In Memoria Di William Shakespeare, Succedeva 400 Anni Fa! Paul Kelly – Seven Sonnets & A Song

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Paul Kelly – Seven Sonnets & A Song – Cooking Vinyl Records

Dopo una trentina d’anni di carriera, avere registrato una ventina di album in studio, due album live, e diverse colonne sonore da film (i più noti Lantana e Jindabyne) Paul Kelly cantautore australiano, per chi scrive, non ha raccolto fuori dalla sua isola natia nemmeno la metà di quello che ha seminato; in compenso nel tempo ha raggiunto una maturità che gli permette di narrare eventi. anche antichi (come in questo caso) e moderni, con una forte personalità e senza scendere a compromessi. Questo mini-cd Seven Sonnets & A Song è uscito volutamente, prima in Australia, poi, in questi giorni (il 23 Aprile 2016 per la precisione), per celebrare il 400° anniversario della morte di uno dei più grandi (se non il più grande) drammaturgo e poeta di tutti i tempi, William Shakespeare, di cui il buon Paul è un grande estimatore.

rufus wainwright take all my loves

 

*NDT.: La stessa operazione per dovere di cronaca è stata fatta anche da Rufus Wainwright con Take All My Loves: 9 Shakespeare Sonnets, ma con un risultato, è un parere personale, a tratti, sinceramente imbarazzante (*NDB. Non mi sembra così orribile, ma rispetto il parere).

I sette sonetti sono stati registrati negli ultimi diciotto mesi in vari studi di registrazione, dove Paul Kelly, come al solito, si è avvalso dei membri della sua band, Peter Luscombe, Bill McDonald, Ash Nylor, Cameron Bruce, e le sue “storiche” coriste le sorelle Vika e Linda Bull, e come ospiti Lucky Oceans e Alice Keath.

Data la particolarità del lavoro, mi sembra giusto sviluppare i brani “track by track”:

Sonnet 138 – La prima traccia sorprendentemente è un interpretazione “jazzy”, con una batteria spazzolata, cantata da Paul come se si trovasse a tarda notte in un Piano Bar.

Sonnet 73 –  Contrariamente al brano precedente, qui si respira un suono “anni sessanta” che sembra uscire dai primi vinili di Donovan, impreziosito da una slide guitar.

Sonnet 18 –  Chiaramente la traccia migliore del mini CD, un pezzo affascinante che parte come un madrigale, per poi trasformarsi in un motivo dei monti Appalachi, e un cantato da “crooner”.

My True Love Hath My Heart – L’unico pezzo non “shakesperiano” scritto dal suo contemporaneo Sir Philip Sidney, con una “performance”delicata e commovente della signora Vika Bull.

Sonnet 44 and 45 – Ballata pianistica dove la bravura di Kelly come vocalist viene messa in risalto, con un’armonica finale che strappa lacrime.

Sonnet 60 – Inizio acustico, poi la canzone si apre e una melodia avvolgente disegna una “murder ballad” alla Nick Cave, valorizzata ai cori dalle sorelle Bull.

O Mistress Mine (Clown’s Song From Twelfth Night – E’ la canzone che chiude questa splendida breve raccolta, la “Canzone Del Clown” tratta dalla commedia La Dodicesima Notte, una filastrocca tenue suonata in punta di dita, cantata con cuore e sentimento da un grande artista.

Di questo signore ho già parlato più volte su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/tag/paul-kelly/ , anche se ci vorrebbe molto più spazio per raccontare la storia di questo cantautore, un vero mito down under (per esempio come è Bruce Cockburn per il Canada), che riesce di nuovo a sorprenderci con questo breve ma intenso Seven Sonnets & A Song, dove dimostra ancora una volta di essere un grande “tessitore” di canzoni, che aggiunte a tutte le altre tratte dal suo immenso “songbook”, sono la colonna sonora di una intera Nazione.!

Tino Montanari

Queste Sono Le “Pop Songs” Che Ci Piacciono! Iggy Pop – Post Pop Depression

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Iggy Pop – Post Pop Depression – Caroline/Universal CD

In America uno come Iggy Pop viene definito “larger than life”: cantante e attore, personaggio di grande carisma (la sua immagine di rocker che si esibisce sempre a torso nudo è ormai un’icona), è sempre stato considerato da certa critica quasi un artista di secondo piano, una fusione con meno talento tra David Bowie e Lou Reed (i due modelli a lui più vicini, e anche suoi grandi amici, per quanto si potesse essere grandi amici di Reed), complice anche una carriera altalenante e, specie negli anni settanta, condizionata dall’uso massiccio di sostanze non proprio consigliabili. Ci si dimentica spesso che Pop (vero nome James Newell Osterberg) agli inizi è stato un innovatore, in quanto il suo primo gruppo professionale, gli Stooges, è unanimemente riconosciuto come il vero precursore, con quasi dieci anni di anticipo, del punk (e con fans insospettabili, come per esempio Madonna): in particolare dischi come Fun House e Raw Power ancora oggi sono dei veri e propri pugni nello stomaco, due album di rock talmente diretto e viscerale da far sembrare anche la più cruda garage band come un gruppo acqua e sapone. Nella seconda metà dei settanta Iggy ha poi esordito come solista collaborando proprio con Bowie durante il suo periodo berlinese, e pubblicando quelli che ancora oggi sono i suoi due album più popolari, The Idiot e soprattutto il famoso Lust For Life, che conteneva classici come la title track e la splendida The Passenger (uno dei brani più belli della decade): due dischi che però non ebbero un grande successo (il nostro non è mai stato un million seller, ed è sempre andato meglio nel Regno Unito che in patria, rimanendo comunque in uno status di cult artist) e ciò ha sicuramente contribuito a farlo precipitare ancora di più nelle braccia della droga, oltre a pubblicare altri lavori di ancor minore riscontro.

Negli anni ottanta una leggera risalita, specie con l’album Blah! Blah! Blah! (che conteneva il singolo Real Wild Child, ad oggi il suo miglior successo in classifica), nel quale Iggy si cimentava con un pop (minuscolo) tipico dell’epoca, e poi l’entrata nei novanta con tre dei suoi lavori migliori (Instinct e soprattutto Brick By Brick ed American Ceasar), nei quali tornava a proporre un rock molto aggressivo e punkeggiante, con punte quasi hard. Anche in seguito Iggy non ha mai smesso di fare dischi, fino ai giorni nostri (inclusa una reunion con gli Stooges per vari concerti e due discreti album, The Weirdness ed il recente Ready To Die), ma sembrava un po’ uscito dai radar del pubblico e della critica. Ma un vecchio leone ha sempre in serbo una zampata, ed ecco che il nostro Iguana (da cui il diminutivo Iggy) fa uscire quello che, a sentire lui, potrebbe essere il suo ultimo lavoro, e se è così devo dire che si tratta di un commiato davvero notevole. Post Pop Depression vede infatti il nostro tirato a lucido, alle prese con nove brani duri, viscerali, diretti ed anche amari: di sicuro l’età che avanza e la perdita di alcuni amici (fra cui appunto Reed e Bowie) non hanno contribuito certo a conferire ottimismo ad un artista che è sempre stato un po’ dark, ma qui ci troviamo di fronte ad una scrittura solidissima e ad una serie di canzoni moderne ma classiche nello stesso tempo.

Iggy si fa aiutare da una sorta di supergruppo, con i nomi e le facce dei componenti messi in evidenza fin dalla copertina, come se fosse una vera band: innanzitutto il vulcanico Josh Homme, leader dei Queens Of The Stone Age e dei tristemente famosi Eagles Of Death Metal (ma anche membro del supertrio Them Crooked Vultures con l’ex Nirvana Dave Grohl e l’ex Led Zeppelin John Paul Jones), che oltre a suonare chitarre, basso, tastiere e quant’altro ha scritto le canzoni insieme ad Iggy e si occupa della produzione,  il polistrumentista Dean Fertita, compagno di Homme nei QOTSA, e Matt Helders, batterista degli Arctic Monkeys (con qualche musicista aggiunto, perlopiù ad archi e fiati). Post Pop Depression è quindi un disco ispirato e profondo, ma al tempo stesso duro (nei contenuti) e pessimistico, ed è stato sorprendentemente premiato dal pubblico, che ne ha fatto nientemeno che l’album di Iggy Pop di maggior successo di sempre, facendolo entrare nella Top 20 in America e addirittura nella Top 5 in Inghilterra (c’è però da dire che oggi, rispetto ad una volta, si entra in classifica con molte meno vendite).

L’album si apre con Break Into Your Heart, potente rock song con la voce carismatica e declamatoria (giusto una via di mezzo tra Reed e Bowie) in evidenza, un tappeto sonoro decisamente elettrico, drumming secco e preciso ed un gradito intermezzo pianistico: un ottimo modo per entrare nel disco, un pezzo anche abbastanza fruibile. Gardenia è il primo singolo estratto, ed è un bel pop-rock alla maniera del nostro (quindi non convenzionale), c’è un synth, ma è usato con intelligenza, il ritmo è molto incentrato sul basso, un quasi funk-rock che potrei definire bowiano (ma il Bowie più raffinato, tipo quello di Black Tie, White Noise), un brano per nulla ostico, anzi molto piacevole; American Valhalla ha uno strano inizio che ricorda China Girl, poi però la canzone prende una direzione completamente diversa, diventando ancora un pezzo a metà tra pop e rock urbano, un po’ sghembo (il basso è distorto) ma di indubbio fascino, ed un ritornello piuttosto lineare dove la voce baritonale del nostro la fa da padrona.

In The Lobby è un rock dominato da sonorità moderne (pur se decisamente chitarristico), nel quale Iggy gigioneggia alla grande, non il più orecchiabile dei brani presenti ma con un suo preciso filo conduttore, ed alla fine non mi dispiace neanche questo; bellissimo per contro Sunday, un rock’n’roll diretto e potente, dal ritmo sostenuto e melodia immediata, punteggiato dai riff in pieno stile funky da parte di Homme, ed impreziosito da un coretto femminile ed un inatteso ma suggestivo finale orchestrale: è da brani come questo che si capisce l’ottimo stato di forma di Iggy, peccato se davvero questo sarà il suo addio alle armi. La breve Vulture inizia acustica e con la voce di Pop che assume un tono aggressivo, ed il brano stesso ha un’atmosfera minacciosa grazie al contrasto tra i rintocchi ossessivi di una campana ed un riff distorto dal sapore orientaleggiante, mentre German Days è molto più diretta, un altro pezzo rock puro e semplice, con le chitarre usate in maniera classica ed Iggy che sprizza personalità da tutti i pori. Mancano solo due brani, ma sono tra i migliori del CD: Chocolate Drops è una squisita ballata classica, senza stranezze, con ritmo sempre presente, un motivo immediato e gran lavoro di chitarra, mentre ancora meglio è Paraguay (la più lunga del disco), che inizia corale ed a cappella, poi entra solo Iggy con una bella chitarrina elettrica, arriva la sezione ritmica ed il pezzo, grazie anche ad una melodia epica e vibrante, è splendido, forse il più bello dell’album (ed il cambio di tempo a metà canzone è geniale) e ci fa ritrovare di botto l’artista di The Passenger.

Gran bel disco, per cui spero davvero che Iggy Pop ci ripensi e non si fermi, magari incidendo meno, regalandoci ancora canzoni come quelle di Post Pop Depression.

Marco Verdi

Cartoline Dal Donegal ! Goats Don’t Shave – Turf Man Blues

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Goats Don’t Shave – Turf Man Blues – Goats Don’t Shave Music

Puntuale come una cartella di Equitalia (magari sostituite con qualcosa di più piacevole), torno a parlarvi del mio “amico” Pat Gallagher (tramite Facebook) e dei suoi compari Goats Don’t Shave per l’uscita di questo Turf Man Blues, secondo album dopo la “reunion” di due anni fa con Songs From Earth (sempre puntualmente recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2014/11/27/breve-pausa-eccoli-nuovo-dallirlanda-goats-dont-shave-songs-from-the-earth/ ). Per questa nuova proposta Gallagher, voce, chitarre e banjo, ci porta negli studi SMG di Gweedore (situati nella splendida contea di Donegal, a nord dell’Irlanda): sono con lui le sue fidate “capre”, a partire dal fratello Michael Gallagher alla batteria, Patsy Gallagher, sempre con un’aria di famiglia, chitarra solista, mandolino e voce, poi il violinista Sthepen Campbell, Odhran Cummings al basso, Shaun Doherty  alle chitarre acustiche e alla voce, più Connor Malone al sax e Dermot Donohue all’armonica, per undici brani che abbracciano svariati generi, a partire dal loro classico folk, al rock, al country,  perfino una spruzzata di gospel, il tutto come sempre suonato al meglio, con l’abituale contributo della bellissima voce di Pat, che in questo disco assume a tratti delle tonalità quasi alla Christy Moore.

Che si tratti di raccontare  le storie della sua terra (come nel disco precedente), o storie  sulla rivoluzione irlandese, come nel caso di questo nuovo lavoro, o ancora, sulle dinamiche dell’amore stesso, viene sempre e comunque alla luce il talento compositivo e letterario di Pat Gallagher, e l’iniziale The Volunteer (un toccante omaggio a uomini, donne e bambini che persero la vita durante gli scontri di Pasqua del 1916) lo dimostra ampiamente, una maestosa ballata che si apre con ripetuti rulli di tamburi per poi dipanarsi in una dolce melodia nel corso dello sviluppo del brano; a questa sontuosa apertura fanno seguito la title track Turf Man Blues (dedicata alle nuove generazioni), una perfetta folk-song con un bel lavoro in sottofondo dell’armonica, per poi affrontare il tema del bullismo e della discriminazione in una “danza irlandese” sognante come Dance For The Crowd, omaggiare i Pogues con la canterina Drinking My Money (eseguita dal vivo al Bayview Pub di Dungloe, sempre nel Donegal), con banjo e armonica a dettare il ritmo, e ritornare di nuovo alle atmosfere care ai “vecchi” Goats Don’t Shave con una spettacolare e melanconica No Cure For This. Il percorso musicale prosegue sulle note acustiche di God Takes Visa, seguita dal delicato racconto di una Seasons Go By con il mandolino di Patsy Gallagher in evidenza, per poi passare al cadenzato “country-agreste” di una Tonight Your Going Home, dove si rincorrono banjo e mandolino con il consueto tocco raffinato dell’armonica; c’è spazio anche per il valzer armonioso di una suadente The Killer, rispolverando ancora una volta dolci armonie irlandesi nella solare Falling For You, e nella conclusiva River Runs On, un madrigale in forma di “elegia” per tutti i fiumi che attraversano l’isola di smeraldo.

In un certo senso, oggi come ieri, i Goats Don’t Shave sono tra i segreti meglio custoditi della scena musicale irlandese, purtroppo quasi cancellati dalla memoria collettiva degli appassionati (su certi libri di settore non sono neanche menzionati), e mi viene da pensare che forse Pat Gallagher e le sue “capre”, che hanno avuto il loro momento di fama, consapevolmente hanno scelto di non cavalcarla. Quindi in ultima analisi se questo ennesimo lavoro Turf Man Blues è di difficile reperibilità, come il precedente  (in un certo senso bisogna ordinarlo direttamente a casa Gallagher, sul sito della band http://www.goatsdontshave.ie/  ), cercate di andare a recuperarvi almeno il disco d’esordio The Rusty Razor https://www.youtube.com/watch?v=73sLvm9LcNs , e dopo averlo inserito nel lettore stereo, godetevi quella che è senza ombra di dubbio la migliore folk-rock band della contea del Donegal, possibilmente sorseggiando il loro ottimo Donegal Irish Whiskey!     

Tino Montanari

Se La Sono Presa Comoda, Ma Sono Decisamente Migliorati! The Lumineers – Cleopatra

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The Lumineers – Cleopatra – Dualtone CD USA – Decca/Universal Europa

Uno dei singoli più gettonati del 2012 è stato sicuramente Ho Hey, un brano folk-rock dal ritornello molto orecchiabile ad opera di un terzetto originario di Denver, The Lumineers, un successo che ha trascinato nelle classifiche di vendita anche il loro album omonimo di debutto, un buon disco che però dava la sensazione di essere inferiore a prodotti di altre band che si rivolgevano allo stesso bacino d’utenza, come Mumford & Sons, Low Anthem e Decemberists. Ora si rifanno vivi a ben quattro anni di distanza dall’esordio, un tempo molto lungo per una nuova band, ma devo dire che Cleopatra (da non confondersi con la famigerata etichetta californiana tanto amata da Bruno) è di gran lunga superiore al disco precedente: il loro percorso è quasi l’inverso degli Of Monsters And Men (altra band che si può equiparare ai nostri come stile), in quanto gli islandesi hanno esordito nel 2011 con un ottimo album (My Head Is An Animal) che conteneva un singolo, Little Talks, diventato poi un tormentone mondiale, mentre il loro secondo lavoro Beneath The Skin dell’anno scorso non era male ma non altrettanto esplosivo; al contrario, Cleopatra forse non conterrà una canzone spacca classifiche come Ho Hey ma si rivela un lavoro più unitario e riuscito (e le vendite danno ragione ai ragazzi di Denver, in quanto il disco sta già facendo molto bene ed è andato in testa sia in America che in Inghilterra).

Il trio è sempre composto da Wesley Schultz alla voce e chitarra, Jeremiah Fraites alla batteria e piano e Neyla Pekarek al basso e violoncello, ed in questo album si fanno aiutare da pochi ma selezionati amici, a partire da Simone Felice dei Felice Brothers,, che si occupa anche della produzione (*NDB. E anche dei The Duke And The King, tre splendidi dischi, che fine hanno fatto?), ed inoltre Byron Isaacs, Lauren Jacobson e David Baron: il suono non è cambiato molto dal loro esordio, i brani hanno sempre un forte impianto folk-rock con un retrogusto pop, con influenze che vanno da Bob Dylan (soprattutto) a Tom Petty, passando per Leonard Cohen e Bruce Springsteen (questi ultimi due non li ritrovo molto, ma mi inchino in quanto sono gli stessi membri del gruppo a citarli, anche se poi aggiungono anche Guns’n’Roses, Cars e Talking Heads…), canzoni elettroacustiche ma con la sezione ritmica sempre in grande evidenza, voci spesso cariche di eco e melodie dirette ed immediate. Il suono c’è, dunque, e se aggiungiamo che la qualità media delle canzoni è nettamente migliorata si può dire che Cleopatra contribuisce a mettere i Lumineers sullo stesso piano dei gruppi che ho citato all’inizio (anzi, mi sa che i Mumford & Sons ce li siamo giocati, *NDB 2. A giugno è in uscita un EP Johannesburg, con musicisti sudafricani, dove hanno cambiato ancora genere https://www.youtube.com/watch?v=eCIHPdx1OAs!); undici brani, ma quindici nella versione deluxe (che non ho. *NDB 3. E’ quella in MP3, per il download, che entrambi non amiamo molto) e quattordici in un’altra edizione in esclusiva per la catena americana Target, ma con tre canzoni che non sono le stesse della deluxe “normale” (adoro queste cose: ma non potevano fare una edizione sola, dato che quella regolare dura solo 33 minuti?).

Sleep On The Floor inizia con un drumming secco, un riff di chitarra elettrica e la voce di Schultz che canta un motivo suggestivo ma attendista nel primo minuto e mezzo, poi la ritmica sale ed il pezzo si trasforma in una rock song con tutti i crismi, potente e profondamente evocativa: un avvio migliore non poteva esserci. Ophelia (è il primo singolo, ma non è la stessa di The Band) ha un inizio sospeso, con piano, percussioni e voce, poi prende vivacità, la ritmica si fa saltellante ed arriva il classico ritornello orecchiabile, anche se è il pianoforte a mantenere il ruolo di protagonista: non è immediata come Ho Hey (anche se lo stile non è lontanissimo), ma cresce alla distanza. Cleopatra è un folk-rock elettrico dalla splendida melodia dylaniana, un mood trascinante ad ancora gran lavoro di piano, un brano di grande valore; Gun Song, ancora con Dylan in mente, è più acustica anche se la ritmica è sempre molto sostenuta, una costante nel suono del trio, mentre Angela (è il terzo brano su cinque con un nome di donna come titolo) è più tranquilla, inizia solo voce e chitarra (ma l’eco sulla voce non manca mai), poi entra il resto ed il pezzo cresce in pathos, grazie anche ad uno splendido break strumentale dove è ancora il piano a dettare legge. In The Light è una tenue ballata dalla melodia vincente e dall’arrangiamento semplice ma di grande impatto, con un finale maestoso che la catapulta tra le migliori del CD; ancora Dylan, quello dei primi anni, ad ispirare la limpida Long Way From Home, altro brano di notevole potenza emotiva, mentre Sick In The Head è l’unico pezzo un gradino sotto, a causa di uno sviluppo melodico un po’ incartato su sé stesso. L’album però si chiude molto bene con My Eyes, sempre a metà tra folk e rock, di grande forza nonostante il tempo lento, e con Patience, un breve ma suggestivo strumentale per piano solo.

Hanno avuto bisogno di tempo i Lumineers per dare un seguito al loro esordio, ma con Cleopatra hanno decisamente centrato il bersaglio e dimostrato di essere non solo un gruppo con un singolo fortunato al loro attivo, ma una vera band con un suo stile ed una spiccata personalità.

Marco Verdi

Anche Senza Marc Olson Sono Sempre Loro, Quasi! Jayhawks – Paging Mr. Proust

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Jayhawks – Paging Mr. Proust – Sham Records

Dopo la reunion tra Gary Louris Marc Olson, sfociata nell’ottimo Mockingbird Time del 2011, sembrava che tutto fosse ritornato “pappa e ciccia” tra i due, ma durante il tour del 2011-2012 le vecchie tensioni che avevano portato alla prima divisione del 1995 https://www.youtube.com/watch?v=xAjOfDm-_mw  si sono presentate di nuovo e sembrava, stando alle parole di Olson, che i Jayhawks, in base ad un accordo tra entrambi, non avrebbero più dovuto andare in tour senza di lui, e Louris non avrebbe più dovuto cantare le canzoni scritte da Olson (quali, visto che le firmavano insieme?) https://www.youtube.com/watch?v=JFoDJowVtlQ . In effetti, quando mi era capitato di vedere Marc in una serata a Milano un paio di anni fa, con la compagna norvegese Ingunn Ringvold e con Michael McDermott James Maddock (non memorabile peraltro, la dimensione acustica non giovava a nessuno dei tre), aveva detto peste e corna della sua vecchia band, ricordando che il gruppo lo aveva “inventato” lui e le canzoni erano sue e “quell’altro” non si doveva permettere di cantarle. Cosa che puntualmente non è accaduta: i Jayhawks, perché di loro stiamo parlando, hanno continuato a fare tournée regolarmente https://www.youtube.com/watch?v=6iIPogL69hw , ed ora, a cinque anni dall’ultimo album e dopo il disco di Louris con gli Au Pair, pubblicano questo nuovo Paging Mr. Proust, l’ottavo album in studio della band (nono se contiamo anche il Bunkhouse Album), antologie, Live e dischi di rarità esclusi. Diciamo subito che senza Marc Olson, nonostante il titolo del post, non è del tutto la stessa cosa, quelle armonie vocali splendide, l’intreccio e l’alternarsi delle due voci che hanno influenzato decine di gruppi, negli anni ’90  del boom dell’alt-countty, un po’ ci mancano, ma il disco, come altri registrati senza Olson, per esempio gli ottimi Sound Of Lies Rainy Day Music in particolare, è sempre una perfetta fusione di country-rock classico, giri di accordi beatlesiani e morbido rock di eccellente qualità.

Anche loro hanno dovuto piegarsi alle nuove esigenze del mercato, per la prima volta il CD non esce per una major (o per una etichetta distribuita da una major, che è la stessa cosa) ma viene pubblicato dalla fantomatica Sham Records. Con Louris ci sono però tutti gli altri Jayhawks storici: da Marc Pearlman al basso a Tim O’Reagan alla batteria e alle armonie vocali, come pure Karen Grotberg alle tastiere e alle voci di supporto, in più, come co-produttori troviamo Tucker Martine (uno dei migliori al momento negli Stati Uniti, di recente all’opera con Decemberists, Edward Sharpe, M Ward, Sam Beam & Jesca Hoop Mavis Staples) e anche Peter Buck, presente pure come musicista, uno che di jingle jangle se ne intende. E nel disco suonano altri del giro R.E.M., come Mike Mills Scott McCaughey. A completare la formazione dei Jayhawks troviamo il secondo chitarrista Kraig Johnson, già con il gruppo una ventina di anni fa e anche nel giro Golden Smog Soul Asylum, oltre ad essere un vecchio componente dei Run Westy Run, che credo pochi ricordino, altra band storica di Minneapolis, come gli Husker Du, Replacements, e gli stessi Jayhawks. Come dicevo poc’anzi il disco è sempre immerso nel classico sound del gruppo, non tutti i brani sono memorabili, ma ad esempio l’iniziale Quiet Corners And Empty Stages è splendida, armonie vocali celestiali, la voce inconfondibile di Gary Louris, che era spesso la voce solista anche in passato, un ritornello da memorizzare e quelle chitarre sognanti ed aggressive al tempo stesso, sentito molte volte, ma è il loro marchio di fabbrica.

Lost The Summer è più grintosa e psichedelica, con chitarre acide e tocchi beatlesiani e porta la firma collettiva della band, mentre Lovers Of The Sun, del solo Louris, è più sognante ed elettroacustica, con il controcanto delizioso della Grotberg e la splendida voce di Gary che si libra su un tappeto sonoro raffinato. Pretty Roses In Your Hair ha qualcosa della costruzione sonora di un brano alla Neil Young vecchia scuola, forse troppo zuccherosa a momenti, anche se le chitarre, quasi ai limiti del feedback ( e il piano) ci sono e si sentono; con Leaving The Monsters Behind che è un bel pezzo rock, di nuovo a firma collettiva, di quelli che viaggiano tirati e spediti, vagamente alla Rem, le solite belle armonie, anche se il risultato finale non è  particolarmente memorabile. Isabel’s Daughter è ancora un brano tipico del songbook di Louris, quel misto di country-rock, west-coast, Beatles e melodie avvolgenti che da sempre si trova nel DNA di questo autore, il mandolino potrebbe essere Mike Berry?

Ace, la canzone più lunga, di nuovo psichedelica e oscura, non mi sembra un granché, forse l’unica, al di là delle chitarre trattate, mi pare ci sia parecchia aria fritta, meglio The Devil In Her Eyes, dove l’armonica di Louris ci porta ancora a quel sound younghiano e country-rock dei loro brani migliori, arricchito dalle solite piacevoli armonie vocali e da un paio di break chitarristici spigolosi e cattivi. Comeback Kids ha quel suono alternative-rock dei primi R.e.m. e qui c’è forse lo zampino di Buck, però non è tra i brani migliori, anche se è tutt’altro che brutta, forse un po’ irrisolta. The Dust Of Long-Dead Stars è il pezzo più rock di questo album, un ritmo galoppante, chitarre in evidenza e una “cattiveria” inconsueta nel sound della band, bel pezzo. E niente male anche Lies In Black And White, altro pezzo complesso e raffinato di puro Jayhawks sound, manca forse la voce di Olson, ma non si può avere tutto dalla vita, Louris cerca di sostituirla con la sua armonica, secondo me riuscendoci. Conclude il tutto I’ll Be Yout Key, un pezzo acustico, cantato in falsetto da Gary, “moolto” Neil Young.

Quindi nell’insieme direi più luci che ombre, il nome non viene “profanato”, come sembrava temere Marc Olson, anzi i Jayhawks, dopo trenta anni in pista, sono sempre vivi e pimpanti. Esce il 29 aprile.

Bruno Conti

Sempre Pochi, Ma Sempre Buoni! Peter Wolf – A Cure For Loneliness

peter wolf a cure for loneliness

Sono passati altri sei anni dalla pubblicazione del precedente album di Peter Wolf Midnight Souvernirs, ma il titolo e il contenuto del Post che avevo usato per quel disco http://discoclub.myblog.it/2010/04/10/pochi-ma-buoni-peter-wolf-midnight-souvenirs/, rimangono sempre validi. L’ex cantante della J.Geils Band rimane fedele alla sua cadenza temporale (addirittura il terz’ultimo Sleepless risaliva al 2002), ma anche alla assoluta qualità dei suoi dischi. Al contrario di quanto era accaduto nel periodo precedente, quello che era venuto con i primi album solisti negli anni ’80 e fino all’incirca alla metà degli anni ’90, i dischi di Wolf si erano concessi, come pure gli ultimi con il suo suo gruppo, la citata J. Geils Band, ad un suono commerciale, tamarro ed inconsistente. Poi non so se il cantante di New York abbia trovato la “cura per la solitudine”, ma sicuramente quella per la buona musica sì.Il 7 marzo ha compiuto 70 anni ma, con i suoi ritmi tranquilli, continua a regalarci ottimi album: questo A Cure For Loneliness, che è solo l’ottavo in una carriera ultra trentennale, conferma l’eccellenza e l’eclettismo sonoro espressi con Midnight Souvenirs. Al solito nel menu troviamo rock, ballate suadenti tra il soul e lo stile da crooner, l’amato blues e tracce di pop raffinato e di gran classe, addirittura c’è una rivisitazione in chiave Appalachiana e bluegrass (come la presenta lui) del vecchio classico della J. Geils Band Love Stinks.

Sono solo 37 minuti di musica, 12 brani perfetti, non un secondo sprecato: il disco si apre sulla splendida Rolling On, una canzone soffusa e dall’atmosfera raffinata, scritta come altro quattro con il suo collaboratore da lunga pezza Will Jennings, ed arrangiata in modo sublime dal suo tastierista Kenny White, che è anche il co-produttore del CD, i tocchi di piano e delle tastiere, il lavoro della sezione ritmica, Marty Ballou al basso e Shawn Pelton alla batteria, le note mirate dei due chitarristi Duke Levine Kevin Barry, il delicato sostegno delle armonie vocali di Jeff Ramsey Athene Wilson, tutto contribuisce a sostenere il cantato mirabile di Wolf e gli equilibri sonori di questo brano di grande fascino. It Was Always So Easy (To Find an Unhappy Woman) è una oscura cover di un brano dei primi anni ’70, dal repertorio di Moe Bandy, che pure ebbe qualche successo minore all’epoca (erano gli anni della J. Geils Band), ma la genialità di Wolf sta nell’averla trasformata in una canzone che sembra provenire dal Bob Dylan o dagli Stones più “campagnoli”, tra scivolate di organo alla Al Kooper, rintocchi di armonica, una slide malandrina e una solista pungente, e anche quell’aria vagamente honky-tonk country, e il tutto compresso nei 3 minuti scarsi del pezzo, geniale. Peace Of Mind, di nuovo dell’accoppiata Wolf/Jennings è una soul ballad deliziosa, tipo le cose più ispirate del Willy DeVille  romantico e newyorkese, omaggiato da Wolf nel precedente Midnight Souvenirs.

Dopo un trittico così uno potrebbe aspettarsi un calo di tensione, ma la successiva How Do You Know ci riporta al blues più canonico della prima J. Geils Band, con l’aggiunta della seconda chitarra di Larry Campbell, il pianino indiavolato di White, i fiati degli Uptown Horns, lo stesso Peter all’armonica, nel ruolo che fu del suo vecchio pard Magic Dick, ci dimostra come si suona il blues a tempo di boogie, con le due coriste Ada Dyer e Catherine Russell che lo spalleggiano alla grande, e non è una oscura cover, ma un brano nuovo scritto per l’occasione. Fun For A While è un’altra ballata splendida, con una “weeping pedal steel” e una fisarmonica che alzano il tasso malinconico della canzone, notturna e raccolta, non per nulla i musicisti della sua band, quando sono in tour, si fanno chiamare Midnight Travelers. E proprio a proposito di tour Wastin’ Time, il brano successivo, è registrato dal vivo, di fronte ad un pubblico selezionato, si è soliti dire, un’altra canzone eccellente, un pezzo rock che ci riporta al vecchio sound della J. Geils Band, di nuovo in un suono che è un misto tra Dylan e Stones, di cui nei gloriosi anni di inizio carriera la band di Boston era orgogliosa pari e controparte americana.

Some Other Time, Some Other Place, l’ultimo pezzo firmato dalla coppia Wolf e Jennings vira verso un approccio più acustico, con Larry Campbell alla pedal steel, ma anche al violino, la moglie Teresa Williams alle armonie vocali, Tony Garnier che fa una comparsata al basso e il pezzo, non esagero, lentamente assume uno svolgimento non dissimile da certe cose del Van Morrison più bucolico o dei Waterboys, c’è anche un mandolino sullo sfondo per confermare questo approccio quasi folk, altra canzone splendida. E pure la successiva non scherza: questa volta Peter Wolf ha chiamato Don Covay (quello che ha scritto, per citarne un paio, Mercy Mercy Chain Of Fools, nel frattempo scomparso nel gennaio 2015) per scrivere con lui un omaggio ad un altro grande della musica soul come Bobby Womack, che la doveva cantare in duetto con Peter, ma nel frattempo se ne era andato pure lui. Niente paura, la canzone è rimasta una meravigliosa ode alla soul music più pura e gioiosa, con una spruzzata di fiati e Wolf che canta splendidamente, come d’altronde nel resto dell’album, Non ho detto il titolo? Questo gioiellino si chiama It’s Raining.

L’altro pezzo registrato dal vivo è la cover a tempo di bluegrass di Love Stinks, il più grande successo della J.Geils Band, che se devo dire mi piace molto di più in questa versione che in quella originale, divertente ed irresistibile, con il mandolino di Duke Levine che viaggia a tutta velocità. Mr. Mistake sembra un pezzo alla Buster Poindexter (vi ricordate, David Johansen quando aveva deciso di rendere omaggio alla vecchia musica swing e big band?), e lo fa, senza fiati, ma con la consueta grinta e classe. Che non mancano anche nel pezzo da crooner Tragedy, altra oscura canzone, pure nel repertorio di Brenda Lee Fleetwoods, ma che fu un successo, l’unico, per tale Thomas Wayne & The DeLons, la versione del disco è piacevolissima, con Wolf circondato dalle voci femminili della due bravissime cantautrici Rose Polenzani Kris Delmhorst, qui in una veste insolita. E l’ultima cover è altrettanto “oscura”: una versione, brevissima, un minuto e mezzo, di un vecchio pezzo country, Stranger, dal repertorio di Lefty Frizzell (mi pare la facesse anche Rosie Flores): solo la chitarra acustica di Duke Levine e la voce di Peter Wolf. Diciamo che gli ultimi tre pezzi, anche se comunque piccole delizie sonore, abbassano lievemente la qualità dell’album, che sarebbe quasi da 4 stellette nel suo insieme, ma rimane ottimo, e pensate che pur essendo della major Concord/Unversal non è stato neppure pubblicato in Europa, è solo import dagli States. Adesso aspettiamo il prossimo, speriamo fra meno di 6 anni!

Bruno Conti.

Testi Da Film Porno, Ma Musica Bellissima! Wheeler Walker Jr. – Redneck Shit

wheeler walker jr. redneck shit

Wheeler Walker Jr. – Redneck Shit – Pepper Hill/Thirty Tigers CD

Nel vasto panorama hard rock statunitense c’è una band chiamata Steel Panthers che ripropone il classico look e le sonorità del cosiddetto hair metal degli anni ottanta (per intenderci, band come Motley Crue, Poison, Cinderella, ecc.), abbinando il tutto ad un repertorio di canzoni talmente sboccate da sfiorare quasi la parodia (credo volutamente) di un certo stile di vita Sex, Drugs & Rock’N’Roll tipico di quegli anni. Si sa che però il pubblico di quel tipo di musica è aperto ad un certo tipo di testi, mentre è risaputo che viceversa i fruitori di musica country, anche qualora prediligenti il filone più progressista, hanno gusti ed abitudini molto più tradizionali. Immagino quindi lo sconquasso che provocherà l’album di debutto di Wheeler Walker Jr., musicista del Kentucky, che già dal titolo, Redneck Shit, lascia ben poco all’immaginazione: l’album è formato infatti da undici brani di una volgarità inaudita, con titoli inequivocabili e testi (non inclusi, ma si capiscono benissimo lo stesso) che farebbero arrossire anche il più rozzo dei camionisti texani. Chiaramente in America le recensioni ed i commenti saranno tutti per il linguaggio usato da Walker, ed è un vero peccato, in quanto la musica presente in Redneck Shit è quanto di meglio si possa trovare oggi in ambito country: innanzitutto va detto che il produttore è l’ormai nostro beniamino Dave Cobb (e comincio ormai a sospettare che le sue giornate siano formate da più di 24 ore), uno che è una garanzia di qualità, ma il merito principale va riconosciuto a Walker, un countryman davvero con le palle, che coniuga country elettrico, rock’n’roll e boogie in una miscela irresistibile e con un senso del ritmo e della melodia non da tutti.

I suoi eroi sono un po’ i soliti, da Waylon Jennings a Willie Nelson passando per Merle Haggard, ma Wheeler riesce a non essere derivativo per nulla, mettendo nei suoi pezzi una freschezza ed un feeling che non sentivo da tempo: Cobb poi ci mette il suo tocco, e la band che accompagna il nostro suona che è un piacere (oltre a Cobb stesso, ci sono i fratelli Leroy e Chris Powell rispettivamente alle chitarre e batteria, oltre a Bryan Allen al basso), pochi musicisti ma con un tiro notevole, tanto da farci spesso dimenticare i testi da censura. Apre la title track, veloce e spigolosa, con un riff ripetuto ed un ritornello scorrevole (anche se sboccatissimo), seguita a ruota da Beer, Weed, Cooches, molto più country (bella la steel), un ritmo saltellante, arrangiamento d’altri tempi ed un refrain decisamente orecchiabile: Wheeler dimostra di non essere un bluff, e la mano di Cobb inizia a sentirsi. La languida Family Tree è una malinconica ballad dallo splendido ritornello (con però un testo da censura pesante), mentre Can’t Fuck You Off My Mind è puro rockabilly, voce chiara, gran ritmo e due belle chitarrine che lavorano sullo sfondo.

Fuck You Bitch (non vi serve la traduzione, vero?) è una bellissima ballata in puro stile cosmic country, quasi un pezzo sullo stile di Gram Parsons, con Cobb che la veste alla perfezione: peccato per le parole, di una volgarità quasi fastidiosa (e ve lo dice uno che è tutto meno che moralista, anzi non li posso vedere) più che altro perché  rischiano di far passare in secondo piano un talento musicale non indifferente. Drop ‘Em Out è un breve divertissement con un irresistibile refrain corale, Eatin’ Pussy/Kickin’ Ass è un boogie tosto e granitico sullo stile di La Grange (giuro), con un’armonica tagliente sullo sfondo, una chitarrona pressante ed il nostro che mostra di sapersi muovere anche in territori diversi https://www.youtube.com/watch?v=vlq9UWWqe44 ; Fightin’, Fuckin’, Fartin’ è un’allegra country song molto Buddy Holly, davvero godibile anche se è meglio non parlare del testo. Better Off Beatin’ Off  ha un’ottima melodia ed un accompagnamento scintillante, una country ballad elettrica di notevole spessore, la guizzante Sit On My Face ha reminiscenze wayloniane, mentre Which One O’ You Queers Gonna Suck My Dick? (provo imbarazzo solo a scriverli certi titoli) è un altro boogie’n’roll scatenato, che chiude positivamente un piccolo grande disco.

Peccato per i testi volgarissimi, più che altro perché rischiano di mettere in cattiva luce sia Wheeler Walker Jr. che l’ottima musica da lui proposta.

Marco Verdi

Uscite Prossime Venture, A Ritroso Ecco il 6 Maggio. Mary Chapin Carpenter, The Rides, Vinicio Capossela, Ryan Adams, Moreland & Arbuckle, Cyndi Lauper

rolling stones totally stripped european version

Nella puntata precedente di questa rubrica avevo parlato delle uscite del 20 maggio, che sarà una giornata assai ricca di pubblicazioni ottime, ora, andando a ritroso, vediamo i titoli più interessanti in uscita il 6 maggio. Ma prima volevo ricordarvi che, contrariamente a quanto annunciato in un primo momento, il box dei Rolling Stones Totally Stripped verrà pubblicato pure nel resto del mondo, non solo per il mercato giapponese, e anche se la versione nipponica avrà un CD in più e la maglietta nella confezione, quella “regolare” sarà comunque quintupla (come vedete qui sopra), 4 DVD + 1 CD, e ad un prezzo decisamente più contenuto, circa un terzo della edizione giapponese, almeno nella vecchia Europa, negli Stati Uniti ho visto un prezzo annunciato di circa 100 dollari, mentre nel vecchio continente dovrebbe costare la metà o poco più. A parte CD extra e maglietta in meno, comunque ne usciranno sempre 6 versioni differenti, compresa una in DVD + 2 LP. Qui comunque trovate tutti i dettagli http://discoclub.myblog.it/2016/03/30/se-vorrete-farvi-del-male-il-20-maggio-giappone-esce-the-rolling-stones-totally-stripped-cofanetto-limitato/

mary chapin carpenter

Il 6 maggio esce il nuovo album di Mary Chapin Carpenter The Things That We Are Made Of, il primo senza più la presenza, almeno a livello di amicizia, di John Jennings (l’ultima collaborazione era stata per Come Darkness, Come Light, il disco natalizio del 2008), scomparso per un tumore al fegato lo scorso 16 ottobre del 2015. Jennings era stato a lungo legato sia sentimentalmente che musicalmente con la Carpenter, direttore musicale, produttore e chitarrista nella band della musicista di Princeton. Il disco che, dopo molti anni con la Columbia e poi con la Zoe/Rounder del gruppo Universal, esce per la prima volta a livello indipendente per l’etichetta della stessa Mary Chapin, la Lambent Light Records, distribuita negli Stati Uniti dalla Thirty Tigers, come spesso succede in album che nascono da tragedie personali, sia pure non in prima persona, è il migliore della Carpenter da molti anni a questa parte, anche se Ashes And Roses, secondo me, era un ottimo album http://discoclub.myblog.it/2012/06/10/un-gusto-acquisito-mary-chapin-carpenter-ashes-and-roses/, come pure i precedenti (se seguite il link all’interno della recensione li trovate), forse con l’esclusione dell’ultimo orchestrale Songs From The Movie. 

La rivista dove scrivo, il Buscadero, ne ha parlato molto bene, recensendolo in anteprima, e assegnandogli ben 4 stellette. Sicuramente ha contribuito alla riuscita anche il fatto che in cabina di regia ci sia Dave Cobb, il nuovo Re Mida delle produzioni di Nashville, e una schiera di nuovi musicisti. Oltre a una serie di nuove canzoni veramente riuscite:

Tracklist
1. Something Tamed Something Wild
2. The Middle Ages
3. What Does It Mean To Travel
4. Livingston
5. Map Of My Heart
6. Oh Rosetta
7. Deep Down Deep Heart
8. Hand On My Back
9. The Blue Distance
10. Note On A Windshield
11. The Things That We Are Made Of

Sempre tempo permettendo cercherò di tornarci con una recensione completa, anche se a grandi linee condivido il giudizio positivo, e la voce è comunque sempre splendida.

rides pierced arrow

Nuovo, secondo album, per i Rides, il super gruppo con Stephen Stills, Kenny Wayne Shepherd Barry Goldberg. In questo caso, sempre per la rivista di cui sopra, ho collaborato per alcune domande all’intervista a Shepherd che dovrebbe uscire nel prossimo numero. Il disco Pierced Arrow, esce, esatto, il il 6 maggio, per la Mascot/Provogue: anche in questo caso, contrariamente a quanto riportano i siti di vendita USA, ci sarà una versione Deluxe con tre tracce extra, per il mercato europeo, Italia compresa, e non solo per il Giappone. Rileggendo gli appunti, nel disco suonano anche Chris Layton alla batteria e Kevin McCormick al basso (che è co-produttore del disco, in sostituzione di Jerry Harrison, l’ex Talking Heads, presente nel precedente): ci sono 10 brani nel CD, due cover, una di I’ve Got To Use My Imagination, peraltro scritta dallo stesso Barry Goldberg con Gerry Goffin nel 1973, un classico della soul music e un successo per Gladys Knight & The Pips, l’altra My Babe, brano firmato da Willie Dixon (idolo personale di Shepherd), portata alla fama imperitura da Little Walter.

Le tre bonus tracks sono Same Old Dog. Take Out Some Insurance e Born In Chicago, con il blues sempre come posizione musicale predominante nell’album. ma con ballate, pezzi rock anche ricchi di jam, influenze soul e R&B sempre presenti, oltre ad un pezzo alla C S N che è quello che ascoltate qui sopra.

vinicio capossela canzoni della cupa

Disco nuovo anche per Vinicio Capossela, sempre il 6 maggio (dopo un leggero rinvio a causa di una operazione alle corde vocali) su etichetta La Cupa distr. Warner Music, sarà un disco doppio Canzoni Della Cupa, con un disco intitolato Polvere ed il secondo Ombra. 

Ci sarà anche una versione limitata in quadruplo vinile. Ventotto brani in tutto, li leggete qui sotto:

vinicio capossela canzoni della cupa back

Tra gli ospiti, oltre ai “soliti” Calexico, anche Howe Gelb, Flaco Jimenez e i Los Lobos. Ma anche Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Giovannangelo De Gennaro,Victor Herrero, Los Mariachi Mezcal, Labis Xilouris, Albert Mihai. Alcuni brani verranno presentati in anteprima nel concertone del 1° Maggio.

ryan adams heartbreaker

Questo qui sopra è, insieme a Gold, altro grande disco, il miglior disco in assoluto di Ryan Adams, ed uno degli album migliori degli anni 2000. Ora Heartbreaker esce in edizione espansa, per la Pax–Americana, la sua etichetta attuale, distribuita dalla Universal, mentre in origine era stato pubblicato, nel settembre 2000, dalla Bloodshot/Cooking Vinyl, allora distr. Sony. La cosa sorprendente è che sarà un triplo album, 2 CD + 1 DVD, ma la cosa ancora più sorprendente è il fatto che costerà poco più di un singolo (e meno male). Ecco la lista completa dei contenuti del cofanetto, il cui lavoro di restauro è stato curato da Ethan Johns, il produttore originale:

Tracklist
[CD1: Original Album Remastered]
1. Argument With David Rawlings Concerning Morrissey
2. To Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High)
3. My Winding Wheel
4. Amy – Album Version
5. Oh My Sweet Carolina
6. Bartering Lines
7. Call Me On Your Way Back Home
8. Damn, Sam (I Love A Woman That Rains)
9. Come Pick Me Up
10. To Be The One
11. Why Do They Leave?
12. Shakedown On 9th Street
13. Don’t Ask For The Water
14. In My Time Of Need
15. Sweet Lil Gal (23rd/1st)

[CD2: Demos And Outtakes]
1. Hairdresser On Fire – Outtake
2. To Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High) – Outtake
3. Petal In A Rainstorm – Outtake
4. War Horse – Outtake
5. Oh My Sweet Carolina – Outtake
6. Come Pick Me Up – Outtake
7. Punk Jam – Outtake
8. When The Rope Gets Tight – Alternate Take
9. When The Rope Gets Tight – Outtake
10. Goodbye Honey
11. In My Time Of Need – Outtake
12. Bartering Lines – Demo
13. Come Pick Me Up – Demo
14. To Be The One – Demo
15. Don’t Ask For The Water – Demo
16. In My Time Of Need – Demo
17. Goodbye Honey – Demo
18. Petal In A Rainstorm – Demo
19. War Horse – Demo
20. Locked Away – Outtake

[DVD: Live at The Mercury Lounge]
1. Oh My Sweet Carolina
2. Gimme Sunshine
3. Banter
4. To Be Young (Is To Be Sad, Is To Be High)
5. AMY
6. Banter
7. Call Me On Your Way Back Home
8. Banter
9. Just Like A Whore
10. Wonderwall (Fragment)
11. Wonderwall (Complete Song)
12. Banter
13. Damn, Sam (I Love A Woman That Rains)
14. Sweet Lil’ Gal (23rd / 1st)
15. Come Pick Me Up
16. My Winding Wheel

moreland and arbuckle promised land or bust

Anche per il nuovo CD di Moreland & Arbuckle Promised Land Or Bust la data di uscita ufficiale prevista è il 6 maggio, ma il disco nelle nostre di lande circola già da qualche tempo. E’ il primo disco su etichetta Alligator per il poderoso duo (almeno nella ragione sociale) americano, tipo i primi Black Keys (ma secondo me meglio,visto che la formazione prevede un cantante/armonicista Arbuckle, un chitarrista Moreland, oltre ad un nuovo batterista, Kendall Newby, quindi in effetti sono un trio). Se volete il mio parere questo è quanto scrissi in occasione dell’uscita del quarto album http://discoclub.myblog.it/2011/09/21/questi-ci-danno-dentro-alla-grande-moreland-arbuckle-just-a/. Confermo tutto e spero di tornarci con più calma, nel frattempo:

cyndi lauper detour

E per completare le uscite interessanti della prima settimana di maggio, ecco il nuovo album di Cyndi Lauper Detour, che come annunciato da tempo è un disco di cover di brani country. Etichetta Sire/Warner: quindi dopo l’ottimo album blues http://discoclub.myblog.it/2010/06/28/questo-le-mancava-cyndi-lauper-memphis-blues/, uscito nel 2010 e seguito l’anno successivo da un CD/DVD dal vivo, la Lauper, che sembra avere risolto i suoi annosi problemi con la psoriasi che ne hanno rallentato la carriera, ha deciso di lanciarsi appunto nel country utilizzando la stessa formula del disco blues, ossia la presenza di molti ospiti duettanti (e di quelli buoni). Ecco titoli e ospiti:

Tracklist
1. Funnel Of Love
2. Detour (feat. Emmylou Harris)
3. Misty Blue
4. Walkin’ After Midnight
5. Heartaches By The Numbers
6. The End Of The World
7. Night Life (feat. Willie Nelson)
8. Begging To You
9. You’re The Reason Our Kids Are Ugly (feat. Vince Gill)
10. I Fall To Pieces
11. I Want To Be A Cowboy’s Sweetheart (feat. Jewel)
12. Hard Candy Christmas (feat. Alison Krauss)

Alla prossima.

Bruno Conti

La Grinta Non Manca Mai! Kelly Richey – Shakedown Soul

kelly richey shakedown soul

Kelly Richey – Shakedown Soul – Sweet Lucy Records 

Dopo il poderoso e quasi “esagerato” Live At The Blue Wisp del 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/06/09/tipa-tosta-piu-rock-che-blues-kelly-richey-band-live-at-the-blue-wisp/ , torna Kelly Richey, chitarrista e cantante di grana grossa, ma dalla notevole grinta: catalogata sotto blues, al limite blues-rock, la nostra amica in effetti forse appartiene più alla categoria rock, 70’s rock aggiungerei, armata della sua fida Fender Strato la Richey calca i palcoscenici americani ed europei da oltre 30 anni, ha una discografia di sedici titoli dove gli album dal vivo abbondano, e credo che fin da bambina sia cresciuta a pane e Led Zeppelin, Rory Gallagher, AC/DC, Jimi Hendrix, inserite il vostro rocker preferito e ci sta comunque. In ogni disco ci sono musicisti diversi che la accompagnano, evidentemente non reggono i suoi ritmi: questa volta abbiamo Rick Manning al basso e Tobe Donohoe alla batteria, quindi consueta formula power-trio che a tratti sfocia nell’hard-rock, ma la Kelly ha forse qualcosa in più, in ogni caso di diverso, da altre colleghe chitarriste in gonnella, soprattutto giovani europee ultimamente, meno 12 battute e più riff rocciosi, anche se la tecnica non manca e la voce è più della scuola Pat Benatar, Ann Wilson delle Heart, Michelle Malone. Forse tra i nomi a cui si ispira la Richey non ho citato Stevie Ray Vaughan, che è quello più amato, ma lei cita anche Free e Bad Company.

Da un paio di dischi ha preso l’abitudine di inserire anche elementi scratch e di leggera elettronica, affidati al batterista Donohe nel caso di Shakedown Soul, ma, anche se ne potremmo fare a meno, siamo nei limiti dell’accettabile. L’iniziale Fading, a tutto riff come al solito, sembra un pezzo anni ’80 delle citate Heart o di Pat Benatar, poi parte la chitarra e siamo in pieno “rawk” and roll. D’altronde il secondo brano (sono tutti suoi) si chiama You Wanna Rock  e dopo i leggeri effetti “moderni” dell’intro entriamo subito in territori Zeppelin e Free, e tra uno scatch e l’altro si fa  largo la chitarra vigorosa della (ex) ragazza. Diciamo che ci troviamo in una zona “hard rocking women”, un settore non frequentatissimo, che ha comunque i suoi estimatori; Lies, sul suo sito, viene presentata come una canzone influenzata dall’album omonimo di Sheryl Crow, uno legge, ma poi è libero di dissentire, questo per me è rock, duro e cattivo, fine. The Artist In Me, sempre con quei leggeri effetti sonori, a tratti fastidiosi, viene presentata come un brano ispirato dal sound di Lanois nell’album Wrecking Ball di Emmylou Harris?!?

Ma cosa si è bevuto o fumato l’estensore di queste note? Mah! Pezzo rock, indubbiamente più lento e di atmosfera, voce sussurrata, ma sempre duretto rimane. Love torna alla scuola Led Zeppelin, AC/DC, riff, viuulenza e tanto rock and roll, con la chitarra libera di graffiare, breve ma intenso, mentre in Afraid To Die i tempi si dilatano per uno slow-hard-blues, quasi dark e sabbathiano nel suo dipanarsi. Only Going Up viene sempre da Led Zeppelin II o giù di lì (in questo disco poco SRV), voce filtrata, ritmica in libertà e un accenno di wah-wah nel finale. Just Like The River, ha qualcosa di Patti Smith o del Boss, un sano pezzo rock di quelli gagliardi, con piacevoli interventi chitarristici e un ritornello quasi orecchiabile, anche se vocoder e synth rompono un po’ le palle. Effetto “elettronica” che si accentua in I Want To Run, anche se il riff’n’roll alla lunga la vince, con la chitarra che si fa largo con un bel solo vecchia scuola hard https://www.youtube.com/watch?v=x1rnUrnAuGE . Chiude il tutto, dopo neanche 40 minuti, la ripresa acustica di Fading, che diventa una sorta di ballata blues, solo voce e chitarra, dove si apprezza di più la voce di Kim Richey https://www.youtube.com/watch?v=v_p43w5zTQ4 . Come detto, la grinta non manca, una botta di sana “tamarritudine” (ma non glielo traduciamo) ogni tanto ci sta, forse meno “ricerca sonora” e più sostanza, ma in fondo va promossa.

Bruno Conti

Il Classico Disco Che Non Ti Aspetti… Ma In Questo Caso Non E’ Del Tutto Un Complimento! Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth

sturgill simpson a sailor's guide to earth

Sturgill Simpson – A Sailor’s Guide To Earth – Atlantic CD

I primi due album di Sturgill Simpson, musicista del Kentucky di grande talento, mi erano piaciuti molto: il suo esordio del 2013, High Top Mountain, era un perfetto album di Outlaw Country moderno, pieno di ritmo, grinta ed ottime canzoni, con uno stile ed una voce che si rifacevano chiaramente a Waylon Jennings (e Simpson ebbe i compimenti anche dal figlio di Waylon, Shooter), e l’anno dopo Metamodern Sounds In Country Music era anche meglio, con il nostro che introduceva nel suono elementi più rock e perfino psichedelici https://www.youtube.com/watch?v=mlYgTU1QAjE&list=PL8c2CQ3JiUNFt4-q3JiMlppKCuUTYeDot . Il produttore di quei due album era l’ormai onnipresente Dave Cobb, che oltre ad aver dato il suono giusto ai brani di Simpson era probabilmente riuscito anche a contenerne la personalità vulcanica, che si intuiva da alcune pieghe del suono, dai testi ma anche dalle copertine dei CD, non proprio tipicamente country. Per questo nuovo A Sailor’s Guide To Earth (dedicato a suo figlio, con titolo e copertina a tema marinaresco, ma più sullo stile di una band rock anni settanta che di uno come Jimmy Buffett) Sturgill decide di prodursi da solo, e la scelta, se dal punto di vista tecnico può risultare anche azzeccata, da quello artistico è discutibile: il nostro infatti decide di cambiare completamente il suo stile, lascia affiorare in molti brani una vena rhythm’n’blues e soul che non pensavamo avesse (ed il fatto che il CD esca per la Atlantic può non essere casuale), ma se si fosse limitato a questo avrei applaudito lo stesso in quanto la bravura nel songwriting è rimasta la stessa di prima.

Il “problema” è che Sturgill ha voluto andare oltre, ha aggiunto anche elementi puramente pop, ma un pop molto romantico e super arrangiato come si usava fare negli anni sessanta, ed inoltre in mezzo ci ha pure ficcato sonorità rock e ancora psichedeliche, dando a mio parere l’impressione di confusione (ed utilizzando un numero di musicisti e di strumenti impressionante, quando la fortuna dei suoi primi due dischi l’avevano fatta anche la compattezza del suono ed il numero limitato di sessionmen). Un disco che non posso definire brutto, le buone canzoni ci sono eccome, ma spesso annacquate in sonorità che a mio giudizio appartengono poco al suo autore: non dico che deve ripetere alla nausea lo stesso tipo di country-rock (anche se Waylon lo faceva e nessuno ci trovava da ridire, dopotutto chiunque ha un suo stile), ma qui ci sono cambiamenti a 360 gradi che non so quanto gli gioveranno. Un esempio calzante può essere il brano iniziale, Welcome To Earth (Pollywog), con un avvio quasi psichedelico, poi arriva un pianoforte malinconico, e la bella voce del nostro che intona una melodia forte, con un arrangiamento quasi cameristico da pop band sixties, un big sound che ad un certo punto cambia di botto, il ritmo aumenta, arrivano i fiati (il gruppo funk-soul Dap-Kings) ed il pezzo si tramuta in un errebi molto energico, sullo stile di Nathaniel Rateliff: un inizio spiazzante, con il nostro che non si capisce dove voglia andare a parare.

Breakers Roar è una ballata acustica, sognante ed eterea, ancora con archi a profusione e leggero accompagnamento ritmico, non è male ma sembrano più i Bee Gees dei primi dischi (quelli belli, comunque) che un countryman definito il nuovo Outlaw; Keep It Between The Lines è un funky molto annerito, con i fiati protagonisti ed un marcato sapore New Orleans, un cocktail di suoni e colori accattivante, mentre con Sea Stories Sturgill torna per un momento sui suoi vecchi passi, una solida ballata country-rock elettrica dal sapore sudista, suono diretto e melodia vincente, con ottimi interventi della steel di Dan Dugmore e della slide di Laur Joamets (?): sarò scontato, ma questo e lo Sturgill Simpson che preferisco. In Bloom dei Nirvana è la cover che non ti aspetti, ma chiaramente Simpson non è Kurt Cobain e la canzone assume tonalità pop d’altri tempi, quelle canzoni d’atmosfera avvolgenti tipiche degli anni a cavallo tra i sessanta e settanta ed echi, perché no, di Van Morrison (compreso l’uso dei fiati nella seconda parte, anche se l’irlandese aveva arrangiamenti più sobri); Brace For Impact (Live A Little) è il singolo estratto https://www.youtube.com/watch?v=BlOk5wV0DRo , una rock song elettrica e cadenzata, suonata e cantata con grinta ma poco creativa dal punto di vista dello script, ed inoltre troppo lunga e con soluzioni sonore un po’ discutibili: è ormai chiaro che il Simpson dei primi due dischi qui non c’è, ma abbiamo un artista che vuol dimostrare di saper tenere i piedi in più scarpe, ma secondo me lo fa a discapito dell’unitarietà. All Around You è comunque un ottimo blue-eyed soul, un pezzo altamente godibile e suonato alla grande, che non ha nulla da invidiare al bravissimo Anderson East: certo che se tutto il disco fosse stato su questi livelli avrei comunque applaudito al riuscito cambio stilistico del nostro, che però ha voluto strafare perdendo un po’ il filo conduttore.

Con Oh Sarah torniamo in territori country-pop gradevoli ma un po’ demodé, sembra Waylon, ma quello pre-Outlaw degli anni sessanta; chiude il CD (38 minuti) l’energica Call To Arms, gran ritmo, ancora a metà tra rock, southern e soul e con basso e batteria che sembrano quasi andare fuori giri (ma c’è un breve ma irresistibile assolo di Jefferson Crow al pianoforte).

Non so se A Sailor’s Guide To Earth segni l’inizio di una nuova fase della carriera di Sturgill Simpson, certo è che se voleva spiazzare gli ascoltatori c’è riuscito alla perfezione.

Marco Verdi