Le Due Facce Dei Lowlands: Quella Acustica Ed Unplugged Del Nuovo CD+DVD A Tiratura Limitata E Quella Elettrica Del Concerto Di Sabato 28 Novembre Allo Spazio Teatro 89 Di Milano

lowlands live and acousticlowlands live with plastic pals

Come sapete su questo Blog si parla spesso dei Lowlands (e del loro leader Ed Abbiati) in quanto il sottoscritto (oltre ad un rapporto di amicizia con Ed) pensa che siano una delle realtà musicali più interessanti del panorama rock indipendente italiano in lingua inglese (o se preferite, come li ho definiti in altre occasioni degli “italiani per caso”)!

Quindi visto che ci sono buone nuove sul fronte discografico e concertistico eccomi a parlarvi di nuovo di loro. Esce in questi giorni, con tiratura limitata di 500 copie, il secondo volume delle Bootleg Series della band pavese: si intitola Live And Acoustic At Spazio Teatro 89 April 5th 2014, é un CD+DVD su etichetta Gypsy Child Records, in Italia verrà venduto solo sul loro sito o ai concerti e considerando che la data di sabato prossimo 28 novembre allo Spazio Teatro 89 di Milano sarà l’ultima occasione di vedere la band in versione elettrica per un po’ di tempo, da quanto mi dice Ed, e anche di acquistare lì al concerto il nuovo doppio Live della band, l’occasione è ghiotta. La formazione sarà a cinque, con Manuel Pili al basso al posto di Antonio “Rigo Righetti”, mentre oltre a Ed Abbiati Roberto Diana, immancabili (e che dovrebbero poi proseguire momentaneamente come duo nella prima parte del 2016, con due progetti discografici in fase preliminare), ci dovrebbero essere anche Francesco Bonfiglio, a tastiere e fisarmonica e Mattia Martini alla batteria. Ad aprire il concerto ci saranno i Plastic Pals, una interessante band rock svedese diciamo del filone Paisley Underground/Garage Rock il cui minimo comune denominatore con i Lowlands è Chris Cacavas, che ha prodotto il loro ultimo album Turn The Tide https://www.youtube.com/watch?v=OmTJAQE4kCQ  ed è stato collaboratore di Ed Abbiati nell’ottimo Me And The Devil https://www.youtube.com/watch?v=7-tHaCrI3A0 . Quindi intervenite numerosi perché la serata si preannuncia interessante. E adesso spendiamo due parole per l’ottimo Lowlands Live And Acoustic.

17 tracce nella versione CD e 20 nella versione DVD (che riporta anche le presentazioni e i dialoghi tra un brano e l’altro) questo Live, nonostante la scritta Bootleg Series è un prodotto altamente professionale, con ottima qualità audio e video, ripreso con varie telecamere e con una resa sonora del tutto soddisfacente. Siamo al 5 aprile del 2014, un sabato, il giorno dopo la band entrerà in studio per proseguire con la registrazione di quello che sarà il loro nuovo album di studio, l’eccellente Love, Etc… di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2014/11/21/continua-linvasione-delle-band-pavesi-lowlands-love-etc-disco-concerto/. Il titolo dell’album parla di un disco dal vivo e acustico, e così è, ma rientra tranquillamente anche nella categoria degli Unplugged, vista la mancanza di strumenti elettrici, come è tradizione della vecchia serie che andava in onda su VH1. In comune con quella serie (come ricordiamo dalle esibizioni di Clapton, Neil Young, Dylan, R.e.m. e molti altri) è la presenza comunque sul palco di una miriade di musicisti, “senza spina” ma in metà di mille, anche nella serata dei Lowlands a tratti sul palco ci saranno fine a sedici musicisti.

Il concerto, che è anche una sorta di retrospettiva sulla carriera della band, si apre in chiave acustica con The Last Call, la title-track del primo album, e per l’occasione al contrabbasso torna Simone Fratti, il primo bassista della formazione; qui la dimensione è decisamente acustica e intima, anche grazie alla ottima acustica del teatro, quasi completamente esaurito per l’occasione, con i tocchi dell’armonica di Richard Hunter e del’ospite Alice Ghiretti al cello, a colorire il suono già dalla successiva Life’s Beautiful Lies, con Rigo Righetti ora al basso e anche la presenza di Alex Cambise alla seconda chitarra e del piano di Bonfiglio comincia a farsi sentire, mentre il lavoro di Mattia Martini alla batteria è soffuso ma chiaramente percepibile, come quello della slide acustica di Roberto Diana. Il concerto prosegue con reminiscenze di Ed sulla genesi dei brani, per esempio Ashes, con Cambise ora al mandolino e Bonfiglio alla fisa e Matteo Zanesi alle percussioni sullo sfondo, sempre in perfetto stile unplugged, mentre il ritmo si alza con la ottima Lovers And Thieves, con un sound molto alla Waterboys, più mosso e quasi celtic soul, mentre Fragile Man, dedicata ad un vecchio amico che non c’è più è decisamente più malinconica e raccolta.

A questo punto torna sul palco Hunter con la sua armonica e si aggiunge alla lap steel, MG Boulter, leader dei Lucky Strikes, che aveva aperto la serata, per una suggestiva e raffinata Lately (solo sul DVD, ma la confezione è doppia per cui trovate comunque tutto) molto roots. Cheap Little Paintings, dedicata ai vecchi dipinti del padre, ma anche all’arte di scrivere “piccole” canzoni torna all’ambientazione sonora di inizio concerto e anche Friday Night mantiene questa aura malinconica e folk, come pure 38th & Lawton, brano da singer songrwriter, concepito a San Francisco e con l’armonica di Hunter di nuovo in bella evidenza, mentre ritornano anche Fratti e Stefano Speroni all’acustica della vecchia formazione, i due rimangono per Like A Rose, sempre dal primo album. A seguire Walking Down The Street, nelle parole di Ed Abbiati la sua canzone alla Creedence, almeno nelle intenzioni perché noi non c’entra nulla, anche se rimane una bella canzone. A questo punto il palco si fa affollato, per la seconda parte del concerto arrivano i quattro musicisti addetti ai fiati, Andres Villani al sax, Massimiliano Paganin alla tromba, Marco Grignani al trombone e Claudio Perelli al clarinetto e il suono prende un’altra piega, decisamente più celtic soul, per esagerare, con tocchi alla Band e arie musicali pescate da New Orleans, subito ben evidenziate da una brillante Gypsy Child, con i contrappunti dei fiati a dare più brillantezza al sound, ancora più evidenti nella divertente e trascinante You Me The Sky And The Sun, uno dei brani in anteprima dal “futuro” Love Etc.

Ghosts In This Town è una delle più belle canzoni scritte da Ed, nel parere di chi scrive, e questa veste unplugged con fiati aumenta il suo fascino e anche In The End mantiene questa aria da festa tra amici, con il suo ritornello irresistibile e cantabile che ben si presta alla dimensione Live e ad un sing-along con tutto il pubblico. Una lunghissima Only Rain, che viene sempre Gypsy Child, parte sulle ali della slide di Roberto Diana e poi si sviluppa in un altro bell’arrangiamento corale, grazie alla particolare “magia” di quella serata, molto bella la parte strumentale centrale, che è anche l’occasione per presentare tutti i partecipanti alla serata. Fine del concerto, ma tornano in fretta per qualche bis: Lowlands, il primo brano in assoluto, inciso per un tributo ai Gourds, eccellente band texana da cui ha preso il nome il gruppo, è una sorta di epica ballata sudista, molto americana nel suo divenire, con un eccellente Cambise alla’acustca e i “soliti” Hunter all’armonica e Diana alla slide, tra i protagonisti assoluti della serata, senza forse quelle nuances celtiche che si sarebbero poi aggiunte al suono della band. Love Etc…, altro brano nuovo per l’occasione è una delle canzoni che più mi piacciono dell’ultima produzione del gruppo, una piccola delizia sonora a tempo di valzer che permette al pubblico di partecipare e a Ed di dedicare la canzone a moglie e figlie. “Ancora una”, Keep On Flowing, altra gioiosa celebrazione in puro spirito celtic soul con tutti i musicisti sul palco e per finire veramente Homeward Bound (che non è quella di Simon & Garfunkel, ma evidentemente le canzoni con quel titolo sono tutte belle), poi ripresa a fine anno nel concerto di presentazione di Love Etc… con tanto di discesa tra il pubblico con un finale che più “unplugged” non si può, ma quella era un’altra storia.

Questo è quanto, se siete interessati alla loro musica e questa bella confezione doppia, per aggiudicarvela, dietro congruo pagamento, non dovete fare altro che presentarvi al loro concerto di sabato prossimo allo Spazio Teatro 89 di Milano. Ne vale la pena!

Bruno Conti

Buone Azioni Natalizie: Il CD Dal Vivo Di Paolo Bonfanti Back Home Alive Potrebbe Diventare Un Doppio Vinile. Sta A Voi!

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Qualche mese fa è uscito un eccellente CD dal vivo di Paolo Bonfanti con la sua band, intitolato Back Home Alive, di cui vi avevo parlato in termini più che lusinghieri sia sul Buscadero che sul Blog http://discoclub.myblog.it/2015/09/07/la-via-italiana-al-blues-1-paolo-bonfanti-back-home-alive/. Ora Paolo ( a sua volta sollecitato da fans e fedelissimi del vinile) mi sollecita a parlarvi di una iniziativa di crowdfunding (mi raccomando la d!) che vorrebbe intraprendere per pubblicare anche in doppio vinile il resoconto della serata in quel di Casale Monferrato il 28 febbraio scorso. Ovviamente la procedura per stampare il disco costa e queste iniziative di autofinanziamento hanno comunque delle regole temporali da seguire: per cui il 15 novembre, giorno del suo 55° compleanno (gli anni passano per tutti, mio caro!) il nostro buon Paolo Bonfanti lancia attraverso il suo Fans Club la campagna di raccolta fondi, o come dice lui da buon ligure “a culetta”!

Come ci viene ricordato, nel lontano 1989 i Big Fat Mama, la sua band di allora, pubblicava il suo terzo ed ultimo LP: un vinile doppio dal vivo. Ora si vorrebbe ripetere quella esperienza attraverso questo doppio vinile, alta qualità 180 grammi e con due bonus tracks rispetto alla versione in CD, Exile on Backstreets e You Got to Lose. Il tutto viene affidato alla piattaforma digitale Be Crowdy, la stessa che avevano usato i Gang per il loro Sangue E Cenere. Come ricorda il comunicato stampa che mi è stato gentilmente fornito: per tutte le donazioni, (dai 5,00€ in su),  sono previste ricompense di vario genere e valore, dal semplice “grazie” all’house concert, dalle magliette al diventare veri e propri sponsor, con tanto di logo sulla confezione.

paolo bonfanti back home alive 1

Quindi se volete aderire all’iniziativa non vi resta che cliccare su questo link https://www.becrowdy.com/back-home-alive e leggere come fare a partecipare alla raccolta fondi. L’obiettivo è raggiungere gli 8.000 euro, nel momento in cui scrivo (la data la vedete ad inizio Post) sono arrivati a 1.555 euro, e mancano 39 giorni. Quindi se siete nell’ordine, amanti della buona musica (e qui ce n’è tanta), più nello specifico del Blues (ma non solo) e ancora di più di Paolo Bonfanti e del vecchio vinile, non devo dirvi altro. Se il vinile non fa più per voi, e non l’avete già fatto, potete comunque comprarvi il CD, che rimane sempre un gran bel dischetto. Il mio “dovere” di divulgare l’ho fatto ora sta a voi!

Bruno Conti

Odiava I Soundcheck, Ma Non Questo! Leslie West – Soundcheck

leslie west soundcheck

Leslie West – Soundcheck – Mascot/Provogue 

Quest’anno sono cinquanta anni dagli esordi di Leslie West con i Vagrants, e il musicista newyorkese ad ottobre festeggia anche i 70 anni e questa nuova uscita, la terza per la Mascot/Provogue usa la solita formula degli ultimi tempi, ricca di ospiti, e con un misto di brani nuovi e cover di canzoni celebri. Diciamo subito che è un buon disco, non un capolavoro, un onesto album di hard rock-blues classico con alcuni detours inconsueti in altri generi, i tempi dei Mountain sono passati (ma la band in teoria esiste ancora), anche se il nostro amico spesso si affida ancora a quella “montagna” di suono che lo ha sempre caratterizzato, e sul lato chitarristico il classico timbro della Gibson di West si gode comunque appieno. Non per nulla Leslie è stato spesso citato come fonte di ispirazione da colleghi illustri tra cui Richie Blackmore, che ne ricorda l’importanza per lo sviluppo del sound di In Rock, ispirato dall’ascolto di Mississippi Queen, oppure Martin Barre, che ammette di avere preso qualche ideuzza per il celebre riff di Aqualung, senza dimenticare Pete Townshend, e qui è lo stesso West a ricordare di essere stato presente alle prime sessions ai Record Plant che poi hanno portato alla realizzazione di Who’s Next, con il leader degli Who che gli regalò una Les Paul Junior, utilizzata in quella occasione.

Proprio al sound di Who’s Next mi sembra si ispiri il primo brano di questo Soundcheck, Left By The Roadside To Die, che si apre con il suono ripetuto di un synth suonato da David Biglin, su cui si innesta una chitarra acustica anche in modalità slide, poi entra l’elettrica di Leslie West e il resto del gruppo, per un brano che sembra viaggiare su territori blues, proprio per l’uso della slide https://www.youtube.com/watch?v=Har0FeOeYWk . Anche Give Me One Reason rimane ancorata a questo suono blues, una strana scelta di cover, la prima del CD, un brano di Tracy Chapman che si trovava su New Beginning, scelto appositamente da Leslie West per la sua melodia che secondo lui ben si adattava all’assolo che aveva in mente di inserire nel pezzo, e stranamente tutto funziona, con gusto e misura. Here’s For The Party è uno dei brani più duri, a tutto riff, con il classico suono “grasso” della solista che si innesta sul groove solido della band che accompagna West, classico è anche l’assolo con il tipico vibrato del nostro, che è un po’ il suo marchio di fabbrica, sentito mille volte, ma in fondo è quello che ci si aspetta da lui. You Are My Sunshine, viceversa, è una scelta inconsueta: si tratta di un vecchio standard americano degli anni ’30 del secolo scorso, famosissimo, che di recente è tornato in auge, perché una versione cantata da Jamie Johnson e Shooter Jennings è stata utilizzata nella colonna sonora della serie TV Sons Of Anarchy https://www.youtube.com/watch?v=fo_szHx1_no , dove anche West l’ha sentita, decidendo di realizzare la sua versione, molto aderente all’originale, chitarre acustiche e archi sintetici, ma anche le elettriche di West e dell’ospite Peter Frampton che lavorano di fino per creare un brano di pura atmosfera https://www.youtube.com/watch?v=weLUkI302-g .

Empty Promises Nothing Sacred è un tributo alla musica degli AC/DC, un incontro tra titani del riff-rock che crea un’altra montagna di suoni e soli in libertà. Ulteriore cambio per A Stern Warning, un brano strumentale per sola chitarra acustica che mescola spunti classici, modali, folk e blues un po’ come faceva il Jimmy Page dei primi Zeppelin, grande pezzo e grande tecnica. Non male pure la versione di People Get Ready, celeberrimo brano soul di Curtis Mayfield, famoso anche nella versione di Jeff Beck, a cui si avvicina questa rilettura, comunque rispettosa e piacevole, con l’immancabile lirica serie di soli a valorizzarla, dedicata alla memoria del vecchio road manager dei Vagrants https://www.youtube.com/watch?v=R727FcEs-MQ , mentre Going Down è proprio il classico pezzo di Don Nix, anche questo associato a Jeff Beck, ripescato da una registrazione di dieci anni fa dove suonano Max Middleton alle tastiere, David Hood al basso, Bonnie Bramlett alle armonie vocali e la seconda chitarra solista è quella di Brian May, bellissima versione, degna dei migliori Mountain. Prosegue la serie dei “recuperi” con l’omaggio a Ben E. King, scomparso di recente, con una bella versione acustica di Stand By Me, dove la voce femminile è quella di una 16enne sconosciuta, tale Ariela Pizza (giuro!), figlia di un amico di Leslie, che comunque se la cava più che bene. C’è anche una cover di Eleanor Rigby, che in pratica è un assolo di basso fretless di Rev Jones e per concludere, quella che è forse la chicca del disco, una versione dal vivo di Spoonful, con Jack Bruce al basso e alla voce e Leslie West che fa il Clapton della situazione, tributo riuscitissimo all’amico scomparso, preso da un vecchio nastro anni ’80 che esce dalle nebbie del tempo, intatto e ruspante, come il buon Leslie https://www.youtube.com/watch?v=T0XRvwE32LA !

Bruno Conti    

Meno “Bisonte” E Più Bluesman…Ma E’ Sempre Grandissima Musica! Neil Young & Bluenote Cafe

neil young bluenote cafe

Neil Young & Bluenote Cafe – Bluenote Cafe – Reprise/Warner 2CD – 4LP

A sei mesi scarsi dal suo ultimo album, il controverso The Monsanto Years, torna sul mercato Neil Young con un “nuovo” concerto tratto dai suoi archivi (il cui secondo volume sembra sempre imminente ma non arriva mai), un doppio live che sarebbe già dovuto uscire all’epoca ma poi era stato messo in stand-by perenne (come successo con altri album del canadese, pronti con titolo ed a volte anche copertina – Homegrown – ma mai pubblicati): ebbene, devo dire che, una volta ascoltato questo Bluenote Cafe ad opera di Neil con i Bluenotes (non capisco come mai per questa uscita sono stati ribattezzati con lo stesso nome del titolo del disco, ma è ora che la smetta di farmi domande con Young) il nostro aveva preso un grosso abbaglio a tenerlo segreto, in quanto siamo di fronte a quasi due ore e mezza di grande musica. Era il 1988, anno in cui Neil tornava ad incidere per la Reprise con il discreto This Note’s For You, un disco abbastanza orientato verso blues ed errebi, non un capolavoro ma comunque una boccata d’aria fresca dopo sei anni di continue delusioni con la Geffen, alcune provocate da scelte contraddittorie (Trans, Everybody’s Rockin’, il country ultratradizionalista di Old Ways), altre per mancanza di ispirazione (Landing On Water, forse in assoluto il disco più brutto di Neil, e Life, il più deludente tra i suoi lavori con i Crazy Horse) al punto che la casa discografica lo aveva portato in tribunale con l’accusa, in poche parole, di non essere sé stesso!

Bluenote Cafe documenta una tournée poco nota di Young, ma il risultato ci dimostra che era in forma strepitosa, e la band che lo seguiva (i fedelissimi Rick Rosas al basso, Chad Cromwell alla batteria e Frank Sampedro alle tastiere, più una sezione fiati di sei elementi tra cui spiccava Ben Keith al sassofono, non proprio il suo strumento abituale) era un treno in corsa: in questo disco i brani tratti da This Note’s For You letteralmente assumono una nuova vita, ma anche il resto fa vedere che eravamo di fronte ad un gruppo formidabile, con una buona metà dei pezzi dilatati a durate più tipiche di un concerto dei Grateful Dead che di Neil. Il doppio CD (o quadruplo LP) è composto da ventuno brani, presi da varie date, con poche scelte note ma con molte sorprese: sette pezzi vengono da This Note’s For You, uno, I’m Goin’, dal lato B del singolo Ten Men Workin’, solo due sono canzoni famose e ben undici erano all’epoca inedite (e cinque lo sono ancora adesso).

Welcome To The Big Room, un potente rock-blues in stile big band, è perfetto per aprire la serata ed il CD, con Neil che rilascia assoli più “puliti” del solito ed il gruppo dimostra da subito la sua coesione, facendo seguire la fluida e brillante Don’t Take Your Love Away From Me (se la ricordate, era sulla compilation Geffen Lucky 13, ma in una versione live precedente con gli Shocking Pinks), con un’intesa perfetta tra un leader ispirato ed una band rocciosa (solo in questi due primi brani c’è anche la partecipazione dei Crazy Horse Billy Talbot e Ralph Molina): siamo solo all’inizio ma l’ascolto si preannuncia prelibato. Abbiamo quindi tre canzoni tratte da This Note’s For You una dietro l’altra: la title track è abbastanza nota, un brano tra i più contagiosi del nostro, con un riff tipico ed un testo ironico e divertente, Ten Men Workin’ (cioè Neil ed i Bluenotes, che sono appunto in dieci) è un blues ricco di swing che beneficia molto del trattamento live, mentre Life In The City è un trascinante boogie, con il bisonte che arrota da par suo ed i Bluenotes che lo seguono come un’ombra. Hello Lonely Woman è un brano di gioventù (lo si può trovare nel CD 1 del primo, e ad oggi unico, volume degli Archivi), e qui è un blues piuttosto canonico, ma Neil se la cava con mestiere, mentre Soul Of A Woman è uno shuffle di gran classe, con il nostro che più che dal Canada sembra venire da Chicago; Married Man, Bad News Comes To Town e Ain’t It The Truth sono tre pezzi abbastanza normali come songwriting, anche se qui sono suonati con un calore notevole (specie il terzo), ma One Thing è un blues jazzato afterhours di grande valore, un Neil Young assolutamente inedito, mentre Twilight, che chiude il primo dischetto, è una rock song desertica e notturna tipica del nostro, il quale fende l’aria con assoli lancinanti (ed anche su This Note’s For You era uno degli episodi migliori).

Il secondo CD, nove brani, riserva le sue cartucce migliori, soprattutto con tre di essi: la splendida Ordinary People, uno dei centerpiece dei concerti dell’epoca ed in assoluto uno dei grandi pezzi younghiani (pubblicato solo anni dopo in Chrome Dreams II), una cavalcata elettrica di dodici minuti come solo Neil sa fare, sulla scia di classici come Down By The River e Cortez The Killer; a ruota segue un’altra grande canzone, cioè Crime In The City, ancora più incalzante ed elettrica di quella uscita un anno dopo su Freedom, sembra che alle spalle del nostro ci sia il Cavallo Pazzo https://www.youtube.com/watch?v=EuuuW3M93K4 . Ma soprattutto l’acquisto del CD è giustificato da una stratosferica Tonight’s The Night (posta alla fine del concerto) di ben 19 minuti: se conoscete un po’ Young sapete esattamente cosa aspettarvi, ma questa per me è la miglior versione mai sentita di questa canzone e, credeteci o no, alla fine mi è venuta la voglia di rimetterla dall’inizio. In mezzo a tanto ben di Dio, almeno un cenno lo meritano il funky ritmato e godibile di Doghouse ed il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, in un inedito e scintillante arrangiamento rhythm’n’blues. Bluenote Cafe è quindi un documento prezioso che documenta un tour poco noto, ancora più gradito perché ci fa scoprire un Neil Young in una veste inusuale e che forse non sentiremo più in futuro.

Marco Verdi

Questo Era Il Cofanetto Di Bruce Che Tutti Aspettavamo, Per Natale! Bruce Springsteen – The Ties That Bind: The River Collection Replay

bruce springsteen the ties that bind

Bruce Springsteen – The Ties That Bind: The River Collection – Sony Music/Legacy 4 CD + 3 DVD o 4 CD + 2 Blu-Ray – 04-12-2015

Tutti da anni si fantasticava su un bel cofanetto di Springsteen dedicato alle sessions per The River, uno dei suoi album più belli in assoluto ed ora, per il Natale 2015, il “regalo” che tutti aspettavamo.

*NDB.  Ho aggiunto un paio di video tratti dai DVD Live, per il resto è tutto confermato.

Un mega cofanetto audio e video con una cornucopia di pezzi rari, vecchi singoli, outtakes, concerti dal vivo, anche la versione singola alternativa dell’album che doveva uscire nel 1979 e chiamarsi proprio The Ties That Bind. Come vedete sopra ci saranno due versioni, una con i DVD e una con i Blu-ray, ma con lo stesso contenuto, che vediamo subito. Partiamo dai CD:

Tracklist
[CD1 – The River: Double Album Part 1]
1. The Ties That Bind
2. Sherry Darling
3. Jackson Cage
4. Two Hearts
5. Independence Day
6. Hungry Heart
7. Out In The Street
8. Crush On You
9. You Can Look (But You Better Not Touch)
10. I Wanna Marry You
11. The River

[CD2 – The River: Double Album Part 2]
1. Point Blank
2. Cadillac Ranch
3. I’m A Rocker
4. Fade Away
5. Stolen Car
6. Ramrod
7. The Price You Pay
8. Drive All Night
9. Wreck On The Highway

[CD3 – The River: Single Album]
1. The Ties That Bind
2. Cindy
3. Hungry Heart
4. Stolen Car
5. Be True
6. The River
7. You Can Look (But You Better Not Touch)
8. The Price You Pay
9. I Wanna Marry You
10. Loose End

[CD4 – The River: Outtakes]
1. Meet Me In The City
2. The Man Who Got Away
3. Little White Lies
4. The Time That Never Was
5. Night Fire
6. Whitetown
7. Chain Lightning
8. Party Lights
9. Paradise By The C
10. Stray Bullet
11. Mr. Outside
12. Roulette
13. Restless Nights
14. Where The Bands Are
15. Dollhouse
16. Living On The Edge Of The World
17. Take ‘em As They Come
18. Ricky Wants A Man Of Her Own
19. I Wanna Be With You
20. Mary Lou
21. Held Up Without A Gun
22. From Small Things (Big Things One Day Come)

La nota dolente è il contenuto video (che per altro si annuncia fantastico):

The Ties That Bind (Documentary) – DVD1 (or BD1)
The River Tour, Tempe 1980 Concert – DVD2 & DVD3 (or BD2)

Dove sta l’inghippo? Il concerto leggendario di Tempe del 5 Novembre 1980 non è completo, ci sono solo 24 delle 35 canzoni eseguite in quella magica serata, però ci sono parecchie altre bonus:

DVD 1
The Ties That Bind (Documentary)

DVD 2
The River Tour, Tempe 1980 Part 1
“Born to Run”
“Prove It All Night”
“Tenth Avenue Freeze-Out”
“Jackson Cage”
“Two Hearts”
“The Promised Land”
“Out in the Street”
“The River”
“Badlands”
“Thunder Road”
“No Money Down”
“Cadillac Ranch”
“Hungry Heart”
“Fire”
“Sherry Darling”
“I Wanna Marry You”
“Crush on You”
“Ramrod”
“You Can Look (But You Better Not Touch)”

DVD 3
The River Tour, Tempe 1980 Part 2
“Drive All Night”
“Rosalita (Come Out Tonight)”
“I’m a Rocker”
“Jungleland”
“Detroit Medley”
“Where the Bands Are” (Credits)

Bonus: The River Tour Rehersals
“Ramrod”
“Cadillac Ranch”
“Fire”
“Crush on You”
“Sherry Darling”

Che dite, considerando anche il bel libro formato hardbook da 148 pagine contenuto nella confezione, ci accontentiamo? Per forza! Esce il 4 dicembre.

Bruno Conti

Dopo Un Divorzio Si Cambiano Vita E Musica? Shawn Mullins – My Stupid Heart

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Shawn Mullins – My Stupid Heart – Sugar Hill / Rounder Records

Fra un divorzio e l’altro, Shawn Mullins (con una dozzina d’album all’attivo in studio) è ormai considerato un veterano della scena folk-rock cantautorale americana. Il buon Shawn era già un giovane e affermato musicista di Decatur, Georgia, quando nel lontano ’98 ha cominciato a raccogliere i frutti di una carriera comunque abbastanza lunga con l’album Soul’s Core, ma Mullins in precedenza aveva esordito con Better Days (92), quindi due anni dopo aveva pubblicato Big Blue Sky (94), poi due lavori incisi con Matthew Kahler Jeff’s Last Dance Vol. 1 e 2 (credo che a parte il sottoscritto siamo in pochi ad averli, e ormai siano introvabili), e nel ’96 ha visto la luce il successivo Eggheels. Dopo l’interlocutorio Beneath The Velvet Sun (00), anni di silenzio non compromettono la sua buona vena compositiva, a partire da 9th Ward Pickin Parlor (06), Honeydew (08), il primo disco dal vivo Live At The Variety Playhouse  dello stesso anno, fino all’ultimo lavoro in studio, l’ottimo Light You Up (10).

Prodotto dalla cantante country nativa della Florida Lari White, (impegnata anche alle armonie vocali con Shondra Bennett e Max Gomez) e registrato al The Holler di Nashville, My Stupid Heart vanta altri musicisti di valore come il marito della White, Chuck Cannon (cantautore e autore di alcuni brani scritti con Mullins) all’acustica e seconda voce, Dan Dugmore alla steel, Jerry McPherson alla chitarra elettrica, Gerry Hansen alla batteria e percussioni, Michael Rhodes al basso, Guthrie Trapp al mandolino e bouzouki, e i bravissimi Radoslav Lorkovic (Jimmy LaFave) alla fisarmonica e Fender Rhodes e Matt Rollings (Lyle Lovett) al pianoforte, e naturalmente lo stesso Shawn che suona diversi strumenti, il tutto per una raccolta di dieci canzoni, che toccano temi anche profondamente personali.

My Stupid Heart apre con la magia di una classica ballata alla Mullins, The Great Unknown, per poi passare alla recitativa It All Comes Down To Love, che potrebbe sembrare uscita dai solchi di Too Long In The Wasteland di James McMurtry https://www.youtube.com/watch?v=bTCq0MccLro , seguite dall’incantevole Ferguson che inizia lentamente per poi crescere nello sviluppo del brano https://www.youtube.com/watch?v=qr3MwKKjSpc , fatto che si ripete pure nella title track, anche questa  parte acustica con pochi accordi di chitarra, poi la voce di Shawn, gli strumenti e i cori danno spessore alla ballata, mentre Roll On By si avvale di un buon ritmo e della fisarmonica di Radoslav Lorkorvic. Il lavoro prosegue con Go And Fall una canzone di sofferenza, cantata con grande intensità, poi troviamo una magnifica love song come Gambler’s Heart (scritta con il cuore in mano) evidenziata dal piano di Matt Rollings, e ancora la pianistica Never Gonna Let Her Go (un brano alla Robbie Robertson e Band, magari cantato da Levon Helm) https://www.youtube.com/watch?v=ZjK6TdtceNs , una delicata e melodica Sunshine, e a chiudere  il moderno blues di Pre-Apocalyptic Blues, dove si rincorrono il trombone di Roy Agee, la fisarmonica di Lorkovic, e il superbo pianoforte di Rollings.

Con questo My Stupid Heart, la carriera artistica di Shawn Mullins sembra segnare un ulteriore livello di crescita, musicale e narrativa, con canzoni che si dividono tra americana, rock, folk e blues, cantate da una voce che rimane pur sempre una delle più belle e intense del panorama musicale americano. Non so come sia messo attualmente con i “rapporti sentimentali” il buon Shawn, ma se dopo ogni divorzio ci ritroviamo un Mullins più maturo e ispirato, e pienamente consapevole del suo potenziale, forse, ma dico forse, è augurabile tra qualche anno saperlo nuovamente divorziato!

Tino Montanari

Da Qui In Poi Il Mondo Del Rock Non E’ Stato Più Lo Stesso! Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Parte II

bob dylan the cutting edge bootleg series vol.12bob dylan the cutting edge bootleg series vol.12 18 cd

Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Columbia/Sony 2CD – 3LP – Deluxe 6CD – Super Deluxe 18CD + 9 45rpm

Parte II

CD 3-8 – Highway 61 Revisited: il miglior disco di Dylan (ma Blonde On Blonde lo segue di un’attaccatura) è anche quello che regala più sorprese tra le outtakes: è incredibile notare come a distanza di pochi mesi anche lo stile di scrittura del nostro sia cambiato, molto più rock e blues che nel disco precedente, dove era ancora legato a stilemi folk. Intanto abbiamo quattro takes complete di If You Gotta Go, Go Now (la migliore è la prima), e non capisco come all’epoca sia stata pubblicata solo come lato B di un singolo uscito soltanto in Benelux (e nel 1967), ma poi ci sono diverse versioni di It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry, tutte più veloci di quella quasi honky-tonk apparsa sull’album, anche se con arrangiamenti diversi tra loro (splendida la take 6, rock’n’roll allo stato puro, anche se purtroppo si interrompe, e niente male anche la 8, più bluesata https://www.youtube.com/watch?v=sp0AESxrPyk ). Anche la poco nota Sitting On A Barbed-Wire Fence fa la sua bella figura, specie la seconda take, con uno strepitoso Mike Bloomfield alla solista; uno dei momenti più piacevoli è la parte dedicata al singolo Positively 4th Street, dove la primissima take era già secondo me perfetta, più rilassata della versione pubblicata, mentre l’altra canzone uscita nel periodo su 45 giri, cioè Can You Please Crawl Out Your Window?, ha avuto come preferenza una delle versioni incise in seguito durante Blonde On Blonde con The Band, ma non ho problemi ad affermare che preferisco quella uscita da queste sessioni (ed una di queste takes all’epoca era stata messa per sbaglio sul lato B di alcune copie di 4th Street), più cantata e melodica, quasi un’altra canzone. Anche From A Buick 6 ha avuto una versione più veloce e roccata messa per errore sulla prima edizione di Highway 61 (ed io ne possiedo orgogliosamente una copia), e qui la troviamo; la sirena sulla title track originale non mi aveva mai convinto, molto meglio a mio parere la take 3, a tempo di boogie e con un Bloomfield spettacolare. Ma l’highlight lo troviamo sull’ottavo CD: a parte due takes incomplete di Medicine Sunday, un brano rimasto negli archivi, spicca la take 4 della grandissima Desolation Row in versione full band, una strepitosa versione mai sentita prima, una canzone indimenticabile in una veste completamente diversa (ce ne sarebbe un’altra altrettanto bella solo voce e piano, ma dura lo spazio di due minuti). Ho volutamente lasciato per ultimo il quarto CD, cioè quello interamente dedicato a Like A Rolling Stone (inserito anche nella versione sestupla), perché paradossalmente è la parte meno interessante del cofanetto, in quanto, dopo alcune prove iniziali (anche a tempo di valzer https://www.youtube.com/watch?v=fWn5fpr_IwA ) dove Dylan e la band “cercano” la melodia giusta e gli accordi adatti, abbiamo quasi subito la take 4 che è poi quella che tutti conosciamo; ebbene, secondo me si erano accorti anche loro di avere appena fatto la storia, in quanto dopo abbiamo altri nove tentativi suonati senza troppa convinzione e quasi per dovere istituzionale, ma avevano capito che la magia se n’era andata con quell’unica, magnifica take. (NDM: impagabile sentire Tom Wilson, poco prima della versione “giusta”, rivolgersi ad Al Kooper con un divertito “What are you doing out there?”, in quanto il musicista newyorkese, scritturato come chitarrista ritmico, si era seduto all’organo per provare il leggendario riff che contrassegnerà per sempre la canzone in questione e darà di fatto il via anche alla sua carriera di organista).

CD 9-17 – Blonde On Blonde: in realtà il nono dischetto prende in esame una session “spuria” di Dylan con The Band (allora ancora The Hawks e senza Levon Helm), dove vengono suonate diverse takes di I Wanna Be Your Lover, che si pensava di pubblicare come singolo ma poi è rimasta inedita fino a Biograph (non era comunque un grande brano, anche se il riff spaccava), oltre ad una interessante jam strumentale senza titolo e, soprattutto, una prima versione della splendida Visions Of Johanna (ma quella finita sul disco appartiene ad una sessione successiva incisa a Nashville con musicisti locali più Robbie Robertson), con un ritmo decisamente più sostenuto ed indubbiamente intrigante, certamente una delle perle del box (la take 5 è da urlo). Per quanto riguarda Blonde On Blonde, l’album in cui Dylan trovò quello che definì il “sottile e selvaggio sound al mercurio”, voglio limitarmi ai brani imperdibili (cosa che peraltro ho fatto finora, ma il materiale è talmente vasto), tra i quali vi è certamente una She’s Your Lover Now per voce e piano, magari formalmente imperfetta ma con un feeling da brividi: meritava assolutamente di finire sul disco, magari al posto di Pledgin’ My Time o Most Likely You Go Your Way. Poi abbiamo la costruzione passo dopo passo, frammento dopo frammento, della cristallina One Of Us Must Know, un brano letteralmente creato in studio, un’unica take dell’inedita Lunatic Princess, uno spigliato rock-blues dominato dal piano elettrico che meritava di essere approfondito, ed una deliziosa versione strumentale di I’ll Keep It With Mine senza Dylan ma con i Nashville Cats (nello specifico Charlie McCoy, Wayne Moss, Joe South e Kenny Buttrey).  Interessante poi vedere come Stuck Inside Of Mobile With The Memphis Blues Again sia diventata quella che conosciamo, e per la quale personalmente non ho mai sbavato, solo alla fine, in quanto per tutte le takes è stata suonata con un ritmo più lento ed un arrangiamento blue-eyed soul secondo me più stimolante (e addirittura nella primissima prova come country ballad nashvilliana). Il tour de force (ma un tour de force di puro godimento), si chiude con la splendida I Want You, cioè quello che più assomigliava al tentativo di Bob di scrivere un singolo pop, la cui take 1 è abbastanza diversa da quella pubblicata ma quasi altrettanto bella https://www.youtube.com/watch?v=m_5q-uqNeE4 .

CD 18: ecco la chicca assoluta del box (presente solo in questa edizione), cioè una serie di brani acustici registrati dal nostro in camere d’albergo da solo o in compagnia in tre differenti momenti: otto brani al Savoy Hotel di Londra nel 1965 con Bob Neuwirth e Joan Baez (alcuni frammenti di questa particolare session sono immortalati nel famoso documentario Don’t Look Back https://www.youtube.com/watch?v=5VvHyCy5kDs ), sei al North British Station Hotel di Glasgow nel 1966 con Robbie Robertson e, nello stesso anno, altre sette canzoni in un non meglio specificato hotel di Denver, Colorado, alla presenza del noto giornalista Robert Shelton: tutto è informale al massimo, non si pensava certo ad una pubblicazione, ed anche la qualità del suono varia. I brani del Savoy sono solo cover, e sia sound che performance sono eccellenti: Dylan qui anticipa inconsciamente i Basement Tapes, con punte come la bellissima More And More (Webb Pierce), o il medley di tre classici di Hank Williams (Weary Blues From Waitin’, un’ispirata Lost Highway ed una I’m So Lonesome I Could Cry appena accennata), ma soprattutto il traditional Wild Mountain Thyme, in cui Bob e Joan armonizzano alla grande, facendo pensare che l’avessero provata prima a nastro spento. I brani di Glasgow e Denver sono ancora più interessanti, in quanto troviamo tutte canzoni inedite che Bob non riprenderà mai più: Glasgow è più una songwriting session che altro, con Dylan e Robertson che tentano di trovare la melodia e gli accordi giusti, a volte procedendo per tentativi, e sinceramente dispiace che questi pezzi verranno poi dimenticati, in quanto in almeno due casi (la romantica I Can’t Leave Her Behind e la folkeggiante If I Was A King) c’erano i germogli della grande canzone. A Denver, oltre a due performance in solitario di Just Like A Woman e Sad-Eyed Lady Of The Lowlands e altri due inediti minori (Don’t Tell Him, Tell Me e If You Want My Love) troviamo tre takes della misteriosa Positively Van Gogh, per decenni oggetto del desiderio dei collezionisti più incalliti. Peccato però che qui la qualità di registrazione non sia proprio il massimo, per usare un eufemismo.

In definitiva un box che definire strepitoso è il minimo: facendo le debite proporzioni, è come tornare indietro di centinaia di anni ed assistere dal vivo a Leonardo Da Vinci che dipinge la Gioconda; ho però troppo rispetto per i portafogli altrui per consigliare l’acquisto di questa versione, ma almeno quella sestupla è obbligatoria.

Questa non è solo musica: è storia.

Marco Verdi

Da Qui In Poi Il Mondo Del Rock Non E’ Stato Più Lo Stesso! Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Parte I

bob dylan the cutting edge bootleg series vol.12

Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 12 – 1965/1966: The Cutting Edge Columbia/Sony 2CD – 3LP – Deluxe 6CD – Super Deluxe 18CD + 9 45rpm

 *NDB In qualità di titolare del blog, una brevissima introduzione, poi mi tolgo di mezzo e lascio spazio a Marco che con sprezzo del pericolo (e del portafoglio) si è acquistato e poi sentito la versione da 18 CD. Questo è il resoconto: data la lunghezza abbiamo deciso di dividerlo in due parti. Questa è la prima…

Lo scorso anno, proprio su questo blog http://discoclub.myblog.it/2014/11/13/unaltra-abbondante-razione-bob-il-santo-graal-del-rock-bob-dylan-the-band-the-bootleg-series-vol-11-the-basement-tapes-complete-take-1/ , avevo definito l’undicesimo volume delle Bootleg Series di Bob Dylan, dedicato ai Basement Tapes, la ristampa del secolo, in quanto finalmente veniva pubblicato nella sua interezza quello che veniva definito senza mezzi termini il Santo Graal della musica rock. Era difficile pensare che i cervelloni della Columbia potessero superarsi per la scelta dell’argomento del volume numero dodici, pur non mancando negli archivi dylaniani gli episodi di grande interesse (le sessions di Blood On The Tracks, a quanto pare più volte rimandate, oppure quelle del periodo “cristiano”, od ancora le outtakes di Infidels, o perché no un bel box multiplo con il meglio di 27 anni di Neverending Tour), ma nessuno poteva immaginare che un giorno ci avrebbero portato indietro nel tempo aprendoci le porte dello studio di registrazione proprio quando Dylan incise i tre capolavori che avrebbero letteralmente terremotato il mondo della musica, cioè Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited (a mio giudizio il miglior disco di tutti i tempi, ma non di Dylan, di chiunque) e Blonde On Blonde.

Non serve ricordare l’importanza di quei tre dischi nella carriera di Bob e nel rock in generale, montagne di libri e saggi sono stati scritti a proposito: è con questi album che Dylan, da grande cantautore che già era, è diventato una leggenda del rock, spazzando via in un colpo solo tutto il folk revival ed il movimento di protesta ed alzando l’asticella ad un livello mai più raggiunto da nessuno. Certo, ci sono stati nella storia della musica altri periodi di grande ispirazione (i Beatles dal 1966 al 1969, gli Stones dal 1968 al 1972, il Van Morrison del biennio 1969-1970, o The Band 1968-1969, solo per citarne alcuni) – *NDB E Jimi Hendrix dal 1967 al 1970, tutta una vita del più grande chitarrista, e non solo, di tutti i tempi in tre anni? – ma mai a questi livelli di grandezza e di innovazione, e mai con una tale intensità (i tre album in questione sono stati incisi in appena 14 mesi, nei quali Bob ha avuto anche il tempo di fare tre tournée e di esibirsi a Newport nella serata della storica svolta elettrica).

bob dylan the cutting edge bootleg series vol.12 18 cd

Oggi con The Cutting Edge (che in gergo significa all’avanguardia, o anche la punta di diamante) abbiamo quindi la possibilità di godere di queste fondamentali sessions, e se la versione in doppio CD (o triplo LP) è a mio parere insufficiente a dare un’idea reale, quella con sei dischetti dovrebbe raggiungere lo scopo, ma poi la Sony ha pensato di osare l’inosabile, cioè di rendere disponibile, solo sul sito ufficiale di Dylan ed in tiratura di sole 5000 copie (e ad un costo parecchio elevato, più o meno una pensione minima) un’edizione monstre di ben 18 CD, con all’interno ogni singola nota incisa in quelle sessions da Bob e dai vari musicisti in studio con lui. Un’operazione incredibile (somigliante per certi versi alle varie copyright extensions pubblicate gli anni scorsi, dalla Sony e da altre etichette, in versione ancor più limitata, per aggirare le norme dei diritti d’autore riguardo alle annate dal 1962 al 1964) che non ha mancato di attirare critiche, non tanto per il costo (dopotutto c’è anche la versione sestupla per chi non vuole spendere così tanto), ma quanto per il fatto che, a detta di alcuni, non è giusto rendere disponibile tutto ciò che riguarda quei tre dischi leggendari, compresi gli errori, le false partenze, i battibecchi del nostro con i produttori (Tom Wilson prima, Bob Johnston poi), dato che così facendo si sarebbe tolto l’alone di leggenda che da sempre aveva contraddistinto quelle incisioni. E’ una visione comprensibile e per certi versi condivisibile, ma, dopo aver ascoltato i 18 CD uno in fila all’altro, devo dire che il solo fatto di trovarmi idealmente nello studio con Dylan e vivere da vicino la creazione di tre capolavori ha avuto su di me una fascinazione difficile da descrivere. In più, la confezione è uno spettacolo, con ben due libri a copertina dura ricchi di foto mai viste, commenti e note brano per brano, due saggi a cura del dylanologo Sean Wilentz e del “mitico” Bill Flanagan,  oltre a ben nove 45 giri usciti in quei due anni e riprodotti con le copertine originali: quasi quasi arrivo anche a giustificare il prezzo finale.

(NDM: a quanto pare in tanti la pensano come me, dato che al momento di scrivere queste righe le copie ancora disponibili sono poco più di mille).

Il fatto poi di trovarmi di fronte a volte anche a dieci takes consecutive della stessa canzone poteva  intimorirmi, ma Bob  Dylan all’epoca era talmente un vulcano di idee che riusciva a cambiare anche due-tre arrangiamenti per brano, rendendo così l’ascolto assolutamente piacevole e mai noioso (anche se, per esempio, quattro Sad Eyed Lady Of The Lowlands consecutive non sono per tutti): chiaramente cercherò di citare solo le takes che reputo davvero imperdibili, se no dovrei scrivere un’enciclopedia (e già così mi sa che andrò lungo), raggruppandole in tre macroparagrafi che poi non sono altro che i tre album in questione (con una appendice finale riguardante il diciottesimo CD, che prende in esame incisioni molto particolari ed esclusive del megabox) ed evitando di citare chiaramente le versioni già pubblicate in passato (nei tre dischi originali, in Biograph e nel primo e settimo volume delle Bootleg Series), che sono comunque presenti nel cofanetto.

CD 1-2 – Bringing It All Back Home: il disco di transizione (e che transizione) tra il Dylan acustico e la rockstar, un album inciso in un tempo incredibilmente breve (tre giorni!), le cui sessions iniziano con Bob che prova le canzoni in acustico o con al massimo un secondo chitarrista (Bruce Langhorne), nello stile dei quattro brani che sarebbero poi finiti sul vecchio lato B dell’LP: la canzoni non perdono un’oncia della loro bellezza, con una particolare menzione per Love Minus Zero/No Limit, uno splendore in qualsiasi modo la si faccia (e la take 3 non è inferiore a quella pubblicata). Poi c’è la versione di She Belongs To Me che apre il secondo CD, ancora più fluida e scorrevole di quella conosciuta, ed anche due inediti assoluti (anche se il primo lo si può trovare sulla colonna sonora di NCIS), California, un blues piuttosto canonico eseguito al piano, e You Don’t Have To Do That, un brano che si interrompe dopo una sola strofa e non verrà più ripreso, peccato perché sembrava interessante. Tra le chicche assolute del box, abbiamo un doppio tentativo di Mr. Tambourine Man con due chitarre e batteria, subito abortito in favore della versione acustica, ma l’idea poteva anche essere sviluppata di più, anche se Bob non sembrava essere troppo convinto a riguardo.

Fine parte I, segue…

Marco Verdi

Dal Canada A Nashville, Produce Dave Cobb! Corb Lund – Things Can’t Be Undone

corb lund things can't be undone

Corb Lund – Things That Can’t Be Undone – New West 

Ennesima produzione per Dave Cobb, nuovo “Re Mida” della scena musicale di Nashville, ma siamo dal lato buono della città e tutto quello che tocca Cobb diventa oro a livello qualitativo, se non da quello commerciale. Nessuno può negare che i suoi siano prodotti country, ma nell’accezione migliore del termine, genere musicale che si può applicare anche a Corb Lund, musicista canadese trapiantato nel Tennessee da parecchi anni, con alcuni album negli anni ’00 sotto l’egida di Harry Stinson, altro personaggio caro a chi ama l’alternative country, i New Traditionalists o come diavolo volete chiamarli, insomma quei musicisti che fanno vecchia musica, di quella buona però, rivestita di una leggera patina di modernità, rispettosa pure della tradizione meno bieca del country classico. Anche Lund ha fatto tutta la trafila, partenza ad inizio anni ’90 in Canada con una band punk-rock di Edmonton, gli Smalls, poco dopo nasce la Corb Lund Band che con il passare degli anni diventa gli Hurtin’ Albertans, dal nome del suo stato di origine, gruppo che è ancora oggi con lui e con cui continua a girare sia il suo paese di origine come gli States, dove è diventato un rispettato artista di culto, soprattutto grazie agli ultimi ottimi tre album pubblicati per la New West.

Proprio l’ultimo, Counterfeit Blues, era una sorta di rivisitazione del suo catalogo precedente, rivisto in una ottica honky tonk e rockabilly, con il tocco di classe di essere stato registrato ai gloriosi Sun Studios di Memphis. Con Cobb ci si sposta di nuovo a Nashville, ai Low Country Sound Studios, e il produttore, utilizzando la band di Corb Lund, realizza un album gustoso che ha gli ingredienti della migliore country music, senza troppi difetti, anzi nessuno: c’è honky tonk, country-rock, outlaw music, ballate da singer songwriter, qualche concessione al miglior pop d’autore (due o tre brani profumano persino di riff beatlesiani, Beatles che a loro volta avevano pescato a piene mani dalla grande tradizione sonora americana), con risultati piacevoli che, senza stravolgere la storia della musica, si ascoltano con estremo piacere. Dieci brani dal menu sonoro vario, ma sempre legati al country nelle sue diverse sfumature: Weight Of The Gun, ha un suono più leggero e pop, forse non consono alle atmosfere più buie del testo, ma quel leggero tocco country got soul della chitarra riverberata è cionondimeno assai piacevole, e qui si sente la mano di Dave Cobb. Run This Town, con il suono di chitarre acustiche ed elettriche, pedal steel e la batteria accarezzata con le spazzole è più classicamente country-rock anche grazie alle armonie vocali delicate di Kristen Rogers https://www.youtube.com/watch?v=M0d8gw1U9hE .

Alt Berliner Blues, sta tra i primi Beatles e Dylan, o se preferite Beatles plays Dylan, chitarre elettriche ben delineate e ricorrenti, un ritmo alla Tombstone Blues e un testo che tratta degli effetti della Guerra Fredda sull’economia americana, quindi perfetta aderenza tra testo e musica “Americana” https://www.youtube.com/watch?v=MNpAr9AN8pU . Alice Eyes è la classica canzone d’amore, scritta con il “collega”  texano Jason Eady, con la pedal steel di Grant Siemens che si prende ancora i suoi spazi e contribuisce al tono melanconico e delicato del brano, mentre Sadr City ha di nuovo quel giro di accordi vagamente beatlesiano che la rende più vicina a territori pop. Washed Up Rock Star Factory Blues è la risposta canadese al classic honky tonk country di Take This Job And Shove It, ossia Johnny Paycheck via David Allan Coe, godibilissimo anche grazie alla produzione di Cobb che evidenzia il suono dei singoli strumenti, una chitarra acustica qui, il basso che pompa là, una elettrica che oscilla tra “twang” e “chicken’ pickin” alla James Burton, la batteria incalzante e la voce “raddoppiata” di Lund https://www.youtube.com/watch?v=8sd7B10f1X8 . S Lazy H è la tipica folk song, solo voce e chitarra acustica, che racconta la sfortunata storia del ranch del titolo e del suo ultimo proprietario; Goodbye Colorado è una via di mezzo tra country-rock e outlaw music primi anni ’70, tra Lee Clayton e Michael Martin Murphy se volete, con la grintosa Talk Too Much che fonde ancora alla perfezione blues e british invasion, ancora Beatles ma anche Yardbirds per l’acidità delle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=7N3qHOKaW7g . In chiusura una sorta di talking country folk-rock che racconta senza troppi sentimentalismi, ma con il giusto pathos, la scomparsa della nipote di Lund, un Sunbeam, “raggio di sole” che non brilla più ma non viene dimenticato. Quindi diciamo non un capolavoro assoluto ed indispensabile, ma Corb Lund è uno di quelli bravi e questo Things That Can’t Be Undone si lascia apprezzare.

Bruno Conti

P.s. Ne esiste anche una versione Deluxe con DVD aggiunto: per una volta un dischetto ricco di sostanza, intervista di oltre 20 minuti, e una Acoustic Session con sei pezzi e altri venti minuti circa di musica.

Ancora Uno Che Di Slide Se Ne Intende! Roy Rogers – Into The Wild Blue

roy rogers into the wild blue

Roy Rogers – Into The Wild Blue – Chops Not Chaps Records 

Lo avevo lasciato un paio di anni fa alle prese con l’ultimo disco registrato in collaborazione con Ray Manzarek (il terzo della serie http://discoclub.myblog.it/2013/07/08/ray-manzarek-roy-rogers-atto-finale-twisted-tales-5497222/ ) e ora Roy Rogers si ripresenta con questo nuovo album Into The Wild Blue, pubblicato come di consueto dalla sua etichetta Chops Not Chaps (che era anche il titolo del suo primo album solista uscito nel lontano 1986), ma in mezzo, e anche prima, c’è tutta una vita di blues (e non solo). Il musicista californiano, è nato a Redding, quasi un destino nel nome, muove i primi passi a metà degli anni ’70, poi forma la sua prima band, i Delta Rhytm Kings, viene “scoperto” da John Lee Hooker che lo vuole nel suo gruppo dei tempi, la Coast To Coast Band, dove passa quattro anni, prima di iniziare la carriera solista con l’album citato prima. Ma la sua collaborazione con il grande “Hook” non finisce lì, infatti Rogers gli produrrà quattro album, The Healer, Mr. Lucky, Boom Boom e Chill Out, non un granché l’ultimo, ma gli altri tre sono strepitosi, prima di lasciare a Van Morrison la produzione dell’ultimissimo Don’t Look Back. Comunque Mr. Rogers è un ottimo chitarrista (e cantante) anche in proprio: uno dei maestri della slide guitar delle ultime generazioni, assolutamente alla pari con gente come Ry Cooder, Sonny Landreth, Derek Trucks, anche se meno pirotecnico e virtuosistico nel suo approccio, quindi forse più vicino a Cooder; anche per lui, come quasi per tutti, i suoi album migliori risalgono al passato, tutti quelli con la parola Slide nel titolo, ma anche i due pubblicati dalla Point Blank negli anni ’90, e non è male, tra i più recenti, Split Decision, uscito per la Blind Pig nel 2009, il suo ultimo come solista prima di questo Into The Wild Blue, senza dimenticare quello registrato in coppia con il compianto Norton Buffalo.

 

Il nuovo album propone la solita formula dei dischi di Roy Rogers, un misto di stili, dove confluiscono varie forme di blues, irrobustite da innesti rock e funky, con una serie di brani strumentali, quattro questa volta e il suo stile chitarristico spesso in evidenza, ma senza esagerare. Rogers è anche un buon vocalist, niente di memorabile, si scrive le proprie canzoni e ha un buon gruppo dove spiccano il tastierista Jim Pugh, vecchio sodale di Robert Cray e anche il batterista Kevin Hayes, pure lui in passato con Cray, oltre a Carlos Reyes che con i suoi violino e arpa aggiunge sonorità inconsuete al tutto. Si parte alla grande con Last Go Round, un brano dove si gusta subito la slide di Roy Rogers, in bella evidenza con il suo sinuoso fluire, mentre la band gira a mille, con abilità e tecnica, senza strafare. Don’t You Let Them Win, con un bel groove ritmato tra Buddy Holly e Bo Diddley, la voce pacata e gradevole di Rogers, con Reyes all’arpa che appoggia le fluide evoluzioni chitarristiche di Rogers, per una volta non alla slide, e Pugh che con l’organo aggiunge quel tocco soul-rock in più, molto piacevole.

Got To Believe, ha un’aura latineggiante, ma anche un vago sentore di tango, con il violino di Reyes e la voce di supporto di Omega Rae ad aggiungere quel tocco esotico di cui si diceva qualche riga fa, poi ci pensano la slide sognante di Roy e il piano di Pugh a fare il resto https://www.youtube.com/watch?v=CW9jqlKzHeU . Losin’ You è uno dei pezzi più tirati e rock dell’album, con un tiro non dissimile dalle prove soliste dei dischi di Sonny Landreth e anche con pari virtuosismo, qui la slide viaggia alla grande, mentre She’s A Real Jaguar ricorda certe cose più rilassate, laid-back, di Ry Cooder, magari nelle collaborazioni con Hiatt e nei Little Village, sempre con il piacevole dualismo tra violino e chitarra https://www.youtube.com/watch?v=jrUCll6Cr9s . Dackin’ è il primo dei quattro strumentali, qui si va di groove funky, una voglia di jam tra la chitarra slide decisa di Rogers e l’organo di Pugh e anche Love Is History, di nuovo cantata in coppia con la Rae, rimane in territori funky-soul, questa volta con Pugh al piano a sostenere il solismo di Rogers. Into The Wild Blue, altro strumentale, più sognante, con i florilegi dell’arpa di Reyes a sostenere il leader, con High Steppin’ che ricorda nuovamente le scorribande al bottleneck di Landreth, ricche di tecnica anche se non particolarmente eccitanti. Dark Angels torna  al blues-rock deciso dei brani iniziali e la conclusiva Song For Robert, dedicata al fratello scomparso, è l’ultimo strumentale, questa volta un lento d’atmosfera dove si apprezza il lato più riflessivo della musica di Roy Rogers https://www.youtube.com/watch?v=7ihaCZYmDh8 . In definitiva un buon album, per amanti dei chitarristi, ma non solo!

Bruno Conti