Nel Suo Campo Era Un Maestro! – Storm Thorgerson 1944-2013

 

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Nel mondo della musica mondiale una parte sicuramente fondamentale, specie con il formato LP, è sempre stata rappresentata dall’artwork delle copertine dei dischi, e tra i principali capiscuola in questo settore vi era senza dubbio l’inglese Storm Thorgerson, scomparso ieri a soli 69 anni dopo una lunga malattia.

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Il nome di Thorgerson sarà per sempre legato a doppio filo (anche triplo) a quello dei Pink Floyd, avendo progettato, sia come membro dello studio Hipgnosis (di cui fu uno dei fondatori) negli anni ’60 e ’70, sia come freelance negli anni a seguire, circa il 90% delle copertine della band inglese: opere ormai entrate nell’immaginario collettivo come il prisma di The Dark Side Of The Moon, il maiale volante di Animals, l’uomo che brucia di Wish You Were Here, le immagini concentriche all’infinito di Ummagumma, anche se forse la mia preferita rimane la fila interminabile di letti di A Momentary Lapse Of Reason.

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Forse però pochi sanno che Thorgerson collaborò con una serie lunghissima di altri artisti, fra cui Peter Gabriel (i primi tre album da solista), i Led Zeppelin (Houses Of The Holy, Presence e In Through The Out Door), i Black Sabbath (Technical Ecstasy, non tra le sue opere migliori), gli Scorpions, i Phish (il live Slip, Stitch And Pass), i Rainbow, i Dream Theater, fino in tempi più recenti ai Mars Volta e agli ultimi due lavori a sfondo blues della Steve Miller Band.

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Un artista per il quale il termine geniale una volta tanto non era sprecato, uno stile visionario e sicuramente ispirato dal surrealismo di Magritte o Dalì, con la particolarità non comune di rendere le sue opere originali ma dove allo stesso tempo il suo tocco era immediatamente riconoscibile.

Ora che non è più tra noi potrà finalmente osservare da vicino il lato oscuro della luna.

Rest In Peace.

Marco Verdi

Piovono Chitarristi 3. Anteprima Popa Chubby – Universal Breakdown Blues

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Popa Chubby – Universal Breakdown Blues – Mascot/Provogue 23-04-2013

Continua il ritorno di Popa Chubby! O meglio, non è che Ted Horowitz se ne fosse mai andato, ma i suoi ultimi dischi non erano sempre il massimo, fino al precedente Back To New York City che già mostrava la voglia del buon Popa di tornare al suo credo: Blues, ancora blues (rock), un po’ di Jimi e tanta chitarra. Il passaggio ad una nuova casa discografica indubbiamente ha giovato, ma questo Universal Breakdown Blues lo ribadisce e ci presenta un musicista decisamente provato dai problemi familiari che lo hanno interessato di recente, ma che proprio attraverso la musica esorcizza i suoi dispiaceri e li sublima in una serie di brani che lo riavvicinano agli standard qualitativi di inizio carriera, ai tempi di Booty And The Beast per intenderci. Suonato e cantato con grande partecipazione, questo nuovo album si avvale di una serie di brani che, senza cedimenti, ci riportano al chitarrista che abbiamo conosciuto ed amato ai primi tempi (e che comunque ha sempre saputo tenere fede alla sua fama, sia pure con qualche cedimento anche evidente qui e là).

Un brano emblematico di questo ritorno alla miglior forma è la cover di Somewhere Over The Rainbow, una versione che se la batte con quella di Jeff Beck come migliore ripresa strumentale del classico del Mago di Oz, vibrante e giocata su un lavoro di fino di toni e volumi dimostra la tecnica raffinata allo strumento di questo signore, che mette sul piatto anche una grinta e una carica poderose in questa esibizione registrata, presumo, dal vivo (non so dove e quando, perché non ho le note del CD, ma ad un certo punto si sentono degli applausi di puro entusiasmo, nel finale del pezzo). E non è che la versione di Beck scherzasse come intensità. Ma già dall’apertura con una I Don’t Want Nobody, bluesatissima in puro stile SRV, si capisce che questa volta non si fanno prigionieri o si concedono tregue, la voce e la chitarra sono quelle delle grandi occasioni (musicali), la ritmica è vivace e pimpante, l’organo Hammond sullo sfondo è perfetto nelle sue coloriture, grande partenza. I Ain’t Giving Up è una dichiarazione di intenti di fronte alle difficoltà della vita di tutti i giorni, una ballata tra soul e blues con la solista di Horowitz che inchioda un breve assolo tra i più sentiti della sua carriera, fluido e lirico, come poche altre volte, mentre la parte cantata, con delle belle armonie vocali in puro stile soul, è tra le più convincenti. Universal Breakdown Blues è un rock-blues hendrixiano, con pedale wah-wah a manetta, sentito mille volte ma quando è ben suonato ti prende sempre e qui Popa Chubby è nel suo elemento, come pure nella cover di Rock Me Baby, altro tour de force costruito sulla versione del mancino di Seattle, con qualche deviazione verso i territori cari allo Stevie Ray texano, altro praticante della setta degli adoratori dell’Hendrix più blues.

A proposito di blues, slow blues per favore, ce n’è uno straordinario, come The Peoples Blues, in questo nuovo album, otto minuti e un torrente di note che ti colpisce in piena faccia come un treno lanciato verso la sua meta,ma che non dimentica la lezione di BB King, tante note ma non troppe. Anche in brani più rilassati come 69 Dollars, la musica e la chitarra scorrono fluide come raramente si ascolta nel genere, grande controllo e gran classe. I Need A Lil’ Mojo è un piacevole funky-rock vagamente New Orleans style, mentre Danger Man è un altro breve episodio ad alta concentrazione wah-wah, a dimostrazione che anche i brani “meno riusciti” sono comunque di buona qualità e la chitarra è in ogni caso all’altezza delle aspettative. Take Me Back To Amsterdam (Reefer Smokin’ Man) con slide d’ordinanza in evidenza è un altro omaggio alle radici blues della nostra “personcina”, che ha anche rinunciato alla parte di Shrek in un musical di Broadway per dedicarsi alla musica che ama di più. Al limite la può infarcire con qualche ulteriore influenza, riff tra Stones, R&R e ZZ Top, come in The Finger Bangin’ Boogie o nuovamente “selvaggio” come nella tirata conclusione di Mindbender. Per chi ama il genere una boccata di aria fresca, quel tipo di disco dove i vari elementi, già sentiti e risentiti, si incastrano alla perfezione e alla fine ti ritrovi con quella espressione un po’ da pirla di quando ascolti qualcosa che non pensavi potesse piacerti ancora una volta, però, non è male…

Bruno Conti

Record Store Day 2013 – Lowlands Left Of The Dial + Ed Abbiati Speaks (Ma Anch’io)…! Parte II

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Lowlands – Left Of The Dial – Everybody Knows This Is Nowhere – Gypsy Child/IRD

Part Two

 

Ci eravamo lasciati mentre nell’ingresso del teatro, dove si svolge la conversazione, entra Roberto Diana, con tutti i suoi riccioli al seguito e si scambiano due chiacchiere veloci: il suo disco Raighes Vol.1 (regolarmente disponibile anche negli Stati Uniti, tramite CD Baby, mentre in Italia la distribuzione è sempre tramite IRD), è candidato alla 12° edizione degli Independent Music Awards nella categoria Instrumental Album. Si tratta di un premio un po’ sotterraneo” che si tiene negli States, anche se tra i votanti ci sono Tom Waits e la moglie Kathleen Brennan, Suzanne Vega, Brandi Carlile, Judy Collins, Shelby Lynne, Anthony De Curtis di Rolling Stone (uno dei pochi giornalisti americani che si può ancora leggere, NDB), Bruce Iglauer della Alligator, il mitico Bob Ludwig, Jim Lauderdale, Del McCoury e tantissimi altri, quindi mica cotica, come si dice dalle nostre parti, ma non credo in Sardegna da dove proviene il buon Roberto (che penso avrebbe piacere di avere il suo nome scandito dall’equivalente della Loren come fu per Benigni agli Oscar)  http://www.independentmusicawards.com/imanominee/12th/Album/Instrumental.

Tra i vincitori nel corso degli anni e in varie categorie: Mary Gauthier, Ronnie Earl, Chris Whitley, Darrell Scott, Johnny Dowd, Koko Taylor, Dan Zanes, Webb Sisters.

Il prossimo capitolo, Raighes Vol.2 sarà dedicato alla musica elettrica (anche se nel primo volume ci sono altri 6 musicisti coinvolti tra cui il famoso assolo alla Olivetti lettera 22 di Furio Sollazzi).

Torniamo all’intervista.

Parliamo anche dei nomi situati sotto il suo Pantheon (Dylan, Springsteen & Waits, se non ricordo male), oltre ai citati Will T Massey, Wilco, i Soul Asylum, Replacements, Waterboys, io butto lì Van Morrison (che Ed ammette di avere ascoltato poco, rischiando il linciaggio del sottoscritto), si parla dei gruppi dove c’era un o una violinista.

Per me (è di nuovo Ed che parla) nei Lowlands il violino è stato e sarà sempre Chiara e non è sostituibile (lancio il nome di Amanda Shires che ha suonato anche con loro ma Ed giustamente dice che lei ha una sua carriera e quindi al limite collabora con Todd Sneider e qui casualmente si viene a parlare dei vari musicisti passati per la MCA ed “elegantemente” fatti fuori, oltre a Will T Massey, Sneider e in precedenza Steve Earle e Joe Ely)

Poi chiedo, già che è presente anche Roberto Diana, se oltre a prodursi fra di loro, hanno fatto altre produzioni e…

Abbiamo prodotto gli scozzesi Donald e Jen MacNeill ma siamo pronti per eventuali richieste, aspettiamo che qualcuno ci chiami, ho detto ai Mandolin, va bene Jono Manson, ma mi sarei offerto anch’io, comunque ribadisco che siamo pronti, i Lowlands attendono clienti.

Si riparla brevemente di Raighes e poi mi “scappa” di parlare di un altro Beautiful Loser come Tom Jans e anche di Richard Farina. Anche di chitarristi, Michael Hedges, John Fahey, Leo Kottke, Peter Lang, Bert Jansch, Davy Graham visto in latteria a Londra negli anni ’70 dal sottoscritto.

Poi parlando di progetti prossimi cosa bolle in pentola?

Abbiamo il secondo disco di Roberto, quello elettrico, se mi chiamerà a produrlo, poi stiamo lavorando anche a diversi dischi Lowlands, anche se non i Live che non mi hanno soddisfatto (a domanda specifica del sottoscritto, dice che prima o poi) io e Roberto ci chiuderemo in uno studio per ascoltare tutto il materiale registrato, ma fino ad oggi quello che ho sentito non è inciso abbastanza bene per una uscita discografica (provo a suggerire un intervento di Jimmy Page per sbloccare la situazione, ma visti i tempi, viene scarta, come anche l’idea di un bel box di Bootleg Tapes) e comunque mi viene ribadito fino a che abbiamo materiale nuovo preferiamo lavorare su quello, neanche l’idea di usarlo come bonus ci attira. Abbiamo fatto dei recital acustici dal vivo ma quelli sono usciti gratuitamente, un live elettrico pronto non lo abbiamo (e comunque c’è un vedremo poco convinto anche all’idea dei bonus in dischi di studio), materiale da cinque o sei concerti registrato in multi traccia lo abbiamo anche a livello professionale ma necessiterebbe di un lavoro sui mix ma non abbiamo il tempo di farlo.

A questo punto finisce lo spazio audio della memoria del mio telefonino e passiamo a quello di Ed per un’ultima parte di intervista.

Parlando dei due brani fatti per il record store day era stato registrato altro materiale in quell’occasione nello studio in Galles?

In Galles solo quei due brani, poi in Italia abbiamo registrati altri brani acustici io e Roberto, anche prima di quell’occasione abbiamo registrato un intero concerto dal vivo elettrico, che è passato sulla televisione gallese, un’ora di registrazione ufficiale, anche se non credo che gli artisti locali abbiamo sentito la pressione per questa nostra operazione (il vostro fedele intervistatore riesce anche a fare una bella topica, citando i Runrig, che in effetti sono scozzesi e quindi stendiamo un velo pietoso, il gaelico mi ha dato alla testa). Quindi la sera in cui abbiamo registrato il live ufficiale di studio abbiamo chiesto di dormire lì, proprio nello studio dove è stato anche girato il video, infatti se guardate attentamente tra batteria e strumenti si vede “materiale” per dormire, poi abbiamo chiesto al fonico di fermarsi per fare quelle due cover che erano quelle che suonavamo nei concerti, e abbiamo avuto l’idea di registrarle, per poi pubblicarle nel Record Store Day, ho chamato l’Ird, ho chiesto “vi va di farlo insieme a noi”, mi hanno detto proviamo anche se non lo abbiamo mai fatto.

Altre cose come Lowlands?

La primavera scorsa (inteso come 2012) abbiamo “lavorato” con Chris Cacavas che era venuto a Pavia e abbiamo scritto un disco assieme che si spera entro la fine dell’anno di potere registrare, mentre il nostro ultimo disco Beyond è uscito anche in Inghilterra per la Stovepony che è la stessa etichetta di Steve Cantarelli (allora non avevo ancora avuto tempo di sentirlo, nel frattempo ascoltato, molto bello). Quindi ricapitolando abbiamo quel disco con Cacavas che bisognerà capire se uscirà come Lowlands o meno. Poi abbiamo un disco acustico che si chiamerà “Love, etcetera” di cui abbiamo già inciso 16 o 17 canzoni io e Roberto con una Marching Band, quindi con fiati, non in stile balcanico, e ci stiamo lavorando. E sempre con Roberto stiamo iniziando a lavorare anche al prossimo disco elettrico dei Lowlands e anche in questo caso abbiamo 13 o 14 brani pronti.

Gli chiedo se il disco con Cacavas è elettrico e Ed me lo conferma.

I demo del disco sono stati registrati con la formazione attuale del gruppo, quella dei concerti e dell’EP per intenderci ma il disco nuovo difficilmente sarà pronto prima del 2015 mentre quello acustico con l’aiuto di alcuni degli amici che hanno partecipato al progetto di Woody Guthrie dovrebbe essere “pronto” nei prossimi 18 mesi.

Saltando di palo in frasca gli chiedo se al di fuori dei dischi della band ha partecipato solo ai Tributi a Springsteen (era inevitabile parlare di Bruce) e a quello dei Beatles.

Per quello di Springsteen con Soul Driver (uno dei brani migliori di Human Touch, non un capolavoro ma non così “orrido” come molti lo ricordano) l’ho scelto proprio volutamente perché il pezzo mi piace e anche perché delle 30 o 40 che tu dici (gli ho detto che tante migliori ce n’erano) molte erano chiaramente inavvicinabili, di quelle che lui ha “sbagliato” in studio questa era una delle migliori ( e rimane adamantino nella sua convinzione, anche se provo a dirgli che tra gli “scarti” del cofanetto di inediti Tracks c’era da pescare di meglio). Soul Driver era un gran pezzo che abbiamo fatto nostro con la band e non abbiamo dovuto sgomitare per averlo.

Quindi tornando alle date di uscita, entro l’anno spero quello con Cacavas e forse anche quello acustico.

Ma scrivi primi i testi o la musica e fai tutto tu?

Dipende a seconda dei casi e comunque, sì, faccio tutto io anche se per il prossimo disco elettrico dei Lowlands io e Roberto abbiamo iniziato a collaborare in alcuni brani e anche se non saremo i nuovi Jagger-Richards o Lennon-McCartney, il nuovo disco con Chris Cacavas lo abbiamo scritto a quattro mani, cosa che non pensavo di essere in grado di fare e anche con testi e/o musica di entrambi, un mix delle due cose. Infatti nel disco cantiamo tutti e due e quindi è in insieme dei due sound, parte Lowlands, ma anche con il suo tocco. Comunque decideremo a maggio quando Chris verrà in Italia per registrare un disco dal vivo acustico a Spazio Musica di Pavia, se sarà come band o con altri nomi. Ma dipenderà anche dai soldi che si raccoglieremo con i concerti e a parte la data di Stoccolma, una al Rock and Roll di Rho e una, probabile, a Pavia, in piazza, a giugno il giorno 8, per festeggiare i 10 anni del mio ritorno in Italia non c’è altro al momento (quindi organizzatori, se leggete questo spazio, fatevi avanti!) nella stessa occasione in piazza, in altre date, ci saranno anche Willie Nile e James Maddock con le rispettive band (quindi segnatevi pure questo).  

Si parla infine della situazione “tragica” dei negozi che chiudono un po’ dovunque e di come andrà la vendita dell’EP, io faccio l’ottimista e dico che verranno vendute tutte le 200 copie stampate per l’occasione (più qualcuna da vendersi ai loro concerti) e si dice insieme un bel speriamo!

Secondo noi il Record Store Day è un bel evento, noi lo abbiamo sempre festeggiato a Pavia (anche se quest’anno come avete letto nel primo Post, i Lowlands saranno a Stoccolma), e il fatto che ci sia molto materiale in vinile e poco in CD (a parte un CD EP dal vivo dei R.e.m.) significa meno concorrenza per noi! Ci sarebbe piaciuto farlo anche in vinile, ma abbiamo visto i costi e non riusciamo a farlo (al che mi permetto di ricordare che però sarebbe stato l’unico loro vinile, visto che i titoli precedenti non erano mai usciti in LP). Tra l’altro questa primavera abbiamo fatto anche pochi concerti, abbiamo cercato ma non abbiamo trovato molto, Roberto e io abbiamo fatto delle date acustiche, ma full band troppo caro, pochi soldi che girano. Bisognava venirci a vedere lo scorso inverno, quello è stato un buon tour (ma gli ricordo che non è che neppure a Milano ci sia questo gran fermento di concerti e spesso le cose si sanno all’ultimo, tipo un concerto gratuito di Dirk Hamilton la sera precedente al momento in cui stiamo parlando).

Esauriti il tempo, gli argomenti e spero non la pazienza di Edward ,che è stato gentilissimo, concludiamo questa chiacchierata.

Quindi sapete che il vostro dovere è quello di comprare l’EP di Left Of The Dial per due motivi: perché è bello e perché gente che fa buona musica, con passione, come Ed Abbiati, non ce n’è tantissima in Italia e in giro per il mondo, anche se più di quello che si pensa, come chi legge il Blog spero verifichi giornalmente.

Direi che è tutto o that’s all folks, se preferite, fine anche della parte due!

Bruno Conti

P.s. Per qui due o tre(mila) che non lo sanno, Left Of The Dial, sta per a sinistra della manopola, ovvero il posto dove, nelle vecchie radio anni ’80, stavano le stazioni che trasmettevano il cosiddetto college rock (R.e.m., Replacements appunto & compagnia bella), il primo rock indipendente di quegli anni,  buona musica in definitiva, quasi sempre.

Un Romantico Poeta Canadese. Stephen Fearing – Between Hurricanes

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Stephen Fearing – Between Hurricanes – LowdenProud Records 2013

Ma chi è questo cantautore? Ebbene, per chi non lo conosce, Stephen Fearing è un canadese, di Vancouver per la precisione, scoperto da Steve Berlin dei Los Lobos, ma anche noto come membro fondatore del trio canadese Blackie And The Rodeo Kings, con i due soci Tom Wilson e Colin Linden (progetto grazie al quale si è portato a casa un Juno Award, equivalente dei Grammy). La storia artistica di Fearing merita una breve introduzione: Stephen, come detto, nasce in quel di Vancouver da una mamma irlandese e da un padre inglese, si trasferisce a Dublino fino alle scuole superiori, e fra i suoi compagni di classe ci sono elementi degli U2. A diciotto anni visita gli Stati Uniti, in seguito si iscrive alla British Columbia ad Alberta, dove vive la sorella, e da li inizia una gavetta di almeno una decina d’anni, trascorsi a suonare in piccoli Clubs, diventando un ottimo chitarrista. Dopo i commenti positivi dei primi due dischi Out To Sea (88) e Blue Line (91) (purtroppo ormai introvabili) incide The Assassin’s Apprentice (93) un piccolo capolavoro, prodotto da Steve Berlin  e supportato in studio da Richard Thompson e Sarah McLachlan. Seguiranno negli anni Industrial Lullaby (97), l’intermezzo acustico live di So Many Miles (2000), That’s How I Walk (2002) prodotto da Colin Linden, Yellowjacket (2006), l’immancabile raccolta The Man Who Married Music (2009) e la collaborazione con il songwriter di Belfast Andy White Fearing & White (2011), recensito da chi scrive su queste pagine. una-misteriosa-strana-coppia-fearing-and-white.html Tralascio volutamente la discografia con i Blackie And The Rodeo Kings (ottima, ma che fa parte di un’altra storia musicale).

Prodotto da John Whynot (Bruce Cockburn e Blue Rodeo fra i suoi clienti) e registrato in quel di Toronto, con Between Hurricanes Fearing, in 54 minuti di grande musica, consolida la reputazione, raccontando nelle varie canzoni la tenerezza e l’umanità dei suoi personaggi. Il lavoro si mantiene su livelli di eccellenza per tutto il suo svolgimento, ma ci sono almeno cinque canzoni decisamente sopra la media e che si fanno amare in maniera particolare, partendo dalla delicata Don’t You Wish Your Bread Was Dough (sembra di sentire il miglior Cockburn), l’intro di un pianoforte intimista  in Cold Dawn (il racconto di un incidente di elicottero a Terranova), la ballata acustica Fool, una canzone sulla fragilità dei sentimenti, la folkeggiante These Golden Days, per concludere con una personale versione di un classico di Gordon Lighfoot Early Morning Rain.

Nel corso della sua carriera Stephen Fearing ha collaborato con una lunga lista di artisti tra i quali Tom Wilson e Colin Linden (suoi attuali “pards” nei BTRK), Richard Thompson e Bruce Cockburn (i suoi modelli dichiarati), Shawn Colvin e Margo Timmins (Cowboy Junkies), e, l’ultimo in ordine di tempo, Andy White, e di tutti questi personaggi (come ha dichiarato in varie interviste), ricorda il piacere di frequentarsi e scrivere canzoni insieme. Oggi Stephen, dopo aver vissuto per anni a Guelp nell’Ontario (terra ricca di castori, alci e trapper) in compagnia della poetessa Angela Hryniuk (la cui unione è stata fondamentale per l’evoluzione del musicista canadese), si è trasferito ad Halifax, si è risposato e recentemente è diventato padre. Fearing è certamente un autore di “nicchia” (ma assai stimato in patria), e questo Between Hurricanes è il risultato: un disco, che esalta le melodie folk-rock , dai testi intelligenti e mai banali, composto di umide ballate che profumano degli inverni in Canada  e mette in risalto una voce splendida per dolcezza e portamento. Questo umile recensore (e spero di diffondere la conoscenza di questo artista), rende un doveroso omaggio a tutti quei songwriters che sopravvivono fuori dal mercato.

Tino Montanari

Record Store Day 2013 – Lowlands Left Of The Dial + Ed Abbiati Speaks (Ma Anch’io)…! Parte I

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Lowlands – Left Of The Dial – Everybody Knows This Is Nowhere – Gypsy Child/IRD

La scorsa settimana ci siamo visti con Ed Abbiati per fare quattro chiacchiere (anche cinque) sulla prossima uscita del nuovo EP dei Lowlands per il Record Store Day 2013, il prossimo 20 aprile (a proposito ho visto che suonano a Stoccolma per festeggiare l’evento, due passi da qui, se siete dalla quelle parti!), e anche su passato, presente e futuro della Band, qualche giorno per trascrivere il tutto in un italiano decente (e con un po’ di editing per ridurre al minimo le prolissità, soprattutto mie, senza riuscirci credo) e fra poco potrete leggere il risultato, ma prima due parole sul dischetto…

L’EP o CD singolo, come preferite, esce in una tiratura limitata di 200 copie e come in tutti i 45 giri seri ha un doppio lato A: Left Of The Dial, la cover dei Replacements da una parte (e sopra vedete il video) e sull’altro lato (virtuale) Everybody Knows This Is Nowhere di Neil Young. Avviso per i naviganti, questi sono i Lowlands che roccano e rollano a tutte chitarre con Roberto Diana e la sua solista “all over the place”, registrato lo scorso 8 novembre a Bryn Mawr nel Galles è rock puro e semplice, non adulterato, oltre alla chitarra di Roberto, basso Enrico Fossati, batteria Mattia Martini e tastiere, piano e organo, il fido Francesco Bonfiglio, nel gruppo dai tempi di Gypsy Child, più la voce di Ed, la formula perfetta del R&R. Non vi resta che comprarlo e spararlo a tutto volume sul vostro impianto.

Passiamo alla “intervista”. Giustamente avevo detto al nostro amico: hai parlato con il Busca, con Mescalina, con varie riviste estere, facciamo quattro chiacchiere anche noi, magari anche di argomenti non trattati in precedenza, una cosa informale, detto fatto (qualche mesetto per organizzare l’incontro in terreno neutro) e via.

Domanda interlocutoria, per rompere il ghiaccio, visto che abbiamo entrambi cognomi riconducibili a calciatori, se digito su Google Bruno Conti (più chiaro per me, avendo vinto il mondiale 1982) meno per lui visto che il portiere del Milan si chiama Christian Abbiati, ma se aggiungiamo rispettivamente Disco Club e Lowlands si apre tutto un mondo di musica.

E quindi, per partire dalle origini, la prima domanda al cittadino del mondo Ed riguarda la tua origine, come molti sanno, doppia nazionalità, mamma inglese e papà italiano, ma esattamente dove? L’anno è il 1973, come riporta anche Wikipedia.

Esatto, nato a Portsmouth sulla costa inglese, poi dal 1975 al 1980 in Francia (oui) e nuovamente dal 1983 al 1986, quindi francese prima lingua, poi inglese e nuovamente francese, scuole medie e superiori in Italia e finalmente si impara l’italiano (ma non per cantare). Saltando di palo in frasca, ad inizio anni 2000 un annetto sabbatico in Australia (NDB Qui sviluppa la sua ammirazione per Tim Rogers e una delle band più interessanti di Down Under, gli You Am I, poco conosciuti, purtroppo, nelle nostre lande, ancorché “basse”) e poi “cacciato” per scadenza del permesso di lavoro e ritorno in Europa a pochi giorni dall’11 settembre, trovo un lavoro nel mio ambito che è quello dell’informatica a Londra.

La seconda domanda è: come scatta la passione per la musica? Qualche appassionato in famiglia?

La mamma, nata più o meno agli albori dell’epoca beat con i Beatles a due passi, Paul McCartney il preferito, i vinili in casa erano la raccolta di Leonard Cohen, quella di Dylan (il primo Greatest Hits), Madman Acros The Water di Elton John, la colonna sonora del Violinista sul Tetto (Fiddler On The Roof) in conseguenza del fatto che prima di diventare mamma, da giovane, fosse stata una attrice teatrale e poi la sorella maggiore negli anni ’80, per osmosi, origliando alle pareti, ti lascia sentire Cure, Depeche Mode, U2, R.e.m. mentre a Parigi negli anni ’70 nella collezione del babbo, c’era una raccolta di Modugno. Se vuoi sapere come scatta la passione per la musica, da ragazzino avendo una famiglia che per lavoro si spostava moltissimo ero abbastanza introverso, quindi ascoltavo molta musica e leggevo tanti libri, le prime cassettine fatte dalla sorella con R.e.m., Replacements (ecco qua!) ma non ricordo se, pur essendo l’84/’85 c’era Left Of The Dial, sarebbe divertente ma non ricordo, c’erano solo i nomi dei gruppi, niente titoli. In quegli anni c’era anche la passione per lo sport, il rugby soprattutto, ma a seguito di un incidente dove mi sono rotto il ginocchio, passando da quattro allenamenti alla settimana a zero, tramite un amico dell’epoca, Stefano Speroni, poi nella prima formazione dei Lowlands, gli ho chiesto di insegnarmi tre o quattro accordi sulla chitarra acustica, siamo nel 1992, a 19 anni. Subito, non essendo la pazienza tra le mie virtù, ho iniziato a scrivere canzoni mie, in inglese che era la lingua che si parlava in casa, una conseguenza del fatto che già scrivessi comunque poesie, racconti, libri già prima del ritorno in terra inglese.

Quindi erano anche gli anni delle “vacanze scozzesi” poi raccontate nel disco di Donald e Jen MacNeill?

Più o meno sono quelli, anche se si era in mezzo al nulla, di fronte al Canada (a qualche milione di chilometri), a Colonsay, Highlands scozzesi, mentre i mie zii e cugini erano a Oronsay, due volte ogni giorno in mare, lavorare in fattoria durante il giorno, nel periodo estivo, con la radio sul trattore, il pezzo di Bryan Adams (Everything I Do) I Do It for You dalla colonna sonora di Robin Hood sempre presente e cordialmente “odiato” e le canzoni alla sera che scriveva Donald, che era il musicista del luogo (NDB Breve reminiscenza del sottoscritto che ricorda di averlo visto, Bryan Adams, nel 1983 al Rolling Stone di Milano quando in giro per il mondo era già famoso, ma saranno state presenti poco più di 100 persone, una tristezza, però molto professionale, e anche bravo, agli inizi, poi due palle, fine della digressione).

A questo punto mi scappa di dire che poi è arrivato quello senza la B davanti.

Ryan Adams, io lo chiamo il migliore della mia generazione, fantastico, di recente stavo ascoltando i suoi concerti dal vivo (credo che parli del box set Live After Deaf, 15 cd dal vivo pubblicati a tiratura limitata e si viene a anche a parlare della miriade, oltre 400 che si trovano sul sito gratuito archive.org)  i miei due preferiti degli anni ’90 sono lui e Tim Rogers, l’australiano ( e a questo punto Ed, un po’ piccato per il mio scetticismo verso la fama di Tim, parte con una difesa a spada tratta degli You Am I): hanno fatto 4 o 5 Lollapalooza, il loro disco di esordio è stato prodotto da Lee Ranaldo e lui è una gran penna. Di Ryan Adams sono fiero di avere visto i Whiskeytown a Londra nel loro unico tour europeo, al Borderline vicino Tottenham Court Rd nel 1998, prima dell’inizio della fine per il gruppo (a questo punto si viene a parlare brevemente di locali e tour, di Lee Clayton che Ed non conosce, e si finisce per parlare delle gaffes di un noto giornalista italiano già ricordate su questo blog).

Torniamo al ritorno dall’Australia, a questo punto dovremmo essere ai primi passi dei Lowlands?

Per la verità a fine anni ’90 avevo già registrato dei demo a Londra di miei canzoni, con altri musicisti, mai pubblicati, genere un po’ più grezzo di quello del gruppo e anche in Australia ho registrato dei demos, che ho ancora. Nel 2002 ero di nuovo a Londra, senza lavoro nel post 11 settembe, un po’ con il culo per terra, e nell’inverno di quell’anno, ospitato da amici, ho scritto praticamente tutti i brani che poi sarebbero diventati The Last Call, tranne uno e poi nella primavera del 2003 tornai a Pavia, dove avevo fatto il liceo da ragazzino, ma non conoscevo più gli amici di un tempo. C’era già una scena locale, c’erano i Mandolin Brothers, che esistono praticamente da sempre, c’era fermento, c’era un locale giusto, Spazio Musica e dove avere sistemato la prima la mia vita, con lavoretti vari e poi un lavoro fisso, ho conosciuto Simone Fratti, il contrabbassista, c’era un chitarrista John Prunetti, Stefano Speroni, anche lui avanti e indietro da Londra, in quel periodo era a Pavia e tramite un amico americano che stava producendo un tributo ai Gourds e mi conosceva avendo sentito alcuni miei demo, mi propose di registrarne uno per il CD, peraltro mai uscito, credo siano state registrate 50 canzoni, ma l’album non è stato mai pubblicato.  Il brano in questione era Lowlands e avevo conosciuto anche il gruppo a Austin, Texas (si parla anche brevemente dei Gourds, di nuovo in pista nel 2011, del violoncellista che suonava anche con Lyle Lovett o viceversa e del gruppo collaterale di Kevin Russell,  gli Shinyribs). A questo punto, con un mezzo gruppo, perché non c’erano un chitarrista, un bassista, un batterista, a rate, quando c’erano i soldi, i Lowlands, che almeno avevano un nome, iniziano a incidere il primo album, un giorno di studio ogni tanto, con lentezza, quasi di nascosto, il primo brano inciso era l’ultimo scritto, In The End, registrato in un giorno, non c’era ancora Roberto e la Chiara è arrivata solo per fare gli overdubs a disco in fase di completamento, dal Conservatorio ma anche da gruppi rock metal che avevano aperto per gli Skid Row in Italia (l’avreste mai detto?), violino elettrico, pedale wah-wah che spesso veniva scambiato per una chitarra. Per dire la nostra attitudine dei tempi, Simone Fratti il bassista elettrico, tutto tatuato era un punk ma aveva studiato il contrabbasso al Conservatorio, la Chiara Giacobbe veniva anche lei dal Conservatorio. Io avevo già in mente il suono che volevo, tra l’acustico e l’elettrico, e sono stato fortunato a trovare dei musicisti in grado di realizzarlo alla perfezione, una parte acustica folk tradizionale e una parte elettrica, molto Replacements, un po’ rovinata, un po’ sguaiata.

A questo punto lo interrompo per giocarmi il “domandone”: sul sito inglese Americana-UK.Com siete stati definiti “Italy’s Number One Roots-Rock Band” ma che genere fate esattamente?

Anche l’unica, non ce n’è molte, ma se dovessi definire il genere per me è semplicemente Rock (e qui concordiamo), forse roots (ma i Waterboys che genere fanno? Folk-rock”) ma all’inizio ci avevano inserito nell’alternative country, ma onestamente quel genere negli anni ’90 era rock in effetti (c’erano gli Uncle Tupelo), Mellencamp era con il violino ma era rock, quindi non so che genere facevamo, anche se spero che dal feedback che ho sentito in questi ultimi mesi, dopo Beyond, la gente comincia a dire che abbiamo un suono Lowlands,  anche se la svolta senza violino ha portato un cambiamento (ma in Fragile Man suona ancora, un brano registrato prima del resto dell’album, per “ricordare” il soggetto della canzone, nato da un SMS ricevuto da questo amico che poi non ce l’avrebbe fatta, ma riuscì almeno a sentire la canzone in questa versione). Tornando al genere, mi piacciono i Waterboys, i Replacements di Tim (butto lì Wilco, perché Ed in una intervista ha detto che ogni volta che sente il nome paga da bere) perché ogni pezzo ha una sua forte personalità a prescindere dal genere, anche i Wilco all’inizio hanno avuto i loro problemi, ma stare nei Lowlands, non è stato solo per motivi finanziari, almeno credo, c’era una unità di intenti, la voglia di fare musica tra mille difficoltà, il problema dei soldi non si è mai posto, anche perché non ce n’erano o molto pochi, quasi tutti facevamo anche altri lavori per tirare la carretta, ma eravamo comunque dei musicisti professionisti, io, Chiara, Roberto, la band in generale ha voluto sempre essere presente, magari anche oltre i nostri mezzi, siamo sempre andati in giro a suonare dove ci chiamavano, tour faticosi e quello ha avuto un suo peso. Sull’evoluzione della band, ci sono stati dei momenti in cui eravamo tutti insieme e altri in cui alcuni poi se ne sono andati (si parla anche di Will T Massey, un cantante di culto che non ha avuto un grande successo ma che Ed apprezza moltissimo).

A questo punto sbuca nell’ingresso del teatro anche Roberto Diana che stava provando con il suo quartetto per un concerto serale e stava finendo la memoria audio del telefonino (il resto è stato registrato su quello di Ed) direi che possiamo interrompere qui la trascrizione più o meno fedele di quanto detto e il resto alla prossima puntata (penso domani o dopo, il tempo di scrivere il tutto).

End Of Part One, segue.

Bruno Conti

Forse Ce La Fanno! Crosby, Stills, Nash & Young – Live 1974

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A dire il vero il titolo non sarà questo (quel vecchio burlone di David Crosby vorrebbe intitolarlo What Could Possibly Go Wrong?), ma pare che il 27 Agosto (sì, di quest’anno!) uscirà in tutto il mondo, a parte le solite differenze di date tra America ed Europa, uno dei Santi Graal più attesi dai fan della musica: un live album che documenta la tournée del 1974 del supergruppo per antonomasia, cioè Crosby, Stills, Nash & Young, in un periodo nel quale i rapporti personali tra i quattro erano ai minimi storici, un tour intrapreso senza aver materiale nuovo da proporre (insolito per l’epoca) e, a detta di Stills, esclusivamente per i soldi.

Chiaramente, dato che non è stato deciso neppure il titolo, figuriamoci se si conoscono i formati (CD? Doppio CD? Sono previste deluxe edition?): è però quasi sicuro che non ci saranno DVD acclusi, pur esistendo del materiale video, in quanto Neil Young si sarebbe opposto (che strano!).

I brani sono stati scelti da Nash in accordo con gli altri, prendendo il meglio da otto/nove shows, con qualche “ritocchino” qua e là (Nash le chiama “accordature”) e verranno pubblicati pare con la migliore fedeltà audio possibile (e qui vedo ancora lo zampino di Young, sempre molto sensibile alle ultime tecnologie).

Al momento non si parla di tour promozionale: Nash e Crosby sarebbero d’accordo a fare qualche data, non proprio un vero tour, il parere di Stills non si conosce, mentre quello di Young…posso immaginarlo!

Comunque, a parte ogni facezia, questo live dovrebbe essere uno degli eventi musicali del 2013, in quanto pare che i quattro, quando erano in serata (e cioè quando limitavano l’uso delle droghe), suonassero ancora meglio che nei concerti che poi finirono sul mitico Four Way Street.

Staremo a vedere.

Marco Verdi

Piovono Chitarristi 2. The Duke Robillard Band – Independently Blue

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The Duke Robillard Band – Independently Blue – DixieFrog/Stony Plain

Come dimostra l’articolo determinativo posto prima del nome, anche questa volta siamo di fronte ad un disco della Duke Robillard Band, come nel caso del precedente Low Down And Tore Up, la differenza per l’occasione la fa la presenza di Monster Mike Welch, aggiunto come secondo chitarrista solista (a parte un paio di branoi dove appaiono anche i fiati): quindi il suono è più grintoso del solito (almeno rispetto agli ultimi dischi, perché nel passato, e, occasionalmente anche nelle prove più recenti, il buon Duke è sempre in grado di strapazzare la sua chitarra, quando vuole). Il problema è che Michael John, da Woonsocket, Rhode Island, ultimamente non vuole troppo spesso, preferendo un suono più jazzato, swingante, persino da locali after hours, sempre con una gran classe e una tecnica raffinata, ci mancherebbe, ma con una certa ripetitività che di tanto in tanto ci stufa, per essere dialettali e chiari! E’ una critica magari un po’ forzata, perché dischi come questo si ascoltano sempre volentieri, soprattutto se si ama il Blues, ma da uno come Robillard ci aspettiamo qualcosa di più.

In effetti lo dice anche lo stesso Duke, nelle note del libretto, che ultimamente tende a privilegiare un tipo di sound e materiale più adatto ad un signore nel “settembre dei suoi anni” (è del 1948, quindi 65 quest’anno, ma non ditelo a Springsteen). Forse all’aria “old fashioned” contribuisce anche il fatto che alcuni brani sono firmati da Al Basile, cornettista e amico, che privilegia un suono abitualmente più rilassato, ma per l’occasione, nell’iniziale I Wouldn’t-a Done That, dove Robillard e l’ottimo Mike Welch si scambiano assolo di gusto su un ritmo blues “cattivo” alla giusta temperatura e nella successiva Below Zero, un bel blues roccato come ai vecchi tempi, con il basso che pompa e le due chitarre ancora infoiate come si conviene, sembra esserci una inversione di tendenza. Anche lo strumentale Stapled To the Chicken’s back portato in dote da Welch, è un bell’esempio di Texas Shuffle, con le chitarre “limpide” dei due solisti che si dividono democraticamente gli spazi anche con l’organo di Bruce Bears, mentre Brad Hallen che nel disco precedente suonava quasi sempre il contrabbasso in questo album si cimenta spesso e volentieri al basso elettrico dando una fondazione più solida alle improvvisazioni dei due, che sono dei “manici” notevoli e questo non si discute, anche Welch inquadrato in una formazione meno volatile dimostra una gran classe.

Però (o per fortuna, per chi apprezza lo stile) Robillard ha sempre questa passionaccia per il jazz, magari New Orleans, anni ’20, come nella fiatistica Patrol Wagon Blues, che nella prima parte potrebbe uscire da qualche Cotton Club o da un disco di Ellington o Al Jolson dei tempi di Minnie The Moocher e qui il pianino dell’ottimo Bears ci sta a pennello, con banjo e clarinetto a dividersi gli spazi, e poi nel finale i due solisti pennellano una performance di gran classe alle chitarre elettriche. Laurene è uno di quei R&R alla Chuck Berry che ogni tanto escono dalla penna del buon Duke e Moongate è uno dei rari slow blues d’atmosfera del CD, molto raffinato e con le due chitarre libere di improvvisare anche notevoli tessiture sonore, seguite da un altro blues classico a firma Al Basile I’m Still Laughing cantato con piglio autorevole da un Robillard in buona forma vocale, mentre il suono delle chitarre, anche slide, è molto Chicago Blues.

Un altro strumentale a firma Duke Robillard, Strollin’ With Lowell and BB è uno swingato omaggio ai due signori citati nel titolo, ma non mi entusiasma. Come You Won’t Ever che nasce con l’idea di rendere omaggio omaggio alla musica di Stevie Wonder e Four Tops, ma in pratica sembra la colonna sonora di qualche episodio di Starsky & Hutch, piacevole anche nel groove di basso e batteria e nell’intervento della tromba, ma sicuramente non memorabile. E anche l’altro brano strumentale a firma Monster Mike Welch (il soprannome gli fu dato ad inizio carriera da Dan Aykroyd),  al di là dalla classe dei due, ha un po’ l’aria di una outtake minore e sonnolenta dalla Supersession di Bloomfield, Kooper & Stills. Molto meglio Groovin’ Slow, dove un giro di basso marcatissimo “modernizza” questo omaggio allo stile preciso e da nota singola del grande Wes Montgomery, con le due soliste a scambiarsi soli di precisione chirurgica. If This Is Love è un bel pezzo che avrebbe potuto figurare in un disco di fine anni ’60 del già citato Bloomfield o in qualche disco recente del Robben Ford più bluesy, e a furia di soli pungenti finisce in gloria questo CD, che ha i suoi alti e bassi, ma è vivo e vitale, forse anche per l’apporto di Welch.

Bruno Conti

Una “Cascata” Di Note On The Road. Todd Thibaud – Waterfall

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Todd Thibaud – Waterfall – Blue Rose Records 2013

Gradito ritorno per Todd Thibaud, songwriter originario del Vermont, ma residente a Boston (membro e fondatore dei Courage Brothers), dopo il Live At The Rockpalast (2011) recensito su queste pagine virtuali dal sottoscritto. Fin dall’interessante debutto solista di Favorite Waste Of Time del lontano ’96, il nome di questo giovane (allora) cantautore aveva attirato non poche attenzioni su di sé, per la capacità di proporre un rock cantautorale, con le suggestioni roots della sua generazione, e il seguente Little Mistery (99) aveva mantenuto ampiamente le promesse grazie alla produzione di Jim Scott (Whiskeytown e Neal Casal), raggiungendo una calibrata perfezione nei suoni e negli arrangiamenti. Comprendendo anche i live, con questo Waterfall sono ormai più di una decina i suoi album, e nessuno di questi, pur non raggiungendo mai lo status di capolavoro, è sceso sotto una soglia qualitativa più che soddisfacente.

Prodotto da Ed Valauskas, questo lavoro vede il buon Todd avvalersi come al solito della sua fidata backing band, composta da Thomas Juliano alle chitarre, banjo e dobro, Pete Caldes alla batteria, Joe Klompus al basso, Sean Staples al mandolino, Ben Zecker alle tastiere. L’iniziale What May Come è un rock pimpante con la ritmica sostenuta, come la seguente Not For Me, mentre la title track Waterfall è decisamente più solare, con una melodia limpida ed orecchiabile. When The Evening Falls Apart è una dolce ballata semi-acustica, seguita dal rock chitarristico di Hollow con il supporto di Bill Janovitz (Buffalo Tom) e dalla saltellante Lonesome June, che aggiunge grinta al disco. Stranger è una slow ballad bluesata, sporca ed impolverata, cui segue una All In A Dream con la chitarra slide di Thomas Juliano e la voce profonda di Todd in primo piano, mentre My Own e Wears Me Down sono i brani più “tosti” del lavoro, con le chitarre in spolvero. Change A Thing è una squisita ballata crepuscolare (un genere di cui è maestro John Hiatt), per chiudere con la splendida Evermore, una canzone d’amore dai toni folk-acustici, intonata dolcemente dal mandolino di Sean Staples e arricchita dall’incantevole seconda voce di Chris Toppin.

Questo Waterfall è un riuscito album di “americana” al cento per cento, con una miscela equilibrata di rock, folk e blues, da parte di un autore che sa scrivere buone canzoni, se la cava egregiamente sia nelle ballate (forse il suo punto di forza) come nei brani da vero rocker urbano con le chitarre in evidenza. Con questo disco il rocker di Boston ripercorre il percorso fatto a suo tempo, con le virtù fondamentali  di gruppi come  Wallflowers, Jayhawks, BoDeans e Gin Blossoms e con un bella spruzzata del Boss, ma il risultato finale, ovviamente, porta chiara l’impronta di Todd Thibaud, un musicista che meriterebbe, finalmente, più attenzione, anche dalle nostre parti.

Tino Montanari

Grande Rock Per Una Modica Cifra! Blue Oyster Cult – The Complete Columbia Albums Collection

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Blue Oyster Cult – The Complete Columbia Albums Collection (Sony Legacy 16 CD/1 DVD)

A dire il vero questo box è già uscito da qualche mese, e fa parte di una serie molto eterogenea di operazioni analoghe messe in piedi dalla Columbia (tra le varie uscite ricordo quelle dedicate a Leonard Cohen, alla ELO, a Billy Joel, ai Judas Priest, oltre al sontuoso box di Johnny Cash, mentre verso la fine dello scorso anno sembrava imminente quello di Bob Dylan, che poi è finito nel limbo), ma essendo una ristampa, e trattandosi di ottima musica, non è mai troppo tardi per parlarne.

I newyorkesi Blue Oyster Cult (BOC da qui in poi) sono una delle più longeve band nel panorama rock mondiale: formatisi nel 1967 con il nome di Soft White Underbelly, presero il monicker attuale nel 1970 su suggerimento del loro manager/produttore/mentore Sandy Pearlman, che voleva identificare con questo nome un gruppo di alieni scesi sulla terra per conquistarla.

Snobbati a lungo dalla critica, e liquidati più volte come gruppo hard rock/heavy metal, i BOC in realtà suonavano (ma sono ancora in attività) un rock potente e diretto, con invasioni in territori hard e progressive, ma erano anche capaci di scrivere eccellenti ballate e perfino brani in stile quasi pop-rock: dal vivo erano (sono) formidabili, grazie anche alle eccezionali performance del chitarrista Donald “Buck Dharma” Roeser (leader del nucleo storico del gruppo, che comprendeva anche il frontman e voce principale Eric Bloom, la sezione ritmica dei fratelli Albert e Joe Bouchard ed il tastierista Allen Lanier, ma i cinque erano validi polistrumentisti), concerti infuocati che smentivano i soliti critici che li accusavano di essere freddi e distaccati.

Una parte molto importante la svolgevano i testi, veri e propri racconti tra il fantascientifico e l’horror, ad opera principalmente (specie nei primi anni) del geniale Pearlman, imitato presto con successo anche dagli altri: ad esempio il loro più grande successo, ovvero (Don’t Fear) The Reaper (il cui testo agghiaggiande come direbbe Crozza/Conte turbò i sonni di uno come Stephen King) è opera di Roeser.

Un gruppo quindi abbastanza unico nel panorama internazionale, altro che “solo un’altra hard rock band”.

E veniamo al box, che come detto presenta tutti gli album incisi dai BOC per la Columbia (compresi i tre live), quindi da Blue Oyster Cult (la mia tastiera non ha la umlaut) ad Imaginos, il tutto con nuovi remasters fatti nel 2012 e riproponendo i primi cinque dischi di studio più il live Some Enchanted Evening nelle versioni expanded uscite tra il 2001 ed il 2006 (quindi il live ha accluso anche il DVD).

Come ulteriore ciliegina, che costringerà anche i fans che hanno tutto ad accaparrarsi questo box, abbiamo due CD aggiuntivi ed esclusivi: il primo, Rarities, è un’antologia di brani rari o inediti, in versioni principalmente dal vivo (tra cui quattro pezzi usciti su un EP nel 1972, ormai introvabile, oltre a tre demo mai sentiti del 1984 di brani che avrebbero dovuto uscire su una colonna sonora, più una rarissima live version di I Want You (She’s So Heavy) dei Beatles, una canzone che sembra quasi scritta per loro), mentre il secondo, Radios Appear: The Best Of The Broadcasts, prende appunto in esame varie performance radiofoniche avvenute nel corso degli anni, tutte chiaramente mai messe in commercio prima d’ora, tra cui una cover di It’s Not Easy dei Rolling Stones ed altre chicche.

Ma non è finita qui: tramite un codice presente in ogni box, si possono scaricare ben quattro concerti completamente inediti, rispettivamente del 1980, 1981, 1983 e 1986…una goduria!

Ed infine, chiaramente, ci sono gli album della loro discografia, un excursus all’interno di alcune tra le musiche migliori degli anni settanta e ottanta.

Non mi metto ovviamente a fare una disamina disco per disco, ma ci tengo a dire che reputo imperdibile la trilogia iniziale (Blue Oyster Cult, Tyranny And Mutation e Secret Treaties), la famosa “Black & White Trilogy”, dove la fusione delle musiche dei BOC e dei testi di Pearlman raggiunge forse il suo apice massimo, specie nel terzo disco, che contiene tra le altre la trascinante Career Of Evil, scritta insieme ad una ancora sconosciuta Patti Smith (all’epoca fidanzata con Lanier e collaboratrice abituale del gruppo) e la meravigliosa Astronomy, una ballata da urlo, che alcuni hanno addirittura giudicato superiore a Stairway To Heaven dei Led Zeppelin (non sono d’accordo, ma comunque un grandissimo pezzo, forse il loro capolavoro assoluto).

Poi c’è il famoso Agents Of Fortune, che contiene (Don’t Fear) The Reaper ma anche la bellissima This Ain’t The Summer Of Love, il discreto Spectres (con la hit Godzilla), l’ottimo Fire Of Unknown Origin del 1980, prodotto da Martin Birch e per alcuni il miglior disco dei BOC (anche qui non concordo), l’inquietante e bellissimo colpo di coda Imaginos, ultimo album per la Columbia (1988) che inizialmente doveva uscire come progetto di Albert Bouchard e Pearlman, ma poi giustamente diventò un album del gruppo.

Un capolavoro fuori tempo massimo (ed il preferito dal sottoscritto), nel quale vengono riprese le tematiche dei primi tre dischi in una sorta di concept con i brani però messi alla rinfusa, con le canzoni migliori dai tempi di Agents Of Fortune.

E come dimenticare i tre live? Imperdibili i primi due, solo “buono” il terzo (Extraterrestrial).

Ma anche nei dischi minori (il commerciale Cultusaurus Erectus, il misconosciuto The Revolution By Night) c’erano sempre almeno una o due zampate che giustificavano l’acquisto.

Dopo il periodo Columbia i BOC incideranno poco, solo tre dischi di studio (di cui uno, Cult Classics, si occupa di rifacimenti di loro brani celebri) ed un live, ma hanno da poco annunciato un nuovo tour americano ed il primo australiano di sempre: speriamo che, stando insieme, si ricordino anche di essere capaci di scrivere ottime canzoni.

Per ora accontentiamoci (ed è un bel accontentarsi) di questo box, che tra l’altro, riprendendo il titolo del post, si trova più o meno intorno ai settanta euro.

Un affare!

Marco Verdi

Piovono Chitarristi 1. Danny Bryant – Hurricane

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Esce tra il 19 aprile e il 6 maggio a seconda dei paesi, e dopo il Post dedicato a Ronnie Earl è il secondo di una serie che leggerete nei prossimi giorni dedicata ai chitarristi, pare che molti di quelli validi ed interessanti stiano pubblicando tutti dischi in questo periodo.

Danny Bryant – Hurricane – Jazzhaus Records

In questo ultimo periodo, curiosamente, sono usciti molti dischi nuovi dei principali chitarristi in circolazione, ha iniziato Clapton (che ovviamente non è solo considerato come chitarrista) e, a raffica, si sono susseguite le nuove prove di Ronnie Earl, Tinsley Ellis, Duke Robillard con Monster Mike Welch, ora Popa Chubby e a fine maggio un nuovo Bonamassa con Beth Hart, per non parlare del postumo di Jimi Hendrix. Aggiungiamo alla lista anche il CD di Danny Bryant, il secondo per la nuova etichetta, la tedesca Jazzhaus, dopo il CD/DVD Live in Holland dello scorso anno, ma il primo senza la solita ragione sociale Danny Bryant Redeye’s Band, anche se poi nel disco, come di consueto, suonano il batterista Trevor Barr e il babbo di Danny, Ken, al basso, per la serie tutto in famiglia, in Painkiller,addirittura al mandolino troviamo anche Kirby Bryant di cui non conosco l’esatto livello di parentela.

Ad un primo ascolto mi era piaciuta di più la seconda parte dell’album, quella con i brani lenti, le ballate non solo blues, ma devo ammettere che ai successivi ascolti la grinta e la potenza del trio (aumentata dal produttore Richard Hammerton, che siede anche alle tastiere e di cui non approvo totalmente le scelte, dateci Kevin Shirley) ti acchiappa: un brano come Prisoner Of the Blues, posto in apertura, ha il tiro e la forza del Clapton epoca Cream, o giù di lì, e la chitarra di Danny Bryant inanella una serie di assolo che sfociano nel gran finale con wah-wah, poderoso ma sempre nell’ambito del miglior rock-blues, uno che suona come Dio comanda, senza troppe derive hard ma risvegliando l’air guitarist di fronte allo specchio che è in voi. Greenwood 31 aggiunge un’armonica suonata dallo stesso Danny e il suono si fa più cadenzato ma sempre con quel suono grasso e corposo (che corrisponde anche all’aspetto fisico) che esce dalla sua Fret-King, se servono altre chitarre se le sovraincide lui e il suono si fa più avvolgente. Un piano introduce la lenta ballata, peraltro sempre molto ricca di chitarre, Cant’t Hold On, scritta, come tutto il materiale, dallo stesso Bryant, in questo album niente cover di Dylan, Hiatt o di Jimi Hendrix (l’ho visto dal vivo nell’Experience Tour dedicato proprio a Jimi e vi posso assicurare che questo signore è un grande manico).

Hurricane, la title-track, non è brutta, ma è uno di quei brani un po’ troppo radio-friendly, voce da radio AOR americana, tastiere a iosa e un ritmo troppo meccanico, mentre Devil’s Got A Hold On Me ha un riff che sta a metà tra Spirit In The Sky e On The Road Again, non originalissimo, ma fa muovere il piedino e le chitarre viaggiano a tempo di boogie che è un piacere. La seconda parte ci introduce alle ballate in crescendo, che sono un suo marchio di fabbrica, non slow blues tipici, più ballate atmosferiche alla Gary Moore nei suoi giorni migliori, I’m Broken e la più ritmata All Or Nothing (però quelle tastiere!) ne sono buoni esempi, anche se la voce non fantastica di Bryant si perde un po’ nel sound “leccato” di studio. Più coinvolgente e trascinante la lirica Losing You che ti permette di gustare a fondo il suono ficcante della solista di Danny Bryant che nel solo finale è veramente notevole. Conclude, come usava fare il buon Rory Gallagher, un bel brano acustico, come la già citata Painkiller, anche se il synth di Hammerton rompe un po’ le balle. Un buon disco, ma per dargli quel mezzo punto in più, meno tastiere e più grinta la prossima volta, anche se gli appassionati di chitarre troveranno pane per i loro denti, come, per esempio, nella seconda parte del brano finale, quando il nostro amico Danny innesta nuovamente le marce elettriche e con un wah-wah devastante procede a dimostrare perché è considerato uno dei migliori chitarristi in circolazione.

Bruno Conti