Il Nome Li “Tradisce” Ma Il Blues E’ Genuino! Egidio Juke Ingala & The Jacknives – Tired Of Beggin’

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Egidio Juke Ingala & The Jacknnives – Tired Of Beggin’ – Vintage Roots Rec.

Spesso gli “scribacchini” della carta stampata e non, tra cui includo anche il sottoscritto, si devono fare largo tra centinaia, anzi migliaia di album, che ogni anno continuano a inondare un mercato discografico sempre più asfittico. E ancora più spesso la scelta di cosa parlare e di cosa no, aldilà dei gusti personali, è ristretta anche dalla non facile reperibilità dei prodotti, sempre più auto gestiti dagli artisti stessi. Un CD di produzione indipendente italiana è più difficile da rintracciare di equivalenti prodotti inglesi ed americani (non sempre) e quindi, avendo tra le mani, questo nuovo “disco” di un gruppo italiano (tradito solo dal nome di battesimo del leader), mi accingo a rendervi edotti del tutto.

Intanto Egidio Juke Ingala è attivo discograficamente da un paio di decadi, ma in questa configurazione con i Jacknives si tratta di una prima. Armonicista e cantante, con trio al seguito, qui parliamo di Blues, anzi, come orgogliosamente proclamano sui loro manifesti “Old School Blues With a Swingin’ Feel”. Quindi cover e brani originali, sette per categoria, che sembrano uscire da vecchi vinili degli anni ’50, e soprattutto dal repertorio di etichette super specializzate come la Excello, la Specialty e la Chess Records, ma non i brani più noti, sarebbe troppo facile, quelli proprio oscuri che solo un grande appassionato può scovare. Naturalmente questo restringe e di molto la cerchia dei possibili fruitori ma non la qualità dell’album. Anche l’abbigliamento sfoggiato nelle foto di copertina, rigorosamente in bianco e nero, e la strumentazione, dove la presenza di un basso elettrico è una concessione alla “modernità” dilagante, sono sintomatiche dell’approccio rigoroso alla materia trattata.

Direi che per il leader della band, Egidio Ingala, tutto parte dallo studio di una trinità di armonicisti, Big Walter Horton, Little Walter e George Harmonica Smith (vi chiederete come faccio a saperlo? Semplice, l’ho letto nella piccola cartella stampa allegata al CD, come diceva Mourinho, non sono mica pirla) e poi da lì, con la passione e pedalando in giro per gli States e l’Europa, tra Festival vari,  ti costituisci una tua reputazione, incidi dischi, cerchi di farli conoscere e quindi un “aiutino” nella diffusione del verbo è sempre gradito, immagino. L’Electric Chicago Blues e lo swing della West Coast, che non è quella acida e country degli anni a venire, almeno per loro, sono gli ingredienti principali di questo Tired Of Beggin’, sia nei brani originali come nelle cover. Il sound è quello tipico di altri neo-tradizionalisti americani, direi che per fare un paragone conosciuto a molti, sono dei Fabulous Thunderbirds meno moderni, ma è per semplificare al massimo e spero sia un complimento.

Proprio l’iniziale Winehead Baby viene da quelle coordinate, con quella sua atmosfera vagamente indolente da New Orleans  inizio anni ’50, quando Dave Bartholomew con il suo amico Fats Domino inserivano elementi R&B e R&R nel blues, ma l’assenza del piano e la presenza preponderante di armonica e chitarra fanno sì che il brano abbia un suono decisamente più bluesato. I’m Tired of Beggin’ con il suo cantato leggermente distorto e i ritmi più mossi, viene dalla produzione di Ike Turner, che aveva “inventato” il R&& da poco con Rocket 88 e qui c’è spazio per la chitarra rockabilly di Marco Gisfredi, l’altro solista della band insieme a Ingala. Hey Little Lee, con un cantato leggermente “sporcato” da un leggero eco viene dalla produzione di James Moore, per gli amici (del blues) Slim Harpo. Cool It è uno strumentale swingato scritto da Gisfredi che si ritaglia uno spazio jazzy per la sua chitarra ma ne lascia ampiamente anche all’armonica.

In Last Words Ingala rende il favore, a tempo di shuffle mentre Come Back Baby ha la struttura da pezzo da big jump band ma viene adattato per quartetto. Fallen Teardrops è il classico slow blues d’ordinanza, un altro strumentale scritto da Ingala in tributo a Mastro George Smith, con il solito spazio anche per la chitarra dopo il lungo assolo dell’armonica cromatica. Don’t say a word è più grintosa e cattiva ed è seguita da un brano firmato dal bassista Massimo Pitardi e quindi con un ritmo più funky, qui direi che siamo “addirittura” negli anni ’60! Anche I’m Leaving You è più elettrica, un Howlin’ Wolf minore, qui mi si sembrano i Dr. Feelgood o i Nine Below Zero o se vi sembrano troppo “moderni”, i primissimi Yardbirds o Stones. Per non fare la lista della spesa delle canzoni l’album è validocomunque nella sua interezza e si conclude con Back Track., un omaggio a Walter Jacobs, altro amato componente della trinità dell’armonica. Verrebbe da dire, per Special(is)ty del Blues. Bravi!

La “ricerca” prosegue.

Bruno Conti

Reload & Replay Part II: Quello “Bravo” E’ Sempre In Mezzo Nella Foto, Ma Anche Gli Altri Non Sono Male! E Ora Potete Trovare Anche Il Loro CD E Pure Il Video, La Saga Continua! Psychic Twins – Crossings

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*NDB Bis George Lucas con la sua saga di Guerre Stellari “ci fa una pippa”, ormai questo Post ( e il suo titolo) stanno assumendo dimensioni pantagrueliche a furia di aggiornamenti (ma è il bello della rete e dei Blog, mai statici, sempre in rinnovamento, si è allargata pure la foto di copertina), ora è arrivato anche il momento del video ufficiale di Two Sides, forse (ma forse) la canzone più bella del disco. Il filmato è “lieve”, autoironico e veritiero, per quello che posso conoscere Max e Fab, M&F (non la rivista, per quanto…),ovvero i Psychic Twins. The world domination continues, il mese prossimo dovrebbe uscire (spero) anche una versione light di questa recensione sul Buscadero. Sono Evaristo scusate se insisto, ma il disco è molto piacevole, si potrebbe anche comprare. Vai con il video…

 *NDB. Quando il 23 febbraio pubblicavo questo Post l’album non aveva ancora un CD fisico disponibile, ora tramite la distribuzione IRD lo potrete trovare anche nei negozi (quelli che resistono ancora). Il mio giudizio ovviamente è rimasto lo stesso e lo potete (ri)leggere qui sotto, senza la parte sulla distribuzione discografica, ora superata! Ho anche aggiunto il nuovo video Unplugged registrato a Panorama.it e alcuni ulteriori video apparsi in rete nel frattempo con brani dell’album.

Bruno Conti

 

Psychic Twins – Crossings – Greywolf Records Inc. – Download iTunes – CD Distr. IRD

La tradizione di ritrarre l’artista sulla copertina del suo album, con dischi di altri in vista, risale alla notte dei tempi, un caso classico è Bringing It All Back Home di Dylan. Nel loro piccolo anche i due Psychic Twins (italianissimi, nonostante il nome e credo nulla a che vedere con le due gemelle americane che previdero l’attacco alle torri gemelle) hanno pensato bene di farsi ritrarre sulla copertina del loro disco d’esordio Crossings, mentre brandiscono (immagino con rispetto e devozione) la copertina interna del vinile di Born To Run di quel signore del New Jersey di cui al momento mi sfugge il nome, ma che qualche influenza sulla loro musica ce l’avrà pure se si trova lì!

Prima di iniziare mi scuso con loro per il ritardo con cui parlo del disco, che mi era stato recapitato già da alcune settimane (comunque “better late than never, come si dice), ma essendo sempre in ritardo perenne e con pigne di dischi da recensire sul tavolo e vicino all’impianto, oggi accantono gli ultimi di Eric Burdon e Boz Scaggs, due “giovani” promesse, e mi occupo di questo CD. Ovviamente la musica è quella giusta per il Blog, ma se le loro influenze fossero state Toto Cutugno, gli Abba o i Duran Duran, non so se ne avrai parlato con la giusta dose di entusiasmo, però visto che le coordinate musicali sono altre, direi chiaramente anglo-americane e giustamente “classiche”, niente nuove tendenze, quelle le lasciamo a Sanremo. La prima cosa, a colpo d’occhio, prima dell’ascolto, che colpisce il vecchio frequentatore di dischi (inteso in senso lato), scorrendo le note, è che nell’album ci sono due di tutto: due loro, Massimo Monti, il paroliere e Fabrizio “Fab” Friggione, il cantante, autore e chitarrista, non come Lennon/McCartney o Jagger/Richards, ma più come Elton John/Bernie Taupin o Jerry Garcia/Robert Hunter, per volare subito bassi (ma esageriamo, tanto non costa nulla sognare), nel senso che l’autore dei testi fa solo quello, non partecipa alla fase musicale. E poi due vocalist, due bassisti, due chitarristi, due batteristi, due tastieristi, mai utilizzati contemporaneamente, ma a testimoniare la professionalità del prodotto, ruotati a seconda del brano. 

Non vi parlo della storia dei musicisti coinvolti e della genesi dei brani perché non la conosco, ma visto che le orecchie per ascoltare ce le ho, e anche allenate da svariati anni di frequentazione della buona musica rock, vi dico subito che il disco mi piace: otto brani, quasi 35 minuti di musica, molto derivativa indubbiamente, machissenefrega, di buona qualità, prodotta con passione e la giusta dose di gusto, niente esperimenti futuribili ma solo del buon vecchio sano rock. L’aria che si respira nel brano di apertura, The Two Sides (on the wrong side of the railroad tracks) è quella delle spiagge e dei bar del New Jersey, ma anche, volendo, della pianura padana dove gli epigoni di Springsteen (e diciamolo!) sono numerosi ed agguerriti, a partire da Graziano Romani, ex leader dei Rocking Chairs, la cui voce roca e vissuta mi sembra abbia qualche punto in comune con quella di Friggione, e anche la profusione di chitarre e tastiere e sane atmosfere blue collar, sono un giusto auspicio per la partenza del disco.

Che poi si sposta su sonorità che possono ricordare il primo Joe Cocker, quello delle cavalcate in compagnia di Leon Russell o Chris Stainton, ben rappresentati dal piano dal bravo Enrico Ghezzi, nella sua unica presenza nella vigorosa Pain straight no ice con profumi errebì misti a rock. Più rock’n’roll selvaggio nella scatenata Lock me In che fonde il classico pianino R&R di Stefano Ivan Scarascia con la chitarra in overdrive di Friggione, corettini vagamente beatlesiani completano l’impressione, già sentito certo, anche mille volte, ma quando c’è passione è sempre un piacere. Un paio di chitarre acustiche e un organo hammond per un intermezzo acustico Drops Of Time, piacevole ma non memorabile, forse un po’ incompiuto.

Per l’accoppiata più bluesy di A Long Way From Myself e Cuda ’71 (una canzone scritta dal punto di vista di una automobile è quasi più “perversa” dei brani di Bruce dedicati a vecchi modelli anni ’70, qui starebbe per Plymouth Barracuda) scende in pista un altro cantante, Jack Jaselli (ma le coordinate vocali sono più o meno quelle), e nel primo dei due brani c’è anche un violino svolazzante affidato a Andrea Aloisi che rimescola un po’ le carte del suono del disco, anche se la slide tagliente del secondo brano e la citazione nel testo di Elvis e Bruce (ma chi saranno?) indicano sempre una corretta scelta musicale. More weight to the lid, con una forte urgenza ritmica e la voce leggermente e volutamente “trattata” di Friggione, ci ricorda che il cuore della musica batte sempre al giusto ritmo, quello del rock delle radici per poi stemperarsi nell’altra oasi acustica del disco, una Without You, solo voce e chitarra acustica, con una voce femminile di supporto, Chiara Vergati, un piccolo intramuscolo di dolcezza, forse da sviluppare più compiutamente in futuro, anche se l’intreccio delle due voci è interessante.

Un disco che forse non salverà il mondo e neppure l’industria discografica, ma una piacevole mezz’oretta di ascolto è garantita assolutamente.

Bruno Conti

L’ultimo Volo Magico! E’ Morto Claudio Rocchi 1951-2013

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Ricordiamolo così, brevemente, Forever Young (anche se il brano di Dylan sarebbe apparso solo nel 1974), sulla copertina del suo album più famoso e più bello, quel Volo Magico N.1 pubblicato nel 1971 quando di anni ne aveva solo 20. Con lui c’era un altrettanto giovane e altrettanto bravo Alberto Camerini alla chitarra (prima del sodalizio con Finardi) mentre Claudio Rocchi che aveva già pubblicato un album Viaggio, l’anno precedente, era stato anche per un brevissimo periodo il bassista degli Stormy Six (lo ricordano tutti, ma credo che sia stato un periodo molto marginale nella sua carriera musicale, però evidentemente fa curriculum). In ogni caso in rete trovate biografie e discografie a iosa.

Senza voler ripercorrere la sua vita e i suoi dischi ho un ricordo personale di quando lo incrociavo in Via Meravigli nel centro di Milano, vicino a quel negozio di cui vedete l’insegna nell’intestazione del Blog, erano più o meno i primi anni ’80 e la sera mi capitava di incontrarlo mentre svolgeva, simpaticamente, la sua missione di proselitismo e raccolta fondi nel periodo “Hare Krishna”, ma sempre disponibile a quattro chiacchiere sulla musica che rimaneva la sua principale passione e motore di vita, se non ti convertivi non era un problema!

Buon “viaggio” e Riposa In Pace.

Bruno Conti

I Cantastorie Dell’Alternative Country – Handsome Family – Wilderness

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Handsome Family – Wilderness – Carrot Top Records 2013

I coniugi Brett e Rennie Sparks, in arte Handsome Family, sono uno strambo duo di Chicago, che rappresenta, senza dubbio, il lato più oscuro dell’alternative-country, e sono stati per anni la band preferita di Jeff Tweedy dei Wilco. Nei primi anni ’90 l’avventura comincia con l’album di esordio The Handsome Family (1995), in una formazione a quattro elementi con Darrel Sparks alle chitarre e Mike Werner alla batteria, ma già dal secondo disco Milk & Scissors (1996), i coniugi Sparks si fanno accompagnare solo dal polistrumentista e amico Dave Trumfio. Con lo splendido Through The Trees (1998) avviene un ulteriore cambiamento, Brett scrive le musiche e Rennie compone i testi (deliranti), mentre Dave si occupa solamente della produzione, lasciando alle spalle il suono punk, rivisitando con In The Air (2000) la musica tradizionale con il country e il folk gotico, sulle ali della voce profonda e potente di Brett. Con il trasferimento della propria residenza ad Albuquerque (New Mexico) il sodalizio negli anni sforna lavori nei quali il salotto di casa diventa il loro studio di registrazione, a partire da Twilight (2001), Singing Bones (2003) Last Day Of Wonder (2006), Honey Moon (2009), tralasciando i dischi dal vivo e le varie raccolte, Scattered (2010) la più interessante (con rarità e inediti), avendo sempre come tema racconti “noir”, da cui trapelano morte, mistero e omicidi (allegria! direbbe il compianto Mike Bongiorno).

Questo Wilderness è una sorta di concept album dedicato alla natura, con ogni brano che prende il titolo dal nome di un animale (mosche, rane, anguille, piovre, civette, lucertole, gabbiani, ragni etc.) con l’apporto sporadico di Jason Toth alle percussioni, David Gutierrez alla pedal steel, Stephen Dorocke al violino e Ted Jurney al basso, e lo zampino (tanto per cambiare) di Jeff Tweedy, per dodici “fiabe” sonore scese dai monti Appalachi.

Il viaggio (malinconico) inizia con il country di Flies, le ballate declinanti della successive Frogs e Eels, mentre Octopus ha un incedere ritmico, cantata con tono baritonale da Brett. Caterpillars e Owls sono brani che rientrano perfettamente nel filone dell’alternative country e sono seguiti da  una epica Glow Worm, una ballata che scalda il cuore. La narrazione musicale continua con i toni ammalianti di Lizard, il sussurrato tex-mex di Woodpecker (con il mandolino di David Gutierrez in evidenza), mentre la successiva Gulls è quanto di più tradizionale possa uscire dalla penna dei coniugi Sparks. Il viaggio termina con il country-valzer cadenzato di Spider e la melodia pacata di Wildebeest, una poetica ballata di ampio respiro, lenta e solenne, con la voce di Brett in evidenza e Rennie al controcanto.

Wilderness è un prodotto che affascinerà sicuramente i fans di questo singolare gruppo (un sodalizio artistico e coniugale che dura da anni), aggiungendo un nuovo splendido capitolo alla loro raccolta di novelle notturne, prima di farvi addormentare nelle braccia di Morfeo.

NDT:  Vorrei precisare ai “neofiti” di questa coppia che gli Handsome Family, nelle loro canzoni, non vogliono incutere timore, ma coccolarvi come in queste “fiabe sonore”, per poi magari soffocarvi, dolcemente, nel sonno.

Tino Montanari

Credevate Che Ci Fossimo Dimenticati?! E Invece: Dal Nostro Inviato A Londra: “Il Boss E’ Sempre Il Boss” – Bruce Springsteen Wembley Stadium 15 Giugno 2013

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Bruce Springsteen & The E Street Band – London – Wembley Stadium – 15 Giugno 2013

Quest’anno per motivi di lavoro non ho potuto assistere al “consueto” appuntamento con il concerto di Bruce Springsteen a San Siro e così, approfittando del week-end, ho colto al volo l’opportunità di trascorrere un paio di giorni con la mia signora e nostro figlio dodicenne (che ha già visto il Boss a Milano lo scorso anno, proprio il giorno del suo compleanno, rimanendone entusiasta) a Londra, città nella quale amiamo sempre tornare.

Nella capitale inglese fa freddino, il clima ricorda un po’ il mese di Maggio che abbiamo appena trascorso in Italia, e se venerdì c’è un po’ di sole e si sta abbastanza bene, al sabato, dalla tarda mattinata al primo pomeriggio, piove abbastanza insistentemente anche se a sprazzi, ma per fortuna in serata il cielo si rischiarerà (già pregustavo Bruce che suonava Who’ll Stop The Rain? di John Fogerty, sarebbe la prima volta con me tra il pubblico, ma forse è meglio vedere il concerto all’asciutto, anche se Wembley ha tutti i posti a sedere coperti).

Proprio Wembley merita un cenno a parte: già il fatto di entrare nel tempio del calcio, in un luogo dove si è scritta la storia, provoca in me e mio figlio, grandi appassionati di football, un’immensa emozione, ma poi vediamo le zone interne, moderne, pulitissime (anche i bagni), con ristoranti e negozi, e con gli steward gentilissimi che ti aprono anche le porte, ed il paragone con San Siro, ma anche con gli altri stadi italiani, è abbastanza impietoso.

Il concerto è previsto per le 19, probabilmente Bruce deve chiudere entro un certo orario per evitare un altro Hyde Park, cioè quando lo scorso anno non è riuscito a terminare il suo storico duetto con Paul McCartney in Twist And Shout per il “taglio” dell’amplificazione: entriamo con calma (tanto i posti sono numerati) e prendiamo posto nelle comode poltroncine in pelle rossa della spettacolare arena di Wembley, dove è garantita un’ottima visuale da ogni settore dello stadio: l’unico punto in comune con San Siro, purtroppo, sarà l’acustica, con le chitarre il più delle volte “sepolte” nel mix e la batteria del grande Max Weinberg che sembra suonare con la sordina.

Bruce e la sua band salgono sul palco con una ventina di minuti di ritardo, e dopo i saluti di rito attaccano, come a Milano, con Land Of Hope And Dreams: sarà il fatto che non sono mai impazzito per questo brano, ma non sono così sicuro che funzioni in apertura di concerto, troppo lungo e troppo poco coinvolgente a livello ritmico.

Le cose prendono subito un’altra piega con Jackson Cage, l’unico episodio della serata tratto da The River (purtroppo) e con la travolgente Radio Nowhere, che inizia a far muovere un po’ il pubblico londinese, alquanto freddino (e qui con la gente di San Siro non c’è partita, ma stavolta al contrario).

Bruce dimostra di essere in forma (ma quando non lo è?), come d’altronde la band (incluso Little Steven, che i reportage avevano dato un po’ assente a San Siro), nella quale i “nuovi” Charlie Giordano e Jake Clemons si sono perfettamente inseriti (anzi, Jake è molto più pimpante dello zio Clarence degli ultimi anni), e con la ciliegina sulla torta dei fiati degli E Street Horns e dei cori dello E Street Chorus.

C’è spazio subito per quattro richieste di fila: una rara Save My Love (da The Promise), una festosa Rosalita (insolitamente posta all’inizio del concerto, ma Bruce forse vuole ravvivare un po’ la folla), la bella This Hard Land e soprattutto una magnifica Lost In The Flood, uno dei brani più drammatici del songbook del Boss, resa questa sera in maniera perfetta.

Dopo due brani dal recente Wrecking Ball (la title track e la coivolgente Death To My Hometown) ed il prevedibile ma sempre emozionante singalong di Hungry Heart (un’altra richiesta, e qui Bruce non ha rischiato più di tanto), Springsteen dice al pubblico: “Abbiamo due alternative: o andare avanti ad oltranza con le richieste o suonare tutto Darkness On The Edge Of Town dall’inizio alla fine”.

Il boato del pubblico fa propendere per la seconda ipotesi, ma non nascondo che tutto un concerto basato sulle richieste del pubblico sarebbe stata un’esperienza stimolante: Darkness viene comunque eseguito in maniera perfetta (e stiamo parlando di uno dei più bei dischi degli anni settanta, e non solo, in assoluto), con punte d’eccellenza per la toccante Racing In The Street, con Roy Bittan debordante nel finale, l’irresistibile Prove It All Night, con un assolo di Nils Lofgren spaziale, con tanto di chitarra suonata coi denti alla maniera di Hendrix, ed una intensa Streets Of Fire.

Ormai il pubblico è caldo al punto giusto, e Bruce lo cuoce a puntino con la festosa Shackled And Drawn, dove i fiati sono i protagonisti assoluti, la solare Waiting On A Sunny Day, con consueto assolo vocale di un bambino pescato tra il pubblico da Bruce, una perfetta The Rising ed una travolgente Light Of Day, cavalcata elettrica nella quale stavolta l’assolo strappa-ovazione è di Little Steven.

Dopo una breve pausa iniziano i bis, e qui Wembley si trasforma in una gigantesca discoteca: Pay Me My Money Down era già uno dei brani più divertenti delle Seeger Sessions, ma dal vivo stasera è resa in un modo che spiegare è difficile, sarebbe come pretendere di descrivere in poche parole Las Vegas ad uno che non c’è mai stato: perfino mia moglie, che è tutt’altro che springsteeniana, è in piedi che canta e balla.

Il trittico Born To RunBobby JeanDancing In The Dark (con due ragazze del pubblico sul palco a ballare, e ad una viene data anche una chitarra per jammare con Bruce e Steve) porta il concerto verso il gran finale.

Tenth Avenue Freeze-Out è resa in maniera estremamente sintetica (ma che voce ha ancora Bruce, dopo tre ore di corse su è giù mai un minimo calo), dato che bisogna chiudere per le 22.30: il Boss chiede: “La facciamo sì o no?”, ed alla prevedibile risposta affermativa del pubblico (e dopo aver scherzosamente presentato un assente Paul McCartney), si lancia in una incontenibile Twist And Shout, una versione di quasi dieci minuti durante la quale credo che balli pure il servizio d’ordine dello stadio.

E’ quasi finita: Bruce congeda la band e, da solo con la chitarra acustica, ci regala una Thunder Road da brividi, al termine della quale tutto lo stadio intona il celebre riff finale, un momento di grande intensità.

Un’altra splendida serata, ne è valsa la pena: il Boss non delude mai anche quando, come stasera, presenta una scaletta senza troppe sorprese.

Tre ore e un quarto di concerto, ed uscendo dallo stadio c’è qualcuno che si lamenta che ha suonato poco…

Marco Verdi

*NDB

Quest’anno sono 40 anni dall’uscita del primo disco di Bruce, Greetings From Asbury Park NJ, volete che non si festeggi l’evento, concerti a parte? Certo che sì: il 22 luglio, per un giorno solo, in moltissime sale in giro per il mondo verrà proiettato il film Springsteen & I, regia di Baillie Walsh, produttore esecutivo Ridley Scott. E poi naturalment eci aspettiamo il DVD. Nel frattempo…

IL Ritorno Della Appaloosa, Tra Ballads e “Blues And Moonbeams On The Menu” Con Luciano Federighi!

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Luciano Federighi – Blues And Moonbeams On The Menu – Appaloosa/IRD

Più o meno un anno fa se ne andava Franco Ratti, ma quasi per un destino ineluttabile la sua creatura preferita, la Appaloosa Records, rinasce attraverso il lavoro di suo cugino, Simone Veronelli, che co-produce e distribuisce questo nuovo album. Quindi l’etichetta del “cavallo selvaggio”  riprende il suo ultratrentennale percorso con un disco, questo Blues And Moonbeans On The Menu, che è opera di un artista inequivocabilmente italiano, e il cognome lo tradisce, ma gli intenti e la musica, come la voce, sono da bluesman, anzi da jazzista, anzi tutti i due.

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Se vi venisse proposto un blind test (come ho fatto con alcuni amici), sarebbe difficile non scambiare la voce di Luciano Federighi per quella di un qualche cantante americano di musica nera, un veterano di lungo corso, quale in effetti è, un “italiano per caso”, come mi piace chiamare questi musicisti appassionati dei suoni che vengono dall’altra parte dell’oceano. E in effetti, nelle sue molteplici attività di scrittore, giornalista (soprattutto con Musica Jazz, ma mi pare abbia anche scritto per il Buscadero), curatore di programmi radiofonici, collaboratore di vari Festival, tra cui il mitico Sweet Soul Music e tante altre attività, Federighi, nativo di Pisa ma viareggino a tutti gli effetti, con una laurea in letteratura angloamericana, ha anche insegnato alla università di Davis in California e ha girato in lungo e in largo gli Stati Uniti per inseguire la sua passione per il blues, il soul e il jazz e già dagli anni ’70 (perché come si intuisce dalle foto, non è un giovane di belle speranze) si esibiva, come tastierista/sassofonista ma anche cantante, con le prime formazioni blues italiane.

Il jazz ha sempre avuto una lunga tradizione sui nostri lidi, fin dai tempi del fascismo, come potrebbe ricordarvi in qualche suo dotto saggio il “collega” appassionato, ma qui lo valutiamo (si fa per dire) come cantante e anche in questa professione la militanza è lunga, con molti dischi all’attivo, soprattutto in ambito jazzistico. Questo nuovo lavoro viene presentato come un album di blues ma in effetti lo si potrebbe definire un disco di “Ballads and Blues”, come indica la prima parte del titolo, che è in comune con un famoso album di Bill Evans, ma il repertorio che si ispira al lavoro di gente come Percy Mayfield, a cui è dedicato il primo brano A Talk With The Blues, di Nat King Cole, ma anche del grande Otis Redding, che è un pallino di Luciano e di molti altri grandi cantanti e musicisti di musica nera (ho dimenticato Charles Brown?).

I brani se li scrive lui, con poche eccezioni, se li canta, con una profonda e calda voce baritonale, li suona con un trio chitarra, Tiziano Montaresi, basso, Mirco Capecchi e piano, Andrea Garibaldi. Si fa aiutare da qualche ospite, come la brava cantante Michela Lombardi, dalla voce pimpante e birichina, in un paio di medley, Summer Medley e Moon Medley (con citazione di Blue Moon nel finale), che se non insidiano quelli di Ella & Louis, sono nondimeno molto piacevoli e godibili. In alcuni brani appare l’armonica di Lou Faithlines (dovrebbe essere Henry Schiowitz sotto mentite spoglie) e, spesso, ancora Davide Dal Pozzolo che si divide tra sax alto, tenore e soprano e clarinetto e alto clarinetto, con ottimi risultati.

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Risultati che sfociano in quelli dei “classici” che spesso vengono citati, con rispetto e amore, dai musicisti che suonano nel disco: raffinati e complessi come nell’iniziale e già citata A Talk With Blues, sbarazzini come nei due medleys (con la s, plurale, come direbbe Arbore) o I’ve Seen Old Granny Walkin’ Down The Road, malinconici come nelle ballads, Is That All is Left Of A Kiss, Chelsea On A Winter Night, It’s All So Good, but This Is Better, ironici e divertiti come in The Story Of A Writer Who Never Wrote A Single Line, addirittura notturni come da titolo, in Beyond The Night e I Walk The Night, scritti in compagnia del chitarrista Montaresi, con l’argomento della notte che ricorre spesso nei brani contenuti in questo CD fin dal titolo, con i suoi “raggi di luna” che si accoppiano con il Blues. Non so se è un offesa (ma non credo) o un complimento: non sembrano nemmeno italiani, tanto sono bravi. Lo so, ci sono tantissimi musicisti italiani bravi in giro, basta saperlo. Ora potete aggiungerne un altro, caldamente consigliato, per ampliare gli orizzonti.

Bruno Conti  

Tra Bluesmen Ci Si Intende! Walter Trout & His Band – Luther’s Blues A Tribute To Luther Allison

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Walter Trout And His Band – Luther’s Blues – Mascot/Provogue

Il “Walterone” da Ocean City, New Jersey, ma residente in California da illo tempore (da non confondere con quello della Littizzetto e dal nostro Walter “ma anche ” e mi chiedo se più di un californiano perplesso si starà chiedendo di cosa cacchio sto parlando), quel Walter Trout colpisce ancora.

Il nuovo album si chiama Luther’s Blues e come il titolo lascia intendere si tratta di un omaggio a Luther Allison, uno degli ultimi grandi chitarristi prodotti dal blues elettrico della seconda e terza generazione, forse appena sotto i tre King, Buddy Guy  e anche Otis Rush, ma con Jimmy Dawkins, Albert Collins, Magic Sam (forse nella prima fascia) e pochi altri di cui al momento non mi sovvengo, tra coloro che più hanno segnato l’ascesa della chitarra solista nel blues classico. Allison è stato uno dei chitarristi più “taglienti” e vigorosi della scena di Chicago, ma deve la sua fama soprattutto alle lunghe tournée europee e ai suoi concerti che rivaleggiavano con quelli di Springsteen per durata, spesso tra le tre e le quattro ore, vere e proprie maratone in cui regalava al pubblico un torrente di Blues come pochi altri performers hanno saputo fare. Ma Luther era anche un notevole autore di brani, spesso in coppia con il suo organista James Solberg e questo CD riprende alcuni dei migliori brani del suo repertorio nella rilettura di Walter Trout. Altro musicista, e chitarrista soprattutto, che ha fatto della potenza e della energia, unite ad una tecnica invidiabile, una delle armi più “letali” dell’attuale scena blues. Il sottoscritto si è occupato parecchie volte del nostro amico un-grande-chitarrista-in-tutti-i-sensi-walter-trout-common-g.html, che peraltro non delude mai, i suoi lavori sono una delle poche certezze per gli appassionati del rock-blues più ruspante e genuino, il capolavoro forse non è nelle sue corde ma i suoi dischi sono sempre solidi e ricchi di soddisfazione per chi ama il genere.

Anche questo Luther’s Blues non tradisce la fama dell’ex Bluesbreakers e Canned Heat (sicuramente non le migliori versioni di entrambe le band) e attraverso undici cover e un brano scritto appositamente da Trout per l’occasione è un genuino omaggio all’arte di un personaggio che forse, al di fuori dei canali specializzati, non ha goduto della fama e dell’apprezzamento che avrebbe meritato. E così scorrono brani come I’m Back, tirata allo spasimo, slow blues di grandissima intensità come la potente Cherry Red Wine, carrettate di note come la poderosa Move From The Hood, di nuovo lenti torrenziali come la lirica Bad Love. E ancora tirate versioni della hendrixiana, almeno nella versione di Trout, Big City, con l’organo di Sammy Avila in bella evidenza (ma in tutto l’organo le tastiere svolgono un ottimo lavoro di supporto).

Non mancano le atmosfere funky e cadenzate dell’ottima Chicago ma è nei brani lenti che il disco regala i momenti migliori, come nella malinconica Just As I Am, con Trout che si conferma ancora una volta anche buon vocalist. Forse lo spirito di Luther Allison rivive di più in brani come Low Down And Dirty dove il figlio Bernard regala al genitore una bella performance alla seconda voce e alla slide per un duetto che rinverdisce i tempi d’oro del babbo. Il sottoscritto comunque predilige quei lentoni blues in punta di chitarra dove la tecnica di Walter Trout ha modo di esplicarsi al meglio, come nella bellissima Pain In The Streets, ma anche in quelli più torrenziali come la rocciosa All The King’s Horses. Notevoli anche la lunga Freedom che ha delle derive quasi psichedeliche e il manifesto di una carriera, l’unico brano firmato dallo stesso Trout, When Luther Played The Blues, in sette minuti la storia di una vita per la musica, un ulteriore grande slow blues. Semplice e diretto, un bel disco, tra i migliori nel suo genere.

Bruno Conti

Girovagando Per Il Sud Degli States. Mike Zito – Gone To Texas

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Mike Zito & The Wheel – Gone To Texas – Ruf Records 

Forse non entrerà nelle liste assolute dei top di fine anno ma questo nuovo album di Mike Zito è assolutamente tra i migliori nel suo genere. Già ma che genere è? Intanto, come diranno altri, perché lo dice lui stesso nelle note di copertina, è un disco autobiografico. Canzoni che raccontano come il Texas, in un certo senso, gli ha salvato la vita. Ha trovato la compagna della sua vita, ma anche la salvezza dalla dipendenza da droghe che aveva caratterizzato una lunga fase della sua esistenza. Prendere un Greyhound e andare da St. Louis, la sua città, al Texas, per un americano non è una cosa difficile, ma Zito racconta nelle sue canzoni questa storia come una sorta di redenzione.

Naturalmente nel suo percorso musicale ci sono anche altri quattro album (tra cui un live), usciti dal 2008 ad oggi, tutti validi, oltre alla carriera parallela con i Royal Southern Brotherhood, di cui è uno dei soci fondatori (con Cyril Neville e Devon Allman, insieme ai quali firma un brano a testa per questo Gone To Texas), quindi il southern rock è sicuramente uno dei generi presenti in questo album, per rispondere alla domanda precedente.

Non manca una forte dose di blues (e la Ruf Records è una etichetta che “capisce” il genere a fondo). Il disco è registrato ai Dockside Studios di Maurice, in Louisiana, e quindi il gumbo sonoro della Crescent City è un altro degli elementi del sound, come evidenzia in modo stupendo la slide di Sonny Landreth, presente in una canzone come Rainbow Bridge, che potremmo definire “swamp Blues”, ma ricorda moltissimo anche le pagine migliori del songbook dei Little Feat o di John Hiatt, con la voce di Susan Cowsill (una dei componenti dei Wheel) a dare ulteriore spessore al suono del gruppo, con una presenza alla Bonnie Raitt o alla Susan Tedeschi, per citare un’altra band con cui hanno affinità elettive.

Gruppo che ha una sezione ritmica solidissima e piena di fantasia, nelle persone di Rob Lee alla batteria e Scot Sutherland al basso, a cui aggiungiamo un Jimmy Carpenter che si disimpegna a sax e percussioni e aumenta la quota soulful della formazione. Quindi ricapitolando abbiamo un suono “sudista”, nell’accezione più ampia del termine, dove confluiscono rock, soul, blues, R&B, tante chitarre (e Mike Zito è un signor chitarrista), belle voci, lo stesso Mike, Susan Cowsill, Carpenter, anche Delbert McClinton, che appare a duettare con il leader in una sontuosa The Road Never Ends. Ma tutto il disco è ricco di belle canzoni, a partire dalla emozionante title-track, Gone To Texas, che ricorda quelle ballate southern mid-tempo che ai tempi facevano Allman Brothers o Marshall Tucker, percorsa dalle chitarre di Zito, dal sax di Carpenter e guidata dalla voce di Mike, che è anche un signor cantante, devo rivalutare il suo ruolo nei Brotherhood.

I Never Knew A Hurricane è un’altra ballata deep soul (scritta con Cyril Neville) con l’organo di Lewis Stephens che è un ulteriore elemento portante nel sound del gruppo e mette in evidenza il duettare tra Zito e la Cowsill, oltre al sax di Carpenter che si integra perfettamente al suono d’insieme. Suono che ricorda molto anche la qualità di Hiatt e McClinton oltre ai sudisti e agli altri citati. Ma il sound si può incattivire di brutto, come in Don’t Think Cause You’re Pretty, dove il nostro amico, voce distorta e slide tagliente dimostra (o conferma) di essere anche un bluesman a tutto tondo. E lo ribadisce nell’acustica Death Row, un folk blues dalla grande atmosfera, solo voce, National steel con bottleneck, un tamburello e tanto feeling. In questa alternanza di stili c’è spazio anche per il funky sanguigno di una carnale Don’t Break A Leg, con accenti di James Brown e Sly Stone o per la ballata pianistica Take It Easy, firmata da Delbert McClinton e interpretata alla grande da Mike, un blue eyed soul con il bollino di qualità. La già citata The Road Never Ends, attribuita a Devon Allman e Mike Zito, vede la partecipazione di McClinton, anche all’armonica ed è un bluesone con slide a a cavallo tra Allmans e un Bob Seger d’annata.

Subtraction Blues il genere lo dichiara fin dal titolo, ma è di nuovo quello meticciato dei Little Feat o dei musicisti di New Orleans, con chitarra, piano e sax a dividersi i compiti con ottimi risultati. Per Hell On Me Zito estrae dal cilindro anche un vigoroso wah-wah che si fa largo tra sax, organo e lo voci di Mike e Susan, per dimostrare, se ce n’era bisogno, che questo signore è anche un solista coi fiocchi. Voices In Dallas è uno dei brani che raccontano la sua odissea passata con le droghe, sempre con ritmi bluesati e ancora con un’ottima slide e organo in bella evidenza, oltre al sax baritono di Carpenter. Sempre slide anche per la trascinante Wings Of Freedom altro brano rock che mi ha ricordato nuovamente il miglior Bob Seger e conclusione acustica con la cover acustica del blues di William Johnson Let Your Light Shine On Me. Un disco di sostanza, caldamente consigliato a chi ama la buona musica!   

Bruno Conti     

Una Tom Waits Al Femminile? Dayna Kurtz – Secret Canon Vol.2

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Dayna Kurtz – Secret Canon Vol. 2 – Kismet Records 2013

Domandona per i molti lettori (spero) di questo blog: Chi conosce Dayna Kurtz? La signora proviene dal New Jersey, ha una lunga carriera alle spalle (è in pista dai primi anni duemila) e da quel periodo bazzica locali e sale, e porta in giro negli States (e in altri Paesi, tra cui l’Italia) le sue canzoni. Il sottoscritto ha avuto il piacere di conoscerla e sentirla in un concerto tenuto nel “mitico” locale Spazio Musica in quel di Pavia (2008), dove ha dimostrato una grinta notevole ed una grande voglia di comunicare le proprie sensazioni. L’esordio, per la sua Kismet Records, avviene con Postcards From Downtown (2002), a cui fanno seguito un bellissimo DVD Live in Concert From Amsterdam(2003), Beautiful Yesterday (2004) Another Black Feather (2006) e più recentemente il notevole American Standard (2009) e il primo volume di Secret Canon dello scorso anno (per completare la discografia devo menzionare un CD preso al concerto Otherwise Luscious Life – Dayna Kurtz Live di difficilissima reperibilità).

Questo secondo capitolo di Secret Canon, prosegue il discorso del primo, pescando una serie di oscure “cover” di brani jazz e blues scelti tra gli anni ’40 e ’60 (oltre a canzoni scritte dalla “rossa” Dayna), avvalendosi di compagni di viaggio di indubbio talento, partendo dal co-produttore Randy Crafton, il contrabbassista David Richards, Peter Vitalone e Jon Cowherd al piano, Jon Gros all’organo e la sezione fiati composta da Jason Mingledorff al sax, Craig Klein al trombone,  Barney Floyd e John Bailey alle trombe, che sono indubbiamente il valore aggiunto del lavoro.

Immaginate di essere seduti al famoso Rick’s Bar di Casablanca (in dolce compagnia) e spente le luci , partono le note di I Look Good In Bad (scritta dalla stessa Kurtz, ma potrebbe essere anche benissimo un brano cantato da Bessie Smith), cui fa seguito una So Glad del cantante pianista di New Orleans Edwin Bocage (1930-2009) dallo swing inarrivabile, mentre la bellissima ed emotiva  ballata Reconsider Me (me la ricordo in una versione di Johnny Adams) è cantata con il profondo dell’anima da Dayna. Il tempo di sorseggiare un buon bourbon e si riparte con le note di One More Kiss, pescata dal repertorio di Johnny “Guitar” Watson, la raffinata Same Time, Same Place della coppia Isaac Hayes e David Porter con in sottofondo la tromba vellutata di Barney Floyd, mentre la seguente If You Won’t Dance With Me è un altro splendido brano originale della stessa Kurtz.

Il piano di Jon Cowherd introduce le effusioni vocali di All I Ask Is Your Love (brano apparso nella splendida colonna sonora di Una canzone per Bobby Long, eseguita da Helen Humes), si prosegue con il gospel-blues di Go Ahead On, e con una sofisticata e jazzata I’ve Had My Moments, che era nel repertorio del grande Frank Sinatra. Il colpo di grazia arriva con la conclusiva I’ll Be A Liar (la perla del disco) di Bert (Russell) Berns (1929-1967), un pioniere del rock e soul degli anni sessanta (morto d’infarto a soli 38 anni, autore di brani come Here Comes The Night, Piece Of My Heart e Twist and Shout), con  piano e tromba ad accompagnare una performance vocale da brivido di Dayna.

Il genere di Dayna Kurtz, è  forse troppo complesso per i nostri giorni, (artista errabonda che ha passato anni in giro per i palchi e le bettole di mezza America ), e per incidere i dischi che sognava, ha dovuto crearsi un etichetta propria, la Kismet Records, e forse per questo, ancora adesso non è molto conosciuta, ma se i risultati sono questi… Secret Canon Vol. 1 e 2 sono due lavori notturni che fanno bene all’anima, imprescindibili per gli amanti del genere, che fanno della Kurtz una tra le più brave e intriganti voci femminili degli ultimi anni, abilitata a cantare nei più famosi Rick’s Bar del mondo!

Tino Montanari

A New York Succede Anche Questo! Live From The Lowdown Hudson Blues Festival 2011

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Live From The Lowdon Hudson Blues Festival 2011 – Sojourn Records

Quest’anno a luglio, la terza edizione, se siete a New York in quel periodo non mancate!

Non entrerà  forse nella storia dei Festival più importanti, da Woodstock passando per Newport e Montreux, ma il Lowdown Hudson Blues Festival, di cui questa registrazione testimonia la prima edizione, tenuta nel cuore di New York City al World Financial Center Plaza tra il 28 e il 30 luglio del 2011, mi sembra abbia dei punti in comune soprattutto con un’altra delle istituzioni della musica americana, il New Orleans Jazz And Heritage Festival che si tiene tutti gli anni in quel di New Orleans. Almeno a giudicare dagli artisti impiegati e dalla musica che ruota intorno a questa manifestazione, che nel nome riporta il Blues come principale attività ma poi, all’atto pratico, si sviluppa in varie direzioni.

La Steve Bernstein’s Millennial Territory Orchestra è una band guidata da un trombettista (spesso utilizzato nei progetti di Hal Willner, ma era anche nei Midnight Ramblers di Levon Helm e nel tributo a Leonard Cohen, per segnalarne la ecletticità) che si muove tra jazz, funky e soul-blues ma che per l’occasione, ospitando nei suoi ranghi il pianista Henry Butler, nativo appunto di New Orleans, accentua il suo stile di rivisitazione creativa della musica anni ’20 e ’30, arricchendola con lo stile fluente del grande pianista cieco della Crescent City, Buddy Bolden’s Blues è un esempio glorioso di questo blues che viene dalla Lousiana, così come la lunga Viper’s Drag, che si ascolta più avanti nel concerto e che ha una  introduzione più funky-jazz, quasi avanguardistica alla Art Ensemble, prima di sciogliersi in un lungo assolo di Butler, ben coadiuvato peraltro dalla sezione fiati dell’orchestra,  che la riporta verso lidi tra blues e ragtime, molto piacevoli. L’altra formazione che presenta due brani in questo CD è quella di James Blood Ulmer con i Memphis Blood Blues che ospitano anche Vernon Reid dei Living Colour, altri artisti neri sempre in bilico tra jazz, blues e rock. Per l’occasione eseguono I Want To Be Loved un funky-blues sanguigno che appare in Memphis Blood, con il wah-wah minaccioso di Reid che viene oscurato dal violino dell’ottimo Charles Burnham e dal piano di Rick Steff, anche perché le chitarre, in fase di mixaggio risultano molto sullo sfondo.

Pure I Live The Life I Love, che viene dallo stesso album, come la precedente è stata scritta da Willie Dixon ed è un omaggio ai grandi del Blues, nella persona del più importante autore di casa Chess, e conferma Ulmer come uno degli ultimi “innovatori”, almeno a livello di suoni, del blues moderno, strano ma affascinante, sempre con il violino che si fa largo, tra organo e chitarre varie con uno stile urticante. The Beauties vengono definiti una band alternative country e non so cosa c’entrano con il resto, ma ragazzi è un Festival, forse perché il brano si chiama Fashion Blues? Comunque non sono male, il brano sembra una via di mezzo tra Lou Reed, i Talking Heads e i primi Modern Lovers, ma ti acchiappa. Amy Lavere viene da Memphis, Tennessee (ma è nativa di Shreveport, Lousiana), suona il contrabbasso, canta (tre dischi solisti all’attivo) e si esibisce anche nel quintetto bluegrass The Wandering (con Luther Dickinson e Valerie June) e in duo con Shannon McNally, Washing machine ha un testo surreale ma musicalmente è molto complessa e accattivante. Il blues più classico trionfa nella versione di I Wish You Would eseguita dal Danny Kalb Quartet, guidato da un musicista che era presente sulla scena folk-blues di NY già dagli inizi degli anni ’60 e poi è stato uno dei chitarristi della formazione originale dei Blues Project, nonostante i 70 anni passati ancora una voce e una grinta invidiabili, electric blues di gran classe.

Non conoscevo e non avevo mai sentito nominare i Citigrass, ma dicono che si tratta del migliore gruppo bluegrass di New York e a giudicare da questa Ain’t Gonna Change penso che mi farò un ripasso, ottime armonie vocali, non si finisce mai di imparare. Anche Ryan Shaw mi era sconosciuto ma fa dell’ottimo soul gospellato (come le truppe cammellate), bella voce e In Between è una delizia per gli amanti della musica nera. Mike Farris lo conosciamo bene, e da quando ha abbandonato gli Screaming Cheetah Wheelies si è trasformato in un perfetto cantante gospel e la versione di Oh Mary Don’t You Weep con la Roseland Rhythm Revue è da applausi a scena aperta, così come la fusione tra blues, jazz, klezmer, calypso e ritmi neri degli Hazmat Modine, in una formidabile I’ve Been Lonely For So Long, è memorabile, come un Taj Mahal (presente al concerto ma non nel CD) giovane, se Wade Schuman, che suona anche l’armonica alla grande, non fosse un bianco di Ann Arbor, Michigan.

Un disco eclettico ma assai interessante, degno di un Festival Blues (?!?) tenuto a New York City.

Bruno Conti