Cavalli Di Razza In Versione “Unplugged” – Band Of Horses – Acoustic At The Ryman

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Band Of Horses – Acoustic At The Ryman – Brown Records/Spin-Go

Ci sono gruppi che esigono un ascolto accurato prima di rivelarsi i “cavalli di razza” che nel corso della carriera sono poi diventati. I Band Of Horses rientrano in questa categoria: dopo lo splendido debutto con Everything All The Time (06) su Sub Pop Records (che conteneva The Funeral, una canzone che ha raccolto parecchi consensi nel circuito alternativo), a cui fecero seguito altri lavori meno ispirati ma sempre di buon livello come Cease To Begin (07), Infinite Arms (10 e Mirage Rock (12), è con questo live set acustico che (per chi scrive), fanno il salto di qualità http://www.youtube.com/watch?v=RxWSEZfplow .

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Il background artistico dei Band Of Horses, trio proveniente da Seattle, formato dal leader e cantante Ben Bridwell, con i suoi “stallieri” Rob Hampton e Creighton Barrett, dopo l’indie-rock delle prime uscite (il debutto e Cease To Begin), aveva in seguito intrapreso la strada di un pop-rock venato di country (Infinite Arms), per poi sterzare verso il folk-rock (Mirage Rock), rincorrendo negli anni un sound e una scrittura tipica della grande tradizione rock americana.

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Acoustic At The Ryman è il primo disco dal vivo del gruppo, registrato in due serate presso lo storico e mitico teatro di Nashville, con una strumentazione interamente in assetto acustico, con violoncello, chitarre, pianoforte e percussioni delicate. I dieci pezzi presentati sono tratti in modo omogeneo da tutti i dischi della band, alternando brani di grande impatto strumentale, ad altri momenti cantati, dalle ricche armonie vocali (nei brani storici).

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E allora idealmente saliamo sul palco con Benjamin Bridwell voce e chitarra, Ryan Monroe piano e chitarra, Tyler Ramsey alle chitarre, Bill Reynolds al basso e Creighton Barrett alle percussioni per introdurre l’iniziale Marry Song e Detlef  Schrempf (dedicato ad un grande giocatore tedesco del  basket professionistico USA) http://www.youtube.com/watch?v=m5dt01gDJ5Y , due dei tanti brani “rubacuori” del gruppo, mentre Slow Cruel Hands Of Time viene riproposta in una versione minimalista. Un tenue accordo di chitarra introduce la corale Everything’s Gonna Be Undone, a cui fanno seguito due cavalli di battaglia come No One’s Gonna Love You e Factory, che sembrano state scritte appositamente per queste versioni acustiche. Dopo una breve pausa (per accordare gli strumenti) si riparte con una Older in stile Crosby, Stills, Nash & Young, mentre la seguente Wicked Gil viene rivoltata come un calzino (sembra un’altra canzone), con largo uso del pianoforte. Accordi di piano che vengono riproposti nel singolo d’esordio The Funeral (estratto da Everything All The Time), dall’incantevole melodia http://www.youtube.com/watch?v=UI14P8WQROw , forse il brano più intimo e toccante della serata (una sorta di Stairway To Heaven della band) e chiudere con una Neighbor cantata coralmente quasi “a cappella” http://www.youtube.com/watch?v=QT36twWX4hA . Applausi.

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Acoustic At The Ryman soddisferà in pieno le aspettative dei tanti “fans” (come sempre in queste operazioni i brani diventano più intimi e raccolti ed emergono aspetti artistici meno evidenti), in questo caso dieci ballate mai troppo veloci, cantate con la bellissima voce di Ben e le pregevoli armonie delle seconde voci, che ci tengono compagnia per poco più di quaranta minuti, e nel caso abbiate un buon impianto stereofonico, sembra davvero di stare a pochi metri dai musicisti.

In una decina d’anni di attività i Band Of Horses, si sono guadagnati la giusta fama di essere una delle più solide “indie rock band” del panorama americano, e questa performance live (nel santuario del country a Nashville) li consacra definitivamente come un gruppo di musicisti di talento, che scesi dal palco, lasciano nel pubblico presente in sala, le emozioni autentiche che si cercano nella buona musica.

Tino Montanari

Semplicemente Una Delle Più Grandi Band Di Sempre! Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90

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*NDB Torna il supplemento della Domenica Del Disco Club, dischi, gruppi e musicisti che hanno fatto la storia del Rock (e altro). Se il Blog fa giudizio, nei giorni festivi periodicamente c’è sempre spazio per questa rubrica: la parola a Marco!

Little Feat – Rad Gumbo: The Complete Warner Bros. Years 71-90 – Rhino/Warner 13 CD Box Set in uscita il 25-02-2014

Tra le mode discografiche degli ultimi tempi, una delle più apprezzate è la riproposizione delle discografie complete (o quasi) di gruppi o solisti che hanno fatto la storia della nostra musica, in piccoli box comodi e pratici, con tutti gli album in formato mini-LP, ad un prezzo il più delle volte contenuto (basti pensare al recente cofanetto dedicato a Ry Cooder): l’ultimo in ordine di tempo ad essere preso in esame è il periodo Warner, cioè il migliore, di uno dei gruppi americani cardine degli anni settanta, i Little Feat.

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Se leggete abitualmente questo blog sapete già di chi stiamo parlando, ma per quei pochi che ancora non li conoscono, questo box di 13 CD, che raccoglie tutta la discografia degli anni settanta più i premi due album della reunion di fine anni ottanta (ed una chicca che vedremo), è assolutamente indispensabile per colmare una grave lacuna nella propria discoteca personale.

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Formatisi nel 1969 a Los Angeles su iniziativa del geniale cantante e chitarrista Lowell George (già membro delle Mothers Of Invention di Frank Zappa, che aveva intuito prima di tutti il suo talento) e del tastierista Bill Payne, i Little Feat (che pare prendessero il nome dalla dimensione dei piedi di George) furono probabilmente il primo gruppo di Americana della storia (insieme a The Band, che però aveva una dimensione più rock) in quanto la loro musica fondeva mirabilmente rock, blues, errebi, country, funk, southern rock, boogie, marcate influenze di New Orleans ed in un secondo tempo perfino jazz e fusion.

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Lowell George era la vera punta di diamante del gruppo, un songwriter geniale ed anche ottimo chitarrista (purtroppo incostante e con brutte abitudini – leggi droghe ed alimentazione non proprio bilanciata – che lo porteranno ad una morte prematura), ma anche Payne era (è) un pianista della Madonna, ed i restanti membri del gruppo (Sam Clayton, Roy Estrada, sostituito dopo pochi anni da Kenny Gradney, Richie Hayward e Paul Barrere) un treno in corsa che in quegli anni aveva pochi rivali come backing band (Jimmy Page, non un pivello qualsiasi, dichiarò che i Feat erano il suo gruppo americano preferito).

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E’ quindi un piacere immenso ripercorrere l’epopea della band californiana, dall’esordio del 1971 Little Feat, un disco ancora un po’ acerbo e parzialmente influenzato dal blues, ma con un futuro classico come Truck Stop Girl ed una prima versione simil-demo del loro capolavoro, Willin’ (e Ry Cooder in session), ai due album seguenti, gli imperdibili Sailin’ Shoes e Dixie Chicken, due dischi da cinque stelle che hanno imposto i Feat come una delle realtà più brillanti del periodo: brani come Tripe Face Boogie, A Apolitical Blues, Cold Cold Cold, Teenage Nervous Breakdown, la stupenda Dixie Chicken, un brano così “New Orleans” che sembra impossibile sia stato scritto da un californiano, Fat Man In The Bathtub, Roll Um Easy e la meravigliosa Willin’, in assoluto una delle più belle canzoni della decade (e non solo).

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In più, comincia con questi due album l’iconica serie di artwork ad opera di Neon Park, tra il surreale e l’umoristico, che diventerà un punto fermo della discografia della band; Feats Don’t Fail Me Now, del 1974, ha la sfortuna di venire dopo due capolavori come i due album precedenti, ma è comunque un signor disco, con una prima facciata quasi perfetta (Rock & Roll Doctor, Oh Atlanta, Skin It Back, Down The Road  e Spanish Moon) e con Emmylou Harris e Bonnie Raitt ospiti.

A questo punto della carriera comincia la fase discendente: George inizia ad avere seri problemi fisici e si disinteressa sempre di più delle sorti del gruppo (terrà il meglio per sé stesso, pubblicandolo poi nell’ottimo album solista Thanks I’ll Eat It Here), mentre il resto della band, con Payne in testa, pretende di avere più spazio ed introduce nel suono elementi jazzati e quasi fusion.

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Si sa che nelle band la democrazia ha sempre funzionato poco (basti pensare all’ultimo album dei Creedence, Mardi Gras, o ai brani dei Grateful Dead non scritti da Jerry Garcia), ed i due lavori che i Feat pubblicano in questo periodo, The Last Record Album e Time Loves A Hero, sono i meno interessanti della loro discografia: si salvano chiaramente i (pochi) brani a firma di George (specialmente Rocket In My Pocket) ed una splendida versione di New Delhi Freight Train di Terry Allen.

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Dal vivo però il sestetto continua ad essere una formidabile macchina da guerra, come testimonia il fantastico live del 1978 Waiting For Columbus (l’unico doppio CD presente in questo box), un album imperdibile nel quale tutti i classici del gruppo vengono proposti nella loro versione definitiva, un momento di ispirazione generale che ha pochi eguali nella storia della musica (personalmente è nella mia Top 3 dei dischi live anni 70, subito dopo il Live At Fillmore East degli Allman e Rock And Roll Animal di Lou Reed, con Made In Japan dei Deep Purple a fungere da disturbatore).

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Le condizioni di salute di George sono però sempre più critiche, e la situazione precipiterà durante le sessions per Down On The Farm, quando il talentuoso musicista viene trovato morto per un attacco di cuore (causato da anni di stravizi): il resto della band porterà a termine da sola il disco (che per ironia della sorte è meglio dei due precedenti lavori di studio) per poi annunciare lo scioglimento.

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Ma la storia non finisce qui: nel 1981 esce Hoy Hoy!, una collezione di brani live inediti e di demos ed outtakes di studio (un ottimo disco, in quanto c’è dentro parecchio Lowell George) e, nel 1988, la reunion a sorpresa dei membri originali, con l’aggiunta del chitarrista Fred Tackett e, al posto di George, di Craig Fuller, ex membro dei Pure Prairie League.

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I primi due album della nuova formazione sono anche gli ultimi (o quasi) di questo box: Let It Roll è un buon disco, suonato alla grande (i Feat sono sempre dei grandi musicisti), anche se si sente la mancanza del genio di George, mentre Representing The Mambo è più riuscito, grazie soprattutto ad una serie di canzoni di qualità superiore.

La carriera dei Little Feat proseguirà fino ad oggi, tra dischi buoni, un paio ottimi (Ain’t Had Enough Fun e Join The Band, sorta di auto-tributo con grandi ospiti) ed altri più ordinari, l’uscita di Fuller e l’ingresso (e poi uscita) della vocalist Shaun Murphy e, purtroppo, la perdita recente (nel 2010) di Hayward, andato a far compagnia a George a causa di un cancro al fegato.

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Il box in questione non prende in considerazione questi album, in quanto usciti per altre etichette, ma ha in serbo un’ultima sorpresa: un CD intitolato Outtakes From Hotcakes, pieno di inediti in studio e live del loro periodo d’oro, una vera leccornia finora disponibile soltanto all’interno del box di quattro CD Hotcakes And Outtakes, uscito nel 2000.

Motivo in più, insieme al costo non elevato, per accaparrarsi questo cofanettino: dentro c’è musica tra la migliore degli ultimi quarant’anni.

Marco Verdi

Una Giovane “Vecchia”? Meschiya Lake And The Little Big Horns – Foolers’ Gold

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Meschiya Lake & The Little Big Horns – Foolers’ Gold – Continental Song City/IRD

Una giovane “vecchia” o una vecchia “giovane”? Direi ovviamente la prima! E comunque come li vogliamo chiamare questi gruppi? Neo-revivalisti, neo-tradizionalisti, ammesso che ci sia differenza! Sicuramente, nonostante il nome della band, non credo ci siano riferimenti al Generale Custer, ma mai dire mai. E’ il secondo disco che pubblicano con questa “ragione sociale”: il primo Lucky Devil, ora questo Foolers’ Gold, anche se Meschiya Lake, come solista, ha pubblicato pure un disco dal vivo in coppia con Tom McDermott. Nata e cresciuta a Rapid Lake, North Dakota, la nostra amica ha un passato anche da artista da circo ed ha girato l’America in lungo e in largo prima di stabilirsi a New Orleans dalla metà degli anni duemila. Nel 2007 ha iniziato a lavorare con i Loose Marbles e nel 2009 sono nati i Little Big Horns http://www.youtube.com/watch?v=7qhn7qN2mPk .

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La signorina Lake, che ora ha 33 anni (perderò mai questo vizio di dire l’età delle signore?), si è “inventata” una piacevole miscela di jazz vecchio stile alla Bessie Smith o Billie Holiday primo periodo, musica tradizionale dal Cotton Club anni ’20 e ’30, Duke Ellington e Jelly Roll Morton, un po’ di blues, del vecchio Rhythm & Blues,  forse più jump music, in definitiva New Orleans Music. Il tutto cantato con una voce pimpante e spiritata, che pesca qui e là tra i nomi citati, ma può ricordare anche una Amy Winehouse meno “moderna” e trasgressiva o Sharon Jones, che condividevano tra l’altro lo stesso gruppo di accompagnatori. Il materiale è molto “Traditional arranged” con qualche puntatina verso Cole Porter, Miss Otis Regrets, vecchio gospel, Satan, Your Kingdom Must Come Down, trovata recentemente anche sul live dei Sacred Shakers, ma era pure nel disco della Band Of Joy di Robert Plant, rischia di diventare uno standard della canzone “moderna”. Ormai gruppi e solisti che si impossessano di nuovo della grande tradizione della canzone di prima della seconda guerra mondiale impazzano negli Stati Uniti, vedi anche Pokey LaFarge o Luke Winslow-King, per non parlare della Preservation Hall Jazz Band che a New Orleans è una sorta di istituzione. Volendo, in un ambito più “leggero”, anche l’olandese Caro Emerald, a grandi linee, fa parte della stessa famiglia.

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Meschiya Lake, super tatuata ovunque, anche sulla sopracciglia (?!), ha quel quid che marchia i talenti, una bella voce che piace soprattutto (almeno al vostro recensore) nei brani lenti: il blues di Don’t Start With Me, la stupenda Midnight On The Bayou, perfetta per una gita per le strade della Big Easy, cantata con una voce che raccoglie decadi di grandi voci femminili del passato, la delicatissima The Fragrance, con un’aria quasi tzigana grazie ad un violino strappalacrime che si insinua tra i “piccoli grandi fiati”, la cadenzata Organ Grinder http://www.youtube.com/watch?v=9LqnlD1gxtU Il resto è perlopiù travolgente: dai ritmi irresistibili di Catch ‘Em Young, cantata con uno swing nella voce che replica quello che giunge dalla musica, una My Man che ricorda molto le atmosfere del Cab Calloway di Minnie The Moocher http://www.youtube.com/watch?v=3B9snMFflOM , o il dixieland alla Louis Armstrong (non lo avevamo ancora menzionato!) di It’s The Rhythm In Me. E ancora la struggente I’ll Wait For You o i ritmi latineggianti di Foolers’ Gold, vai con la rhumba.

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Young Woman’s Blues, come da titolo, è quel blues meticciato con il jazz che andava nei quartieri francesi già un centinaio di anni fa e ancora oggi ha un effetto corroborante. La già citata Satan, Your Kingdom Must Come Down comunque la arrangi è sempre una gran canzone http://www.youtube.com/watch?v=XUVIuE-YvdI e in Miss Otis Regrets per non seguire il tempo ti devi fare legare le gambe http://www.youtube.com/watch?v=VYGcVZuO67Q . La conclusiva I Believe In Music è New Orleans Sound allo stato puro, con un basso tuba che scandisce il tempo e gli altri fiati che lo seguono http://www.youtube.com/watch?v=wAk_lQAHw_0 , ha perfino un tocco più contemporaneo o come dicono quelli che parlano bene, “modernità nella tradizione”, un motto che vale per tutto il disco. E, particolare non trascurabile, lei è veramente brava, canta alla grande in tutto il disco.

Bruno Conti

Chi E’ Costui? Non Un Carneade Qualsiasi! Paul Filipowicz – Saints And Sinners

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Paul Filipowicz – Saints And Sinners – Big Jake Records ***

In questo caso un bel “Ma chi è costui?” mi scappa proprio! Soprattutto nella scena americana del Blues e dintorni ci sono decine, centinaia, forse migliaia di musicisti che onestamente tirano la carretta con la loro musica e non più del 10%, a voler essere ottimisti, riesce a varcare, a livello di fama, i confini degli Stati Uniti. Localmente ci sono personaggi conosciuti nella regione dove operano quando non nella contea o nell’area metropolitana e, diciamocelo, francamente, di molti di questi bluesmen non è che sia imprescindibile avere contezza. Prendiamo questo Paul Filipowicz che ho appena finito di distruggere a livello virtuale, la sua area di azione è nella zona di Madison, la capitale del Wisconsin (anche se è nativo di Chicago, e questo gli fa guadagnare punti), che non pare avere regalato alla musica nomi che rimarranno imperituri nella storia: ricordo solo Ben Sidran e Clyde Stubblefield (il famoso “funky drummer” di James Brown, una bella foto dei due insieme c’è comunque), figuriamoci gli altri.

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In effetti in città operavano anche Butch Vig e i suoi Garbage che avevano pure un famoso studio di registrazione in loco, ma ha chiuso nel 2010. E quindi? Niente! Era solo per dire che questo ex giovanotto (è del 1950, 64 anni fra poco), pur non provenendo da zone geografiche dove il Blues vive e prospera, è un buon musicista, ottimo chitarrista, ben addentro al classico Chicago sound, ma con abbondanti spruzzate di rock, e se vince premi a raffica in ambito locale un motivo ci sarà. Con sei album alle spalle, più questo nuovo Saints And Sinners (ma non era di Johnny Winter?), il precedente Chickenwire, un Live del 2007, il migliore; il buon Paul ha iniziato la sua carriera discografica abbastanza tardi, nel 1996, ma era in pista e sui palchi già dagli anni ’70 http://www.youtube.com/watch?v=It2YDncd3-s .

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E tra l’altro, astutamente, alcuni brani, tre, che aveva inciso nel 1982, ma non erano mai stati pubblicati, vedono la luce come bonus del suo nuovo CD. Ma , questo è “repertorio” classico, una domanda sorge spontanea: è bravo? Sì, direi più della media di molti dischetti che ultimamente mi capita di recensire e mi sembrano indirizzati verso un pubblico di già convertiti alle 12 battute classiche, anche piuttosto stancamente. Nel caso di Filipowicz mi pare che ci sia qualcosa in più: la chitarra inizia a “imperversare” dall’apertura con l’ottimo strumentale Hound Dog Shuffle, dove la solista ha una grinta rock che si associa agli axemen più tosti, un sound che il suo vecchio datore di lavoro Luther Allison avrebbe sicuramente apprezzato, ma anche gente come Stevie Ray Vaughan o Buchanan e il Clapton più attizzato. Impressione confermata dall’ottima Bluesman, con la sezione ritmica che pompa di gusto, Jimmy Voegell a piano e organo supporta benissimo la chitarra che continua a fare sfracelli, peccato che il brano venga sfumato brutalmente. Devo dire che Paul Filipowicz, pur non essendo un cantante formidabile, a livello di foga e di grinta ci mette del suo, come conferma il tiratissimo slow blues Your True Lovin’ che potrebbe ricordare gente come il Bugs Henderson del periodo migliore o lo stesso SRV citato prima, Texas blues rock della più bell’acqua, veramente notevole. Hootin’ & Hollerin’ ha qualcosa del bayou rock dei Creedence, alla Suzie Q, ma anche degli Humble Pie dei tempi che furono, la chitarra viaggia alla grande nei quasi 6 minuti del brano e il pianino di Harris Lemberg, l’altro tastierista che si alterna con Voegell, fa il suo dovere pienamente http://www.youtube.com/watch?v=H9B_udZaH04 .

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Good Rockin’ ha uno spirito R&R mutuato dal Johnny Winter di And Live o dall’Alvin Lee delle esibizioni live; “Fat Richards Blues” è uno slow dedicato a Richard Drake, il sassofonista che suonava con lui ad inizio carriera (appare nei brani registrati nell’82) ed è uno strumentale degno del miglior Roy Buchanan, mentre Where The Blues Come From è un’altra “schioppettata” di pura energia chitarristica. Everyday, Everynight ci riporta al blues più sanguigno e genuino, meno di tre minuti ma vissuti intensamente e Hey Bossman, che conclude l’album ufficiale, è un boogie in tutto degno delle migliori cose di ZZ Top o Thorogood, micidiale. In conclusione le bonus del 1982, registrazione un po’ “primitiva”, sempre parecchia grinta ma senza la classe acquisita negli anni: una cover di un classico del funky come Back Door Santa di Clarence Carter http://www.youtube.com/watch?v=zaS3OeTdQ58  e una di How Many More Years di Chester Burnett a.k.a. Howlin’ Wolf, che se non ha la virulenza di quella dei Led Zeppelin, cionondimeno mostra un talento della chitarra già in fase di formazione. Non so dove sia stato “costui” per tutti questi anni, ma ora è veramente bravo, un “Carneade” assolutamente consigliato: il CD è in giro da un annetto, non si trova con facilità ma vale la pena di cercarlo!                

Bruno Conti

Una Nuova “Visita” Del Dottor Jimmy! Buddy Guy And Junior Wells – Play The Blues

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*NDB Ormai la rubrica entra nel vivo, siamo alla seconda puntata, il buon Jimmy Ragazzon è lanciato, tra una data e l’altra del suo tour con i Mandolin’ Brothers (e Jono Manson ogni tanto) prosegue la sua collaborazione con il Blog, in attesa di altri capitoli, buona lettura!

BUDDY GUY & JUNIOR WELLS:  PLAY THE BLUES 2 CD Deluxe Edition  Friday Music

Istruzioni Preliminari

-non fate caso alla puzza di zolfo

-pulitevi accuratamente le scarpe sullo zerbino

-controllate il vostro aspetto nello specchio dell’atrio

-accendetevi una sigaretta e versatevi una generosa dose del vostro veleno preferito,

  attingendo liberamente dal ricco mobile bar, posto sotto lo specchio suddetto.

buddy guy junior wells muddy

State per entrare nel palazzo della Royal Family del Blues: non siate timidi, ma solo molto molto rispettosi, perché questi non scherzano. All’inizio vi sentirete un poco sperduti, dato che le stanze sono numerose e vorreste entrare in ognuna di esse per soffermarvi ad ascoltare  tutti i Reali presenti; ma per questa volta accontentatevi dell’ampio e lussuoso piano terra e dei due pischelli (all’epoca) Buddy & Junior: ne rimarrete più che soddisfatti.

Buddy Guy & Eric Clapton

Infatti questo è uno dei più blasonati album di blues elettrico di sempre, voluto fortemente da Eric Clapton, grande estimatore del duo e che vede la partecipazione anche di Dr. John e della sezione ritmica di Derek & The Dominos. Inoltre dopo aver registrato con questa formazione le prime 8 tracce nel ‘70 ai Criteria Studios di Miami, nel ’72 venne coinvolta  anche la J. Geils Band (ascoltatevi il loro grandissimo Live) per registrare altri 2 pezzi e chiudere il progetto, con la supervisione artistica e la produzione di Tom Dowd e del Big Boss dell’Atlantic, Ahmet Ertegun.

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Buddy & Junior avevano appena terminato il tour con gli Stones ed erano in splendida forma, fatto dimostrato dalle brillanti versioni di  T-Bone Shuffle, My Baby She Left Me (di Sonny Boy Williamson) e del classico di Otis Redding  A Man of Many Words. Ma tutto l’album è un vero capolavoro che scorre come un fiume in piena con  Bad Bad Whiskey, Messin With The Blues, una non scontata  Sweet Home Chicago (registrata in Mono) il vibrante slow blues Stone Crazy e la mia preferita, cioè Dirty Mother For You (di Memphis Minnie) superbo esempio di come si debba “portare” uno shuffle ed  il cui testo fu originariamente rivisto, per non incappare nelle ire dei  benpensanti. Blues at his best si può tranquillamente affermare, suonato e cantato in maniera ruvida e decisa, senza fronzoli o inutili abbellimenti ed un groove impressionante, con il marchio di fabbrica chitarristico e vocale di Buddy Guy  ed un Junior Wells sempre preciso e mai fuori dalle righe, nel suo inconfondibile stile di armonicista e cantante. Arricchita da 13 inedite bonus tracks e dalle note esplicative di Johnny Winter, questa doppia ristampa è quindi un gioiello imperdibile, per chiunque ami la grande musica: il Blues.

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P.S. Uscite con discrezione, chiudete il ligneo portone, ma non scordatevi di chiedere il pass (ammesso che ve lo diano) perché qui ci torneremo…

Un libro per accompagnare il tutto?

eccolo:

hoochie koochie man libro

Hoochie Coochie Man

La vita e i tempi di Muddy Waters (prefazione di Keith Richards)

Arcana

Jimmy Ragazzon

Il Nome Del Gruppo Fa Schifo…Ma Cacchio Se Suonano! – Girls, Guns And Glory – Good Luck

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Girls, Guns & Glory – Good Luck – Lonesome Day CD

Una piacevolissima sorpresa, ecco cos’è stato per me questo disco. E dire che quando ho visto il nome del gruppo, Girls, Guns & Glory, ho alzato le sopracciglia: raramente infatti ho visto un nome più idiota per una band, ed anche rischioso dal punto di vista commerciale, in quanto poco memorizzabile. Poi ho visto che il produttore era Eric “Roscoe” Ambel, già leader dei magnifici Del Lords e dietro la consolle con gente come Steve Earle, Joan Jett, i Bottle Rockets e Jimbo Mathus, e le sopracciglia hanno cominciato a scendere, per tornare nella loro posizione normale quando ho inserito il CD nel lettore (e qui però ho iniziato a sgranare gli occhi e drizzare le orecchie) http://www.youtube.com/watch?v=kblmVVRz8B4 .

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I GGG (mi viene meglio chiamarli così) sono un quartetto proveniente da Boston (Ward Hayden è il leader, principale autore, cantante solista e chitarrista ritmico, Chris Hersch il chitarrista solista, Paul Dilley il bassista e Josh Kiggans il batterista), e fanno un misto di Americana, country e rock’n’roll, ma suonato e cantato con una forza, una grinta ed un feeling da far paura. Non sono dei novellini, stanno insieme da quasi dieci anni e hanno già quattro dischi alle spalle, ed in più si sbattono non poco nel suonare dal vivo, arrivando a volte vicino anche alle duecento date all’anno (della serie Springsteen ci fa una pippa).

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Good Luck è appunto il loro quinto disco, ed è una piccola bomba: musica vera, sana, diretta e senza fronzoli, sia nei pezzi più elettrici, durante i quali si fa fatica a stare fermi, sia negli episodi più cantautorali, che in certi momenti arrivano a ricordare anche il miglior Jackson Browne. E poi la presenza di Ambel è una garanzia: come Lloyd Maines, anche il buon Eric non si scomoda se non ne vale la pena. Good Luck dura appena trentacinque minuti, ma di una tale intensità che mi fa venire voglia di scoprire anche gli album precedenti.

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Si parte subito alla grande con All The Way Up To Heaven, uno splendido country-rock elettroacustico, solare e diretto, una melodia di sicuro impatto ed un arrangiamento classico, molto anni settanta http://www.youtube.com/watch?v=2Mkd34YVSHQ . Be Your Man, più elettrica e con i fiati che donano colore, è un trascinante rock’n’roll a tutta birra, un pezzo che rimanda direttamente ai Blasters (ma anche all’ex gruppo del produttore), mentre One Of These Days è una ballata piena di anima, con un suggestivo arpeggio di chitarra elettrica sullo sfondo ed un motivo decisamente browniano (nel senso di Jackson).

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Shake Like Jello è ancora un rock’n’roll dal tiro irresistibile: i GGG ci sanno fare eccome, e passano con estrema disinvoltura da un genere all’altro senza perdere il bandolo. La bella Centralia, PA, sorta di country crepuscolare, è favorita da un’altra melodia superba, Hayden canta con il cuore in mano (la sua espressività vocale è un altro punto a favore del CD) ed il resto del gruppo ricama da par suo sullo sfondo. C’mon Honey è rockabilly suonato con un’energia da punk band, e dimostra ancora come i GGG sappiano dosare in egual misura muscoli e carezze; la mossa Built For Speed è invece uno scintillante swamp-rock alla Fogerty (sostituite alla voce di Hayden quella dell’ex leader dei Creedence e sarete d’accordo con me), Rockin’ Chair Money è un delizioso pastiche cantautorale, sfiorato da una languida steel.

Spiace quasi che il CD sia pressoché giunto al termine: il tempo di apprezzare ancora la tosta UUU, una rock song vigorosa che non fa prigionieri, e It’s Your Choice, altro ottimo esempio di songwriting di classe, un brano che sa essere toccante senza la minima sdolcinatezza.

Un consiglio: non fatevi sfuggire questo disco.

Marco Verdi

Songwriter, Poeta, Attore e … Contadino – Tim Grimm – The Turning Point

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Tim Grimm – The Turning Point – Cavalier Music/Ird

E’ un tipo eclettico Tim Grimm: ha recitato al cinema con artisti del calibro di Harrison Ford, Russell Crowe, Al Pacino e Robert De Niro, in teatro ha lavorato con il poeta e intellettuale attivista Wendell Berry e, nell’ambito musicale, in carriera ha raccolto riconoscimenti e inciso album diventati piccoli classici della “roots-music” americana http://www.youtube.com/watch?v=5m_bY8hXJDM . Tim viene dall’Indiana, terra di contadini dalle tradizioni radicate e di John Mellencamp (di cui spesso esegue in concerto alcuni suoi pezzi famosi), propone una musica a cavallo tra le sonorità tipiche di Woody Guthrie e John Prine, e un suo disco The Back Fields è stato votato come il migliore album di “americana” nel 2006, oltre a tanti altri premi e riconoscimenti, per un artista che ha visto tutti i suoi ultimi lavori raggiungere la vetta delle classifiche di musica folk e roots (da segnalare Holding Up The World (2008) e il tributo a Tom Paxton Thank You Tom Paxton(2011).

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Tutte le canzoni di The Turning Point (alcune scritte con la moglie Jan Lucas), vedono la partecipazione di Jason Wilber (chitarrista di John Prine e titolare di alcuni interessanti lavori solisti), con il valido apporto della band “newgrass” The Underhills, dove eccellono Diederick Van Wassener e Jordana Greenberg al violino, Rebecca Ree-Lunn al banjo, il figlio Connor Grimm al pianoforte, e restando in famiglia l’armonica di Jan Lucas, con il delizioso contorno di Harpeth Lecter, Cindy Kallett e Beth Lodge-Rigal alle armonie vocali. Molto particolare anche la confezione del CD, che vedete qui sotto!

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Tim cammina sulla sottile linea tra il folk e country fin dall’iniziale The Lake, e sarete rapiti dalla melodia della seconda traccia Family History, dove il violino ricama note struggenti per poi passare alla evocativa folk song King Of The Folksingers dedicata al suo amico Ramblin’ Jack Elliott di cui si raccontano le epiche gesta http://www.youtube.com/watch?v=hN4mq6naDnQ . Si riparte con la narrazione di Rovin’ Gambler ,tra chitarra e armonica, seguita dalla title track The Turning Point, una ballata d’atmosfera con un violino che ricorda la Scarlet Rivera “dylaniana”, come la delicata Anne In Amsterdam (ricordo della visita alla casa museo di Anna Frank) http://www.youtube.com/watch?v=1-UCotSzraY . The Canyon e Indiana riportano alla mente le strade polverose e i paesaggi raccontati da Jack Kerouac, con il banjo e il violino ad accompagnare la voce narrante dell’autore, mentre con la melodica I Don’t Mind si viaggia dalle parti dello Springsteen di Nebraska. Chiudono un lavoro importante la tenue recitativa The Tree e il bluegrass di Blame It On The Dog, degna conclusione di un disco di folk “rurale”.

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Tim Grimm (per chi scrive) è uno dei musicisti e folksinger più interessanti della scena “indie” del Midwest, uno “storyteller” di razza dotato di una voce calda e avvolgente, con una visione umile e nello stesso tempo ambiziosa della sua musica, sempre coerente nello sviluppo di un suono con strumenti tradizionali, come banjo, armonica, chitarra e violino. Dopo parecchi anni passati a Los Angeles (nel periodo artistico), da qualche anno Tim con moglie e figlio è ritornato (come Cincinnato) nella sua fattoria  di 80 acri nell’Indiana, affiancando l’attività agricola a quella musicale, e il risultato è questo The Turning Point forse l’espressione più fedele e autentica di un personaggio, che sicuramente non cambierà il corso della musica, ma sono artisti come lui che all’interno di un ideale abbraccio accomunano i vari Townes Van Zandt, Guthrie Thomas e naturalmente il Dylan più poetico.

Tino Montanari

Ma Che Genere Fanno? The Sacred Shakers – Live

sacred shakers live

The Sacred Shakers – Live – Signature Sounds Recordings

Quando alcuni anni fa, nel 2008, il batterista e cantante Jason Beek decise di radunare un gruppo di musicisti dell’area di Boston e dintorni per dare libero sfogo alla loro passione per il country e il gospel soprattutto, ma anche per blues, bluegrass e old time music, il tutto suonato con un piglio deciso da rockers scanzonati, non immaginava che in men che non si dica avrebbero trovato un contratto discografico con la Signature Sounds e pubblicato subito un omonimo album d’esordio http://www.youtube.com/watch?v=fdTy5UryycU . La formazione, che all’inizio vedeva cinque o sei elementi, si è poi ampliata fino agli attuali otto, con quattro chitarristi, un banjoista, un violinista, un contrabbassista, oltre allo stesso Beek alla batteria. Non ci sono nomi famosissimi nella formazione, se escludiamo l’ottima cantautrice Eilen Jewell, che però mantiene una presenza molto di supporto, limitandosi a cantare solo in due brani di questo eccellente CD dal vivo registrato nel gennaio 2013 a Cambridge, MA http://www.youtube.com/watch?v=y7hzfER7b4M . Ed è un peccato perché la sua voce sembra ideale per questa esplosiva miscela di generi, ma anche gli altri musicisti che si alternano come voci soliste sono tutti più che adeguati e nell’ambito dell’armonizzazione sono una vera delizia da ascoltare.

Il repertorio viene da oscuri brani tradizionali pescati nell’enorme tradizione della canzone popolare americana di stampo religioso, ma poi vengono eseguiti con una verve ed una freschezza che ricorda sia Carter Family, Hank Williams, Stanley Brothers e bluesman come Son House e Mississippi Fred McDowell, quanto il rock’n’roll, il blues acustico dei primi Hot Tuna meno duri, o il bluegrass di formazioni come i Dillards e i Country Gazette. La traccia d’apertura, All Night, All Day, cantata da Eilen Jewell, è subito un piccolo gioiello di gospel country, con violini, chitarre e tante voci che si rincorrono gioiosamente in una atmosfera festosa. Take Me In Your Boat, cantata dal banjoista Eric Royer, è un country-gospel-rock che mi ha risvegliato vecchi ricordi dei dischi dei citati Dillards e Country Gazette, ma anche degli Old In the Way di Garcia & Co, o dei Byrds di Sweetheart of The Rodeo, con quella riuscita fusione di tradizione e inserti elettrici più moderni. Lord, I Am The True Vine è una travolgente cavalcata gospel, con un riff preso di sana pianta da Bo Diddley ed eseguito come se fossero i Jefferson Airplane in una riuscita fusione tra country, rock e blues, con armonie vocali ammirevoli e tantissima energia, bellissimo brano, Daniel Fram che è la voce solista in questo brano è fantastico, ma tutto il gruppo è debordante! Anche Morning Train, cantata da Jason Beek, ha un train sonoro micidiale, scusate il pasticcio con il titolo, ma banjo, chitarra elettrica, violino e contrabbasso volano che è un piacere e il pubblico sembra gradire.

Satan Your Kingdom Must Come Down potrebbe uscire da qualche disco dei Grateful Dead più acustici, ancora con Royer scatenato al banjo e alla voce, che ricorda vagamente il Garcia degli esordi http://www.youtube.com/watch?v=lPOkpDuWuks . I’m Tired con il chitarrista Greg Glassman alla voce, ha delle intricatissime armonie vocali che esaltano il sapore gospel del brano e Jerry Miller, il chitarrista elettrico della formazione si inventa dei passaggi di cristallina bellezza, ma sono le voci, incredibilmente ben miscelate, a dominare. Belshazzar potrebbe averla scritta Johnny Cash ed in effetti ne ha scritta una, ma con una z sola, però questa canzone, firmata da Mosie Lister è una parente strettissima, sia per lo stile che per l’esecuzione. Won’t You Come And Sing For Me, è una bellissima ballata cantata da Eilen Jewell (in effetti è un peccato che ne canti solo due in tutto il disco), con la bella armonica di Daniel Fram a dividersi gli spazi con banjo, elettrica e violino, altra piccola delizia sonora.

I’ll Remember Your Love In My Prayers di nuovo con Royer alla guida e You Better Quit Drinking Shine, cantata da Fram, rialzano la quota country gospel delle procedure, tra florilegi di banjo, chitarra elettrica e strumenti a corda vari, infiorettati dalle solite geniali armonie vocali. You Got To Move se è quella di Fred McDowell è fatta a una velocità tripla o quadrupla rispetto all’originale, con il violino di Daniel Kellar che rincorre Byron Berline, Vassar Clement  Richard Greene in acrobazie solistiche di pregevole fattura, ben spalleggiato dalla elettrica di Miller, grande protagonista, che ci riporta al Clarence White più country. Anche Run On con Glassman che “spende” il suo secondo biglietto come voce solista, è un’altra cavalcata spericolata tra virtuosismi strumentali e vocali di squisita fattura. Little Black Train è un episodio dall’andatura più compassata e bluesy, ma con un’atmosfera sospesa veramente pregevole e la chiusa con When I Get Home I’m Gonna Be Satisfied è sempre di squisita fattura.

Bruno Conti

Il Nebraska Di Michael C. Taylor? Hiss Golden Messenger – Bad Debt

hiss golden messenger bad debt

Hiss Golden Messenger – Bad Debt – Paradise Of Bachelors (Deluxe edition) 2014

Il primo (?) disco uscito con la sigla Hiss Golden Messenger, Poor Moon del 2012 (anche in questo caso la data è abbastanza aleatoria, perché come in quasi tutte le pubblicazioni con questa sigla, ne era uscita, sul finire del 2011, una versione limitata a 500 copie in vinile), era rientrato in ogni caso tra i miei preferiti di fine anno http://discoclub.myblog.it/2012/05/17/piccoli-dischi-di-culto-hiss-golden-messenger-poor-moon/  e anche il successivo Haw, per quanto un filo inferiore, si era posizionato tra gli outsiders più interessanti del 2013. Come si sarà intuito, Michael C.Taylor, che usa da alcuni anni la sigla Hiss Golden Messenger per le sue uscite discografiche, è un tipo prolifico, forse anche un tantino pignolo, e ogni disco prima di vedere la luce ha una serie di “predecessori”, chiamiamoli così.

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La genesi di Poor Moon, e alcune delle prima stesure acustiche di molti brani poi arrangiati e rivisti in modo più complesso in quel disco (e anche in Haw), origina proprio dalle versioni lo-fi realizzate per Bad Debt, un album di registrazioni effettuate su cassetta, nella sua cucina, nell’inverno del 2009, nella freddissima Carolina del Nord, mentre il figlio appena nato di Michael dormiva nella stanza accanto, brani quasi sussurrati per non disturbare il pargolo, ma proprio per questo affascinanti per la spiritualità semplice e gentile che li caratterizza. Come tutti gli album di “culto” che si rispettano anche questo ha una storia particolare: pubblicato nel 2010, in una edizione limitata in CD e poi vinile (nel 2011 tre tirature da 100 copie ciascuna, è nromale?), le copie circolanti vennero distrutte in un incendio nel magazzino della casa discografica dove erano stoccate, durante un incendio per i disordini di Londra di quell’anno. Sei dei nove brani compresi in quella prima edizione sono poi stati registrati nuovamente per i due album successivi, ma evidentemente queste versioni bucoliche e spartane, à la Springsteen di Nebraska per intenderci, anche come qualità sonora, secondo il loro autore meritavano di essere conosciute dal pubblico che aveva apprezzato le sue opere successive, così complesse e cangianti, nel loro “country got soul”, per dargli una etichetta, assai personalizzato.

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La nuova versione, con autoironia definita “Deluxe”, aggiunge altre tre tracce alle nove originali, ma non cambia il mood sonoro, molto raccolto ed affascinante, dell’intera operazione. Se devo essere sincero, preferisco il suono più “espansivo” dei dischi successivi, e quindi non condivido del tutto l’entusiasmo, persino eccessivo, soprattutto della stampa inglese, per questa operazione minimale, ma non posso neppure negare il fascino che emana da queste registrazioni, solo voce e chitarra, l’ambiente della stanza, una piccola eco di tanto in tanto, il soffio (Hiss) del nastro, la voce calda e partecipe di M.C., le belle melodie dei brani, che già si apprezzano anche in queste prime stesure. La voce mi ricorda sempre un incrocio tra il Johnny Rivers “morrisoniano” dei primi ’70, Jim Croce e un James Taylor dalle tonalità più basse: Balthazar’s Song è bella quasi come la sua controparte elettrica http://www.youtube.com/watch?v=91Vm2239uao , No Lord Is Free con la sua lunga introduzione a base di vocalizzi, ha qualche lontana parentela con le litanie acustiche di un Crosby o di un Nick Drake meno rassegnato e malinconico, con alcuni tocchi blues, Bad Debt, la title-track http://www.youtube.com/watch?v=NNNNPGCAT_Y , nella costruzione sonora, anche grazie all’eco naturale dell’ambiente in cui è stata creata, può ricordare i suoni dei cantautori west-coastiani, di cui Taylor è diretto discendente, vista la sua provenienza dalla Southern California, e il fatto che il primo gruppo con l’amico Scott Hirsch si chiamasse The Court And The Spark.

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Anche la “spirituale” O Little light (pure lei presente in versione rivisitata su Poor Moon), con un lavoro leggermente più intricato della chitarra acustica, ricorda le sonorità più scarne dei primi Bonnie Prince Billy e Bill Callahan o del Neil Young in veste acustica. Insomma, per dirla francamente, non è poi che succeda molto in questi brani, buoni sentimenti, religiosità, ecologia e amore per la famiglia, vanno di pari passo con un suono che prende spunto tanto dal folk quanto dai cantautori seventies, quando in Straw Men Red Sun River Gold l’eco nella voce di Michael Taylor si fa più marcata è quasi un piccolo evento. L’amara The Serpent Is Kind (Compared To Man) http://www.youtube.com/watch?v=mMRPzZQhtNo , ripresa poi su Haw, ha una andatura “leggermente” più mossa. Senza stare a citarle tutte, Call Him Daylight ha un suono country-blues più sospeso e minaccioso rispetto agli altri brani, mentre le “nuove” Far Bright Star, mai apparsa prima, la biblica Roll River Roll e la già citata Call Him Daylight, si inseriscono senza problemi nel tessuto sonoro dell’album. Soprattutto ideale per giornate uggiose e “scure” come quella in cui lo sto recensendo, ma comunque affascinante nello svelare il percorso iniziale di un musicista che potrebbe riservarci altre soddisfazioni in futuro: l’essenza della musica folk in attesa di ulteriori sviluppi.

Bruno Conti  

E Di Questo Non Vogliamo Parlare? Allman Brothers Band – Boston Commons 8/17/71

allman brothers boston commons

Allman Brothers Band – Boston Commons 8-17-71 – Allman Brothers Recording Company

Giusto quatto o cinque giorni fa vi parlavo del doppio CD degli Allman Brothers relativo ai concerti al Beacon Theatre di New York del 1992, che uscirà il 18 Febbraio, e del cofanetto dedicato alle serate al Fillmore East del 1971, curato da Bill Levenson, di cui non è stata ancora cofermata una data certa, se non una vaga “primavera inoltrata”  http://www.youtube.com/watch?v=abwC5mwlg94 . Ma in questo 2014 in cui si festeggiano i 45 anni di carriera della band sudista, (ri)esce anche questo Boston Commons (con la s finale), un CD relativo al concerto tenuto nella città del Massachussets il 17 agosto del 1971, quindi in epoca successiva alle date newyorkesi ma quando acora sia Duane Allman che Berry Oakley facevano parte del gruppo. Il CD non è del tutto nuovo, era già stato pubblicato dalla etichetta del gruppo nel 2007, e fa parte della stessa serie in cui sono usciti anche il doppio S.U.N.Y. at Stonybrook: Stonybrook, NY  9/19/71 http://www.youtube.com/watch?v=gSDf2Usd8n4 Live At American University 12/13/1970. Se guardate, non distrattamente le copertine, noterete che tutti riportano la scritta Allman Brothers Brand, e “Peaches Picked”, Pesche Colte, con la data del concerto a seguire http://www.youtube.com/watch?v=mqNFwx6QQgY .

allman brothers stonybrookallman brothers band live at american university

Ovviamente nessuno di questi ha il lavoro di mastering effettuato da Bill Levenson per i prodotti diciamo “ufficiali”, anche se gli Allman, meno dei Grateful Dead, ma in modo continuo e consistente, avevano l’abitudine di registrare i loro concerti con il meglio che la tecnologia dei tempi consentiva, cioè non molto, ma comunque con una qualità più che soddisfacente per l’appassionato della buona musica, meno per l’audiofilo. Anche questo Live At Boston Commons rientra in questa categoria: la parte musicale è nettamente preponderante, anche perché come risulta dalla tracklist del concerto si tratta una serata molto interessante per il repertorio proposto: Tuning; Statesboro Blues; Trouble No More; Don’t Keep Me Wondering; You Don’t Love Me; Hoochie Coochie Man; In Memory of Elizabeth Reed; Whipping Post. Gli Americani sono precisi, tra le tracce è riportato anche il tuning di prova della strumentazione, poi si parte con una grintosa Statesboro Blues, inizio tipico dei loro concerti, con la band che inizia subito a macinare il proprio rock-blues vigoroso e ricco di inventiva, poi la cover di Trouble No More di Muddy Waters e Don’t Keep Me Wanderin’, a replicare la sequenza utilizzata nella versione doppia di The Fillmore Concerts, quella espansa rispetto al doppio vinile (e CD singolo) dell’edizione classica di Live At Fillmore East.

allman brothers boston live

Poi c’è una lunghissima versione, oltre ventisei minuti, di You Don’t Love Me, il pezzo di Willie Cobbs, ispirato da Bo Diddley, che in origine durava meno di tre minuti, qui in una versione monstre che dura sette minuti più di quella al Fillmore. Hoochie Koochie Man, sempre del vecchio Muddy, non appare né nel Fillmore e neppure a Stonybrook, ma c’era nel Live At Ludlow Garage dell’anno precedente. In Memory Of Elizabeth è la solita occasione per gustarsi la grande perizia di Dickey Betts, chitarrista sopraffino che veniva esaltato dal dualismo quasi telepatico con la solista (e la slide) di Duane Allman (lo sapete che il figlio di Betts si chiama proprio Duane?), uno dei più grandi chitarristi della storia del blues e del rock, come dimostra ulteriormente una fantastica versione di Whipping Post che conclude il concerto. Se non lo avete già, questa è l’occasione giusta per recuperare questo Boston Commons, che pure con le limitazioni qualitative ricordate (una dinamica ed una definizione del suono non fantastiche, ma in ogni caso nei limiti del “buon gusto”) è un ulteriore documento da aggiungere alla collezione concertistica di quel periodo.Oltre a quelli citati anche A&R Studios, New York 26th August 1971, Live At Atlanta Pop Festival 1970, parte di Eat A Peach e, nella stessa serie Allman Brothers “Brand”, ci sarebbero pure un Macon City Auditorium, 22/11/1972, doppio e un Nassau Coliseum, 5/1/1973, sempre doppio, entrambi senza Duane, per ovvi motivi.

Bruno Conti

P.s Mi scuso per i problemi tecnici di ieri del Blog, il Post lo leggete oggi nella versione completa e non in quella parziale pubblicata domenica.