Continua “L’Invasione” Delle Band Pavesi! Lowlands – Love Etc… Il Nuovo Disco

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Lowlands – Love Etc… – Harbour Song Records/distr. IRD

Questo è il sesto album dei Lowlands, più 3 EP, il disco in collaborazione con Chris Cacavas, alcune partecipazioni a compilation varie, la produzione del disco di Donald MacNeill con la figlia Jen, non male per un cosiddetto “musicista part-time” come Ed Abbiati, diviso tra la passione per la musica e la necessità di sbarcare il lunario. Mi pare che il tratto distintivo della sua musica sia sempre stato quello di cambiare per rimanere sempre uguali a sé stessi. Mi spiego: il genere musicale di fondo si potrebbe definire roots music, d’altronde, nel 2007, hanno preso il nome poprio da un brano dei texani Gourds, degni rappresentanti di questo filone, ma poi hanno fatto dischi dove rock, folk, musica delle radici, si intrecciavano in modo assolutamente fluido, a volte dischi con un suono più “rude” e chitarristico, come Beyond, altre volte alle radici della musica popolare americana, Better World Coming, il progetto dedicato alla musica di Woody Guthrie, o il detour nella musica tradizionale scozzese rivisitata, con i MacNeill, questa volta siamo ad una sorta di neo folk soul con fiati, che al sottoscritto ricorda, con i dovuti distinguo, il sound della Band con i fiati, o il celtic soul del Van Morrison americano, ma anche dei Dexys Midnight Runnners. Mi rendo conto che si tratta di paragoni impegnativi ma questo mi appare,e quindi lo dico. Anche questa storia dell’unplugged, che starebbe per spina staccata, ovvero non ci sono strumenti elettrici, o meglio chitarre elettriche (mi spiace per Roberto), è quantomeno spiazzante: sul palco di Milano ad Aprile ho contato, in certi momenti, almeno sedici elementi sul palco, e nel disco ci sono, se non ho fatto male i conti (ma in qualità di Bruno non credo), addirittura 25 musicisti.

Non male per un album che viene presentato come intimista e rarefatto, probabilmente nei sentimenti, nei testi e nell’atmosfera che viene creata in questo tuffo nell’amore e nelle sue mille sfaccettature. Le 12 canzoni catturano tanti differemti momenti e stati d’animo raccolti da Ed Abbiati nel corso degli anni e ora rilasciati in questo Love Etc… Dato che a chi scrive piace anche essere analitico vediamoli questi contenuti musicali: si parte con la dolce How Many, dove piano, Francesco Bonfiglio e una weepin’ lap steel guitar, Mike Brenner si dividono il mood del brano con i fiati, che aggiungono una sorta di propulsione sonora, ma c’è spazio per alcuni particolari ricercati, un tocco dell’acustica di Roberto Diana qui, il mandolino di Alex Cambise là, il violino e il cello di David Henry a completare il tutto, con il cantato partecipe di Ed Abbiati, che migliora disco dopo disco, a cementare l’insieme. La successiva Love Etc… è anche meglio, un bel valzerone che profuma di soul, con un ritornello che non si può fare a meno di memorizzare, la ritmica che si aggiunge alle procedure, begli inserti di voci di supporto, i fiati che si fanno ancora più protagonisti, lap steel, mandolino ed acustica che non possono fare a meno di rimandare alla Band (in fondo i Gourds sono sempre stati considerati dei discepoli della band di Robbie Robertson e di Levon Helm, andare direttamente alla fonte del suono non è poi male). I wanna be, che ricorda Dylan nel testo, è un’altra piccola delizia elettroacustica, con quel suono americano o se preferite “Americana”, ma con i fiati che sono sempre lì, ai lati del Mississippi, nei pressi di New Orleans, che danno quel tocco vincente in più.

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Sempre per non fare paragoni, quando la Band ha voluto usare i fiati, l’arrangiatore era un certo Allen Toussaint,  quindi dalla Crescent City. You, Me, The Sky And The Sun, una canzone spensierata, che riempie di buoni sentimenti è sempre su quelle coordinate sonore, ma anche il suono della Caledonia Soul Orchestra di un certo Van Morrison ci può stare, 19 musicisti si amalgano, aggiungete armonie vocali stile sixties, battiti di mano, l’immancabile armonica di Richard Hunter, una rarissima apparizione di una chitarra elettrica, Tetsuya Tsubata “Bakki”, il basso elettrico di “Rigo” Righetti a dare il tempo, piano e organo in bella evidenza, ma soprattutto tanti fiati, orchestrati con maestria da Andres Villani, come piovesse. Cambio d’atmosfera per la breve, raccolta, quasi cameristica e malinconica, You And I, un contrabbasso, Simone Fratti, a scandire il suono, cello e violino e il piano ad evidenziare il carattere riflessivo e quasi cupo del brano, comunque molto bello. Dopo la pioggia torna il sereno con Happy Anniversary, che si potrebbe definire “classic Lowlands sound with brass”, Roberto Diana colora il suono con una insinuante slide acustica e i fiati, soprattutto il clarinetto di Claudio Perelli, ci portano ancora dalle parti di New Orleans, deliziose anche le armonie vocali, per la serie anche il particolare ha la sua importanza. Scordatevi pro-tools e sovraincisioni, qui vige la genuinità! Can’t Face The Distance, nel libretto interno con i testi posta in coda, è un’altro brano intimista, quasi per sottrazione sonora, solo la voce di Ed, la sua acustica accarezzata, il cello di David Henry e l’armonica di Richard Hunter. Armonica che rimane per la gioiosa Wave Me Goodbye, con Ed che ci assicura che tutto va bene, ma, nonostante il carattere uptempo della canzone, non ci convince del tutto.

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L’ultimo quartetto di brani si apre con My Baby, solita ventina di musicisti in studio, per un brano che sta tra folk, country e blues, vogliamo chiamarla hootenanny music, preferite swing jazz? Cambise è alla chitarra elettrica, l’ospite Maurizio “Gnola” Ghielmo aggiunge la sua Slide Resophonic e i fiati dixieland nel finale vanno ancora in gita per le strade di New Orleans. Doing Time è una deliziosa ballata mid-tempo attraversata dalla insinuante lap steel di Brenner, dall’organo Hammond di Joey Huffman, e con il basso di Righetti e la batteria di Mattia Martini che tengono il tempo ammirevolmente. Still I Wonder, almeno all’inizio, mi ricorda moltissimo l’incipit di You Can’t Always Get What You Want degli Stones, ma poi lo spirito stonesiano rimane, in un intrecciarsi di chitarre acustiche e lap steel, voci eteree sullo sfondo, organo e piano, molto bella. Un disco dei Lowlands senza fisarmonica non poteva essere, e quindi Francesco Bonfiglio la sfodera per una sorta di ninna nanna finale, intitolata Goodbye Goodnight, che chiude dolcemente un album tra i migliori della discografia dei Lowlands.

Come dico spesso, non sembrano neanche italiani (forse anche perché alcuni di loro, almeno in questo disco, non lo sono), e quindi donano un sapore anglo-americano a questo ottimo Love Etc…, che conferma ancora una volta, se ce n’era bisogno, la bontà del repertorio della band di Ed Abbiati e soci.

Bruno Conti

La Chitarra E’ Il Suo “Amuleto” Portafortuna! Chris Duarte – Lucky 13

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Chris Duarte Group – Lucky 13 – Blues Bureau/Shrapnel Records

Ormai credo non occorra ribadire per l’ennesima volta chi sia Chris Duarte, e che genere faccia! Detto mille volte (più o meno) su queste pagine virtuali, due l’anno scorso: nel 2013 infatti Duarte ha pubblicato sia un disco nuovo in studio che un doppio Live http://discoclub.myblog.it/2013/09/13/nuovi-guitar-heroes-chris-duarte-group-live-5685960/ . Diciamolo ancora una volta: power guitar trio o se preferite Texas blues-rock. Con la sua immancabile Fender Stratocaster acquistata quando era un ragazzino il buon Chris cerca sempre di infiammare gli appassionati dei grandi chitarristi https://www.youtube.com/watch?v=BzNMlyxpD8Q  e anche se non ha mai tenuto fede completamente alle previsioni che lo volevano come l’erede designato di Stevie Ray Vaughan, sempre in quei dintorni musicali si è mosso, tra blues, rock and roll, piccoli tocchi di jazz, ma negli ultimi anni, grazie al sodalizio con Mike Varney, proprietario e factotum della Shrapnel records, co-produttore anche di questo album, si è spostato, di tanto in tanto, verso un suono più heavy, quasi confinante con il metal o con le “esagerazioni” della scuola Satriani-Vai-Van Halen. Quindi quello che bisogna capire di ogni album di Duarte non è tanto il genere (che è un derivato) quanto la qualità del disco in oggetto https://www.youtube.com/watch?v=quzHYx2e7WQ .

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Questo Lucky 13 (sarà mica il suo tredicesimo album?) lo vede affiancato da una nuova, ennesima, sezione ritmica, John McKnight alla batteria e Kevin Vecchione al basso, e alle prese con quattordici brani che portano tutti la sua firma, quindi niente cover per l’occasione. Pertanto la domanda inevitabile è, un buon disco? A giudicare dalla partenza direi sicuramente di sì: You Know You’re Wrong è subito un poderoso rock-blues, a cavallo tra Hendrix e SRV, le due principali influenze di Chris, una solida ritmica, un cantato più convincente del solito e poi partono le evoluzioni della solista, tirate ma molto ben delineate anche a livello sonoro, insomma quello di meglio che ci si aspetta da questi tipi di dischi, tanta chitarra ma suonata con costrutto, la tecnica non è certo quella che fa difetto a questo signore, magari ogni tanto le idee diventano confuse. Questa volta pare che ci siamo, è uno dei dischi “giusti”, Angry Man è puro Texas blues-rock con la chitarra e la sezione ritmica che ci danno dentro di gusto, persino con le dovute sfumature R&R presenti negli episodi migliori della sua discografia, anche Crazy For Your Love è uno di quegli “strascicati” blues texani che erano tra le perle dell’opera di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=IJDw183eJEg , con Duarte che va a pescare anche un cantato alla Joe Walsh, o questa è l’impressione di chi scrive, mentre Who Loves You, con la ritmica che swinga di brutto, ha addirittura una patina sonora vecchio stile. Ottima anche Here I Come, sempre eccellente blues-rock old fashioned, ma ad alta gradazione chitarristica.

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Addirittura la lunga Let It Go è il classico slow blues tiratissimo che non può mancare in questo tipo di dischi, un brano di quelli da “faccine”, avete presente quando i solisti vanno a pescare fino in fondo alle loro budella l’ispirazione e la tensione per rilasciare degli assolo di devastante intensità e quindi il viso del chitarrista si contorce in espressioni facciali che fanno temere episodi fisici irreversibili, e questo mi pare il caso, anche se non posso verificare. E fin qui tutto bene, anzi benone, quasi 35 minuti di ottima musica, pure Man Up non è male, un rockettino di quelli leggeri ma piacevoli, proprio alla Joe Walsh vecchia maniera. Ma poi il tamarro che è in Duarte (e probabilmente in Varney) esplode, voci distorte e filtrate, chitarre esagerate, ritmica fracassona, per una Not Chasing It dove l’idea di un Hendrix futurista si scontra con la pochezza di idee, ma sempre meglio di Weak Wheels che sembra Jimi fatto, dai Red Hot Chili Peppers, non benissimo https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc. Ain’t Gonna Hurt No More, per fortuna ci riporta al classico, confortevole rock-blues, molto derivativo, va bene, ma almeno suonato con passione e perizia, anche se non si tratta di un brano memorabile, lavoro della solista alla parte https://www.youtube.com/watch?v=ktKO94ED6mc . Poi c’è una mini-suite Meus Via Vita Suite divisa in tre parti: una sognante e leggermente psichedelica Let’s Go For A Ride, dal suono molto West-coastiano, Minefield Of My Mine, che vira verso l’Hendrix più sperimentale, una cavalcata strumentale ricca di invenzioni chitarristiche e infine Setting Sun, dove l’organo di Art Groom, accentua la vena acida di questo lungo brano, che peraltro è tra le cose migliori mai trovate nella discografia di Duarte, che ci lascia per concludere, con un altro strumentale, Jump The Trane, un boogie rock’n’roll che ci permette di sperimentare nuovamente la grande tecnica di questo virtuoso dello chitarra elettrica. Quindi questa volta molte più luci che ombre, a parte quella sbandata nella parte centrale, uno dei dischi migliori della sua discografia.

Bruno Conti

Non E’ Mai Troppo Tardi Per Quelli Bravi! Mark Jungers – I’ll See You Again

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Mark Jungers – I’ll See You Again –  American Rural Records

Mark Jungers, texano di adozione (ma è nato a Bird Island, Minnesota), è uno dei tanti musicisti che meriterebbero un riconoscimento molto maggiore di quello raccolto fino ad ora. Il buon Mark dopo un lungo peregrinare che lo ha portato a vivere anche nel Connecticut, si è spostato a suonare e vivere in Texas, dove negli anni ottanta e novanta ha militato in alcune band con poca fortuna, senza mai trovare un contratto discografico e senza raggiungere un minimo di notorietà. Così Jungers, dopo essersi sposato, è tornato ad Austin ed ha intrapreso la carriera di cantautore, esordendo con il valido Black Limousine (00), e da allora ha inciso una buona serie di album a partire da Standing In Your Way (02), la triade con il suo gruppo The Whistling Mules One For The Crow (05), Silos And Smokestacks (08) e Whistle This (09) (un live che documenta la frontiera tra Stati Uniti e Messico), e l’ottimo More Like A Good Than A Bad Cat (11) https://www.youtube.com/watch?v=8rWcogs0cTk , prima di tornare in sala d’incisione per questo ultimo lavoro I’ll See You Again (che non è recentissimo, essendo uscito nel mese di Maggio, ma non è mai troppo tardi per quelli bravi!).

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In questo disco i trascorsi rock del musicista si avvertono nella scelta di farsi accompagnare da una solida sezione ritmica, a partire da Dennis Merritt, Cade Callahan e Aaron Parks che si alternano alla batteria, Josh Flowers al basso, Adrian Schoolar alle chitarre e dobro, il noto Gurf Morlix alla pedal steel e baritone guitar, Ben Balmer all’armonica, Wes Green al mandolino, Gabe Rhodes deutsch accordion, con l’apporto della brava Jessica Hana al violino, con interventi in certi brani dell’armonica “bluesy” suonata da Mark, che si districa anche all’organo, piano, chitarra e percussioni. E l’armonica di Mark è subito protagonista nelle iniziali I’ll Be Home e I Don’t Want To Live There https://www.youtube.com/watch?v=FqtPqXSngic , due country-songs dal ritmo fluido, seguite da una folk-ballad come Johnson Farm, accompagnata da un delizioso violino, e la cadenzata That’s What They Say, con la chitarra slide, e un assolo d’armonica vincente. Si prosegue con un intro d’armonica degna del primo Dylan, nell’incisiva ballata Do You Still Care, per poi passare alla “bluesy” Everybody Knows But Me, rallentare il ritmo con la title track I’ll See You Again,  una incantevole canzone d’amore cantata con trasporto da Mark, mentre What About You è uno “swing” di sapore western. Con Plywood & Strings e Working Like A Dog si affaccia in modo prepotente il mandolino di Wes Green, in due brani giocati sui vari strumenti a corda, andando a chiudere con la nostalgica Wait, introdotta dalle note del violino di Jessica, e un valzerone texano Ran Out Of Tears accompagnato dall’armonica di Ben Balmer, su un tessuto “bluegrass” https://www.youtube.com/watch?v=EKdVlA5yk_o .

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In un epoca in cui la tecnologia (per il “carbonaro” che scrive) sta uccidendo la musica, fa piacere ascoltare dischi come questo I’ll See You Again, in cui semplicità e passione vanno di pari passo, per dodici brani che riflettono tutta l’onestà di un personaggio, un’artista che merita l’attenzione dei tanti che amano la canzone d’autore e lo stile “americana”. Scommettiamo che sentirete ancora parlare del buon Mark Jungers. Provare per credere!

Tino Montanari

Un Addio Con Stile! Pink Floyd – The Endless River

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Pink Floyd – The Endless River  – Parlophone CD – CD + DVD – CD + BluRay

Se qualcuno all’inizio del 2014 mi avesse detto che l’anno si sarebbe chiuso con un nuovo disco dei Pink Floyd, avrei sottoposto il mio interlocutore al test per stabilirne il tasso alcolemico. Stiamo infatti parlando di una delle band più “pigre” e lente della storia del rock, con l’ultimo disco risalente ormai a vent’anni fa (The Division Bell), e con uno dei suoi elementi cardine, Richard Wright, passato a miglior vita nel 2008, al punto che nessuno li riteneva più neppure una band.

Nel 1993 però, durante le registrazioni di The Division Bell, i Floyd abbozzarono anche una serie di brani strumentali, che inizialmente pensavano di pubblicare con il titolo di The Big Spliff, ma poi non se ne fece più niente. Recentemente, pare su pressioni della compagna-liricista-manager Polly Samson, David Gilmour ha deciso di contattare il vecchio compagno Nick Mason (ovvero quello che resta dei Floyd, come tutti sanno Roger Waters lasciò la ditta trent’anni fa, all’indomani di The Final Cut) per rimettere le mani su quelle registrazioni e completarle per pubblicare il loro disco definitivo. Alle sessions del 1993/94 (dove era dunque presente ancora Wright), sono state aggiunte nuove parti strumentali e, in una sola canzone, anche parti cantate: il risultato, The Endless River, mette fine alla storia dei Pink Floyd con una serie di brani riusciti, nel puro spirito del gruppo, ed anche con un filo di malinconia. Pare infatti che non ci siano dubbi sul fatto che questo sarà l’ultimo progetto della band: Gilmour (che ha già un disco solista pronto per il 2015) è stato categorico, compreso il fatto che non ci saranno esibizioni dal vivo, mentre Mason dal canto suo ha lasciato una porta aperta…

(NDM: è di questi giorni la notizia che Carlo Conti ha invitato i Floyd ad esibirsi come ospiti al prossimo Festival di Sanremo. Chissà se i nostri sapranno resistere al fascino del Carlone nazionale: io spero che non vadano, dato che verrebbero pagati con soldi pubblici, e credo che il loro cachet sia superiore a quello di Gigi D’Alessio.

Mentre le vecchie sessions erano prodotte da Gilmour e Bob Ezrin, le parti aggiunte vedono in consolle anche Andy Jackson, Youth e l’ex Roxy Music Phil Manzanera, che appare anche come musicista insieme ai soliti noti (Guy Pratt, Jon Carin, Anthony Moore e Durga McBroom ai vocalizzi in un paio di pezzi). Quello che si nota al primo ascolto è che qui, più che nei due episodi precedenti che sembravano quasi album solisti di Gilmour (A Momentary Lapse Of Reason più di The Division Bell), il trio suona come una vera band, compatta ed ispirata e, paradossalmente, c’è molto più Wright ora che non è più tra noi che prima quando era ancora parte attiva del gruppo. Il disco, pur essendo strumentale al 98% (ma non lo definirei ambient come ha scritto qualcuno), non annoia assolutamente, anzi, se ascoltiamo ad occhi chiusi (se non vi addormentate è il modo migliore per ascoltare i Floyd), troviamo più di un rimando ai lavori classici della storica band: qualcuno parlerà di autocitazione, ma se comprate un disco dei Pink Floyd credo che vogliate ascoltare il loro classico suono, e non divagazioni di sorta.

Il CD è diviso in quattro mini-suites, come se fossero lati di un vecchio doppio LP, mentre sia nel DVD che nel BluRay troviamo tre tracce audio in più (TBS9, TBS14, Nervana

The Endless River si apre con Things Left Unsaid (titolo emblematico), inizio tipico con suoni d’atmosfera, rumori di sottofondo, voci che parlano e rimandi neanche troppo velati all’incipit di Shine On You Crazy Diamond; il pezzo confluisce in It’s What We Do, che in realtà è il prosieguo del brano precedente con più chitarre e l’aggiunta di Mason, e si chiude con Ebb And Flow, solo Gilmour più Wright al piano elettrico. Puro vintage Floyd, molto gradevole: la sensazione è quella di rivedere un vecchio amico che non sentivamo da tempo. Il secondo “lato” si apre con le sonorità spaziali di Sum, interrotte dalla chitarra distorta di David: echi sia da The Wall che da One Of These Days; in Skins c’è molto Mason (che infatti figura tra gli autori), la cupa Unsung è un breve intermezzo che porta alla bella Anisina, dalla melodia più aperta e quasi solare, con Gilmour spettacolare alla slide.

Dei sette pezzi che compongono la terza parte segnalerei senz’altro l’affascinante The Lost Art Of Conversation, scritta e dominata da Wright, la mossa e chitarristica Allons-Y (e qui siamo dalle parti di Run Like Hell), Autumn ’68, quasi ecclesiastica grazie all’uso del pipe organ, la fluida Talkin’ Hawkin’, ancora con Gilmour a farla da padrone. Qualcuno ha paragonato questo disco ad Ummagumma (la parte in studio), ma mentre là le parti soliste erano decisamente complesse e talvolta difficilmente digeribili, qui siamo di fronte a sonorità molto più eteree, leggere, gradevoli. La quarta ed ultima parte si contraddistingue per il brano finale, Louder Than Words, unico cantato del disco, una canzone discreta ed abbastanza scorrevole, ma direi nella media (e d’altronde quello bravo con le parole era Waters).

The Endless River non sarà il capolavoro di una carriera, ma se davvero sarà il passo di addio dei Pink Floyd, lo ricorderemo come un commiato fatto con classe e buon gusto.

Marco Verdi

P.S: Roger Waters ha tenuto a far sapere con un comunicato che lui non era in nessun modo coinvolto in questo progetto. Secondo me, proprio perché è una sorta di omaggio a Wright (e con le vecchie divergenze paiono ormai appianate), si doveva fare di più per coinvolgerlo almeno in un brano. Ma poi forse è vero che alla fine non si sarebbe parlato d’altro

Suadenti Atmosfere, Sempre Dal Canada ! Lynne Hanson – River Of Sand

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Lynne Hanson – River Of Sand – Continental Song/IRD

In questi ultimi anni non è stato infrequente incontrare ed apprezzare nuovi talenti femminili apparsi quasi improvvisamente alla ribalta musicale, in particolare delle “ladies” della musica d’autore dal paese delle “Giubbe Rosse”. La “signorina” in questione porta il nome di Lynne Hanson, arriva da Ottawa, Ontario, è giunta al quarto lavoro, dopo l’esordio con Things I Miss (06), seguito da Eleven Months (08), e l’acclamato Once The Sun Goes Down (10), vincitore del Colleen Peterson Award, In questi ultimi anni si è fatta conoscere girando tutto il Canada e Stati Uniti, approdando anche in Europa (Scozia e Olanda) con una serie di concerti che oltre a dimostrare il suo talento, evidenziavano una progressiva crescita sia nella qualità del “sound”, sia nella cura dei testi, aiutata dalla sua amica e produttrice canadese Lynn Miles (un’altra cantautrice da riscoprire, con ottimi dischi alle spalle e vincitrice del Juno Award).

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Anche questo River Of Sand è prodotto dalla Miles, e vede la Hanson accompagnata da bravi musicisti di “area”, tra i quali Phil Shaw Bova, MJ Dandeneau, Andres Derup, Mike Dubue, Jonathan Ferrabee, Keith Glass, Fraser Holmes, Gilles LeClerc, Lyndell Montgomery, Bob Stagg, e come coriste Rebecca Campbell e la stessa Lynn Miles, il tutto per quarantacinque minuti di tematiche sulla solitudine.

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Si incomincia a risalire il fiume con la melodia che scorre dalla title track River Of  Sand https://www.youtube.com/watch?v=2fdauZd1FYE , indi passando per le note alcooliche di Whiskey And Tears, una ballata di dolore come This Too Shall Pass https://www.youtube.com/watch?v=SuhUeIvaEww , e l’eclettico drumming di Waiting By The Water, con la pedal steel in bella evidenza. Il viaggio lungo la sabbia del fiume prosegue con il suono ammaliante di Heaven And Hell https://www.youtube.com/watch?v=wBYBKd5ymIU , il dolce suono del mandolino nell’acustica Tightrope, lo splendido assolo della pedal steel in una ballata dolcissima come Foolish Things, e lo spiazzante “uptempo” di Good Intentions. Ci si avvicina alla foce del fiume con le note vellutate di un pianoforte in Colour My Summer Blue, gli arpeggi malinconici di una commovente That Old House, attraccando a riva con le sonorità country di Trading In My Lonesome, firmata insieme alla  Miles. Sentendo questo River Of Sand, viene da chiedersi come faccia da decenni il freddo Canada a  sfornare cantautrici di vaglia (a partire dalla più brava, Joni Mitchell, passando per K.D. Lang, Buffy Sainte-Marie, Jane Siberry, Sarah Harmer, Kathleen Edwards, Mary Margaret O’Hara, e tantissime altre), tutte depositarie di una tradizione fortemente radicata con il cantautorato nordamericano, con suoni dalle belle melodie, strumentazione acustica in evidenza, su un tessuto di brani folk di rara bellezza. Aggiungo che Lynne Hanson è in possesso di una delle voci più belle, duttili ed espressive attualmente in circolazione, che, se volete approfondire, vi accompagnerà in queste piovose giornate autunnali, e non solo!

Tino Montanari

Il “Bisonte” Non Sbaglia Due Volte Di Fila! Neil Young – Storytone

*NDB Torna il supplemento della domenica del Disco Club, la parola a Marco Verdi per la recensione dell’ultimo Neil Young. Se mi posso permettere, al solito, la somma dei 20 brani nei 2 CD dà un totale di 79:57 minuti, quindi ci stava in un dischetto singolo. Siamo al solito “marketting”!

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Neil Young – Storytone  – Reprise CD – 2CD Deluxe

Qualche mese fa su questo blog avevo stroncato di brutto il disco acustico di Neil Young, A Letter Home, composto solamente da covers e realizzato in collaborazione con Jack White, non tanto per la qualità sonora pessima, cosa peraltro voluta al fine di far somigliare il disco alle vecchie incisioni folk degli anni 30/40, ma soprattutto per lo scarso feeling interpretativo da parte del canadese  http://discoclub.myblog.it/2014/05/09/grande-disco-o-solenne-ciofeca-mah-neil-young-letter-home/ . Quando ho letto che Young stava per pubblicare un altro disco, questa volta in collaborazione con un’orchestra di una novantina di elementi, ho avuto più di un tremolio, dato che anche in questi casi il rischio ciofeca è elevato, anche se il buon Neil non è nuovo ad esperimenti del genere (un paio di brani da Harvest, tra cui la splendida A Man Needs A Maid, con gli archi arrangiati da Jack Nitzsche, ed altrettanti da Comes A Time, con la Gone With The Wind Orchestra).

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Quando poi ho visto che esisteva anche una versione doppia con gli stessi brani in versione acustica, ho temuto il peggio, in quanto questo poteva voler dire che Young stesso non fosse del tutto convinto del risultato finale, e che volesse in “riparare” in parte dando un contentino ai fans https://www.youtube.com/watch?v=sDQbJP0PxUM . Fortunatamente i miei dubbi si sono dissolti al primo ascolto: Neil ha avuto l’intelligenza di usare l’orchestra (e, in tre canzoni, una big band con tanto di sassofoni, trombe e tromboni) con mano leggera, mettendola al servizio delle canzoni e non il contrario, al punto che in alcuni momenti quasi non ci si accorge della sua presenza (a parte un episodio, ma è un peccato veniale). E poi, cosa più importante, le canzoni: il nostro non scriveva brani di questo livello da una vita (anche il magnifico Psychedelic Pill di due anni fa doveva gran parte della sua fortuna alla magica alchimia tra Neil ed i Crazy Horse, più che alla bellezza delle canzoni stesse http://discoclub.myblog.it/2012/11/16/giu-il-cappello-davanti-al-bisonte-neil-young-psychedelic-pi/ ), regalandoci almeno cinque pezzi di altissimo livello. Non vorrei esagerare, ma a tratti sembra di sentire il bisonte di inizio anni settanta, e scusate se è poco; anche a livello di feeling poi, siamo su un altro pianeta rispetto al pallore di A Letter Home.

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L’album si apre con la pianistica Plastic Flowers: melodia toccante, direi bellissima, con un incedere quasi epico, e con l’accompagnamento orchestrale che fornisce dei perfetti fillers tra una strofa e l’altra. Who’s Gonna Stand Up è un brano a sfondo ecologista già proposto nel corso dell’ultimo tour: qui l’orchestra assume un tono “marziale”, il brano non è così malaccio come qualcuno aveva detto sentendolo dal vivo, ed il connubio funziona bene https://www.youtube.com/watch?v=NkiRR3T_3NY , I Want To Drive My Car è un ritmato boogie con tanto di chitarra elettrica solista (non la suona Neil, ma Waddy Wachtel), non c’è l’orchestra ma una big band degna di Louis Prima (o Brian Setzer, in anni più recenti): pensavo che la voce del nostro non si adattasse bene ad un accompagnamento simile ma mi devo ricredere, il brano è persino trascinante. Glimmer ha di nuovo l’orchestra, ed un inizio un po’ da cartone animato disneyano, poi entra la voce ed il brano prende una piega migliore, anche se rimane un filo di melassa in eccesso (per fortuna sarà l’unico caso); Say Hello To Chicago (big band) è swingata alla maniera di Frank Sinatra, e qui Neil vocalmente mostra un po’ la corda, anche se è sempre meglio di quel bamboccione senza talento di Michael Bublé.

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Molto bella Tumbleweed, con l’orchestra usata nuovamente con leggerezza, anche se il brano, e lo confermerà il disco da solo, viene meglio in veste acustica. Like You Used To Do è l’ultimo pezzo con la big band, un cadenzato bluesaccio con tanto di armonica, davvero godibile; splendida poi I’m Glad I Found You, pianistica ed emozionante, con Young che sembra tornato ai tempi di After The Gold Rush: l’orchestra c’è ma quasi non me ne accorgo. Magnifica anche When I Watch You Sleeping: voce, chitarra acustica e steel per una ballad di stampo country-folk, con l’ensemble alle spalle che ricama in punta di piedi, un brano che più va avanti e più diventa bello, forse il migliore del CD. Chiude All Those Dreams, ancora voce, chitarra e leggere percussioni, con l’orchestra utilizzata nel migliore dei modi: un brano tipicamente younghiano, al quale l’accompagnamento particolare dona ulteriore colore.

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Per chi vuole, come già detto c’è anche la versione acustica: è chiaro che i brani già belli con l’orchestra restano belli, i due così così (Glimmer e Say Hello To Chicago) migliorano, ma in qualche caso (I Want To Drive My Car) preferisco la versione presente nel disco principale. Come ho scritto nel titolo, e difficile che Neil Young sbagli due dischi di fila: non solo con Storytone non delude, ma ci regala uno dei dischi più belli dell’anno.

Marco Verdi

Una Vita Musicale Divisa Tra Belfast E Nashville! Ben Glover – Atlantic

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Ben Glover – Atlantic – Carpe Vita Creative/Proper/Ird

Probabilmente molti di voi, presumo, si chiederanno chi si cela dietro un nome sconosciuto come quello di Ben Glover, cantautore nato a Glenarm nel Nord dell’Irlanda, ma già con cinque album alle spalle e una carriera artistica divisa tra Belfast e Nashville. La musica di artisti americani come Johnny Cash e Hank Williams, insieme alle tradizionali canzoni irlandesi, sono state per il buon Ben la colonna sonora della sua crescita nell’incantevole piccolo borgo dell’isola di smeraldo. Così, nel periodo dell’università, succedeva che attraversava l’Atlantico eseguendo ballate folk-irlandesi e le canzoni di Christy Moore e dei Pogues dello sdentato Shane McGowan nei bar di Boston, e quando ritornava di nuovo a casa nei pub irlandesi, cantava Dylan e Springsteen, e questo tema di una vita divisa a metà tra i due paesi collegati con l’Oceano Atlantico, lo accompagna tuttora.  Ben debutta con un EP The Ballad Of Carla Boone (06) e con il primo lavoro ufficiale The Week The Clocks Changed (08) accompagnato dal gruppo The Earls, poi si trasferisce a Nashville e sotto la produzione di Neilson Hubbard (Matthew Ryan, Garrison Starr, Kim Richey e membro degli Strays Do Not Sleep) sforna due buoni album come Through The Noise, Through The Night (10) e Before The Birds (11), che gli permettono di aprire i concerti di artisti del calibro di Buddy Miller, Vince Gill, Tift Merritt e altri, arrivando ad una certa notorietà con Do We Burn The Boats? (12), disco nel quale un personaggio come Mary Gauthier firma in coppia con Glover la delicata Rampart Street.

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Le canzoni di Atlantic sono state scritte in America, ma registrate nel salotto di casa di Ben nella contea di Donegal (la foto della cover del disco, è la spiaggia di Ballyliffin di fronte all’Oceano Atlantico), con l’apporto di un gruppo di “turnisti” del luogo, che vede oltre allo stesso Glover alla chitarra acustica e voce, Colm McClean alle chitarre e pedal steel, Kris Donegan alla lap-steel e mandolino, Matt McGinn  al basso, Dan Mitchell alle tastiere e pianoforte, il fidato produttore Neilson Hubbard alla batteria e percussioni, le coriste Lo Carter e April Rucker, e come ospite la brava Gretchen Peters, in un brano che porta la sua firma. https://www.youtube.com/watch?v=ylBMI0aj1tA

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In Atlantic Ben ha condiviso i compiti di scrittura oltre che con l’abituale amico Neilson Hubbard, anche con Mary Gauthier, Gretchen Peters e Rod Picott, ed è proprio dalla penna del cantautore americano che il viaggio parte con l’iniziale The World Is A Dangerous Place, una ballata acustica cantata con voce profonda da Ben, a cui fanno seguito due brani firmati con la Gauthier, Oh Soul una splendida canzone di redenzione (è inserita anche nel recenteTrouble And Love di Mary) e Too Long Gone con un buon ritmo intervallato da cori soul https://www.youtube.com/watch?v=6VJodQqe3fs , e la cadenzata western-song True Love’s Breaking My Heart con un bel lavoro della slide. Il viaggio prosegue con la splendida Prisoner, un brano da cantare percorrendo la leggendaria Highway 61 https://www.youtube.com/watch?v=dLBqI7oX3U8 , e con i duetti con Gretchen Peters, la delicata ed intensa elegia di Blackbirds https://www.youtube.com/watch?v=z4CEPNMECVQ , e una tenue ballata come The Mississippi Turns Blue, che poteva essere inserita nella tracklist del recente The River And The Thread di Rosanne Cash, mentre Take And Pay è il terzo brano co-firmato con la Gauthier, un intrigante e moderno “gospel”, sempre sorretto dalle voci delle brave coriste. Sul finire del viaggio vengono proposte la sottile malinconia di una How Much Longer Can We Bend?, le atmosfere decisamente irlandesi di Sing A Song Boys, con il mandolino ad accompagnare  una brano perfetto da cantare nei Pub, e una dolcissima canzone sul Capodanno New Years Day, sussurrata da Ben sotto un cielo notturno e davanti alle onde crespe dell’Atlantico.

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Ben Glover nel corso di questi anni ha aperto i concerti di musicisti validi ed importanti, e quindi ormai non è più da considerarsi solo “una giovane promessa”, in quanto in questo Atlantic, testi, voce, strumentazione, trasmettono stati d’animo, atmosfera e una emozione che fanno di questo lavoro un disco praticamente perfetto, e la cosa che sorprende è che il tutto avvenga senza mai alzare troppo la voce.

NDT: Poco distante dal borgo che ha dato i natali a Ben, si trova la contea di Connemara dove si produce uno dei Whisky Irlandesi più ricercati nel mondo, quindi se entrate in possesso di questo CD, il mio consiglio è di ascoltarlo sorseggiando un buon bicchiere di questo eccellente Whisky!

Tino Montanari

*NDB. Qui, volendo, trovate tutto l’album in streaming da ascoltare www.americansongwriter.com/2014/08/album-stream-ben-glover-atlantic/

Un’Altra Ricca “Ristampa” Di Bob: Il Santo Graal Del Rock! Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete, Take 2

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Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete Columbia/Sony Box 6CD

…Inizio parte 2

CD1: apre le danze la fluida Edge Of The Ocean, ottima melodia e bel arpeggio chitarristico; la bluesata Roll On Train mostra ancora tracce del Dylan anfetaminico del ’66; ecco poi una travolgente versione full band del classico di Johnny Cash Belshazzar, subito seguita da una splendida e toccante I Forgot To Remember To Forget (un classico country inciso da mille, da Elvis a Jerry Lee Lewis), con un grande Robbie Robertson, ed un’asciutta You Win Again (Hank Williams). Ancora Cash con due takes di Big River ed una di Folsom Prison Blues (proposte in maniera decisamente dylaniana) https://www.youtube.com/watch?v=_ePR3489bbU , un oscuro folk del secolo precedente intitolato Ol’ Roison The Beau, eseguito alla grande, la country oriented Cool Water (resa nota dai Sons Of The Pioneers), il traditional The Auld Triangle (conosciuto anche come The Banks Of The Royal Canal), splendido, per finire con la bella I’m A Fool For You (due takes), che ha la stessa progressione di accordi di Like A Rolling Stone.

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CD2: a parte il saltellante traditional che apre il disco, Johnny Todd (proposto in chiave folk-rock), qui troviamo diversi classici contemporanei, da John Lee Hooker (Tupelo, in cui Bob si diverte a fare il verso al vecchio Hook, e I’m In The Mood) a ben tre pezzi di Ian Tyson (Four Strong Winds, molto intensa, The French Girl e Song For Canada), all’eccellente versione di Joshua Gone Barbados di Eric Von Schmidt, fino alla famosa People Get Ready di Curtis Mayfield. Poi ci sono gli originali di Dylan, tra i quali spiccano la quasi honky-tonk I’m Your Teenage Prayer, il trascinante rock-blues Baby, Won’t You Be My Baby, la potente I Can’t Make It Alone.

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CD3: si inizia ad entrare nel vivo, ed anche Dylan e compagni assumono toni più seri e professionali (nei primi due CD c’era parecchio cazzeggio, risate, brani interrotti, ecc.): questo terzo dischetto, insieme col prossimo, contiene il 98% dei brani che sono poi finiti sull’album del ’75. Ci sono le versioni note, ma anche diverse alternate takes, tra cui una sempre trascinante Million Dollar Bash, forse anche meglio di quella pubblicata (discorso che vale anche per Too Much of Nothing). Ma ci sono anche splendide versioni di traditionals come Young But Daily Growing (eseguita da Bob in perfetta solitudine) e Bonny Ship The Diamond, una folk tune da pelle d’oca, oltre ad originali come One For The Road, ninna nanna a tempo di valzer, e I’m Alright, nel quale la voce di Dylan assomiglia in modo impressionante a quella che avrà nei primi anni ottanta (il suo cosiddetto periodo born again). E risentiamo con grande piacere anche la nota I’m Not There, una delle canzoni più misteriose e musicalmente complesse del nostro.

CD4: in apertura troviamo tre takes della stupenda Tears Of Rage, in assoluto uno dei testi più toccanti di Bob, seguita da due versioni dell’altrettanto bella Quinn The Eskimo, ma l’highlight del CD, e forse del box in assoluto, è la meravigliosa Sign On The Cross (uno degli inediti la cui mancata pubblicazione aveva causato maggior sconforto tra i fans), uno splendido ed intensissimo slow d’atmosfera, con un Dylan superlativo al canto (prende delle note alte da paura) ed un Hudson gigantesco all’organo: davvero non mi capacito come Bob (e la Sony) abbiano potuto tenerla nascosta fino ad oggi, qui siamo ai livelli di Blind Willie McTell! Un capolavoro così rischia di far passare in secondo piano il resto del dischetto, ma meritano una menzione di sicuro Get Your Rocks Off, un sontuoso blues elettrico dove Bob e i suoi sembrano suonare in un malandato juke joint di Chicago, una Don’t Ya Tell Henry con Dylan voce solista (nell’LP originale la cantava Helm) ed un delizioso arrangiamento simil-dixieland, tre versioni molto diverse tra loro di Nothing Was Delivered ed una Odds And Ends alternata, ancora più trascinante di quella nota.

CD5: probabilmente il dischetto più interessante, che mette in apertura tre rielaborazioni a sorpresa di classici dylaniani: Blowin’ In The Wind, in una veste blues che non le si addice molto, One Too Many Mornings, con lo stesso arrangiamento del tour del 1966 (e Richard Manuel che canta la prima strofa) ed una sempre godibile It Ain’t Me, Babe. Tra gli inediti originali spiccano la roccata My Woman She’s A-Leavin’, sulla falsariga dei brani della svolta elettrica del 1965, la romantica Mary Lou, I Love You Too, che ricorda parecchio To Ramona, la guizzante Silent Weekend (anch’essa molto quotata tra i collezionisti) e la complessa e cupa Wild Wolf. Ci sono anche delle cover inaspettate, come il classico della Carter Family Wildwood Flower, con grande uso di autoharp, la nota If I Were A Carpenter di Tim Hardin, oltre allo splendido traditional 900 Miles From My Home e due takes della vecchia folk song Ain’t No More Cane, anche questa cantata da Bob a differenza di quella pubblicata nel 1975.

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CD6: presentato come “bonus disc”, quest’ultimo dischetto non rispetta l’ordine cronologico, ma include brani inseriti più che altro per il loro valore storico, dato che la qualità sonora complessiva va dall’appena discreto al pessimo: ci sono comunque vere e proprie chicche, come la bizzarra Jelly Bean, il gioioso traditional Hallelujah, I’ve Just Been Moved, in cui Bob sembra vocalmente tornato ai tempi delle coffee houses di New York, l’intensa That’s The Breaks, puro Dylan, e l’ottima King Of France, una grande canzone purtroppo rovinata dall’infima qualità del suono. Ci sono poi due covers di classici americani che Bob non ricanterà più in seguito: Will The Circle Be Unbroken, curiosa ma non particolarmente convinta, ed un’ottima Going Down The Road Feeling Bad, ripresa negli anni a seguire varie volte dai Grateful Dead.

Alla fine mi sono dilungato un attimino, ma non capita tutti i giorni di avere la possibilità di recensire uno dei dischi (o forse IL disco) più desiderati della storia.

Chiaramente imperdibile.

Marco Verdi

*NDB

Se ve la eravate persa nel precedente Post di qualche mese fa, questa è la lista completa dei brani:

Disc: 1
1. Edge of the Ocean
2. My Bucket’s Got a Hole in It
3. Roll on Train
4. Mr. Blue
5. Belshazzar
6. I Forgot to Remember to Forget
7. You Win Again
8. Still in Town
9. Waltzing with Sin
10. Big River (Take 1)
11. Big River (Take 2)
12. Folsom Prison Blues
13. Bells of Rhymney
14. Spanish is the Loving Tongue
15. Under Control
16. Ol’ Roison the Beau
17. I’m Guilty of Loving You
18. Cool Water
19. The Auld Triangle
20. Po’ Lazarus
21. I’m a Fool for You (Take 1)
22. I’m a Fool for You (Take 2)

Disc: 2
1. Johnny Todd
2. Tupelo
3. Kickin’ My Dog Around
4. See You Later Allen Ginsberg (Take 1)
5. See You Later Allen Ginsberg (Take 2)
6. Tiny Montgomery
7. Big Dog
8. I’m Your Teenage Prayer
9. Four Strong Winds
10. The French Girl (Take 1)
11. The French Girl (Take 2)
12. Joshua Gone Barbados
13. I’m in the Mood
14. Baby Ain’t That Fine
15. Rock, Salt and Nails
16. A Fool Such As I
17. Song for Canada
18. People Get Ready
19. I Don’t Hurt Anymore
20. Be Careful of Stones That You Throw
21. One Man’s Loss
22. Lock Your Door
23. Baby, Won’t You be My Baby
24. Try Me Little Girl
25. I Can’t Make it Alone
26. Don’t You Try Me Now

Disc: 3
1. Young but Daily Growing
2. Bonnie Ship the Diamond
3. The Hills of Mexico
4. Down on Me
5. One for the Road
6. I’m Alright
7. Million Dollar Bash (Take 1)
8. Million Dollar Bash (Take 2)
9. Yea! Heavy and a Bottle of Bread (Take 1)
10. Yea! Heavy and a Bottle of Bread (Take 2)
11. I’m Not There
12. Please Mrs. Henry
13. Crash on the Levee (Take 1)
14. Crash on the Levee (Take 2)
15. Lo and Behold! (Take 1)
16. Lo and Behold! (Take 2)
17. You Ain’t Goin’ Nowhere (Take 1)
18. You Ain’t Goin’ Nowhere (Take 2)
19. I Shall be Released (Take 1)
20. I Shall be Released (Take 2)
21. This Wheel’s on Fire
22. Too Much of Nothing (Take 1)
23. Too Much of Nothing (Take 2)

Disc: 4
1. Tears of Rage (Take 1)
2. Tears of Rage (Take 2)
3. Tears of Rage (Take 3)
4. Quinn the Eskimo (Take 1)
5. Quinn the Eskimo (Take 2)
6. Open the Door Homer (Take 1)
7. Open the Door Homer (Take 2)
8. Open the Door Homer (Take 3)
9. Nothing Was Delivered (Take 1)
10. Nothing Was Delivered (Take 2)
11. Nothing Was Delivered (Take 3)
12. All American Boy
13. Sign on the Cross
14. Odds and Ends (Take 1)
15. Odds and Ends (Take 2)
16. Get Your Rocks Off
17. Clothes Line Saga
18. Apple Suckling Tree (Take 1)
19. Apple Suckling Tree (Take 2)
20. Don’t Ya Tell Henry
21. Bourbon Street

Disc: 5
1. Blowin’ in the Wind
2. One Too Many Mornings
3. A Satisfied Mind
4. It Ain’t Me, Babe
5. Ain’t No More Cane (Take 1)
6. Ain’t No More Cane (Take 2)
7. My Woman She’s A-Leavin’
8. Santa-Fe
9. Mary Lou, I Love You Too
10. Dress it up, Better Have it All
11. Minstrel Boy
12. Silent Weekend
13. What’s it Gonna be When it Comes Up
14. 900 Miles from My Home
15. Wildwood Flower
16. One Kind Favor
17. She’ll be Coming Round the Mountain
18. It’s the Flight of the Bumblebee
19. Wild Wolf
20. Goin’ to Acapulco
21. Gonna Get You Now
22. If I Were A Carpenter
23. Confidential
24. All You Have to do is Dream (Take 1)
25. All You Have to do is Dream (Take 2)

Disc: 6
1. 2 Dollars and 99 Cents
2. Jelly Bean
3. Any Time
4. Down by the Station
5. Hallelujah, I’ve Just Been Moved
6. That’s the Breaks
7. Pretty Mary
8. Will the Circle be Unbroken
9. King of France
10. She’s on My Mind Again
11. Goin’ Down the Road Feeling Bad
12. On a Rainy Afternoon
13. I Can’t Come in with a Broken Heart
14. Next Time on the Highway
15. Northern Claim
16. Love is Only Mine
17. Silhouettes
18. Bring it on Home
19. Come All Ye Fair and Tender Ladies
20. The Spanish Song (Take 1)
21. The Spanish Song (Take 2)

Un’Altra Ricca “Ristampa” Di Bob: Il Santo Graal Del Rock! Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete, Take 1

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Bob Dylan & The Band – The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes CompleteColumbia/Sony Box 6CD

In un anno in cui è stato riedito nella versione (si spera) definitiva il più grande disco dal vivo di tutti i tempi (il Fillmore East degli Allman Brothers) e sono iniziate le ristampe con inediti della più grande band di sempre (i Led Zeppelin, anche se si sperava in qualcosa di meglio, vero, Mr. Page?), volevate forse che il più grande in assoluto, cioè Bob Dylan, se ne stesse con le mani in mano? Certo che no, è così il nostro (o la Columbia, ma fa lo stesso) ha rinviato al prossimo anno il suo nuovo album, già pronto (Shadows In The Night, pare un disco di covers di Frank Sinatra) e ha calato la sua scala reale: la pubblicazione integrale (138 canzoni) dei mitici Basement Tapes, ciò che i fans del buon Bob avevano favoleggiato e desiderato per anni; per fare questo, è stato cambiato addirittura l’argomento dell’undicesimo capitolo delle Bootleg Series (che sembrava dovesse essere dedicato alle sessions di Blood On The Tracks), già deciso da tempo.

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La storia dei “nastri della cantina” è nota anche ai non dylaniati: nel 1967, dopo anni vissuti nella corsia di sorpasso (soprattutto il 1965 ed il 1966), a base di dischi (tre), concerti (abbastanza) ed anfetamine (tante), Bob Dylan decide che non è il caso di finire nella tomba e stacca la spina, usando come scusa ufficiale il famoso incidente motociclistico (che forse non era poi così grave),  andando a vivere con la moglie Sara (Noznisky Lownds) ed i figli nella sua nuova casa di campagna, a Woodstock.Qui, dopo qualche mese di ozio assoluto, ricomincia ad incidere, insieme a The Band (allora ancora chiamati The Hawks), una serie di canzoni allo scopo di mettere a disposizione dei brani nuovi a chiunque volesse incidere un pezzo di Dylan: tra le versioni più note di queste canzoni ricordiamo Too Much Of Nothing ad opera di Peter, Paul & Mary, The Mighty Quinn per i Manfred Mann, You Ain’t Goin’ Nowhere e Nothing Was Delivered, entrambi nel seminale Sweethearts Of The Rodeo dei Byrds.

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Dylan e compari (inizialmente senza Levon Helm, che si unirà nelle ultime sessions a cavallo tra ’67 e’68) iniziano a prenderci gusto e, spostatisi in una casa vicina presa in affitto da Robbie Robertson e soci, la mitica Big Pink (pare per lasciar tranquilla Sara, che era incinta), proseguono le incisioni includendo anche vecchi traditionals e covers di brani country, il tutto in un’atmosfera gioviale e rilassata, senza alcuna pressione, finendo per mettere a punto una serie impressionante di canzoni, alcune appena abbozzate ma la quasi totalità finite in ogni dettaglio.Poi il silenzio, fino a quando, nel 1969, fa la sua comparsa in alcuni negozi un disco misterioso con la copertina bianca: si tratta di Great White Wonder, ovvero il primo bootleg della storia ed anche il più famoso, nel quale trovano posto canzoni inedite di diversi momenti della carriera di Dylan, tra cui alcune di quelle fantomatiche registrazioni di due anni prima https://www.youtube.com/watch?v=WAPzhVD4vmo .

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Il disco vende parecchio, ed il mito dei nastri della cantina inizia a prendere forma, scatenando un vero e proprio passaparola tra i fans (internet era di là da venire…) che iniziano a chiedere a gran voce la pubblicazione ufficiale di quei recordings.Ancora nulla fino al 1975, quando finalmente la Columbia si decide a far uscire The Basement Tapes, un doppio LP con appena 16 brani tratti dalle sessions di otto anni prima, tra l’altro pieni di manipolazioni e sovrincisioni, e con l’aggiunta di otto pezzi della sola Band registrati ex novo, quindi fuori dallo spirito originale. Una mezza delusione insomma. Da allora sono usciti la miseria di cinque brani, sparsi nei vari cofanetti e nella colonna sonora del film I’m Not There (la title track, appunto), oltre ad un libro, La Repubblica Invisibile, scritto sull’argomento dal noto musicologo Greil Marcus (per molti imperdibile, per me un mattone), ma oggi possiamo dire che finalmente l’attesa è finita, ed abbiamo tra le mani in un sol colpo quelle che dovrebbero essere (il condizionale con Dylan è d’obbligo) tutte le registrazioni di quel 1967, che rendono inutili tutti i bootleg usciti in questi anni sull’argomento (The Genuine Basement Tapes e A Tree With Roots i più popolari): tra l’altro, ci sono circa una trentina di pezzi che non sono mai apparsi da nessuna parte, quindi una chicca anche per i dylaniani più incalliti.

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Il box di 6CD (esiste anche una versione doppia, sottotitolata Raw, e questa volta forse la cosa ha un senso, in quanto non sono tutti così appassionati da comprarsi l’opera completa) rispetta l’ordine cronologico delle registrazioni, secondo la scaletta in possesso di Garth Hudson (il direttore musicale e genio tecnologico della Band), con una qualità sonora finalmente adeguata, che spazza via quanto seppur di buono era stato fatto con i bootleg (io ho un paio di volumi di A Tree With Roots, e posso confermare che qui siamo su un altro pianeta), anche se chiaramente non si arriva alla perfezione richiesta per le incisioni professionali.

bob dylan basement tapes complete box

Poi c’è la confezione, extralusso, che prosegue quanto instaurato con i volumi n. 8 e 10 della serie: un box slipcase con due bellissimi libri, uno con un lungo saggio del biografo dylaniano Clinton Heylin ed i crediti delle canzoni, e l’altro con varie foto del periodo 1967/69 (molte delle quali mai viste) ed altre tratte dalle sessioni fotografiche del 1975 per la famosa copertina “nani e ballerine” del disco originale. Ed infine, lo strepitoso contenuto musicale, una vera e propria full immersion nella musica americana tradizionale e non, che vede Bob e la Band come ideali precursori del movimento roots che oggi va per la maggiore: insieme ai molti brani autografi di Dylan (alcuni, se pubblicati all’epoca in altra veste, avrebbero potuto diventare dei classici assoluti), forma un body of work impressionante per qualità e quantità, visto che la veste sonora restaurata ce li fa apprezzare come se i numerosi bootleg non fossero mai esistiti.
Ed ecco una (spero) rapida disamina disco per disco, con molte dolorose esclusioni, per evitare di dover creare una recensione a puntate (*NDB. Due puntatine ci scappano): laddove non cito l’autore il brano si intende di Dylan.

Fine parte 1, segue…

Marco Verdi

Eccoli Di Nuovo! Replay Buone Azioni: Mandolin’ Brothers – Serata Dylan Highway 61 Revisited A Milano il 15 Novembre

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Come è usanza per le migliori rock e jam bands americane a cui si ispirano, anche i Mandolin’ Brothers hanno pensato di realizzare una serata in cui eseguiranno, come ha tenuto a precisarmi il buon Jimmy Ragazzon, “tutto Highway 61 Revisited, in rigoroso ordine di scaletta + pezzi nostri,” mica bruscolini, però se devi farla grossa meglio esagerare, come diceva Jannacci, e l’album che è stato scelto è tra i migliori di sempre, con il brano Like A Rolling Stone, classificato dalla quasi omonima rivista americana, come migliore canzone di tutti i tempi https://www.youtube.com/watch?v=axdAEKsiL1U

mandolin' brothers foto

Quindi, da quello che mi si dice fervono i lavori per imparare i brani e riarrangiarli, nellì’intrepido spirito della band pavese, reduce da un breve tour inglese, dove sono stati accolti da ottime recensioni della stampa inglese per il loro ultimo album http://discoclub.myblog.it/2014/01/22/i-primi-italiani-caso-sempre-piu-americani-sempre-piu-bravi-mandolin-brothers-far-out/. Volendo, perché son Mago, potrei addirittura azzardare una lista dei brani che eseguiranno nella prima parte del concerto:

Like A Rolling Stone

Tombstone Blues

It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Lot To Cry

From A Buick 6

Ballad Of A Thin Man

Queen Jane Approximately

Highway 61 Revisited

Just Like Tom Thumb’s Blues

Desolation Row

Nove belle “canzoncine” che dovrebbero allietare i cuori di tutti quelli che si presenteranno, spero numerosi, alla serata del 15 novembre (è un sabato, quindi niente scuse) allo Spazio Teatro 89 di Milano, sito in via F.lli Zoia 89, zona San Siro. Come dice il titolo del Post, questa è una buona azione, promozionale, ma non solo, direi esistenziale, pensate a come vi sentireste se, non sapendo del concerto, non dovreste essere presenti alla serata?

Non oso pensarlo, quindi intervenite e ditelo ad amici e parenti, ma volendo anche a nemici e conoscenti. E non crediate di sfuggire perché la settimana del concerto, inesorabile, ripubblicherò questo avviso ai naviganti. Sarà anche “marketting”, ma è per una buona causa, loro sono veramente bravi, e non lo dico per convertire i “fedelissimi”, che già sanno, ma per i novizi, amanti della buona musica!

Bruno Conti

P.s Da stasera o domani troverete anche sul Blog, penso diviso in due parti, un bel Post di Marco Verdi sui Complete Basement Tapes, visto che siamo in argomento Bob Dylan.