (2009) e il successivo Father, Son, Holy Ghost (2011), prima del prematuro scioglimento avvenuto a sorpresa lo scorso anno. Finita l’avventura con il suo precedente gruppo, Christopher Owens (l’altro componente del duo californiano era Chet “JR” White) debutta come solista con Lysandre, un “concept album” dedicato all’omonima ragazza e basato sulle memorie di un tour risalente all’estate del 2008, nell’ambito di un festival francese. Chris viene da Miami, Florida, e la sua storia personale ben nota e resa pubblica nelle interviste (l’adolescenza vissuta in una setta religiosa, la dipendenza dagli oppiacei e il rapporto difficile con la madre prostituta ), si manifesta nei sentimenti di questo lavoro, registrato agli Hobby Studios di Los Angeles e prodotto dal fidato Doug Boehm (lo stesso dei Girls), che si avvale dell’apporto di musicisti di valore, come Evan Weiss alle chitarre, Matthew Kallman alle tastiere, David Sutton al basso, Seth Kasper alla batteria, Vince Meghrouni all’armonica e sax, e le belle e brave Cally Robertson e Hannah Hunt ai cori.

La storia inizia con Lysandre’s Theme, tema di 38 secondi che si ripropone nei finali dei brani del disco, seguito da una romantica Here We Go, ballata accompagnata da un riff di chitarra elettrica, mentre New York City si snoda su aperture di sax vecchio stampo. Un arpeggio di chitarra introduce A Broken Heart la “perla” del disco, un brano sofferente ed emozionante, cui fa seguito una elettrica e sbarazzina Here We Go Again, che mi ricorda i primi Byrds. Lo strumentale Riviera Rock giocato sulle note del sax  e coretti femminili alla Leonard Cohen, sembra dividere il racconto delle sue avventure, che riparte dalla autoanalisi di  Love Is In The Ear Of The Listener e dal ritornello della garbata Lysandre, cui fa seguito la delicata Everywhere You Knew, per chiudere con il brano Part Of Me (Lysandre’s Epilogue) che sentenzia l’abbandono e la triste fine della storia.

Nonostante la sua precedente “vita” musicale possa far pensare il contrario, l’ex frontman dei Girls (e prima ancora di Children Of God e Holy Shit), dimostra in questa mezzora di musica che nelle sue vene scorre il sangue dei grandi songwriters americani, gente come Bob Dylan, Jackson Browne e tutti gli altri di quel periodo, che sapevano identificarsi in storie strettamente personali. Sentiremo ancora parlare di questo “Romeo”, augurandosi che possa trovare al più presto la sua “Giulietta”, in quanto il binomio cuore e musica, è sempre stato foriero di grandi canzoni.

Tino Montanari

Curiose Coincidenze. Tyler Bryant & The Shakedown – Wild Child

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Tyler Bryant & The Shakedown – Wild Child –  Carved Records – 22-01-2013

La prima cosa che ho notato, quando Paolo Carù mi ha mandato questo disco da recensire per il Busca, dicendomi, “un giovane texano di cui si dice un gran bene”, è la curiosa coincidenza tra il nome del leader e chitarrista del gruppo, “Tyler” Bryant e il secondo chitarrista che si chiama Zack “Whitford”. Dice nulla? E se aggiungiamo Steven e Brad? Come dite? Aerosmith, esatto. Ma mentre per il primo non c’entra nulla, essendo il nome di battesimo, il secondo è proprio il figlio di Brad. Ha qualche attinenza con la musica? Forse, ci arriviamo subito. Intanto devo dire che ad un primo ascolto il disco non mi ha colpito e steso subito. Del buon rock americano classico, con le consuete influenze recenti che vogliono dire Black Keys, una discreta dose di blues-rock: il giovane, che è una sorta di ragazzo prodigio, ha già attirato l’interesse dei suoi maestri, suonando nel Crossroads Guitar Festival di Clapton a 16 anni e aprendo nel tour canadese di Jeff Beck del 2011.

Inoltre, il fotografo rock Robert Knight, famoso per i suoi scatti di grandi chitarristi ed in particolare di Stevie Ray Vaughan, lo ha voluto nel 2008 nel suo documentario Rock Prophecies, a fianco di Santana, Beck e Slash, come probabile erede di SRV, con cui condivide anche lo stato di provenienza. Tra i suoi ammiratori anche Vince Gill, che ne ha lodato la tecnica e dal vivo, naturalmente ha suonato, tra gli altri, anche con gli Aerosmith, che sono un’altra influenza musicale. Questo Wild Child è stato preceduto da un EP nel 2011 e da un mini album del 2012, con alcuni brani in comune, magari in differenti versioni. Intanto il giovanotto (che compirà 22 anni a febbraio) e si è trasferito a vivere e suonare in quel di Nashville, dove è stato inciso l’album, si scrive tutti i brani di solo, se li canta, spesso con quella chitarra dal corpo d’acciaio ma anche con una buona Fender rosa replica d’annata. E quindi?

Riascoltiamo: il brano di apertura, Fool’s gold, con un bel riff di slide, ondeggia tra il rock classico alla Aerosmith, qualche zinzinello di Led Zeppelin e una bella grinta, tre minuti per essere pronti anche per le radio (tutti i brani sono intorno a questa durata). Lipstick Wonder Woman sempre con questo bottleneck che conferisce una atmosfera bluesata, comincia a salire di qualità con qualche inserto chitarristico alla Bonamassa e la voce sudista di Bryant che cerca di farsi strada nella produzione forse fin troppo precisa. In Cold Heart le chitarre cominciano a decollare e gli assoli si allungano (lo stesso Tyler ha dichiarato che vuole riportare l’assolo di chitarra nel rock attuale, ma mi pareva che fossimo ben coperti, comunque ben venga). Anche la batteria picchia di gusto e in Downtown Tonight segue passo passo la chitarra di Bryant su territori un filo più roots, anche se, per il tipo di voce,  potrebbe essere southern, ma pure Bon Jovi potrebbe essere subito dietro l’angolo. Say A Prayer, dovrebbe essere l’hit single con tanto di video e partecipazione al Jimmy Kimmel Live, la parte strumentale e l’assolo sono gagliardi ma non mi convince del tutto il contorno vocale e l’arrangiamento, ma forse è una mia impressione.

House That Jack Built ha sempre questa passione per il vecchio blues-rock d’annata, voce leggermente distorta, batteria picchia duro e riff ripetuti fino all’assolo che dimostra perché i signori sopra hanno espresso la loro approvazione, anche se mi sembra che nel disco abbia il freno a mano tirato. In Last One Leaving in particolare (ma anche in altri brani) molti hanno visto dei punti di contatto con i Black Keys e in particolare con Gold On The Ceiling, potrebbe essere, per quell’incrocio tra rock moderno e la slide acustica. Non mancano anche i corettini, come in Still Young (Hey Kids) che fanno tanto Bryan Adams anche se l’assolo fa ben sperare per i concerti dal vivo. Solita intro classica batteria+chitarra per You Got Me Baby che in un mondo di hip-hop e Onedirection svetta, ma non mi sembra memorabile, al di là del solito buon lavoro della chitarra di Tyler Bryant. House On Fire, viceversa, ha il suo cuore rock al posto giusto, tirata e senza compromessi e Where I want You, l’unico brano che supera i 4 minuti e mezzi, non so perché mi rimanda al power-pop rock dei Knack, intrecciato a del sano rock-blues zeppeliniano o Aerosmith se preferite, con poderoso solo di Bryant nella parte centrale. Poor Boy’s Dream tiene per la fine le atmosfere più blues, con voce filtrata e acustica slide nuovamente in pista. Ribadisco, piacevole, se volete ampliare i vostri orizzonti rock, ma non mi sembra questo fenomeno, SRV può riposare tranquillo.

Bruno Conti     

Piccoli “Outlaws” Crescono! Richie Allbright – Kickin’ Down The Doors

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Richie Allbright – Kickin’ Down The Doors – Richie Allbright CD

Richie Allbright (da non confondere con il quasi omonimo Richie Albright, una elle di meno nel cognome, ex batterista di Waylon Jennings) è un ragazzone di Mathis, una piccola cittadina del South Texas, cresciuto a pane e Outlaws. Infatti (e qui il punto in comune con il suo quasi omonimo drummer) la sua musica risente molto dell’influenza del grande Waylon, ma anche di gente come Willie Nelson, Billy Joe Shaver e Merle Haggard (che texano non è, né il suo nome è mai stato direttamente associato al movimento Outlaw Country, ma in realtà avrebbe potuto benissimo esserlo, anche se forse un brano come Okie From Muskogee Waylon non lo avrebbe mai scritto).

Esordiente nel 2008 con If I’d Known Then, e titolare di un’attività live molto vivace tra Texas e stati limitrofi, ora Richie si rifà sotto con Kickin’ Down The Doors, un ottimo disco di puro country texano, che si ispira chiaramente ai suoi modelli. Certo, le sue canzoni possono sembrare derivative, in alcuni momenti pare di ascoltare qualche outtake dei vari Billy Joe, Willie e Waylon, ma quello di Allbright è chiaramente un atto d’amore verso una musica che purtroppo oggi fanno in pochi (mi viene in mente la Jackson Taylor Band). D’altronde Waylon ci ha lasciato da anni, Shaver sembra aver appeso la chitarra al chiodo, e Willie, l’unico ancora super attivo, ultimamente si è spostato verso un country più classico: ben vengano quindi dischi come questo, dove si respira ancora fresca l’aria di un periodo musicalmente irripetibile. Per questo album, Richie è entrato in studio con pochi amici (tra cui Jarrod Birmingham, a sua volta musicista in proprio, e Billy Joe High), ed ha messo a punto dieci brani che, se siete appassionati del genere, non mancheranno di allietare le vostre serate. Chitarre elettriche, ritmo sempre alto, voce perfetta (uno Shaver meno nasale), grinta e feeling a piene mani, oltre ad una sicura abilità nel songwriting.

Apre la title track, un perfetto rockin’ country, giusto a metà tra Shaver e Waylon, voce in palla e melodia fluida. La frizzante I Can’t Break The Habit ricalca gli stessi canoni, con ottimi interventi di pianoforte e chitarra ed un feeling particolare che solo un texano può avere. Where The Rainbow Hits The Ground è una delle migliori del CD: una splendida ballata dal classico suono outlaw, con echi di Kristofferson (un altro fuorilegge doc) nella melodia, un brano che non mi stupirei se entrasse a far parte del repertorio dello stesso Kristofferson o di Willie (più quest’ultimo, in quanto Kris non ama molto mettere canzoni di altri nei suoi dischi).

Con You Can’t Take Away My Music siamo ancora dalle parti di Waylon, ed il ritornello è semplicemente irresistibile: grande musica, non importa se derivativa. La pacata Down Her Memory Lane offer un momento di quiete, mentre con I’m Gonna Say I’m Sorry Now, chitarristica e ritmata, Richie si ributta nei territori a lui più cari; la pianistica e lenta I Don’t Need A Thing At All dimostra che anche i fuorilegge hanno un cuore: qui avrei visto bene un duetto con una voce femminile, ma non si può avere tutto. Boland And Birmingham, omaggio all’amico Jarrod ed a Jason Boland (un altro che sta dalla parte giusta) è Texas country al 100%, Gravedigger ha un marcato sapore western, mentre I Was Born This Way chiude l’album così come si era aperto, cioè con un saltellante brano alla Billy Joe Shaver.

Davvero una bella sorpresa questo Kickin’ Down The Doors: file under Outlaw Country.

Marco Verdi

Per La Serie: Nomen Omen. No Justice – America’s Son

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No Justice – America’s Son – Smith Entertainment CD

I No Justice non possono che essere associati al movimento Red Dirt, in quanto provengono dal centro propulsore di questa corrente musicale, cioè Stillwater, Oklahoma, anche se la loro musica è leggermente diversa.

Partito nel 2001 con uno stile tipicamente country-rock, il quintetto (capitanato dal lead singer Steve Rice, coadiuvato a sua volta dal chitarrista Cody Patton, dal bassista Justin Morris e da Armando Lopez e Bryce Conway, rispettivamente alla batteria ed alle tastiere ed organo) ha via via allargato i propri orizzonti musicali, spostandosi verso lidi sempre più rock: America’s Son è il loro quarto disco di studio (esiste anche un live, facente parte della lunga serie registrata al Billy Bob’s Texas), ed è assolutamente da considerarsi il più completo.

Pura American Music, belle canzoni, un suono decisamente rock, con una struttura molto classica (chitarre-basso-batteria-organo), melodie corali ed un grande amore per il rock’n’roll più diretto. Niente di originale quindi, ma dieci canzoni di buon livello, in qualche caso anche di ottimo livello, una band che meriterebbe senz’altro di più del semplice culto al quale è sicuramente destinata. Non ci vuole molto per fare un bel disco: buone canzoni, feeling, una certa perizia strumentale, la conoscenza dei classici ed una produzione attenta, ed in America’s Son questi elementi ci sono tutti.

Never Gonna Be Enough apre il disco con il piede giusto, anzi giustissimo: una rock song pulsante ed ariosa, dalla melodia fluida e ritornello di impatto immediato. In un mondo perfetto la passerebbero in rotazione alle radio, ed avrebbe pure successo (ma in un mondo perfetto gli One Direction cucinerebbero hamburger in qualche fast food…). Life’s Too Short è più elettrica e decisamente rock, il ritmo sempre sostenuto, le chitarre non si risparmiano ed anche l’organo inizia a farsi sentire; Songs On The Radio ha qualche elemento country in più, una melodia evocativa ed un arrangiamento elettroacustico molto gradevole. Tre brani, tre diversi modi di essere.

Red Dress inizia lenta ed acustica, poi entrano con discrezione, quasi in punta di piedi, gli altri strumenti, ed il brano diventa una rock ballad coi fiocchi, con una di quelle melodie circolari tipiche dei Counting Crows. Shot In The Dark è un’esplosione elettrica, con un bel riff ed un refrain gioioso: una delle più immediate e dirette (i cinque sono certamente andati a lezione anche da Tom Petty); Run Away With Me ha un inizio attendista che però dura poco: altro gran bel ritornello corale e strumentazione usata in maniera molto classica (chitarre ed organo, stile anni settanta).

La title track, fresca e limpida, prelude allo slow elettrificato di Give You A Ring, che dimostra che Rice e soci si muovono con la stessa disinvoltura sia nei brani lenti che in quelli più rock’n’roll. A proposito di rock’n’roll, Let’s Not Say Goodbye Again è un altra canzone dal tiro non indifferente, appena sfiorata dal country, mentre Don’t Walk Away chiude l’album in chiave intima, con una toccante ballata pianistica. No Justice è il nome giusto per questa band: è infatti un’ingiustizia che non abbiano il successo che meriterebbero. Siamo lontani dal capolavoro, ma se gli darete fiducia America’s Son vi farà trascorrere quaranta minuti davvero piacevoli.

Marco Verdi

Novità Di Gennaio Parte II. West Of Memphis, Yo La Tengo, Villagers, Laura Nyro, Christopher Owens,Jimbo Mathus, Jeff Black, Eccetera

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 Eccomi di nuovo con le principali uscite relative al 15 gennaio e qualcosa già uscito. Intanto vi ricordo, perché lo avrete visto nei negozi di dischi (che a dispetto di quanto professano molti, per fortuna, esistono ancora), che, solo per il mercato italiano, in America e Inghilterra uscirà il 22, è uscito il doppio CD 12-12-12, distribuito dalla Sony Music.

Sempre la Sony/Bmg pubblica il 15-01 la colonna sonora del documentario West Of Memphis Voices For Justice, che racconta la storia del famoso crimine avvenuto a West Memphis in Arkansas nel 1993, nel corso del quale furono assassinati tre bambini di 8 anni e al termine di un nebuloso processo furono condannati 3 giovani, di cui uno solo maggiorenne, che dopo 18 anni e un altro “strano” processo, sono stati condannati (senza essere colpevoli, ma in seguito ad un accordo tra accusa e difesa) a 18 anni e 78 giorni e rilasciati subito dopo perché avevano scontato tutta la pena. Il documentario, presentato al Sundance Festival del 2012, diretto da Amy Berg e prodotto da Peter Jackson e Fran Walsh (quelli del Signore degli Anelli) e sponsorizzato, tra gli altri, da Eddie Vedder, Henry Rollins e Johnny Depp (che negli anni era diventato amico intimo di Damien Echols, l’unico maggiorenne tra gli accusati, all’epoca), già nel 2000 era stato oggetto di un progetto da parte dal mondo della musica per raccogliere fondi e tenere viva la vicenda (e Echols, che, non dimentichiamolo, era nel Braccio della morte) Free The West Memphis 3, con la partecipazione di Tom Waits, Steve Earle, Mark Lanegan, Joe Strummer, Eddie Vedder, John Doe e molti altri. Ora per questa nuova colonna sonora, che si annuncia come uno dei dischi più interessanti di questo inizio 2013, anche per la vicenda che tratta, sono stati coinvolti:

Track Listing:

1. Henry Rollins (feat. Nick Cave & Warren Ellis original score) – Damien Echols Death Row Letter Year 9
2. Natalie Maines – Mother
3. Lucinda Williams – Joy
4. Camp Freddy – The Jean Genie
5. Tonto’s Giant Nuts feat. Johnny Depp & Bruce Witkin – Little Lion Man
6. Marilyn Manson – You’re So Vain
7. Band of Horses – Dumpster World (Live)
8. Citizen Cope – DFW
9. Eddie Vedder – Satellite
10. Bill Carter – Anything Made of Paper
11. The White Buffalo – House of Pain
12. Bob Dylan – Ring Them Bells
13. Nick Cave & Warren Ellis – West of Memphis Score Suite
14. Tonto’s Giant Nuts feat. Johnny Depp (feat. Nick Cave & Warren Ellis original score) – Damien Echols Death Row Letter Year 16

Bonus Track:
15. Patti Smith – Wing (Recorded Live at Voices For Justice Benefit Concert – August 28, 2010)

Digital Only Bonus Track:
16. Bill Carter – Road to Nowhere

L’unico pezzo edito è quello di Dylan, il resto sono tutti brani inediti o versioni live di brani già noti.
 
 
Nuovo album per gli Yo La Tengo, si intitola Fade, uscito il 15 per la Matador e, a detta di molti ciritici, il loro miglior album da molti anni a questa parte (ma ne hanno mai fatti di brutti?). Registrato a Chicago con la produzione di John McEntire (Tortoise), se non frequentate già potrebbe essere l’occasione per ascoltare una delle migliori formazioni americane dell’ultimo trentennio. Non sembra ma sono in pista dal 1984 e l’alternative rock con cui vengono catalogati è un termine molto riduttivo, anche i Velvet Underground e i Television ai tempi erano “alternativi”, ma a cosa?
 
 
Secondo album per i Villagers, ovvero Conor J. O’Brien,con la partecipazione del chitarrista Tommy McLaughlin e anche se questa volta O’Brien non suona tutti gli strumenti come nel precedente Becoming A Jackal (che mi era piaciuto una cifra, come potete verificare anche-lui-di-nome-fa-conor-the-villagers-becoming-a-jackal.html ) questo nuovo Awayland mi sembra sempre molto buono (ho appena finito di sentirlo, poi se riesco ci torno in modo più dettagliato, ma non prometto). Etichetta Domino Records, è uscito anche questo il15 gennaio e ci sarebbe pure una versione Deluxe in vendita sul sito dell’etichetta, in tiratura limitata di 500 pezzi (con 5 brani extra, Live At Attica, bellissimi, quasi meglio del resto del disco). L’irlandese è un vero talento, se non avete l’altro album, magari iniziate da lì, ma sono eccellenti entrambi, consigliato!
 
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Il nuovo album di Jeff Black è il secondo capitolo della serie B-Sides And Confessions Volume Two, il titolo, viene autodistribuito tramite il suo sito su etichetta Lotos Nile, quindi non è di facile reperibilità, ma come il primo volume, che essendo uscito per la Dualtone è ancora reperibile, si situa tra le cose migliori di questo grande cantautore, residente nella Nashville “alternativa” Tra gli ospiti Sam Bush, Jerry Douglas, Matraca Berg e Gretchen Peters, con una giusta alternanza di brani acustici ed elettrici.
 
 
Nel 1976 Laura Nyro realizzò il suo ultimo grande tour americano, accompagnata da una band incredibile, dove spiccavano il chitarrista John Tropea, Mike Mainieri al vibrafono, Andy Newmark alla batteria, Carter Collins alle percussioni e Richard Davis al basso (mi sa che li ho detti tutti). Da quella tournée venne estratto il disco dal vivo Season Of Lights, inizialmente pensato dalla Columbia come un doppio LP, ma alla fine pubblicato come singolo (la Iconoclassic nella ristampa in CD del 2008 recuperò anche i brani mancanti). Quel disco proveniva da diverse date del tour, mentre questo Live At Carnegie Hall, pubblicato dalla All Access, riporta l’intero broadcast radiofonico del marzo 1976, con una ottima qualità sonora, nonostante la provenienza dubbia, e la stessa band stellare del live ufficiale. Un must per i fans (e non solo) di quella che è stata una delle più grandi cantautrici americane degli anni ’70 e probabilmente di tutti i tempi. Il dischetto è già disponibile da qualche settimana, anche se non di facile reperibilità
 

Christopher Owens, è uno dei nomi emergenti del nuovo rock americano, ex leader del gruppo indie Girls, con cui ha pubblicato due album, ora fa il suo esordio come cantautore per la Fat Possum/Turnstile con il disco Lysandre, un disco ricco di ballate dal suono melodico e molto curato, interessante.
 
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Manifestra di Erin McKeown viene pubblicato dalla etichetta personale della cantautrice americana, la TVT Records e, come ultimamente spesso è usanza, è stato finanziato con una raccolta di fondi attraverso la rete da parte dei fans, che in soli sei giorni, a tempo di record, hanno raccolto il denaro sufficiente per registrare questo nuovo album. Il disco esce anche in versione doppia, con il secondo CD che raccoglie i dieci brandi del disco in versione acustica, solo chitarra e voce. La McKeown fa parte di quel filone diciamo di folk-rock militante e alternativo da cui provengono Ani DiFranco, Josh Ritter, le Indigo Girls, Melissa Ferrick, Thea Gilmore e molti altri. Ma non disdegna anche del buon pop radiofonico come testimonia il brano Instant Classic. Partecipano al disco Anais Mitchell, Polly Paulusma, Sean Hayes e Ryan Montbleau che duetta nel brano citato.
 

Jimbo o James Mathus che dir si voglia, ex leader degli Squirrel Nut Zipper e di molte altre formazioni o in veste da solista, questa volta si avvale dei Tri-State Coalition per White Buffalo che viene pubblicato (la data ufficiale è il 22 gennaio, un anticipo delle uscite della settimana prossima) dalla Fat Possum. Lo stile oscilla tra country-roots stile Band, blues, rock, ballate e musica del sud degli States in generale e da quello che ho sentito mi sembra un gran bel disco.

Henry Wagons, era il leader, non so se ricordate, dei Wagons, una band australiana che però faceva un country-rock che più americano non si poteva in un disco omonimo molto bello, pubblicato nel 2011. Questo mini album con 7 pezzi Expecting Company?, in Australia è gia uscito da ottobre dello scorso anno, ma ora viene distribuito anche in America ed Europa la settimana prossima, tramite la Thirty Tgers. Come lascia intuire il titolo si tratta di una serie di duetti con Robert Forster dei Go-Betweens, Alison Mosshart dei Kills, Patience Hodgson dei Grates, Sophia Brous, per uno stile che mescola country, brani alla Nick Cave, gothic rock e Johnny Cash o Willie Nelson con ottimi risultati, da sentire!

Alla prossima (so che che questa è la rubrica più letta del Blog)!

Bruno Conti

Una Bella Voce Femminile “On Stage” – Shelby Lynne CD+DVD Live

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Shelby Lynne – Live – Everso Records  – Deluxe Edition CD/DVD – Disponibile anche una versione 2 CD + 2 DVD Revelation Road De Luxe Edition con un DVD documentario extra e il CD Revelation Road con 5 tracce acustiche bonus

Shelby Lynne è una singer songwriter originaria della Virginia, di Quantico e per chi non lo sapesse, nella vita reale è la sorella maggiore di Allison Moorer maritata Earle (Steve), con una onesta ventennale carriera alle spalle, certificata da un buon numero di album pubblicati che l’attestano come una veterana della scena di Nashville. Shelby (molto carina come la sorella), non è un’artista country nel senso stretto del termine, perché la sua musica tocca anche il blues, il soul, il roots rock, il pop raffinato, persino il western swing, e questo suo eclettismo, pur in presenza di riconosciute grandi potenzialità, è stata forse la ragione delle sue difficoltà ad imporsi al grande pubblico. La svolta è arrivata con I Am Shelby Lynne (1999) un album di country got soul sofisticato, che l’ha portata ai Grammy (ed ha venduto come tutti i suoi dischi precedenti messi insieme), bissato dallo splendido Just A Little Lovin’ (2008) ispirato alla sua passione per una cantante inglese, la bionda Dusty Springfield (oggi ormai quasi dimenticata, ma non in Inghilterra e dai buongustai della musica), sino ai più recenti Tears, Lies and Alibis (2010) e Revelation Road (2011).

(*NDB. Breve intermezzo. Visto che chi scrive abitualmente su questo Blog ama moltissimo la voce (e tutto il resto di Shelby Lynne) vi inserisco il link se volete andare a rileggere la recensione di Tears, Lies And Alibis index-1.html Bruno.)

E proprio in seguito alla promozione del tour di Revelation Road, la cantante americana incide il suo primo lavoro dal vivo (anche se c’era già stato un DVD nel 2007), registrato al famoso McCabe’s di Santa Monica. il 19 Maggio del 2012, e nelle 18 tracce del CD, la Lynne. davanti ad un pubblico estremamente preparato, ripropone in versione “solo acustica” brani del suo più recente repertorio, e Shelby supera a pieni voti l’esame, dimostrando tutta la sua bravura nell’esecuzione di Lead Me Love, Even Angels, Heaven’s Only Days, Leavin’, Life Is Bad, e la stupenda Your Lies. Il formato DVD allegato in questa Deluxe Edition, testimonia anche visivamente tutto questo mostrandola pure in un magico concerto londinese, tenuto nella straordinaria cornice e atmosfera della Union Chapel, il 25 Febbraio dello stesso anno.

Certi artisti non hanno bisogno di sfornare capolavori su capolavori, non necessitano ogni volta di rivoluzionare il proprio stile per convincere critica e appassionati, Shelby Lynne fa parte di questa categoria di autori, ed è impossibile non amarla, specialmente dopo l’ascolto di questa performance live, dove si presenta da sola, voce e chitarra, splendida nella sua nudità artistica, mentre snocciola i propri brani all’adorante platea. Consigliato a tutti coloro che non disdegnano un certo songwriting di classe e per niente scontato, e cosa non trascurabile la signora è affascinante, e per chi scrive, la migliore della famiglia.

Tino Montanari

Vecchia Scuola Blues – Willie Buck – Cell Phone Man

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Willie Buck with the Rockin’ Johnny Band – Cell Phone Man – Delmark

Un disco ogni trenta anni non è propriamente una media da scudetto, ma nel Blues succede: Willie Buck è uno degli ultimi veterani della scena di Chicago, un cantante dalla voce ancora poderosa e pimpante, diretta discendente di quella di Muddy Waters (di cui quest’anno si ricordano,rispettivamente, i 30 dalla morte e il centenario della nascita, 1913) del quale ricorda moltissimo la voce, fin nelle inflessioni più particolari. Ma non è imitazione, è proprio sincera ammirazione, per questo musicista, in pista dagli anni ’50, ma che a livello professionale ha pubblicato solo due dischi, The Life I Love (uscito in origine a livello locale, con un altro titolo, nel 1982 e recentemente ristampato dalla Delmark) e ora questo Cell Phone Man.

Questo signore è uno degli ultimi baluardi di quel tipo di suono fifties e ha trovato nella Rockin’ Johnny Band, band di bianchi ma dallo spirito “nero”, anche loro innamorati di quello stile, un gruppo di accompagnatori molto affidabile: Buck lamenta la sempre maggiore difficoltà nel trovare musicisti in grado di riprodurre questo tipo di sound, sanguigno ed elettrico, ma tradizionale al tempo stesso, senza scadere (a suo parere) nel blues-rock. In questo senso le canzoni e la musica di Waters la conoscono tutti, quindi se i suoi contemporanei sono sempre meno, nuove generazioni pronte a scandire le 12 battute in modo classico si trovano sempre. E allora vai con la chitarra elettrica di Rick Kreher (il solista della band di Rockin’ Johnny, che in qualità di leader appare come seconda chitarra e all’acustica in due brani), la sezione ritmica di John Sefner al basso e Steve Bass (?!?) alla batteria, più gli ospiti Barrelhouse Chuck al piano (e qui con nome e soprannome ci siamo) e, doppia razione di armonicisti, Bharath Rajakumar e Martin Lang che si dividono lo strumento (spesso elettrificato, nella migliore tradizione) a seconda dei brani. Di quelli a firma Muddy Waters o McKinley Morganfield (spiegare la differenza) ce ne sono ben cinque, più tre PD (non quello che pensate anche se siamo in periodo elettorale, sta per Pubblico Dominio), un paio di cover e nove brani a nome Willie Buck.

Ma il risultato è sempre quello, innestato il drive che fu delle band varie del grande Muddy negli anni ’50 e ’60, Buck provvede a “rinfrescare” e riproporre il repertorio del classico Chicago sound di quegli anni, imparato a memoria quando nel corso degli anni, durante i weekend (perché prudentemente si era tenuto, per vivere, il suo mestiere di meccanico), suonava nei vari club della Windy City e quindi a lui, rock and roll, soul, funky e disco gli fanno un baffo, per il nostro amico c’è solo il blues, elettrico, ma nel solco della tradizione, basato sull’interazione tra la sua bella voce e l’interscambio tra i vari solisti, piano, armonica e chitarra elettrica. Qualche concessione ad un suono acustico, come in una bellissima versione di Two Trains Running di Mastro Muddy, solo voce e chitarra, e I wanna Talk with My baby, nuovamente in questo formato intimo, sono le uniche variazioni sul tema principale.

Per il resto l’unica concessione di Buck alla tecnologia è il cellulare che lo riprende in azione sulla copertina del CD. Dal Mississippi della sua adolescenza a Chicago il tragitto è stato relativamente breve e da lì non si più mosso. In questo caso non vi sto a nominare i nomi dei vari brani che compongono questo album, non ce n’è bisogno, il livello è medio alto e la passione che fuoriesce dai solchi (ok, dai bytes) è chiaramente palpabile e, il che non guasta, il disco non è caratterizzato da quella filologia sonora ricercata a tutti i costi che spesso rende noiosi e pallosi molti dei dischi di blues tradizionale che escono di questi tempi. Meglio, piuttosto, del sano rock-blues, duro o chitarristico o dischi di sani principi come questo Cell Phone Man, disco che potrebbe essere uscito, che so, anche nel 1957, ma visto che vede la luce oggi, lo segnalo all’attenzione degli appassionati del buon Blues d’annata!

Bruno Conti

Una Voce Senza Tempo! Rachel Brooke – Down In The Barnyard & A Killer’s Dream

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Rachel Brooke – Down In the Barnyard Self Released

Rcahel Brooke – A Killer’s Dream – Self Released

Questa è una ragazza di talento, di grande talento, una nuova cantante, ma che vive in un mondo musicale situato nel remoto passato, ai tempi di Jimmie Rodgers o della Carter Family, o al limite potrebbe essere una “collega” di Hank Williams ai tempi del programma radiofonico Lousiana Hayride, o se vogliamo andare in tempi più “moderni” pensate a una Loretta Lynn o a Patsy Cline, se fossero state delle folk singers munite solo di chitarra acustica. “Giù nell’aia della fattoria”, che è il titolo di uno dei due CD, rigorosamente auto distribuiti, quello di fine 2011, il primo ed il migliore dei due di cui mi occupo (a mio parere e per il momento). Ne ha fatti anche altri, da sola o in compagnia di Lonesome Wyatt dei Those Poor Bastards, un duo di “disperati” che hanno una discografia immane di old country gotico delle radici, se così si può definire. Anche la nostra amica come eccentricità non scherza: l’ultimo album, A Killer’s Dream, oltre che in vinile è stato pubblicato anche su cassetta (!!!), se volete verificare sul suo sito www.rachelbrookemusic.com/ , ma c’è anche per il download digitale in questa miscela di vecchio e nuovo.

Tornando a Down In The Barnyard, la prima cosa che colpisce (e che ha attizzato tutta la stampa indipendente e underground americana) della giovane del Michigan, è la voce: pura, vibrante, squillante, indolente e un po’ birichina. Quando parte il primo brano dell’album, The Barnyard appunto, ti pare di venire scaraventato nel passato, in un mondo che quasi non esiste più (ma in America non è detto), una novella Maybelle Carter, quasi 6 minuti di stream of consciousness a tempo di banjo e chitarra acustica, con un testo lunghissimo (per fortuna accluso nel libretto del CD) che rivaleggia con quelli dei folksingers più verbosi ma mai noiosi, la voce double-tracked, perché la ragazza apprezza anche la tecnologia, e questa tonalità naturale degna della old time più rigorosa ma anche a suo modo “moderna”. Lonesome For You con una grancassa che scandisce il tempo, potrebbe far pensare a una one-woman-band, quelle cantanti di strada che si incontrano a feste paesane e piccoli festival, con il suo country blues un po’ dolente ma scanzonato. Must Be Somethin’ In The Water con il picking dell’acustica ed una elettrica sullo sfondo è una specie di valzerone ninna nanna che ti culla a tempo di country e tu ti rilassi e dimentichi le preoccupazioni della vita moderna, poi, d’improvviso, nel finale, il chitarrista alza il volume della sua chitarra a undici con una svisata violenta, entra un batterista e fanno un finale country-punk con lei che canta serafica ed imperturbabile. City Of Shame introduce anche un violino malandrino che sottolinea il country folk del brano mentre Me And Rose Connelly, sempre con voce raddoppiata, ha un suono più tipicamente country.

How Cold è un lamento amoroso a tempo di country blues e Meet Me By The Apple Tree, di nuovo con il banjo a sostenere la chitarra di Rachel, è sempre in quel filone country atemporale e la lunga e narrativa The Legend Of Morrow Road, con un piccolo rumore di statica (una vecchia radio?) aggiunto con la tecnologia, ha il fascino delle ballate ricche di atmosfera. Rinuncio a parlare di tutti i brani (ma il rockabilly mosso di Mean Kind Of Blues fuso con lo yodel, una citazione la merita), cosi riesco ad illustrare anche l’album successivo, questo Down In The Barnyard ha comunque un fascino senza tempo, che lo rende un prodotto quasi unico nel panorama musicale attuale, filologico senza essere rigoroso o palloso, certo non il country della Nashville tradizionale ed è piaciuto moltissimo pure a Shooter Jennings che lo ha inserito tra gli 11 migliori dell’anno.

A Killer’s Dream, uscito a dicembre 2012, colpo di scena, introduce il sound di una band, i Viva Le Vox dalla Florida, altri tipi poco raccomandabili e fuori di testa, ma ottimi musicisti, che fanno  virare il suono (anche con altri musicisti presenti nel disco) verso un suono tra jazz, country, torch songs o il singolo A Killer’s dream, dove sembra una ragazza yé-yé, o la sorella dei Beach Boys, con  assolo di xilofono incorporato, ma anche il favoloso blues con uso di slide di Serpentine Blues o il breve brano accapella nell’iniziale Have It All, seguito da un altro blues come Fox In A Hen House e dalla nuova versione di un suo vecchio brano in versione jazzata con tanto di tromba e timpani come Late Night Lover o una delle sue rarissime cover, Every Night About This Time di Fats Domino, rallentata ma sempre molto fifties, mentre Life Sentence Blues è uno dei pochi brani nel vecchio stile country blues, a cui mi stavo abituando nell’album precedente.

Per il momento ho ancora una preferenza per Down In The Barnyard, ma anche quello nuovo sentito bene comincia ad entrarmi in circolo. Nella lunga Old Faded Memory, all’inizio Lonesome Wyatt sembra Vinicio Capossela e in Ashes To Ashes, Rachel Brooke rispolvera quella sua tonalità naturale tra torch song e yodel che è deliziosa. Molto bella anche The Black Bird con assolo di “saw” e cartone animato nel video, ma vi pare, non è normale! In definitiva questo è un nome da tenere d’occhio e anche da ascoltare con le orecchie bene aperte.

Bruno Conti      

Un Gallese In Australia. Gwyn Ashton – Radiogram

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Gwyn Ashton – Radiogram – Fab Tone/Proper

Anche Gwyn Ashton è un “cliente abituale” del sottoscritto, un nome ricorrente: avevo parlato sul Busca del suo precedente album, Two-Man Blues Army, un onesto, anche buono, esercizio di rock-blues, rock classico, influenzato da Hendrix e Gallagher e con un notevole tiro chitarristico. Per chi non avesse letto quella recensione, ricordo che Ashton è un gallese emigrato in Australia da ragazzino, dove è diventato uno dei punti di riferimento della scena blues down under, con una discreta carriera alle spalle e forse un punto di arrivo nell’album citato. Ora con questo Radiogram, registrato in Inghilterra, mixato a Los Angeles e masterizzato in Australia, il nostro amico Gwyn sposta l’asse sonoro della musica verso un sound più tipicamente rock, anche radiofonico come lascia intendere il titolo del CD, nel senso della vecchia radio FM degli anni ’70, dove potevi ascoltare musica più composita.

La vena blues è sempre presente e anche l’amore per Hendrix e certo rock-blues classico, I Just Wanna Make Love per il primo e Don’t Wanna Fall, che ha nel riff più di un punto di contatto con Badge dei Cream, per il secondo. Il blues è più mascherato: quando leggi, sul badge della copertina, appunto, il nome di Kim Wilson tra gli ospiti del disco, ti viene da esclamare “apperò”, poi ascolti l’iniziale Little Girl dove appare l’armonicista di Detroit (eh sì, perché non è ne californiano né texano, come pensano in molti) e lo ritrovi solo nei venti secondi dell’outro del brano e potrebbe essere chiunque, anche il gatto dei miei vicini, o l’ottimo Johnny Mastro che poi suona in altri brani come la bluesata, questa sì, Let Me In. Cosa voglio dire con questo? Che Gwyn Ashton è un buon musicista, un pedalatore delle sette note, ma rimanendo nel paragone ciclistico, non è un fuoriclasse, uno da “classiche” o Giri, è uno che può vincere la corsa di giornata, ha classe alla chitarra, un buon tocco, ma non rimarrà nella storia della musica, anche se nello stesso tempo, gli appassionati del genere rock/Rock-blues possono accostarsi con piacere a questo disco, certi di non beccarsi la fregatura epocale.

Si può acoltare la ballatona power-rock di spessore, come Fortunate Kind, con armonie vocali di Mo Birch, vecchia veterana della scena musicale e la seconda chitarra di Robbie Blunt, indimenticato, da pochi, chitarrista dei Bronco, una quarantina di anni fa e in anni più recenti nella band di Robert Plant. Oltre all’hendrixiana I Just Wanna Make Love (che è poi quella di Willie Dixon), la chitarra di Ashton si gusta anche nel power-trio rock di Dog Eat Dog o nella raffinata Angel (che non è quella di Jimi). Se proprio vogliamo essere pignoli Ashton non è un fulmine di guerra come cantante ma se la cava egregiamente tutto sommato e nella finale Bluz For Roy, presumo dedicata a Buchanan, sciorina un repertorio da chitarrista coi fiocchi, con un intricato lavoro  di toni e finezze varie, da certosini della Fender (che fa bella mostra di sé nel libretto interno del dischetto). Anche For Your Love non è quella degli Yardbirds, ma permette all’ospite Don Airey (che è proprio quello di Deep Purple e Rainbow) di dare una rinfrescata al suo organo (inteso come strumento musicale, bisogna stare attenti al doppio senso) e anche Comin’ Home, con un discreto lavoro alla slide di Ashton, completa il cerchio sonoro dell’album con un omaggio al vecchio rock classico inglese degli anni ’70.

Bruno Conti