Ormai Con Loro Si Va Sul Sicuro! Randy Rogers Band – Nothing Shines Like Neon

randy rogers band nothing shines like neon

Randy Rogers Band – Nothing Shines Like Neon – Tommy Jackson CD

La Randy Rogers Band, attiva da una dozzina d’anni, è oggi uno degli acts più popolari in Texas, ed anche fuori dai confini del Lone Star State, un successo ottenuto senza mai svendersi o modificare il proprio suono a favore delle classifiche e delle radio di settore.   La band è ormai affiatata, suona a memoria, ed è comprensibile dato che non ha mai avuto cambi di personale: oltre a Rogers, abbiamo i soliti Geoffrey Hill alla chitarra solista, Jon Richardson al basso, Les Lawless alla batteria e Brady Black al violino; il loro suono, un rockin’ country deciso ma con una propensione alla melodia non comune, è maturato disco dopo disco e, dopo la parentesi solista di Rogers insieme a Wade Bowen lo scorso anno con il divertente Hold My Beer, Vol. 1, abbiamo tra le mani il loro settimo album di studio, intitolato Nothing Shines Like Neon.

Chi ha apprezzato le precedenti fatiche della RRB non mancherà di farlo anche con questo lavoro, che forse spinge meno l’acceleratore sul rock ed è un filo più country, anche perché il produttore è il grande Buddy Cannon, uno dei principali artigiani del suono in questo genere, già dietro la consolle in passato per Willie Nelson, Merle Haggard, George Jones, George Strait, Kenny Chesney e moltissimi altri. Nothing Shines Like Neon forse non è il disco migliore della RRB, ma di sicuro insidia le prime posizioni e comunque si colloca ben al di sopra della media delle uscite mensili in ambito country (soprattutto quelle che arrivano da Nashville), grazie anche ad una manciata di ospiti illustri (che scopriremo strada facendo) che aggiunge prestigio ad un  lavoro già più che positivo. San Antone apre il CD, una western ballad molto ben costruita, con una melodia ad alto tasso emozionale, un languido violino ed una ritmica spedita, un inizio forse non roboante ma sincero ed autentico. Rain And The Radio, più diretta e cadenzata, ha elementi più sudisti che texani, ed un bel ritornello limpido, mentre Neon Blues è country-rock d’autore, un bel brano elettrico dal refrain godibile, un tipo di canzone che a Rogers riesce particolarmente bene, con un appeal anche radiofonico ma senza scadere in personalità.

La potente Things I Need To Quit è una ballata elettrica di spessore, nella quale Randy ed i suoi pards suonano distesi e rilassati, ma senza perdere un’oncia di feeling; Look Out Yonder vede Alison Krauss ed il suo collega Dan Tyminski alle armonie vocali, ed il brano è una gentile oasi elettroacustica, con un ottimo ritornello corale, uno dei più riusciti del lavoro, mentre con la tersa Tequila Eyes torniamo sul versante country-rock, anche se non manca una nota di malinconia nel motivo. Takin’ It As It Comes vede il nostro duettare con il grande Jerry Jeff Walker (un pezzo di storia del Lone Star State), un travolgente brano che potrebbe benissimo appartenere al repertorio dell’autore di Mr. Bojangles, puro Texas rock’n’roll; Old Moon New è un languido slow, toccante ed eseguito con grande trasporto, un intermezzo più che gradito, seguito a ruota da un’altra ballata ancora migliore, Meet Me Tonight, che ha un piede negli anni sessanta ed il solito refrain scorrevole. La maschia e grintosa Actin’ Crazy, di e con Jamey Johnson (quindi garanzia di qualità) ed il puro country di Pour One For The Poor One, quasi un honky-tonk rallentato, chiudono l’ennesimo disco positivo per una band sulla quale ormai possiamo contare ad occhi chiusi.

Marco Verdi

Se Ne E’ Andato, Silenziosamente Come Era Vissuto: Un Ricordo Di Steve Young

steve-young

Si allunga sempre di più la lista: è scomparso giovedì 17 marzo in quel di Nashville, all’età di 73 anni, Steve Young, un nome che forse pochi ricordano, è stato uno dei creatori del cosiddetto “outlaw country” (ma non solo): nel 1969 registrò sul primo album Rock, Salt & Nails, quella che sarebbe divenuta la sua signature song, Seven Bridges Road, poi resa celebre nel 1980 dalla versione che apparve sul Live degli Eagles, nell’arrangiamento con cinque parti armoniche vocali, creato per primo dal grande cantautore inglese Iain Matthews https://www.youtube.com/watch?v=mt2IFaCwTKk .

steve young rock salt nails

Non fu ovviamente la sua unica grande canzone, nel secondo album Seven Bridges Road (che ripresentava il brano, poi ripreso da molti altri nel corso degli anni, oltre al citato Matthews, anche Joan Baez, Rita Coolidge, Tracy Nelson, Carter Family, Dolly Parton e nel 2007 da Alan Jackson nel suo Live At Texas Stadium insieme a George Strait Jimmy Buffett) c’erano altre canzoni splendide tra cui Lonesome, On’ry And Mean (resa celebre da Waylon Jennings) Montgomery In The Rain, in un disco registrato con la crema dei musicisti country di Nashville, quelli migliori, Ma nel primo disco, ricordato poc’anzi, suonavano, tra i tanti, James Burton, Gram Parsons, Gene Clark, Chris Etheridge, Richard Greene Bernie Leadon.

steve young seven bridges road

Nel 1975 fu uno dei protagonisti di quel meraviglioso film che si chiamava Heartworn Highways (insieme a Guy Clark, David Allan Coe, Townes Van Zandt, ed ai giovani Rodney Crowell, John Hiatt Steve Earle ,oltre a moltissimi altri che vedete qui sotto nella pellicola)!

Ha circolato poco in DVD, ma se lo trovate in giro non lasciatevelo sfuggire, perché è stupendo. https://www.youtube.com/watch?v=vnryXNLRhhk Negli anni ’70 Steve Young ha pubblicato altri splendidi album come Honky Tonk Man (1975), Renegade Picker (1976) No Place To Fall (1978), ma anche in tutte le decadi successive ha lasciato il segno con una serie di dischi considerati dalla critica tra i migliori del genere e quasi sempre con vendite vicine allo zero, meritandosi l’appellativo ad honorem di “beautiful loser” (e rientrando a pieno diritto nella categoria “Carbonari” che trovate in questo Blog) . L’ultimo disco, un Live registrato nel 2006 e pubblicato l’anno successivo, Stories Round The Horseshoe Bend, lo vede in veste acustica ripercorrere alcuni dei suoi brani migliori, oltre ad altri brani del suo repertorio da folksinger countrty, che rappresentava ciò che in fondo era stato.

steve young stories round

Mi sembrava giusto e doveroso ricordarlo, anche se in ritardo,  a tre giorni dalla sua dipartita. Nelle parole citate dal figlio Jubal Lee Young e tratte da quell’ Alabama Highway che potete ascoltare sopra: “‘Turn supernatural, take me to stars and let me play. I want to be free, Alabama highway.’!

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Anteprima Nuovo Joe Bonamassa, Ormai Una Certezza! Blues Of Desperation In Uscita il 25 Marzo

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Joe Bonamassa – Blues Of Desperation – J&R Records Mascot/Provogue 

Prima di lasciarvi alla lettura della recensione, vi ricordo, anzi vi mostro, che il disco esce in due versioni differenti, con lo stesso contenuto musicale comunque, quella “normale”, che vedete sopra, anche nel prezzo, e quella Deluxe Silver Edition, che ovviamente costerà tra i 2 e i 3 euro in più, che vedete sotto, stessi brani ripeto, 11 per entrambe, quindi, vedete voi, ma mi pare la solita “fregatura” delle case, libretto molto bello (il Bona-Seum?), per l’amor di Dio, ma si compra la musica o il contenuto? Ai posteri l’ardua sentenza.

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Eccoci al consueto appuntamento con il nostro amico Joe Bonamassa: no, non è in ritardo, e neppure, al contrario, fuori media, il precedente disco di studio Different Shades of Blue era uscito a settembre del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/09/10/ebbene-si-eccolo-joe-bonamassa-different-shades-of-blues/ , e in fondo nel 2015 ha pubblicato “solo” due Live, uno strepitoso http://discoclub.myblog.it/2015/04/03/nothing-but-the-blues-and-more-puo-bastare-joe-bonamassa-muddy-wolf-at-red-rocks/ e il CD del side project Rock Candy Funk Party http://discoclub.myblog.it/2015/09/05/attesa-del-nuovo-live-ecco-laltro-bonamassa-rock-candy-funk-party-groove-is-king/ . Prossimamente, sempre per il 2016, è annunciato un disco dal vivo alla Carnegie Hall; e sempre nel corso dell’anno potrebbe uscire anche un nuovo disco con Beth Hart, visto che i due hanno appena partecipato insieme ai concerti della serie Keeping The Blues Alive At Sea.

Nel frattempo godiamoci questo Blues of Desperation, il suo dodicesimo album di studio, in uscita il 25 marzo. Come al solito prodotto da Kevin Shirley, registrato in quel di Nashville, Joe annuncia che per questo album ha cambiato i soliti amplificatori Marshall per passare agli ampli Fender, per ottenere un tipo di suono differente e Shirley ricorda anche che nel disco, in molti brani, sono impiegati due batteristi contemporaneamente per ottenere un sound più corposo e grintoso (pensavo fosse difficile), senza tralasciare momenti più acustici come negli album precedenti. Anche i musicisti sono i soliti, Reese Wynans alle tastiere, Michael Rhodes al basso, Anton Fig alla batteria, affiancato sempre ai tamburi da Greg Morrow, non manca la sezione fiati, Lee Thornburg, Paulie Cerra e Marc Douthit, oltre ad un terzetto di backing vocalists, capitanato da Mahalia Barnes, la figlia di Jimmy, al cui disco Joe aveva partecipato, alzando la quota delle partecipazioni del 2015.

Veniamo alle canzoni, undici in tutto: This Train ti viene addosso come un treno a tutta velocità, la batteria fila veloce, il piano quasi barrelhouse sottolinea il mood del brano e Bonamassa lavora di fino con le sue chitarre, una in modalità slide, l’altra con accordatura normale e le coriste si limitano a sottolineare https://www.youtube.com/watch?v=H-PD7EekUtI . Mountain Climbing, con doppia batteria, è rocciosa, a tutto riff, molto Led Zeppelin style, con la chitarra in primo piano, quasi tirata in faccia all’ascoltatore https://www.youtube.com/watch?v=5jd_jHu97rY , in un solo di cui Jimmy Page sarebbe stato orgoglioso, con Joe che se la cava egregiamente anche nel reparto vocale, ben sostenuto dalle tre voci femminili. Drive, sempre con doppia batteria, è un brano elettroacustico, molto più complesso e raffinato, dall’atmosfera soffusa e ricercata che poi acquista vigore con il dipanarsi della canzone in un bel crescendo, tra rock e blues, come nei migliori pezzi del chitarrista newyorkese, eccellente la sezione ritmica con Michael Rhodes che è un bassista di gran tecnica in grado di interagire con le evoluzioni della solista di Bonamassa, molto misurato in questo brano, mentre l’arrangiamento con voci e organo sullo sfondo è sempre ben equilibrato, grazie anche alla produzione di Shirley che evidenzia tutti gli strumenti.

In un disco con un titolo così qualche escursione nelle 12 battute classiche non può mancare, No Good Place For The Lonely è la prima, una blues ballad lunga e sinuosa, quasi alla Gary Moore, con archi soffusi ad ampliare lo spettro sonoro, tutto finalizzato per l’immancabile solo di Joe, che parte piano e poi diventa lancinante ed urgente nel suo dipanarsi, di nuovo con agganci agli Zeppelin migliori nella parte con wah-wah, grande pezzo! Blues Of Desperation, nonostante il titolo, sta più dalle parti di Kashmir che del Mississippi, anche geograficamente oltre che musicalmente, con influenze orientali inserite su un bel pezzo rock di quelli tosti e quando i due batteristi innestano un ritmo alla Bonzo sul quale Bonamassa strapazza le sue chitarre si gode.

Con The Valley Runs Low ci infiliamo in una oasi di tranquillità, una sorta di soul ballad con contrappunti vocali molto piacevoli e doppia chitarra acustica ben supportata da un piano elettrico intrigante, mentre You Left Me Nothin’ But The Bill And The Blues è un bel pezzo tra blues e R&R, semplice ed immediato, con un breve assolo di piano di Wynans alternato alla solista di Joe; con Distant Lonesome Train che reintroduce di nuovo il tema del viaggio in questo caso si va verso territori blues-rock, sempre sottolineati dal preciso lavoro dei musicisti, veramente bravi a costruire un perfetto groove per le divagazioni della chitarra, che, diciamocelo, in fondo sono il motivo per cui si prendono i dischi di Bonamassa. How Deep This River Runs di nuovo rallenta i tempi, che rimangono comunque intensi e pronti ad infiammarsi con improvvise vampate chitarristiche, mentre quasi alla fine, in Livin’ Easy, arrivano anche i fiati per un blues di quelli duri e puri, molto classico nelle sue sonorità, poi ribadito in uno slow blues à la B.B. King di quelli grandiosi, sempre con uso di fiati, e What I’ve Known For A Long Time va a chiudere in bellezza una ennesima buona prova di Bonamassa, suonacene ancora uno Joe!

Bruno Conti  

Dalla Louisiana A Nashville, Tra Country E Southern. Frank Foster – Boots On The Ground

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Frank Foster – Boots On The Ground – Lone Chief/Malaco Records 

Voce profonda e risonante, ben al di là delle sue 34 primavere compiute da poco, cappello d’ordinanza, Frank Foster, da Cypress Bottom, Louisiana, ma residente da tempo a Nashville, è il prototipo perfetto dell’outlaw singer. I dischi se li scrive (tutte le canzoni sono sue), adesso se li produce anche, con l’aiuto della sua ottima band, è il risultato è un rockin’ country energico, con ampie spruzzate di southern rock, la giusta dose di honky tonk e nessuna concessione al country commerciale e fiacco, misto a pop, che domina in molte recenti produzioni della Music City. Insomma siamo dalle parti del vecchio Waylon Jennings, di Hank Williams Jr., perfino di Steve Earle, senza dimenticare il lato più country del southern, e penso a Charlie Daniels. In definitiva uno di quelli bravi e questo nuovo Boots On The Ground conferma le sensazioni positive che avevano dato i quattro precedenti dischi, tutti rigorosamente pubblicati a livello indipendente, come anche il nuovo album. Registrato ai Welcome To 1979 Studios di Nashville, Tennessee (ma forse come sound si risale ancora più indietro del nome degli studi) il disco ha i canonici dieci brani del classico album country, 37 minuti di musica, forse non molti, ma il giusto per gustare questo disco, che non avrà le stimmate del capolavoro o brani particolarmente memorabili, ma tutta una serie di solide canzoni con una qualità media decisamente buona.

Al tutto giova sicuramente la band di Foster, dove si distinguono i due chitarristi, Rob O’Block e Topher Petersen, entrambi sia all’elettrica come all’acustica, e che sono protagonisti alla pari con la bella voce, maschia ed espressiva del nostro. Si parte subito bene con una Redneck Rock’n’Roll, che tenendo fede al proprio nome è una scarica di energia, con le chitarre a tutto riff, su una ritmica molto southern boogie e la voce potente di Frank, tra Waylon e Charlie Daniels, che si fa largo tra le sferzate soliste dei due chitarristi. Anche Blue Collar Boys, più bluesata e sinuosa, ha comunque energia da vendere, una costruzione più vicina al country classico, che poi si estrinseca a fondo in I-20 Troubadour, dove grazie agli interventi della pedal steel dell’ospite Kyle Everson si vira decisamente verso il puro outlaw country a tempo di honky-tonk. Outlaw Run è una bella ballata, sempre con uso di pedal steel, e con un riff iniziale che ricorda Games People Play di Joe South, per poi diventare un brano avvolgente e di grande pathos, tra i migliori del CD.

In Tuff le chitarre tornano a ruggire, in un pezzo che non ha nulla da invidiare ai migliori ZZ Top (neanche il titolo), con la voce di Foster che assume tonalità alla Billy Gibbons (e pure le chitarre non scherzano), gagliarda. Build A Fire, anche con un bel organo sullo sfondo, ma sempre con le chitarre, pure in modalità slide, pronte a graffiare, è un mid-tempo che entra in circolo subito grazie alla sua grinta. Di nuovo outlaw country per la suggestiva Dear Heroes, evocativa ed incalzante grazie ad un ritornello vincente e alla pedal steel che si prende i suoi spazi insieme alle altre chitarre. Romance In The South, come lascia intuire il titolo è un’altra bella ballata, solo voce e chitarra acustica, con la band che rientra per l’ottima Blow My High (Turkey Song), un altro brano in bilico tra rock classico e country di classe, dal ritmo meno incalzante di altre canzoni ma sempre molto piacevole da ascoltare grazie all’eccellente lavoro dei musicisti di Foster, che ci congeda con la title track, una Boots On The Ground che gli stivali li pianta sempre solidamente sul terreno della buona country music, per un lavoro solido ed onesto.

Bruno Conti    

E Così Finiscono Tutte Le Storie! Richmond Fontaine– You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To

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Richmond Fontaine– You Can’t Go Back If There’s Nothing To  Go Back To – Decor Records/Fluff & Gravy Records

Passata, al momento, l’infatuazione musicale per la cantante Amy Boone, con relativo debutto dei Delines,  lo splendido Colfax (14) http://discoclub.myblog.it/2014/05/18/aspettando-i-richmond-fontainela-sorpresa-del-2014-the-delines-colfax/ , Willy Vlautin, leader storico dei Richmond Fontaine, da Portland, Oregon, dopo cinque anni e un altro romanzo, The High Country, torna ad occuparsi della sua creatura, incidendo un decimo album di studio: questo You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To, che, come annunciato dallo stesso Vlautin, e salvo improbabili ripensamenti, rischia di diventare il loro “canto del cigno”. I Richmond Fontaine si formano nel lontano ’94, quando il cantante e autore Willy Vlautin abbandona la propria città natale Reno, per trasferirsi a Portland (ambiente più idoneo per coltivare i propri sogni artistici), dove incontra il bassista Dave Harding e il batterista Stuart Gartson, completando così la prima “line-up” del gruppo, la stessa che porta alle registrazioni  dell’esordio con Safety (96) e poi a Miles From (97). In seguito le cose cambiano: Gartson viene sostituito da Sean Oldham e viene inserito un quarto elemento, Paul Brainard alla pedal steel,  fatto che incide profondamente sul “sound” della formazione, passando dal frenetico roots-rock degli inizi ad una musica più evocativa, con ballate desertiche, venate di country e psichedelia, elementi che vengono evidenziati nel loro terzo album Lost Son (99). Un altro netto cambio stilistico avviene con Winnemucca (02) primo lavoro di una trilogia imperniata su un America desolata (non dissimile da quella di Son Volt, Wilco, e prima, degli Uncle Tupelo), che li porta ad incidere, a parere di chi scrive, il loro capolavoro assoluto, Post To Wire (04), seguito dal comunque ottimo The Fitzgerald (05). Con alle spalle questa serie di ottimi lavori, Willy Vlautin decide di recuperare una serie di brani dai primi due dischi e dare alle stampe Obliteration By Time, prima di partire per un viaggio che li porterà a toccare 13 città sparse tra Nevada, Utah, New Mexico, Arizona e il nativo Oregon, per il bellissimo Thirteen Cities (07), album che vede come compagni di viaggio componenti dei Calexico e Giant Sand (il meglio sulla piazza, nel genere), per poi cambiare palcoscenico di nuovo per le loro storie metropolitane con l’intrigante We Used To Think The Freeway Sounded Like A River (09), con uno stile dove spiccano sonorità più notturne e folkie, ed infine  approdare all’ultimo lavoro in studio The High Country (11), una sorta di “concept-album” che si sviluppa lungo 17 storie di un unico romanzo virtuale, arrangiate come una colonna sonora cinematografica https://www.youtube.com/watch?v=2-dzBPAA13c .

Per l’ultima recita Willy (chitarre e voce), porta nei Flora Studios di Portland la attuale line-up del gruppo, composta dal produttore e chitarrista John Morgan Askew, Sean Oldham alla batteria e percussioni, Paul Brainard alla pedal steel, Freddy Trujillo al basso, Dan Eccles, alla solista e al piano, e con il contributo di amici di lunga data tra i quali l’ex bassista Dave Harding all’acustica e la tastierista dei Decemberists Jenny Conlee. https://www.youtube.com/watch?v=WucmFCvbve4 Il disco inizia, forse non a caso, con un brano strumentale Leaving Bev’s Miners Club At Down, dove scarni tocchi di chitarra disegnano un suono dolente e di abbandono, per poi passare subito al country-rock di Wake Up Ray, all’incedere straziante di I Got Off The Bus, alla lenta ballata di atmosfera Whitey And Me, con il canto sofferto di Willy, mentre Let’s Hit One More Place (mi duole dirlo) mi sembra il brano meno riuscito del lavoro. Come sempre la voce di Vlautin è avvolgente. Come ad esempio nella melanconica I Can’t Black It Out If Wake Up And Remember (un titolo più corto no? Ma è una domanda platonica in quanto è sempre stata una loro caratteristica), come nella successiva Don’t Skip Out On Me, impreziosita dalla chitarra slide e da coretti soul, passando per il folk geniale di Two Friends Lost At Sea, con la tromba aggiunta di Paul Brainard, per poi ritornare alla ballata quasi recitativa di una acustica Three Brothers Roll Into Town, e al roots-rock dalle tastiere penetranti di Tapped Out In Tulsa. Con lo strumentale The Blind Horse arriva anche una certa sperimentazione, con suoni e atmosfere che rimandano per certi versi anche ai Pink Floyd, e, per l’ascoltatore, è il momento di farsi venire un bel groppo alla gola con la sontuosa ballata notturna A Night In The City, dove il tempo viene dettato da una batteria appena accennata, e chiudere infine alla grandissima, per spegnere la luce, con la pianistica e commovente Easy Run. Sipario!

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Willy Vlautin è un magnifico specialista di “short stories”, e i Richmond Fontaine negli ultimi vent’anni sono diventati una delle realtà musicali più rappresentative e sincere del folto panorama americano, attraverso un “alternative-country” evocativo che ha aiutato a creare quelle ambientazioni desolate, di cui la band da molto tempo si è fatta portavoce, oggi come ieri, pienamente riassunte in questo ultimo You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To. Per chi scrive è bellissimo quando un disco lascia trasparire certe emozioni, è gratificante appurare che si tratta di un lavoro sincero e che raggiunge il profondo dell’anima, e se avrete voglia di approfondire a ritroso il percorso musicale di questa magnifica band, forse riuscirà a fare lo stesso effetto anche a voi, oltre a farvi ritrovare i personaggi e le storie, che, come lo stesso Wlautin ha dichiarato, voleva portare a conclusione in questo ultimo album.

Per quanto mi riguarda, so già che mi mancheranno. Grazie ragazzi.!

Tino Montanari

NDT: Per informazione: i Richmond Fontaine saranno in tour nel nostro paese fra Settembre e Ottobre di quest’anno, con date ancora da confermare. Non mancate!

Come Si Suol Dire: Bravo, Bella Voce, Ma Basta? Ben Arnold – Lost Keys

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Ben Arnold – Lost Keys – Blue Rose/Ird 

Ben Arnold non è uno nuovo, anzi, da venticinque anni sulle scene, sette album alle spalle, questo Lost Keys sarà l’ottavo, il secondo per la Blue Rose, l’etichetta tedesca che pubblica anche i dischi degli US Rails, il mini supergruppo dove Arnold milita insieme a Tom Gillam, Joseph Parsons, Scott Bricklin, che suona anche il basso in un brano del disco e Matt Muir, che suona la batteria in tutto l’album. Gli US Rails sono nati come una sorta di versione 2.0 di CSN&Y, fatte le dovute proporzioni (ma comunque i dischi sono belli). sia come genere, sia per il fatto che tutti i 5 componenti della band cantano e scrivono le canzoni. Ora che il gruppo si è preso un periodo sabbatico, Arnold ne ha approfittato per pubblicare il suo ennesimo disco da solista e a breve seguiranno anche quelli di Bricklin (addirittura in uscita in contemporanea lo stesso giorno) e Gillam, anche questo già uscito, e probabilmente il migliore del lotto. Il cantautore di Philadelphia (dove in vari studi della zona è stato registrato il CD), continuando il parallelo con Crosby e Co., potrebbe essere lo Stills della situazione: voce roca, sofferta e vissuta, ma a ben guardare, anzi ascoltare, Arnold appartiene più alla categoria blue eyed soul, Memphis rock, perfino blue collar, con reminiscenze vagamente springsteeniane – forse nell’insieme le “chiavi musicali perdute” citate nel titolo del disco? – ma gli artisti a cui è più vicino, sia come tipo di voce che come stile direi che sono Joe Cocker e Randy Newman, e anche qualche tocco alla John Hiatt https://www.youtube.com/watch?v=2plFWM2xvBQ

Soprattutto con il secondo ci sono molti punti di contatto: entrambi suonano il piano, hanno una voce che a tratti suona sardonica e anche quando canta d’amore, come Ben  fa spesso, le sue canzoni sembrano arrivare a sorpresa da una strada laterale. Prendiamo il brano d’apertura Stupid Love https://www.youtube.com/watch?v=4cHdeV9vnHQ , che pare provenire da una session di Little Criminals, Trouble in Paradise o Bad Love, comunque dagli album più “rock” di Newman, però con una forte patina di musica nera, arrangiamenti di archi e fiati, pezzi ricchi di armonie vocali e suggestioni Tamla Motown o Philly sound, vista la città di provenienza di Arnold, con tastiere molto presenti e le chitarre di Matt Kass e Eric Bazilian (esatto, proprio quello degli Hooters) che punteggiano la voce leggermente passata con la carta vetrata del nostro amico. Cannonball potrebbe in effetti essere un brano del Joe Cocker anni ’80, quello di You Can Leave Your Hat On, non a caso scritta da Newman, mentre Don’t Wanna Loose You, con Bricklin al basso, e organo Hammond e un altro chitarrista aggiunti alla band, vira verso un blue eyed soul quasi alla Donald Fagen, magari senza la classe e l’inventiva del leader degli Steely Dan, ma ciò nondimeno molto piacevole ed accattivante, che è un poco la caratteristica di tutto l’album, al quale probabilmente mancano quelle sferzate di genio per alzarne il livello qualitativo.

Nobody Hurtin’ Like Me è una bella ballata, di nuovo con quella aria falsamente svagata delle canzoni di Newman e Detroit People un omaggio alle persone che lavorano nella Motor City, ma anche alle classiche canzoni Motown come avrebbe potuto cantarle Joe Cocker se si fosse cimentato con quello stile. One Heart ha un che di vagamente springsteeniano nel suo andamento, le ballate piano-organo del periodo di The River, al solito arricchita da fiati ed archi, anche se manca quel guizzo che contraddistingue il fuoriclasse, bello l’assolo di chitarra comunque. Forbidden Drive è un’altra languida soul ballad, un filo troppo zuccherosa e Freedom schiaccia ancora di più il pedale verso un moscio sound anni ’80 alla Michael McDonald e l’aggiunta dell’armonica non è sufficiente a salvare il risultato. It’s a jungle out there, con un sax alla Clarence Clemons cerca di nuovo di evocare lo spirito delle canzoni più piacevoli del Boss citato poc’anzi, e questa volta in parte ci riesce. A concludere When Love Fades Away, un brano che come ha evidenziato qualcuno ricorda quel sound alla Hall & Oates, o alla Simply Red, aggiungo io, che forse non è proprio il massimo della vita, anche se ha i suoi estimatori. Quindi, sufficienza globale per l’album, soprattutto per la prima parte, ma poi nel prosieguo, come diceva Arbore, s’ammoscia, s’ammoscia.

Bruno Conti

Si Era Solo Preso Una Breve Pausa! Dub Miller – The Midnight Ambassador

dub miller midnight ambassador

Dub Miller – The Midnight Ambassador – Smith Entertainment CD

Alzi la mano chi si ricorda di Dub Miller? Texano, esordì nel 2001 con l’ottimo American Troubadour, subito bissato l’anno successivo con l’altrettanto valido Post Country, entrando nel novero dei nomi più brillanti di quel movimento nato a cavallo tra Oklahoma e Texas e chiamato Red Dirt. Poi silenzio assoluto fino ad oggi (solo un live nel 2015, ma con registrazioni del 2002), un lunghissimo periodo durante il quale il nostro ha tentato prima di laurearsi in giurisprudenza (ma abbandonando di fatto i corsi al secondo anno) e poi di intraprendere la carriera di promoter ed organizzatore di concerti, anche qui con poco successo. Dub deve poi aver capito che il meglio è in grado di darlo soprattutto come cantautore, dato che ha finalmente deciso di tornare a fare musica, e pubblicando il suo primo album di brani originali in 14 anni, intitolandolo The Midnight Ambassador: quasi tre lustri lontano dalle scene è un periodo che sarebbe lunghissimo anche per una star affermata, figuriamoci per uno che non aveva neppure raggiunto lo status di artista di culto. Roba da stroncare sul nascere una carriera, specie in tempi come quelli odierni dove tutto viaggia velocissimo e non c’è il tempo di aspettare chi rimane indietro: ma Miller non si è spaventato, ha inciso le sue canzoni con calma e nel modo in cui voleva lui, e le ha pubblicate solo quando se lo sentiva, ed il risultato finale è decisamente riuscito, in quanto The Midnight Ambassador è un signor disco di puro songwriting country texano, una collezione di canzoni (undici) che ci restituisce un musicista che nonostante l’assenza dalle scene non ha perso lo smalto, come se questo nuovo lavoro fosse stato registrato un anno dopo Post Country.

Dub alterna brani country-rock diretti e fruibili a ballate profonde, ed è proprio in queste ultime che eccelle, in quanto è uno che sa scrivere, ha feeling, senso della musica, ed in più la vita non è che  gli abbia dato grandi soddisfazioni: i suoi colleghi però non si sono dimenticati di lui, dato che nell’album suonano personaggi come Cody Braun (uno dei due fratelli leader dei Reckless Kelly), il grande Lloyd Maines (il più grande produttore texano, che però qua si “limita” a suonare la steel guitar), il noto songwriter e musicista di Nashville Scott Davis, mentre il produttore è Adam Odor, uno che in carriera ha collaborato con Ben Harper, Jason Boland e Cody Canada. Il disco è stato registrato in parte in Texas, a Wimberley, ed in parte agli Abbey Road Studios di Londra. L’album non parte col botto, ma in maniera molto intensa con Things I Love About You, una sinuosa e toccante ballata, impreziosita dall’interpretazione ricca di pathos da parte di Dub e dagli ottimi interventi di steel (Maines) e violino (Braun). La mossa Broken Crown mi ricorda parecchio (anche il timbro vocale è simile) un brano alla Tom Russell, quel misto tra rock, western e Messico tipico del cowboy di Los Angeles: la splendida melodia ed il ritmo sostenuto rendono la canzone ancor più coinvolgente; The Day Jesus Left Odessa (bel titolo) è uno slow dal motivo decisamente emozionante, che ci mostra che il nostro è un autore forse non prolifico ma decisamente dotato di talento: uno dei pezzi più belli che ho ascoltato ultimamente (e non solo country). Mandi Jean ha curiosamente un refrain springsteeniano, anche se l’accompagnamento non ha nulla a che vedere col Boss (però con quel titolo!).

Charlie Goodnight, che inizia per voce, chitarra e violino (ma poi entra anche il resto della band, anche se in punta di piedi), ci conferma che il nostro si trova particolarmente a suo agio con le ballate: brano fluido e disteso, anch’esso tra i più riusciti; Comfortably Blue è invece un country-folk diretto e saltellante, che si apprezza fin dalle prime note: il bello di questo disco, oltre alle canzoni, sono gli arrangiamenti puliti ed essenziali, come se Dub avesse capito che a volte il meglio lo si ottiene per sottrazione. La cadenzata The Last Church Bell è caratterizzata da un gustoso botta e risposta voce-coro, mentre Taking Our Sunshine Away è il pezzo più elettrico del disco, un rockabilly texano al 100%, seguito senza soluzione di continuità da Big Chief Tablet, uno scintillante country-rock e dotato ancora di gran ritmo. Il CD termina con Ain’t No Cowboy, una western song dal tono epico, cantata con il giusto grado di drammaticità e suonata con grande perizia, e con la title track, un finale dai colori crepuscolari, ancora dominato da violino e steel.

Quattordici anni di assenza è un periodo lunghissimo, ma sembra che Dub Miller sia tornato più bravo di prima: speriamo soltanto che stavolta rimanga.

Marco Verdi

E Questi Da Dove Sono Sbucati? Various Artists – Golden State Psychedelia

golden state psychedelia

Various Artists – Golden State Psychedelia – Big Beat/Ace 

Nel corso degli anni sono uscite decine, forse centinaia, di compilations dedicate alla musica psichedelica e garage americana, la più famosa è la serie Nuggets, curata da Lenny Kaye, ma pure i due cofanetti quadrupli della Rhino sulla scena di San Francisco e Los Angeles, o i vari album dedicati ai gruppi texani dalla International Artists sono fondamentali per conoscere questa musica, e anche in Inghilterra, soprattutto attraverso l’etichetta Big Beat del gruppo Ace (e parecchie altre meno note), sono usciti molti CD dedicati a questo fenomeno musicale di fine anni ’60. Non stiamo ad addentrarci troppo nel filone che è complesso, perché rischiamo di non uscirne vivi. Diciamo solo che vanta molti estimatori, ancorché di nicchia, e passiamo oltre. Il titolo dell’album in questo caso spiega molte cose: Psychedelia è piuttosto chiaro, Golden State è il nome degli studi di registrazione fondati da Leo De Gar Kulka in quel di San Francisco nel 1965: Kulka era un ex agente dei servizi segreti americani nella II guerra mondiale, di origine cecoslovacca e con una passione sfrenata per gli aspetti audiofili della musica, da qui l’idea di creare degli studi di registrazione nella nascente industria discografica californiana, quando ancora le grandi case non avevano i loro studios, che sarebbero arrivati verso la fine dei sixties.

Comunque se volete leggervi tutta la storia, all’interno del CD c’è un libretto molto esauriente, a cura del giornalista Alec Palao (grande esperto della materia) che racconta tutti gli avvenimenti con dovizia di particolari e che è quasi più bello dei contenuti del disco, quasi. Come recita la fascetta sul retro copertina stiamo per addentrarci in “ rare o mai pubblicate gemme psichedeliche pescate dagli archivi dei Golden State Recorders Studios di San Francisco nei tardi anni ‘60” e questo può bastare. Le cose che ci interessa conoscere sono fondamentalmente due: primo, la qualità sonora è veramente eccellente, in quanto gli studi di Kulka erano quanto di meglio la tecnologia di allora era in grado di offrire, secondo, i nomi dei gruppi sono sconosciuti ai più, per quanto alcuni brani erano usciti in una compilation della Big Beat pubblicata nel 1997, What A Way To Come Down che faceva parte della serie Nuggets From The Golden State. Il sottoscritto tra i nomi presenti ricorda solo, ma a fatica, The Immediate Family, che erano nel dischetto chiamato “Suburbia” del box della Rhino Love Is The Song We SIng, dedicato alla scena di San Francisco. Ma di tutti i tredici gruppi presenti, per un totale di 25 brani, ci si meraviglia che non siano riusciti a pubblicare degli album nel dipanarsi del loro percorso musicale.

Abbiamo The Goody Box, che venivano da Pacifica, con due ottimi brani, Blow Up, tra organi sognanti e chitarre “fuzzate”, e Ah Gee, meno frenetica ma sempre molto psych (e ci mancherebbe). The Carnival, da LA, che avevano il clavinet come strumento solista, sono presenti con tre pezzi, caratterizzati da belle e complesse armonie vocali. I Tow-Away Zone, tra i più acidi, che pubblicarono un singolo per la Epic nel 1968, la qui presente Shab’d, più Daddy’s Zoo Song, The Bristol Boxkite, con ben quattro brani presenti nella compilation, sono tra i più interessanti e, insisto, ci si meraviglia come mai non pubblicarono un album, Sunless Night, Mad Rush World, Chasing Rainbows e Who Are We rivaleggiano con il meglio della produzione di quegli anni, con un interessante dualismo tra una voce solista maschile ed una femminile. I citati Immediate Family, due brani, sono più corali e sempre affascinanti, mentre The Ticket Agents, Magician con la “maligna” Fuck For Peace, The Seventh Dawn, con Don’t Worry Me, incisa nel 1970 ma ancora in mono, però molto bella, The Royal Family e The Gants, tutti presenti solo con una canzone, hanno comunque un loro perché. The Short Yellow, già presenti con entrambi i brani nel CD del 1997, molto validi, come pure Celestial Hysteria,  presenti con due brani, che suonarono anche al Fillmore e hanno un cantante che ricorda Marty Balin. Ottimi anche Royal Family, da Los Angeles, anche loro tra i tanti che Kulka e il suo tecnico del suono Larry Goldberg presentarono a varie etichette senza arrivare a pubblicare un disco, e pure i Just Slightly Richer, con tracce R&B nella loro musica, non erano male. Direi che li abbiamo citati tutti, disco di nicchia, nomi sbucati dal nulla, e che lì sono tornati, ma se amate il genere, vale assolutamente la pena.

Bruno Conti        

Non Solo Figli Di Papà, Ma Anche Ottima Musica! Una Piccola Cronistoria Dei Pines.

pines above the prairie

Pines – Above The Prairie – Red House Records 2016

Pines – Dark So Gold – Red House Records 2012

Pines – Tremolo – Red House Records 2009

Pines – Sparrows In The Bell – Red House Records 2007

Pines – The Pines – Trailer Records 2004

Dobbiamo ringraziare Bo Ramsey storico collaboratore, autore, produttore, chitarrista (anche di Joan Baez e Lucinda Williams) ma principalmente amico e sodale di Greg Brown, se abbiamo scoperto i Pines, una indie-band originaria dello stato dello Iowa, ma di stanza nel Minnesota. In pista da più di  una decade, i Pines nascono come un trio, formatosi nel lontano 2002 per merito del cantante-chitarrista David Hulkfelt, e dei multi-strumentisti Benson e Alex Ramsey (entrambi figli di cotanto padre), cresciuti e abbeverati musicalmente alle radici del country, del folk e del blues.

pines the pines

Il loro esordio con l’etichetta Trailer Records, prodotto guarda caso da Bo Ramsey, avviene con l’omonimo The Pines (‘04), un lavoro con brani up-tempo folk rock, che vedeva coinvolti amici e colleghi musicisti, tra i quali il bravo David Zollo (visto recentemente in concerto a Pavia), Dave Moore e Pieta Brown (figlia di Greg Brown) alternando brani strumentali con il bluesy folk di Bound The Fall, la dolce melodia di Pale White Horse, e le svisate blues più accentuate di Stevenson Motel Breakdown.

pines sparrows in the bell

Dopo qualche anno di gavetta si accasano alla Red House Records (l’etichetta fondata da Greg Brown) e incidono Sparrows In The Bell (07) con brani in gran parte acustici e di atmosfera, contando ancora sull’apporto della chitarra di Bo, e avendo come ospiti musicisti di valore tra i quali Chris Morrissey della band di Andrew Bird, J.T.Bates, e il cantautore Mason Jennings, album che ha i suoi momenti memorabili nel decadente blues di Don’t Let Me Go e Careless Love, il lieve country-folk di Midnight Sun e Circle Around The Sun, e il delicato bluegrass dell’iniziale Horse & Buggy.

pines tremolo

Con Tremolo (09) prosegue il percorso indie-rock, ma anche folk dei Pines, disco dove spiccano Heart & Bones https://www.youtube.com/watch?v=lyQ5FZ9y51s , due ballate lente e sussurrate come Meadows Of Dawn e Shiny Shoes, e cover d’autore come Skipper And His Wife di John Koerner e Spike Driver Blues del grande Mississippi John Hurt. Con la produzione sempre di Ramsey babbo, negli anni i Pines diventano una vera e propria band con l’aggiunta di Michael Rossetto al banjo, J.T.Bates alla batteria, James Buckley al basso e il chitarrista Jacob Hanson.

pines dark so gold

E con il quarto lavoro Dark So Gold (12) i ragazzi alzano l’asticella: a partire dall’ottima Cry Cry Crow, un brano che tanti osannati gruppi oggi non sanno più scrivere https://www.youtube.com/watch?v=3ZbcWxWCGqE , i dolci accordi di una strumentale Moonrise, Iowa, le note elettriche di un blues moderno in Rise Up And Be Lonely, una ballata dolceamara come Be There In Bells dove si rincorrono il piano e una slide guitar, fino ad arrivare al vivace folk -rock di una solare Chimes.

Adesso arriva sul nostro lettore questo Above The Prairie, e i Pines sono pronti a fare il botto, e per farlo si sono chiusi in sala d’incisione oltre ai due leader David Hulkfelt chitarra acustica e voce, e Benson Ramsey chitarre, tastiere e voce, il fratello Alex Ramsey al pianoforte e voce, di nuovo J.T.Bates alla batteria, James Buckley al basso, Jacob Hanson alle chitarre elettriche, Michael Rossetto al banjo, e una schiera di ospiti capitanati dal violinista Ray David Young (membro dei Trampled By Turtles), Tim Britton flauto e pipes, il compianto John Trudell (grande musicista nativo americano, poeta e attivista, scomparso da poco), Iris DeMent, e il non trascurabile apporto della famiglia Brown (Greg (padre), Pieta e Constie (figlie e sorelle), e per quanto riguarda la produzione la lascio indovinare a chi legge.

Come nei lavori precedenti le dieci tracce di Above The Prairie si suddividono in canzoni e brani strumentali, entrambi di notevole fattura. Il brano d’apertura Aerial Ocean si differenzia subito dalle altre canzoni, con una melodia che dà supporto alla voce del cantante su tematiche care a Mark Knopfler, a cui fanno seguito la bella There In Spirit dall’incedere “folkeggiante”, il primo brano strumentale del lavoro Lost Nation, con delle note che disegnano una musica da “paesaggi lunari”, e la ritmata Hanging From The Earth, dove il pianoforte di Alex si mescola con i battiti della batteria. Con Here arriva la perla del disco, con un intro lento del pianoforte, che poi nello sviluppo si tramuta quasi in un inno di stampo “celtico”, pezzo che vede il violino di Young svolazzare sulle armonie vocali della brava Iris DeMent e il resto della famiglia canterina di Greg Brown, mentre un bel vortice di suoni accompagna in tutto il suo percorso Where Something Wild Still Grows, passando poi ad una tenue e sussurrata Sleepy Hollow, che introduce il secondo brano strumentale Villisca, dove emerge la bravura di Britton alle cornamuse, e una “dylaniana” Come What Is dal suono indie-folk. L’album si chiude con un’epica ballata Time Dreams, che vede la partecipazione di John Trudell e dei suoi Quitman (probabilmente si tratta del suo testamento musicale, è morto il giorno 8 Dicembre dello scorso anno), con la splendida voce narrante di John che recita pensieri spirituali e profondi, “sopra la prateria”.

I Pines (il nome è inspirato a In The Pines , una canzone della tradizione folk degli Appalachi) con questo Above The Prairie, chiudono idealmente un percorso iniziato con Sparrows In The Bell e soprattutto Tremolo e Dark So Gold (quelli che li hanno fatti conoscere non solo al pubblico del Midwest). Il passaggio fondamentale è stato l’inserimento di altri strumenti, tra cui chitarra elettrica, basso e batteria, oltre all’uso determinante del pianoforte e violino, a completamento di testi fortemente introspettivi, che tendono a creare composizioni sicuramente eterogenee, magistralmente giocate sulle voci particolari di Ramsey e Huckfelt. In conclusione Above The Prairie è un ottimo disco, suonato e arrangiato benissimo, con una band assolutamente da scoprire e amare, e per chi scrive si tratta della seconda “rivelazione” di inizio anno, dopo l’album di Marlon Williams http://discoclub.myblog.it/2016/02/11/vecchio-nuovo-debutto-bollino-blu-marlon-williams-marlon-williams/ .

NDT: Ascoltando questi dischi ho mi è parso di cogliere anche qualche similitudine con gli ultimi lavori dei Lowlands dell’amico Ed Abbiati, e questo deve certamente suonare a favore di Ed e del suo gruppo, in quanto forse non è da tutti avere alle spalle la distribuzione di una etichetta piccola ma gloriosa come la Red House, e la produzione di “babbo” Bo.!

Tino Montanari

Supplemento Della Domenica: Ritorna Uno Dei Grandi Classici Del Blues Anni ’60, In Edizione Riveduta E Corretta! Magic Sam – Black Magic

magic sam blues band black nagic with bonus

Magic Sam Blues Band – Black Magic (Deluxe) – Delmark/Ird

Questo è uno dei classici dischi di blues che si devono avere, uno di quelli da 4 stellette. Se poi, come ha fatto la Delmark, è stato pure rimasterizzato e potenziato con ben 8 tracce extra, di cui due inedite in assoluto, diventa indispensabile: bella anche la confezione digipack. Oltre a tutto gli altri sei brani, che sono alternate takes o brani non pubblicati, si trovavano solo su Magic Sam Legacy, una raccolta di materiale inedito uscita in CD nel 2008, e che forse non tutti hanno, ma acquistano ancora maggior significato aggiunti a queste sessions, registrate tutte tra  il 23 ottobre e il 7 novembre del 1968, proprio per questo Black Magic, e poi non utilizzate. Il disco fu il canto del cigno per Samuel Maghett, in arte Magic Sam, che sarebbe morto il 1° dicembre del 1969, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’album, a soli 32 anni, in modo inatteso (per un attacco cardiaco), ma forse non imprevisto, visto il regime di vita che avevano molti musicisti all’epoca, a soli 32 anni. In seguito la sua leggenda è stata alimentata con molte pubblicazioni postume, ma a ben guardare, il musicista nato a Grenada, Mississippi, ma tipico rappresentante del West Side Blues di Chicago, in vita ha pubblicato solo due dischi, West Side Soul e questo Black Magic.

Mi lancio, con Freddie King, Buddy Guy e Otis Rush, è stato probabilmente uno dei più grande chitarristi della saga del blues elettrico di quegli anni: certo Albert King e B.B King erano anche grandi chitarristi, ma pure autori e cantanti sopraffini, delle vere icone nella storia delle 12 battute, Magic Sam, anche se era comunque un eccellente vocalist, verrà ricordato soprattutto come un formidabile solista https://www.youtube.com/watch?v=_7ZS22vc4Os . Il disco, prodotto da Bob Koester, che firma anche delle nuove note per la ristampa potenziata del CD, si avvale di un grandissimo gruppo di musicisti che suonano nell’album: Eddie Shaw, al sax tenore, Lafayette Leake al piano, Mighty Joe Young, alla seconda chitarra, Mac Thompson al basso e Odie Payne, Jr., alla batteria. Una (ri)edizione da mettere lì, religiosamente, sul vostro scaffale, a fianco del recente Live At The Avant Garde, June 22 1968, pubblicato sempre dalla Delmark nel 2013. Il suono, già buono nella versione originale da 10 brani, è stato ulteriormente migliorato, e quindi si possono godere a fondo le evoluzioni di Magic Sam e dei suoi amici: partenza sparata con la gagliarda e ritmata I Just Want A Little Bit, brano scritto da Roscoe Gordon, dove si iniziano da subito ad apprezzare anche le componenti R&B e soul presenti in grande copia nella musica di Maghett, eccellente voce di stampo soul, come viene ribadito nella incalzante You Belong To Me, un brano che ha profumi Stax, mentre What I Done Wrong, pur se ritmata, ha il classico suono Chicago Blues, con la chitarra dalle tinte semplici e lineari, ma sempre pronte a quel classico suono lancinante della scuola del blues urbano https://www.youtube.com/watch?v=m8f2eFHGD8E , poi ribadite nella cadenzata Easy Baby, che porta la firma di Willie Dixon, o nel tipico slow blues It’s All Your Fault, Baby, che viene dalla penna di Lowell Fulsom, con il solito cantato ricco di enfasi di Magic Sam, che, ben sostenuto da sax e piano, rilascia un assolo di una semplicità e di una classe disarmanti.

Same Old Blues è il classico di Don Nix,  brano che era anche nel repertorio di Freddie King e Jimmy Witherspoon, qui in una versione pimpante che ricorda molto il suono di dischi tipo Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, mentre You Dont Love Me, Baby di William Cobb, senza il baby nel titolo, sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia dal vivo degli Allman Brothers, il riff inconfondibile è quello, ovviamente senza la potenza rock che gli avrebbero dato gli amplificatori Marshall da lì a poco. San-Ho-Zay, era uno degli strumentali tipici di Freddie King, sempre in bilico tra blues e R&B, con la chitarra di Magic Sam che disegna le sue perfette linee soliste; altro slow blues di quelli lancinanti è You Better Stop! You’re Hurting Me, tra le migliori interpretazioni in assoluto di Magic. Il disco originale si chiudeva sulla versione di Keep On Loviing Me, brano del “collega” Otis Rush, un bello shuffle dal suono cristallino. Tra le 8 bonus, molte alternate takes, What I Have Done Wrong, due volte, I Just Want A Little Bit, Same Old Blues, Everything’s Gonna Be Alright, uno dei suoi classici, che era uscito come singolo per la Cobra, e i due inediti assoluti, Keep On Doin’ What You’re Doin’,altro brano di puro Chicago Blues, e Blues For Odie Payne, uno slow strumentale dove si apprezza tutta la tecnica sopraffina di Magic Sam e dei suoi eccellenti comprimari. Per chi ama il blues, ribadisco, indispensabile, ma tutti ci facciano un pensierino!

Bruno Conti