Tra Caraibi E Tradizione, Due Modi Diversi Di Celebrare Il Natale! Jimmy Buffett – ‘Tis The SeaSon/Loretta Lynn – White Christmas Blue

jimmy buffett 'this the season

Jimmy Buffett – ‘Tis The SeaSon – Mailboat CD

Loretta Lynn – White Christmas Blue – Legacy/Sony CD

Da sempre, soprattutto in America, con l’avvicinarsi delle feste natalizie è prassi diffusa pubblicare dischi a carattere stagionale: ormai quasi tutti i big, ed anche i meno big, hanno nella loro discografia almeno un album od un singolo che celebra la festività più importante dell’anno. Anche in questo 2016 non mancano certo le uscite a tema, ed io ho scelto due lavori molto diversi tra di loro, ma con il comune denominatore della qualità.

Jimmy Buffett, cantautore molto popolare negli USA (un po’ meno da noi), già nel 1996 aveva pubblicato un disco natalizio, il riuscito Christmas Island, che mescolava classici e brani nuovi con il suo tipico stile solare e festoso, con versioni personali di celeberrimi standard, come una Jingle Bells decisamente caraibica ed una Run, Rudolph, Run di chiaro stampo rock’n’roll: a distanza di vent’anni Jimmy dà un seguito a quel disco, con questo ottimo ‘Tis The SeaSon (un gioco di parole tra il significato normale della frase, “questa è la stagione”, e “questo è il figlio del mare”), un lavoro assolutamente riuscito e che riesce ad intrattenere in maniera piacevole per quaranta minuti, nel più tipico stile del nostro: l’unica cosa brutta, anzi kitsch, è la copertina (non è la prima volta per lui, ma quei due poveri cagnolini con le corna di renna finte non si possono proprio vedere). Nelle dodici canzoni dell’album Jimmy è come al solito accompagnato dalla fedele Coral Reefer Band, un ensemble di musicisti strepitosi che ormai formano un tutt’uno con il musicista dell’Alabama (ma “adottato” dalla Florida), tra i quali spiccano il tastierista e direttore musicale Michael Utley, il chitarrista e cantautore a sua volta Mac McAnally e lo steel drummer Robert Greenidge, l’elemento che maggiormente caratterizza il suono del gruppo in chiave esotica. ‘Tis The SeaSon, che ha dalla sua anche un suono eccellente, è strutturato nello stesso modo di Christmas Island, cioè con classici assodati del periodo festivo, sia contemporanei che del passato, e brani scritti per l’occasione: il risultato è molto (ma molto) piacevole, direi anche in maniera maggiore rispetto al suo predecessore di vent’anni fa. Jimmy alterna sonorità caraibiche ad altre più vintage, ma mantenendo il livello alto e riuscendo a fare di questo album un qualcosa che va aldilà della pura celebrazione del Natale.

Tra gli evergreen troviamo una splendida Jingle Bell Rock, dalla deliziosa atmosfera tra il country e l’hawaiano, con il nostro decisamente rilassato e perfettamente a suo agio, così come bellissima è Rudolph The Red-Nosed Reindeer, rivisitazione che parte come un country tune degli anni trenta e termina come una irresistibile jam acustica da veri pickers. Tra i brani più o meno contemporanei abbiamo la scherzosa All I Want For Christmas Is My Two Front Teeth, portata al successo nel 1948 da quel pazzo scatenato di Spike Jones, con un arrangiamento d’altri tempi molto raffinato ma nel contempo scanzonato (e d’altronde Jimmy è un maestro nel coniugare ottima musica e divertimento), mentre Rockin’ Around The Christmas Tree (Brenda Lee) è ritmata, swingata e decisamente coinvolgente, una goduria per le orecchie; ho lasciato per ultimo tra i brani “attuali” la canzone che in realtà apre il CD, Wonderful Christmastime di Paul McCartney, in quanto è quella che mi convince meno, non per colpa di Buffett che anzi fa di tutto per darle un sapore solare ed “isolano”, ma perché il brano in sé non è certo tra i migliori del buon Macca. Poi ci sono quattro pezzi originali, a partire da Drivin’ The Pig, tipico Buffett-sound al 100%, ritmata, solare, fluida ed orecchiabile, ma nello stesso tempo suonata alla grande da una band formidabile; The Twelve Days Of Christmas (Parrothead Verison) è l’adattamento con parole attinenti al “mondo Buffett” di una nota filastrocca natalizia, forse più idonea per il pubblico americano, mentre What I Didn’t Get For Christmas (scritta da McAnally) è un rockin’ country/caraibico molto godibile e diretto, ancora una volta suonato splendidamente, e Santa Stole Thanksgiving è uno squisito swing “made in Buffett”, quindi solare, limpido e di grande piacevolezza. Il disco termina con quattro classici: Mele Kalikimaka (Merry Christmas in hawaiano, gli deve piacere proprio, era anche su Christmas Island, anche se qui è presente il virtuoso dell’ukulele Jake Shimabukuro), altro pezzo dall’arrangiamento delizioso, una Winter Wonderland fin troppo soave e leggera, il noto standard Baby, It’s Cold Outside, un duetto con Nadirah Shakoor in una versione country-pop molto gradevole, per finire con la famosissima White Christmas, soffusa e raffinata come da prassi ma con un tocco caraibico che le innumerevoli versioni precedenti non avevano mai avuto.

loretta lynn white christma blue

Loretta Lynn è indiscutibilmente la regina assoluta della musica country, forse più ancora di Patsy Cline (della quale è tra l’altro coetanea), in quanto la povera Patsy ci ha lasciato ormai da decenni, mentre Loretta, a 84 anni suonati, è ancora viva, vegeta e particolarmente attiva. E’ infatti suo uno dei migliori album country del 2016, quel Full Circle che l’ha vista ancora in grandissima forma nonostante l’età http://discoclub.myblog.it/2016/03/11/nuova-promettente-artista-talento-loretta-lynn-full-circle/ , una splendida cantante in possesso di una voce ancora formidabile e per nulla segnata dagli anni, un disco dalle sonorità classiche ma asciutte, con un gruppo di musicisti non numeroso e che ha rivestito le canzoni del disco con pochi orpelli, facendo risaltare al meglio la grande voce della Lynn, con la produzione attenta ed essenziale di John Carter Cash, figlio di Johnny e June. White Christmas Blue proviene dalle stesse sessions che hanno originato Full Circle e. come nel caso di Buffett, anche questo è il secondo album natalizio per Loretta, anche se il precedente, Country Christmas, risale al lontano 1966. E White Christmas Blue è un altro scintillante dischetto di pura country music come si usava fare una volta, cantata in maniera splendida (e qui non c’erano dubbi), ma suonata ancora in modo pulito e diretto, senza sovrincisioni e pesanti orchestrazioni, solo Loretta, qualche chitarra (tra cui i veterani Shawn Camp e Randy Scruggs), una steel (Paul Franklin), un paio di violini, basso e batteria. Musica pura, honky-tonk che più classico non si può e, ripeto, la voce ancora cristallina della “Coal Miner’s Daughter”.

White Christmas Blue comprende dodici brani, di cui nove sono standard e tre scritti da Loretta, il primo dei quali è la title track, che dà splendidamente avvio al CD, una country song limpida e purissima, suono spettacolare e melodia di grande impatto, subito seguita da un rifacimento della mossa e swingata Country Christmas, ancora bellissima e con Loretta che canta come se avesse ancora trent’anni; il trittico di brani originali si chiude con la saltellante To Heck With Ole Santa Claus (anche questa era sul disco di cinquant’anni fa), un pezzo di country come oggi non se ne fanno più (e che voce). Ma il disco è una goduria anche nei brani più famosi, tutti suonati, ripeto, in maniera fantastica: Winter Wonderland è riproposta con classe sopraffina (anche meglio di quella di Buffett), così come l’intensa Away In A Manger, suonata in punta di dita e cantata, tanto per cambiare, stupendamente; Blue Christmas è un honky-tonk scintillante, con ottimi interventi di piano e steel, Frosty The Snowman è un vivace swing d’altri tempi, mentre Oh Come, All Ye Faithful (che sarebbe il nostro Adeste Fideles), da sempre una delle più belle canzoni natalizie, brilla in uno strepitoso arrangiamento ancora honky-tonk, con un’interpretazione da pelle d’oca, Lascio a voi il piacere di scoprire le tre canzoni che seguono, un trittico che mette in fila i tre pezzi stagionali forse più conosciuti in assoluto (Jingle Bells, White Christmas e Silent Night), tutte rilette con classe e bravura immense, ma anche con una freschezza incredibile, per chiudere con ‘Twas The Night Before Christmas, un toccante talkin’ solo per voce e chitarra.

Non vi dico ancora Buon Natale dato che siamo ancora a Novembre, ma buon divertimento con la coppia Buffett/Lynn, questo sì.

Marco Verdi

Armonica Blues Dalla California! Mitch Kashmar – West Coast Toast

mitch kashmar west coast toast

Mitch Kashmar – West Coast Toast – Delta Groove Music/Ird

I colleghi armonicisti, da Charlie Musselwhite allo scomparso William Clarke (di cui il nostro è una sorta di erede e utilizza anche gli stessi musicisti che suonavano nella band del musicista scomparso negli anni ’90 https://www.youtube.com/watch?v=hX49LPkuQtw ) ne hanno cantato le lodi, la critica lo indica quasi sempre tra i migliori rappresentanti della scuola del West Coast Blues, tanto che alla fine Mitch Kashmar ha dedicato anche il titolo del CD a questo filone del blues. Nato sul finire degli anni ’50 in California, secondo molti grazie alla figura di George “Harmonica” Smith, attualmente vede tra i suoi rappresentanti più validi Al Blake (già nella Hollywood Fats Band), Rod Piazza, con i suoi Mighty Flyers, Kim Wilson, con e senza Fabulous Thunderbirds, oltre al citato Clarke. E naturalmente Kashmar, che ritorna con questo nuovo album di studio West Coast Toast, il primo dopo una pausa di circa dieci anni, interrotta dall’uscita di un Live At Labatt del 2008 e di 100 Miles To Go, uscito nel 2010, ma che raccoglieva registrazioni degli anni ’80 con i Pontiax (e di cui mi pare di ricordare di essermi occupato ai tempi sul Buscadero, ma essendo ormai diversamente giovane, non ne sono sicuro, anche se certamente ho già scritto di Kashmar in passato) https://www.youtube.com/watch?v=_DchUBlCWyM . Tutti questi ultimi album sono usciti per la Delta Groove, l’etichetta di Van Nuys, California, per certi versi depositaria di questo suono della West Coast in ambito blues, un sound che prendendo spunto dalle 12 battute classiche di Chicago, aggiunge elementi swing, jazz, spesso l’uso dei fiati (ma non in questo caso), l’uso dell’armonica diatonica, anche amplificata, in alternanza con la cromatica, come fa il buon Mitch in questo album.

All’inizio vi dicevo che Kashmar utilizza gli stessi musicisti impiegati da William Clarke a metà anni ’80, ovvero Junior Watson alla chitarra, Bill Stuve al basso e il bravissimo pianista/organista Fred Kaplan, l’unica new entry è il batterista Marty Dodson. Tutti musicisti specializzati nell’accompagnare armonicisti: se aggiungiamo il consueto ottimo lavoro del produttore Jeff Scott Fleenor, che applica la classica formula del sound della Delta Groove, quindi riprendere i musicisti nella purezza del suono dei loro strumenti, molto ben definiti, e, ove possibile, registrati in sessions dove i protagonisti suonano insieme in studio, ottenendo la freschezza dell’approccio live applicata ad un ambiente chiuso. E mi sembra ci riesca. Il materiale si divide tra sei originali scritti dallo stesso Kashmar e cinque cover scelte con cura dall’immenso songbkook del blues. Intendiamoci, il disco non è un capolavoro assoluto e quindi difficilmente porterà nuovi proseliti tra le file dei seguaci delle 12 battute, ma gli appassionati del genere troveranno una piacevole aggiunta ai loro ascolti. Si apre con lo swingato e scatenato strumentale (uno dei quattro del disco) East Of 82nd Street, dove domina l’armonica amplificata di Karshmar, ma anche la chitarra di Watson ha modo di farsi apprezzare, oltre alla eccellente sezione ritmica.

Too Many Cooks, un brano di Willie Dixon, ci permette di apprezzare anche la voce di Mitch Karshmar, in possesso di uno stile canterino sicuro ed elegante, oltre al piano di Fred Kaplan, che comincia a cesellare sugli 88 tasti da par suo, mentre la successiva Young Girl era nel repertorio di Rudy Toomes, un musicista che persino Ray Charles citava tra le sue fonti di ispirazione, un bel pezzo tra blues e soul, con tocchi jazz grazie all’organo di Kaplan e alla chitarra accarezzata da Watson, senza dimenticare il cantato felpato del titolare. The Petroleum Blues, sempre a firma Kashmar, affronta tematiche sociopolitiche nel testo, ma lo fa con l’ironia tipica dei bluesmen, ed un ritmo a tempo di boogie veramente contagioso, sempre con i vari solisti, nell’ordine armonica, chitarra e piano, in grande spolvero (brano già apparso nel disco del 2010 https://www.youtube.com/watch?v=9I2OKd1ceTM). Mood Indica, altro strumentale, è il classico lento intenso che non può mancare, mentre Don’t Stay Out All Night, è uno shuffle in stile Chicago Blues, un brano gagliardo di Billy Boy Arnold, seguito da My Lil’ Stumptown Shack, un omaggio di Mitch Kashmar all’Oregon, lo stato dove si è trasferito per vivere, altro blues elettrico intenso. Di nuovo strumentale Makin’ Bacon, dove sembra quasi di ascoltare il New Orleans sound di Fats Domino e poi un omaggio al John Lee Williamson originale, il primo Sonny Boy, con una sanguigna Alcohol Blues, dove si apprezzano sia la voce vissuta come l’armonica cromatica di Mitch, e anche Love Grows Cold di Lowell Fulson, per quanto più mossa e divertita, si immerge a fondo nella tradizione, con la conclusione affidata al lungo strumentale Canoodlin’, dove tutti i solisti si mettono in luce di nuovo, divertendo l’ascoltatore con la loro perizia tecnica.

Bruno Conti

Molto Più Che Un “Altro” Disco Di Jerry Garcia! Hart Valley Drifters – Folk Time

hart valley drifters folk time

Hart Valley Drifters – Folk Time – ATO CD

Sappiamo benissimo che le radici di Jerry Garcia sono da ricercare nella tradizione folk, blues e bluegrass, influenze palesate saltuariamente con i Grateful Dead ed in maniera più netta prima negli anni settanta con gli Old & In The Way e con i New Riders Of The Purple Sage, e poi negli anni ottanta ed i primi novanta con gli splendidi dischi acustici in duo con David Grisman, ma anche con i live della Jerry Garcia Acoustic Band. Si pensava che queste influenze fossero tutte da ricercare nel disco inciso nel 1964 e pubblicato solo nel 1999 con i Mother McCree’s Uptown Jug Champions, band giovanile nella quale militavano anche i futuri compagni nei Dead Bob Weir e Ron “Pigpen” McKernan, un combo votato al recupero di brani della tradizione folk e blues, che ebbe un’importanza fondamentale nella formazione musicale del nostro. Si sapeva altresì che quella non era la prima esperienza di Jerry, dato che due anni prima era stato brevemente il leader di un quintetto denominato Hart Valley Drifters, dei quali però non si conosceva nulla, e neppure tra i più avidi fans dei Dead erano mai circolati nastri o bootleg riconducibili al fantomatico gruppo. Nel 2008, però, tale Brian Miksis (un tecnico del suono cinematografico conosciuto perlopiù in ambienti indipendenti) si imbatté in un nastro che riproduceva una session del 1962 degli HVD (registrata in mono presso la stazione radio KZSU  della Stanford University), con diciassette brani mai ascoltati prima: un ritrovamento eccezionale, del quale adesso abbiamo finalmente la possibilità di godere anche noi, grazie a questo splendido dischetto intitolato Folk Time e pubblicato dalla ATO Records sotto l’egida della Jerry Garcia Estate, un prodotto ufficiale quindi (e con le liner notes scritte proprio da Miksis).

Ma non è solo la scoperta in sé ad essere straordinaria (dopotutto, siamo di fronte alle prime incisioni in assoluto di uno dei musicisti più importanti del secolo scorso), ma anche la qualità del contenuto: Jerry, ad appena vent’anni, era già uno strumentista eccellente (qui canta, suona la chitarra acustica ed il banjo), ed il fatto di vederlo direttamente alle prese con il materiale che formerà il suo background musicale non ha prezzo. In più, troviamo tra i suoi compagni di viaggio due personaggi che in futuro incrocerà di nuovo, come Robert Hunter (qui al basso), che sarà il suo paroliere per tutta la carriera, ed il secondo chitarrista David Nelson, che fonderà nei seventies i già citati New Riders Of The Purple Sage (gli altri due membri del gruppo, il banjoista e violinista Ken Frankel ed il dobroista Norm Van Maastricht, pur continuando a suonare anche in seguito, hanno fatto perdere velocemente le proprie tracce). Folk Time è quindi una vera miniera d’oro per i fans di Garcia, ma anche per gli amanti del folk più puro, quarantadue minuti di musica sublime ed eseguita con una forza ed un feeling che sembra impossibile trovare in musicisti ventenni: i brani ( traditionals o cover di classici del folk, country o blues) sono tutti abbastanza brevi e diretti, niente a che vedere con le lunghe jam che Jerry affronterà in seguito con i Dead, ma proprio per questo ancora più godibili. E ho tenuto per ultima la cosa forse più impressionante di tutte: la qualità dell’incisione, davvero incredibile per pulizia, purezza e brillantezza, quasi fossero registrazioni di qualche mese fa, merito sicuramente del produttore e curatore del progetto Marc Allan (mentre le sessions originali erano state prodotte da Ted Claire), che ha dato a queste canzoni un suono veramente splendido, roba da non credere.

Dopo una breve e scherzosa auto-presentazione dei membri della band, si parte con una stupenda versione del traditional Roving Gambler, dominato dal banjo ma anche con tutti gli altri strumenti in grande spolvero, e Garcia vocalmente già maturo: gran ritmo, pur senza batteria, e performance cristallina. E, ripeto, incisione spettacolare, sembra incredibile che queste registrazioni siano rimaste sconosciute per decenni. Ground Speed è un breve e ficcante bluegrass (scritto da Earl Scruggs), un minuto e mezzo di musica suonata a velocità vorticosa, mentre Pig In A Pen, che rimane in territori bluegrass, offre una melodia corale classica, ed è eseguita anch’essa con forza straordinaria. Ed il livello rimane questo per tutta la durata del CD, con punte di eccellenza assoluta per il bellissimo folk-gospel Standing In The Need Of A Prayer, lo strumentale Flint Hill Special, con Jerry strepitoso al banjo e Nelson che non è da meno alla chitarra, il noto traditional Nine Pound Hammer, in una rilettura decisamente vigorosa, o ancora Handsome Molly, proposta in modo puro e delizioso. C’è spazio anche per un omaggio a Ralph Stanley, con la breve ma intensa Clinch Mountain Backstep, e per il fratello Carter, con una formidabile Think Of What You’ve Done, ancora con Garcia grandissimo al banjo; All The Good Times Have Past And Gone è un’altra folk song purissima, dal motivo scintillante ed eseguita alla grande, così come la saltellante Billy Grimes, The Rover, dal sapore irish, o la malinconica Sugar Baby, con il violino di Frankel sugli scudi. Il CD si chiude con la nota Sitting On Top Of The World (l’hanno fatta anche i Dead), in una versione folk-blues strepitosa, alla Mississippi John Hurt, davvero da brividi lungo la schiena, che rivela (ma non ce n’era bisogno) che Garcia era già un musicista straordinario.

Tecnicamente Folk Time non è una ristampa, essendo composto interamente da brani inediti, e quindi non ho nessuna remora a definirlo, anche per la sua importanza storica, il disco folk dell’anno.

Marco Verdi

*NDB Ora attendiamo qualche bella jam di Jerry all’asilo!

Stanno Per Tornare, E In Buona Compagnia, Concerto A Milano il 3 Dicembre E Nuovo Album. Lowlands And Friends – Play Townes Van Zandt’s Last Set

LOWLANDS locandina tonwes van zandttownes van zandt's last set

Il 3 dicembre del 1996 al Borderline di Londra si teneva quello che sarebbe stato l’ultimo concerto documentato di Townes Van Zandt. Il cantautore texano sarebbe scomparso, da lì a poco, il 1° gennaio del 1997, in quel di Nashville, per una aritmia cardiaca, scatenata dai postumi di una caduta casalinga avvenuta circa una decina di giorni di prima, non curata e causata a sua volta da anni di abusi di sostanze varie ed alcol, in quella che è stata una vita vissuta pericolosamente sempre ai limiti, e spesso oltre, da questo geniale artista che giustamente viene considerato uno degli artisti country più influenti tra coloro che si è soliti definire artisti di culto. Forse non a caso Van Zandt è morto lo stesso giorno, 44 anni dopo, in cui si spegneva la stella di Hank Williams, uno degli artisti da lui più ammirati. Per ricordare quell’evento particolare, parlo del concerto, Edward Abbiati, con i suoi Lowlands, stava lavorando da oltre anno ad un disco–tributo che indirettamente è anche un omaggio alla musica del musicista di Fort Worth, attraverso l’esatta riproposizione della scaletta di quel concerto particolare, quindi non attraverso la scelta dei brani più famosi o più amati di Townes Van Zandt, ma riproponendo pari quello che venne eseguito in quella fatidica serata del 3 dicembre di venti anni fa a Londra.

Essendo Ed quell’artista inventivo e portato alle collaborazioni che è sempre stato, per l’occasione (come era stato anni fa, 2012 per la precisione, per il disco dedicato a commemorare il centenario della nascita di Woody Guthrie, http://discoclub.myblog.it/2012/06/24/proseguono-i-festeggiamenti-better-world-coming-lowlands-fri/, in cui era stato affiancato da amici musicisti della zona pavese) ha scelto di invitare a suonare e cantare con lui questa volta una serie “importante” di amici da tutto il mondo con cui ha condiviso palcoscenici e dischi, fin dall’inizio della sua carriera; per cui in questo nuovo album, che uscirà ufficialmente il 9 dicembre per l’etichetta italiana Route 61 (ma sarà già disponibile anche nella serata di presentazione del disco proprio il prossimo 3 dicembre, allo Spazio Teatro 89 di Milano, come vedete dalla locandina ad inizio Post) troviamo musicisti che arrivano da Stati Uniti, Svezia, Inghilterra, Australia ed Italia. Posso anticiparvi che il disco è molto bello, ma comunque ho intenzione di tornarci con più calma al momento dell’uscita, con una recensione ad hoc, nel frattempo vi riporto la tracklist completa, con gli artisti ospiti, brano per brano:

1.       My Starter Won’t Start – Kevin Russell (Gourds) & the Gnola Blues Band

2.       Loretta – Stiv Cantarelli

3.       Pancho and Lefty  – Lucky Strikes, Michele Gazich & Sid Griffin

4.       Dollar Bill Blues – Cheap wine

5.       Buckskin Stallion – Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) & Winston Watson

6.       Katie Belle Blue – Richard Lindgren

7.       Marie  – Will T Massey  

8.       Waiting Around To Die – Chris Cacavas, Antonio Rigo Righetti & Winston Watson

9.       A Song For –  Tim Rogers  (You Am I)

10.   Short Hair Woman Blues – Ragsy

11.   Ballad Of The Three Shrimps with No Good Sisters

12.   Sanitarium Blues  with Will T. Massey, Tim Rogers and Rod Picott

13.   Tecumseh Valley/Dead Flowers (Rolling Stones)  – Rod Picott

14.   Colorado – Plastic Pals, Chris Cacavas  & Jonathan Segel (Camper Van Beethoven)

All’inizio di ogni brano, per aumentarne l’autenticità con una breve presentazione, appare il DJ inglese Barry Marshall Everitt, all’epoca tour manager di Townes Van Zandt, nonché ex gestore del Borderline, il locale in cui si tenne il concerto originale, e anche uno dei primi a passare in radio in Inghilterra i brani dei Lowlands. il gruppo pavese si presenterà alla serata milanese nella classica formazione a cinque: oltre a Ed Abbiati, voce e chitarra, Francesco Bonfiglio, tastiere e fisa, Roberto Diana, chitarre varie, Mattia Martini alla batteria e Manuel Pili, l’ultimo bassista entrato nella line-up. Gli ospiti previsti per il concerto, salvo sorprese, sono Stiv Cantarelli,  Maurizio “Gnola” Glielmo, Chris Cacavas Hawk Soold e Anders Sahlin della band svedese dei Plastic Pals, oltre a Max Paganin alla tromba. Quindi direi di intervenire numerosi alla serata, nel corso della quale verranno eseguiti ovviamente anche molti brani dal repertorio del quintetto pavese: chi già li conosce sa cosa aspettarsi,  ma i brani tratti dal nuovo album saranno una felice sorpresa  anche per i fans più accaniti. Mi ripeto, non anticipo la recensione, ma il disco, sentito in anteprima, è molto valido, e, a differenza di quanto mi aspettavo, cioè un disco intimo e soffuso, molte delle canzoni presenti sono eseguite in versioni full band, grintose ed aggressive quando serve, tenere e ricercate all’occorrenza, tutte con il giusto spirito dell’autore (non solo canzoni di Van Zandt, anche brani blues e Dead Flowers degli Stones posta in coda a Tecumseh Valley). E come chicca la possibilità di ascoltare una rara apparizone su CD di un altro artista di culto come Will T Massey.

Questo brano, che ascoltate qui sopra, venne registrato da Townes Van Zandt il 5 dicembre del 1996 a Austin, Texas, una delle sue ultime registrazioni.

Mi raccomando fatevi un appunto per non mancare al concerto, così volendo potete anche comprarvi l’album in anteprima sull’uscita.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Forse Il Tour Più Importante Di Sempre, E Per Una Volta A Prezzo Contenuto! Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings

bob dylan 1966live-480x480

Bob Dylan – The Complete 1966 Live Recordings – Sony 36CD Box Set

Direi che c’è abbastanza unanimità sul fatto che la tournée del 1966 di Bob Dylan, durante la quale si concretizzò il passaggio tra il folksinger dei primi anni ed il rocker del resto della carriera, sia stata una delle più importanti di tutti i tempi, se non la più importante. Per celebrare i 50 anni di quella serie di concerti, la Sony ha pubblicato questo sontuoso box di ben 36 CD, con all’interno tutte le registrazioni disponibili da quel tour (con alcune serate incomplete, ed in alcuni casi anche alcune canzoni): l’uscita non fa parte delle Bootleg Series dylaniane, ma resta un episodio a sé stante, con un occhio forse anche alla salvaguardia dei diritti d’autore sulle registrazioni, che scadono appunto dopo 50 anni: questa volta il box è anche offerto ad un prezzo accessibile, intorno ai cento/centoventi euro per 36 dischetti, forse anche per la confezione abbastanza spartana (c’è comunque un bel librettino con note del noto biografo Clinton Heylin – il quale ha appena pubblicato anche un libro a tema proprio su questo tour – ma niente a che vedere con i contenuti della Super Deluxe Edition di The Cutting Edge dello scorso anno, che però costava seicento dollari) o per il fatto che le scalette dei vari concerti sono (quasi) sempre le stesse.

In quel tour, Dylan usava presentarsi da solo con chitarra acustica ed armonica per la prima parte (sette canzoni), per poi essere raggiunto nella seconda metà (altri otto brani) da una band elettrica, che poi altri non erano che The Hawks, cioè la futura Band senza però Levon Helm (sostituito da Mickey Jones), quindi Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson. Ed il tour è passato alla storia anche per le contestazioni che Dylan era costretto a subire spesso quando passava al set elettrico, da parte di un manipolo di fans che non gli perdonavano la transizione da artista folk a rockstar, accusandolo in poche parole di essersi venduto (contestazioni che seguivano di un anno quella ormai leggendaria avvenuta al Festival di Newport, quando Bob salì sul palco con membri della Paul Butterfield Blues Band, tra cui Mike Bloomfiled, ed Al Kooper, scandalizzando i puristi): il culmine della protesta si ebbe nella famosa serata alla Free Trade Hall di Manchester (già pubblicata a parte come Bootleg Series Vol. 4, e presente comunque in questo box, con però come bonus una Just Like Tom Thumb’s Blues eseguita nel soundcheck), con il battibecco tra Dylan e tale Keith Butler, che gli urlò “Giuda!”, e Bob in risposta gli diede del bugiardo per poi ordinare alla band di suonare Like A Rolling Stone “fottutamente forte”. Tra l’altro, Bob aveva già all’attivo due dischi elettrici (la prima facciata di Bringing It All Back Home e tutto Highway 61 Revisited), e si era già esibito con una band in alcuni concerti americani dell’anno prima, quindi non si capisce del tutto l’astio di una parte del pubblico verso questo tipo di cambiamento.

bob dylan 1966live box

I dischi presenti nel box hanno tre diverse fonti di registrazione: la maggior parte proviene direttamente dal soundboard (cioè il mixer), ed è ottima anche se in mono, poi ci sono i concerti registrati dalla CBS in maniera professionale, in stereo (quello già citato di Manchester, i due di Londra alla Royal Albert Hall, e quello di Sheffield, ma di quest’ultimo stranamente solo la parte acustica, quella elettrica è soundboard), ed infine cinque CD di audience tapes, cioè registrati dal pubblico, messi alla fine del cofanetto e con una qualità da bootleg, presenti più che altro per il loro valore storico.

(NDM: per chi non vuole comunque sobbarcarsi la spesa dell’intero cofanetto, il 2 Dicembre uscirà in doppio CD – o doppio LP – The Real Royal Albert Hall Concert, che documenta la prima delle due serate a Londra, quella del 26 Maggio).

Dicevamo delle contestazioni, ma ascoltando attentamente il box si nota come Dylan non fosse criticato ovunque, ma soltanto in alcune date britanniche (anche se va detto che i concerti nel Regno Unito sono la grande maggioranza): i primi quattro CD, registrati a Sydney, Melbourne e Copenhagen, vedono infatti un Dylan accolto ottimamente dal pubblico (a parte un piccolo gruppetto, probabilmente organizzato, che a Sydney continua a chiedere  Hard Rain), e la performance di conseguenza ne esce più rilassata, con anche momenti ironici come l’introduzione parlata a Just Like Tom Thumb’s Blues (tra l’altro a Sydney troviamo una chicca assoluta, una rara versione dal vivo, nella parte elettrica, della splendida Positively 4th Street, un brano che non verrà più ripreso fino al tour con Tom Petty del 1986). Anche nei primi concerti in UK e Irlanda  la gente non è per nulla ostile, anzi applaude convinta anche la parte elettrica, come nel caso di Dublino, che comunque presenta uno dei migliori segmenti acustici di tutto il tour, con una Visions Of Johanna da antologia (suonata in anteprima come tutte le canzoni tratte da Blonde On Blonde, che uscirà nel pieno della tournée, il 16 Maggio, giorno dello show di Sheffield). Ad ogni modo Dylan mantiene sempre due atteggiamenti diversi a seconda del momento all’interno del concerto: rilassato, fluido e rigoroso nel canto durante la metà acustica, maggiormente teso e nervoso durante la parte rock, con le performance quasi sempre urlate nel microfono, e con una tensione crescente a seconda della risposta del pubblico, come se le contestazioni lo spingessero ad osare ancora di più (e sicuramente era così).

Riguardo alla scaletta, la parte acustica offre highlights assoluti come la già citata Visions Of Johanna e la lunga Desolation Row, ma anche una splendida It’s All Over Now, Baby Blue, oltre a pezzi “minori” ma impeccabili come She Belongs To Me e, in anteprima da Blonde Of Blonde (almeno fino a metà Maggio), la fluida 4th Time Around ed il futuro classico Just Like A Woman (forse l’unica che soffre leggermente l’assenza della band), per terminare con la sempre applauditissima Mr. Tambourine Man. La seconda parte, quella elettrica, rompe il ghiaccio con la roccata Tell Me, Momma, un brano inedito suonato solo in questo tour (non esiste neppure una versione di studio), una vera scossa per chi è abituato ad ascoltare il Dylan-menestrello, seguita da due arrangiamenti completamente stravolti delle originariamente acustiche I Don’t Believe You e Baby, Let Me Follow You Down, quest’ultima in una veste quasi rock’n’roll che suona fresca ancora oggi; dopo una solitamente rilassata Just Like Tom Thumb’s Blues, abbiamo il rock-blues chitarristico e trascinante di Leopard-Skin Pill-Box Hat e, dal periodo folk, la splendida One Too Many Mornings, bellissima anche in questa veste elettrica, con Danko alla seconda voce nel ritornello. Il finale è, in tutti i concerti del box, la parte saliente, con una grandissima Ballad Of A Thin Man, drammatica, intensa, pianistica, con Dylan che canta con grande forza, e la conclusiva Like A Rolling Stone, un pezzo che non ha bisogno di presentazioni, suonato sempre in maniera potente, con il muro del suono degli Hawks capace ogni volta di zittire anche i fischi.

La qualità delle performance è varia, ma non scende mai sotto il livello di guardia, al massimo ci sono serate in cui Bob sembra annoiato, quasi assonnato, anche se solo nella parte acustica (per esempio nei concerti di Belfast e Parigi, unica data nell’Europa “latina”, tra l’altro il giorno del suo 25° compleanno, il 24 Maggio), mentre ogni volta che attacca la spina sembra trasfigurarsi, forse spronato anche dalla presenza della band. Nelle serate di piena forma, invece, il concerto è un godimento dalla prima all’ultima canzone, cosa che già avevamo intuito nel 1998 con il live di Manchester (che rimane comunque uno dei migliori del tour), e giustifica in pieno la scelta di chi vuole accaparrarsi il cofanetto completo: Bob è infatti famoso da sempre per non suonare mai un brano due volte nello stesso modo, ed anche in questa tournée è bello notare le diverse sfumature nelle varie serate, e, ripeto, l’aumentare dell’intensità a seconda della forza della contestazione. Ma quindi, a parte Manchester, quali sono i concerti migliori? Sicuramente i due di Londra, con il secondo non di certo inferiore a quello pubblicato a parte (e dove la tensione tra Dylan ed il pubblico raggiunge livelli altissimi), ma anche Newcastle e Sheffield (che forse presenta la migliore parte acustica in assoluto del tour, eseguita con una precisione millimetrica): performance incendiarie, quasi feroci, con Dylan che riversa sul pubblico tutta la rabbia che ha in corpo e la band si dimostra già quel grande gruppo che da lì a due anni si farà conoscere con Music From Big Pink, con Robertson in particolare stato di grazia.

Ottima anche la serata di Cardiff, di cui è presente solo la parte elettrica, il primo concerto britannico con qualche contestazione, anche se tiepida (solo la sera prima, a Bristol, era filato tutto liscio, con la gente ben disposta e che rideva anche di gusto alle battute di Dylan, e tra l’altro in questo concerto c’è una Ballad Of A Thin Man da urlo); Glasgow è invece il punto più alto per quanto riguarda le proteste dei fans, subito seguita in questo da Liverpool (entrambi i concerti sono su un solo CD ciascuno, mancando tutti e due dei primi tre brani acustici), ma anche in questi due casi Dylan risponde con una prova splendida, di grande intensità emotiva. E poi c’è Parigi, all’Olympia, un concerto a lungo mitizzato, con Bob che ha grossi problemi nella prima parte ad accordare la chitarra (cosa che lo infastidisce parecchio), ma è assolutamente inarrivabile nella seconda, con il pubblico francese che, forse un po’ a sorpresa, applaude convinto dalla prima all’ultima canzone senza tracce di protesta. Infine abbiamo gli ultimi cinque CD, quelli con gli audience recordings, che si riferiscono a tre concerti americani di warm-up tenutisi a Febbraio (White Plains, Pittsburgh e Hampstead), più frammenti della prima serata a Melbourne e di quella a Stoccolma: la qualità è, per usare un eufemismo, non eccelsa, ed è un peccato perché le performance sono di buon livello, e nella parte acustica delle serate americane troviamo due splendide canzoni come Love Minus Zero/No Limit e To Ramona, in seguito eliminate dalla setlist.

Forse il box completo è un po’ troppo per il “non dylaniano”, ma c’è da tener presente che, come già successo un anno fa con The Cutting Edge, siamo catapultati nel bel mezzo della storia della musica contemporanea in una sorta di Ritorno Al Futuro rock: se il box dello scorso anno lo avevo paragonato a Leonardo Da Vinci che dipingeva la Gioconda, qui è come assistere ad una rappresentazione teatrale di William Shakespeare con i suoi Chamberlain’s Men.

Marco Verdi

Una “Nuova” Inattesa Sorpresa Dall’Irlanda. Planxty – Between The Jigs And The Reels CD+DVD

planxty between the jigs and the reels

Girando per la rete, sempre alla ricerca di notizie interessanti da condividere sul Blog, mi sono imbattuto in questa interessante pubblicazione della Universal Music Ireland (destinata solo al mercato interno britannico e quindi non pubblicata negli altri paesi europei) dedicata alla grande formazione irlandese dei Planxty. La band non dava notizie di sé a livello discografico dal Live 2004 pubblicato dal gruppo nella propria terza incarnazione, anche se poi a livello concertistico tre dei quattro componenti originali avevano fatto nel 2012 un tour come LAPD (dalle iniziali di Liam O’Flynn, Andy Irvine, Paddy Glackin Donald Lunn) dove all’appello mancava solo il grande Christy Moore. Tutti gli appassionati della musica acustica di area celtica sono certo che conoscono i Planxty, apparsi sulla scena nel lontano 1972, e che, come detto, nelle tre fasi della loro carriera, hanno rilasciato una serie di sei album in studio, uno dal vivo (e un altro pubblicato senza la loro autorizzazione, Best Of Planxty Live, pubblicato nel 1987 su cassetta, ma che conteneva registrazioni del 1980), oltre ad una serie di compilations e antologie, anche con materiale inedito.

Ma questo “nuovo” Between The Jigs And The Reels è una sorta di Santo Graal per i fans della band irlandese: un doppio album, CD+DVD, con il DVD come bonus (o se preferite due al prezzo di uno, anche dalla copertina non è chiaro il contenuto), anche con la sterlina che ultimamente dopo la botta della Brexit è risalita di valore, comunque a un prezzo veramente interessante, forse non di facilissima reperibilità, ma assolutamente fantastico per i suoi contenuti. Il primo dischetto in effetti è “solo” un CD antologico, con 17 brani, tratti dalla loro discografia: ma comunque fondamentale anche per i completisti, con la presenza del raro singolo del 1981 Nancy Spain, che sul lato B presentava la suite composta da Donal Lunny Bill Whelan, all’epoca in formazione, intitolata Timedance, da cui il secondo poi avrebbe preso spunto per creare la famosa serie di musiche e balletti conosciute in seguito come Riverdance. E l’altra chicca fu che il brano venne usato come pezzo da mandare in onda nell’intervallo dell’Eurovision Song Contest (il nostro Eurofestival per intenderci) tenutosi a Dublino il 4 aprile del 1981, con tanto di accompagnamento, insieme ai Planxty, di una orchestra sinfonica e di una sezione ritmica. E lo si ritrova, in versione Live, anche nel DVD, estratto da un concerto del 1982 al National Stadium. E proprio la parte video è la grande sorpresa di questa confezione: 36 brani registrati per RTE, la televisione irlandese, tra il 1972 e il 1982, più o meno tutti inediti e il vero motivo per cui acquistare questo doppio, anche per chi ha giù tutto di questa formazione, Ma che per non li conosce è comunque l’occasione per fare la conoscenza con uno dei più grandi gruppi della storia del revival del folk anglo-scoto-irlandese, tra innovazione e tradizione, guidato dai due grandi cantanti come Andy Irvine e Christy Moore, con l’ottimo Liam O’Flynn alle uilleann pipes e tin whistles, e il polistrumentista Donal Lunny, futuro catalizzatore anche della Bothy Band e dei Moving Hearts (con Moore).

Negli anni nella formazione sono passati anche Matt Molloy (futuro Chieftains) al flauto, Paul Brady (entrato come sostituto do Christy Moore, in uno dei suoi periodi sabbatici), Noel Hill concertina e Tony Hill, violino, aggiunti al gruppo per la registrazione di The Woman I Loved So Well del 1980. E ancora Nollaig Casey James Kelly, anche loro presenti al violino in alcuni brani. Come dicevo poc’anzi i brani del dischetto audio sono tutti editi (a parte le due rarità citate) nei sei dischi di studio della band; Planxty del 1973 ( i brani 3, 4, 12 e 15), The Well Below The Valley del 1973 (le tracce 2, 11), Cold Blow And The Rainy Night del 1974 (il pezzo 5), After The Break del 1979 (brani 7, 10, 14), The Woman I Loved So Well  del 1980 (pezzi 1 e 13) e Words And Music (brani 6, 8, 9), oltre alle due canzoni del singolo.

E questa è la tracklist completa del disco audio:

1. True Love Knows No Season (Billy Gray)

2. Pat Reilly

3. Sí Bheag, Sí Mhór

4. Follow Me Up To Carlow

5. Băneasă’s Green Glade / Mominsko Horo

6. The Aconry Lasses / The Old Wheels Of The World / The Spike Island Lasses

7. The Pursuit Of Farmer Michael Hayes

8. Accidentals / Aragon Mill

9. The Irish Marche

10. The Rambling Siúler

11. The Well Below The Valley

12. Junior Crehan’s Favourite / Corney Is Coming (Reels)

13. Roger O’Hehir

14. Smeceno Horo

15. The West Coast Of Clare

16. Nancy Spain

17. Timedance

Le canzoni del video vengono da varie diverse occasioni:

    • Live from the Late Late Show (1972) – (track 1),
    • The Music Makers, Live from the National Stadium (1973) – (tracks: 2–10),
    • Live from the Abbey Tavern (1980) – (tracks: 11–18),
    • Live Aisling Gheal Special (1980) – (tracks: 19–22),
    • Festival Fold, Live from the National Stadium (1982) – (tracks: 23–36)

E questo è la lista completa dei brani contenuti nel DVD:

1. The Blacksmith / Blacksmithereens

2. Three Drunken Maidens / The Foxhunter’s Reel

3. When First Unto This Country

4. Sweet Thames Flow Softly

5. The Gold Ring (Jig)

6. Hey! Sandy

7. Kitty Gone A Milking / Music Of The Forge (Reels)

8. Only Our Rivers Run Free

9. Raggle Taggle Gypsy / Tabhair Dom Do Lámh

10. Three Drunken Maidens / The Foxhunter’s Reel (Reprise)

11. The Good Ship Kangaroo

12. Ride A Mile / Hardiman The Fiddler / The Yellow Wattle (Jigs)

13. The Hackler From Grouse Hall

14. An Bonnán Buí / The West Wind (Reel)

15. The Jolly Beggar

16. Sally Brown

17. Bean Pháidín / Rakish Paddy

18. Little Musgrave

19. East At Glendart / Brian O’Lynn / Pay The Reckoning (Double Jigs)

20. The Lady On The Island / The Gatehouse Maid / The Virginia / Callaghan’s (Reels)

21. As I Roved Out

22. Smeceno Horo

23. Johnny Of Brady’s Lea

24. The Pullet / The Ladies’ Pantalettes (Reels)

25. I Pity The Poor Immigrant

26. Arthur McBride

27. True Love Knows No Season (Billy Gray)

28. Timedance

29. You Rambling Boys Of Pleasure

30. The Good Ship Kangaroo

31. Táimse Im’ Chodladh

32. Thousands Are Sailing

33. The Queen Of The Rushes / Paddy Fahy’s (Jigs)

34. Little Musgrave

35. The Scholar / The Chattering Magpie / Lord McDonald’s / The Virginia / Callaghan’s (Reels)

36. The Cliffs Of Dooneen  

Che altro dire, una “piccola” meraviglia da non lasciarsi sfuggire.

Bruno Conti

Ecco Un Altro Che Di Dischi Ne Fa Pochini! Dale Watson – Under The Influence

dale watson under the influence

Dale Watson – Under The Influence – Red River CD

Dale Watson, countryman nato in Alabama ma texano al 100%, è sempre stato uno prolifico, ma ultimamente non si ferma più, in quanto si è ormai messo a viaggiare al ritmo di due dischi all’anno: lo avevamo da poco lasciato tra bingo ed escrementi di gallina nello strano live Chicken Shit Bingo http://discoclub.myblog.it/2016/10/24/cacca-gallina-vero-chitarre-dale-watson-his-lonestars-live-at-the-big-t-roadhouse/  che subito ci ritroviamo tra le mani questo Under The Influence, nel quale Dale, come suggerisce il titolo, paga il suo tributo ad artisti e canzoni importanti per la sua formazione musicale. Watson, nonostante la prolificità, è uno che raramente delude, magari non farà mai il capolavoro assoluto, ma quando si mette nel lettore uno dei suoi CD si può star certi di passare una quarantina di minuti in compagnia di ottimo country-rock texano, elettrico e pieno di ritmo, tra honky-tonk fulminanti, gustosi swing e ruspanti boogie e rockabilly, con il vocione del nostro a dominare ed il preciso accompagnamento dei fidi Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria, l’ottimo Don Pawlak alla steel, vero strumento protagonista nell’economia del suono della band, oltre a Earl Poole Ball e T Jarod Bonta al piano).

Under The Influence è un disco decisamente più serio del live da poco pubblicato, e ci fa ritrovare il Watson che più apprezziamo, che, alle prese con un repertorio di grandi canzoni come quelle da lui scelte per questo progetto, non può che fare faville: in più, oltre ad indicare come da prassi i titoli dei brani ed i loro autori, Dale specifica anche a quale versione si è ispirato per la sua cover. Ed il risultato è, come potete intuire, decisamente riuscito. Lonely Blue Boy, un successo di Conway Twitty, ha un delizioso sapore retrò, con tanto di cori doo-wop, gran voce di Dale ed un piacevole alone nostalgico https://www.youtube.com/watch?v=6Dxe0gVPu6U ; You’re Humbuggin’ Me, resa nota da Lefty Frizzell, è puro rockabilly texano, fresco, ritmato e coinvolgente, con un ottimo uso del piano, mentre Lucille, il noto brano di Little Richard, è però riproposto basandosi sulla versione di Waylon Jennings, e Watson mantiene intatta l’atmosfera tipica dello scomparso outlaw, voce tonante, suono potente ed un’aria southern che non guasta. Made In Japan (Buck Owens) è country puro e scintillante, con una splendida steel, melodia classica e grande feeling, That’s What I Like About The South appartiene invece al repertorio di Bob Wills ed è, manco a dirlo, un guizzante western swing dal ritmo acceso ed assoli continui, un elemento in cui il nostro si trova particolarmente a suo agio, mentre Here In Frisco è il primo di due tributi a Merle Haggard, un bellissimo slow in puro Bakersfield style, con la voce di Dale che evoca quella del grande Hag.

Ancora country puro con Pretty Red Wine, di Mel Tillis, un brano saltellante, cadenzato e godibilissimo, con gustosi intrecci tra la chitarra di Watson e la steel di Pawlak; Pure Love è un pezzo scritto da Eddie Rabbitt ma reso popolare da Ronnie Milsap, un brano mosso, anch’esso caratterizzato da un motivo molto classico, ma non intriso di pop come ha spesso fatto il famoso cantante non vedente; I Don’t Wanna Go Home è un giusto omaggio a Doug Sahm con una languida ballata, non male ma io avrei preferito un bel tex-mex, o qualcosa che comunque identificasse meglio l’ex Texas Tornado. Il CD si chiude con il ritmato honky-tonk Most Wanted Woman (Roy Head), un tipo di canzone che Dale canta anche sotto la doccia, la ruspante e roccata If You Want To Be My Woman, ancora Haggard, e con il superclassico Long Black Veil, un brano che hanno rifatto in mille (ricordo splendide versioni di The Band, Joan Baez, Mick Jagger con i Chieftains ed anche di Nick Cave), ma Watson si ispira alla famosa rilettura di Johnny Cash, anche se il confronto con l’Uomo in Nero è assai arduo per chiunque.  Un’altra buona prova per Dale Watson: adesso speriamo che si prenda almeno sei mesi di pausa prima di un altro disco.

Marco Verdi

Anche Se “Mini” L’Unione Fa…Un Bel Disco! Mini-Mekons & Robbie Fulks – Jura

mini mekons robbie fulks jura

Mini-Mekons & Robbie Fulks – Jura – Bloodshot CD

Pubblicazione in CD a larga diffusione di un disco uscito solo in vinile lo scorso anno per il Record Store Day: Jura è una collaborazione inedita e molto particolare tra il prolifico Robbie Fulks, musicista alternative-country autore di diversi album a suo nome (e che da troppo tempo non rilascia zampate degne di nota) ed il combo anglo-americano dei Mekons, qui ribattezzati Mini-Mekons, in quanto solo cinque di essi hanno partecipato alle sessions (i più importanti, non me ne vogliano gli altri: il leader Jon Langford, la vocalist Sally Timms, l’ottima violinista Susie Honeyman, il fisarmonicista Rico Bell ed il chitarrista Lu Edmonds). E’ successo che i sei sono andati fisicamente a Jura, un’isola dell’arcipelago delle Ebridi (a Sud della Scozia), a scrivere ed incidere undici brani di puro British folk, con marcate implicazioni Irish. Jura è una piccola isola di appena 170 abitanti, con un paio di paeselli, un hotel ed una distilleria di whisky (le immagini pubblicate nel libretto del CD, con tanto di faro, mi fanno venire in mente i romanzi di Peter May), ed è famosa più che altro in quanto George Orwell vi ha completato la sua opera più famosa, 1984.

Evidentemente l’atmosfera del luogo (e magari qualche whisky) è stata di aiuto all’improvvisato supergruppo, in quanto Jura  è un dischetto davvero sorprendente, di sicuro la cosa migliore messa su disco sia da Fulks sia dai Mekons da diversi anni a questa parte: l’album dura solo 34 minuti, ma sono minuti molto intensi, nei quali i sei ci deliziano con brani di folk puro ed incontaminato, con il solo uso di strumenti a corda, fisa ed organo, ma senza sezione ritmica, dividendo le performances tra canzoni più profonde e drammatiche ed altre più scanzonate, alla stregua di veri canti marinareschi (il mare è l’argomento principale nei testi). Un disco fresco, creativo, stimolante e, soprattutto, inatteso. Introdotta da un organo quasi ecclesiastico, A Fearful Moment rivela una splendida melodia epica, con chiare influenze irlandesi ed un languido violino: un brano sorprendente, bellissimo e toccante (ricorda molto certe performances di Neil Young al pump organ). Refill cambia subito registro: trattasi di un folk-blues acustico, due chitarre, un’armonica e le voci, con un deciso cambio di registro nel ritornello; con An Incident Off St. Kitt’s siamo ancora in Irlanda, una voce circondata da strumenti a corda (c’è anche un ukulele) che suonano con grande forza, un brano semplice ma riuscito, che dimostra che siamo di fronte ad un progetto serio, non ad un divertimento estemporaneo.

Shine On Silver Seas (canta la Timms), è una struggente e malinconica ballata che dona emozioni a profusione pur solo con una chitarra ed un violino, mentre Land Ahoy!, maggiormente strumentata, è puro folk, un sea shanty limpido e cristallino, ancora con lo splendido violino della Honeyman in evidenza; e che dire di Beaten And Broken, una trascinante e coinvolgente canzone marinaresca, da canticchiare dopo mezza strofa: sembrano i Fairport Convention d’annata, quelli di dischi “di mezzo” (ma belli) come Angel Delight e Babbacombe Lee. La fluida Getting On With It affianca per la prima volta elementi western alla solita matrice Irish (l’origine, se vogliamo, è la stessa) ed il tutto, manco a dirlo, funziona a meraviglia; I Am Come Home è ancora lenta ed intrisa di malinconia, con un bel coro sullo sfondo, mentre The Last Fish In The Sea è un country-folk giusto a metà tra Gran Bretagna ed America. Il CD, ripeto, una vera sorpresa, si chiude con l’intensa I Say, Hang Him!, il classico brano che i marinai possono cantare solo dopo un’allegra bevuta in compagnia, e con Go From My Window, l’unico traditional del disco, puro folk d’altri tempi, dal pathos sempre alto e toni drammatici.

Ha fatto bene la Bloodshot a rendere disponibile questo Jura su scala più larga, sarebbe stato un vero peccato perderselo.

Marco Verdi

Correva L’Anno 1967! Tim Buckley Splendido Inedito – Lady, Give Me Your Key: The Unissued 1967 Solo Acoustic Sessions

tim buckley lady, give me your key

Tim Buckley – Lady, Give Me Your Key: The Unissued Solo Acoustic Sessions – Future Days Recordings/Light In The Attic

Nel corso dei lunghi anni intercorsi dalla scomparsa di Tim Buckley, avvenuta nel lontano 1975 a soli 28 anni (ebbene sì, per un pelo non è rientrato nel “club dei 27”), è uscito molto materiale d’archivio inedito, quasi sempre registrazioni dal vivo, a parte lo splendido The Dreams Belongs To Me. Rare And Unreleased 1968-1973, la versione doppia Deluxe del primo album omonimo dove c’era un intero CD di registrazioni inedite e anche Works in Progress un disco della Rhino, con versioni alternative di brani poi apparsi su Happy Sad, pubblicato nel 1999, e quindi a questo punto, dopo così tanti anni, forse più nessuno si aspettava un altro album di pezzi di studio, tra cui molte canzoni inedite in assoluto, il tutto inciso nel 1967, durante il lavoro di preparazione per il suo secondo album Goodbye And Hello. Anche se in tutti questi anni, giustamente, la leggenda di Tim Buckley non ha mai cessato di intrigare ed interessare sia i vecchi fans come le nuove generazioni: non male per un cantante il cui album di maggior successo, Happy Sad, arrivò solo fino all’81° posto delle classifiche di vendita americane.

Oddio, se proprio vogliamo, purtroppo, per molti dei più giovani Tim è solo il babbo di Jeff Buckley, quello che lo ha abbandonato quando era ancora in fasce, e con la cui figura il figlio, solo negli ultimi anni della sua travagliata esistenza, stava venendo per certi versi a confrontarsi ed accettarla. Ma, almeno secondo chi scrive, Tim Buckley è stato uno dei più grandi ed innovativi cantautori della storia del rock, in possesso di una voce incredibile (superiore a quella, pur eccellente di Jeff), definito l’uomo dalla voce d’angelo, in grado di spaziare dalle note più basse a falsetti incredibili, oltre a creare spericolate esplorazioni vocali ancora oggi spesso insuperate. Questo è quanto avevo scritto brevemente su di lui nell’estate del 2010, in un articolo cumulativo dove andavo alla ricerca di alcuni personaggi (e album) poco conosciuti della nostra musica http://discoclub.myblog.it/2010/07/23/qualche-consiglio-musicale-per-le-vacanze-kevin-welch-eric-a/. Forse la  sua storia non è del tutto nota, ma riassumento, molto succintamente: Buckley si avvicina alla musica nel 1965, quando era ancora alla High School ed iniziava a frequentare Mary Guibert, che sarebbe stata per un brevissimo periodo sua moglie, e poi la mamma di Jeff, nel 1966 viene notato da Jimmy Clark Black, che era il batterista delle Mothers Of Invention di Zappa, che lo presenta al loro manager Herb Cohen, il quale a sua volta lo mette in contatto con Jac Holzman, il boss della Elektra, che lo stesso anno lo manda in studio con Paul Rothchild, il produttore dei Doors, e con l’aiuto di alcuni musicisti sopraffini come Lee Underwood alla chitarra (che disse di lui “Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano e John Coltrane per il sassofono”), Jim Fielder al basso, Billy Mundi alla batteria, e il grande Van Dyke Parks alle tastiere (all’epoca impegnato con i Beach Boys), realizza un piccolo capolavoro folk-rock, l’omonimo Tim Buckley, con l’aiuto dell’amico e paroliere Larry Beckett. All’epoca Tim aveva solo 19 anni.

L’anno successivo, dopo l’ottimo successo di critica, ma volendo anche di pubblico, i dischi comunque all’epoca vendevano nell’ambito delle centinaia di migliaia di copie, Tim Buckley inizia la preparazione per il suo secondo album di studio Goodbye And Hello, incidendo una serie di demo solo voce e chitarra (ma questo lo scopriamo solo oggi) che non vedranno la luce fino alla pubblicazione di questo Lady, Give Me Your Key. Registrazione molto buona, a parte quelli, tre, su un acetato che era in possesso di Larry Beckett e che peraltro, a parte il fruscio del vinile, si sentono comunque bene: 13 brani in tutto, mai pubblicati prima in questa versione, sei dei quali appariranno poi con una strumentazione più complessa appunto su Goodbye And Hello  e sette canzoni inedite (due delle quali erano sbucate, in diversa versione, nelle varie compilations live e in studio uscite negli anni ’80 e ’90). Ed è un piacere ascoltare di nuovo la voce di un Tim Buckley, allora ventenne, nel pieno del suo sviluppo musicale, sviluppo che poi negli anni a venire avrebbe preso strade molto complesse, con dischi come Bllue Afternoon, Lorca Starsailor, per poi approdare, nel finale di carriera, prima della prematura scomparsa, al  funky-rock carnale e chitarristico di un disco come Greetings From L.A., che ho rivalutato nel corso degli anni https://www.youtube.com/watch?v=glbyJIaWOWw , e a dischi minori come Sefronia Look At The Fool, che però avevano alcune canzoni splendide, penso a Dolphins di Fred Neil su Sefronia.

La confezione è un elegante digipack, nel libretto interviste al paroliere Larry Beckett e a Jerry Yester dei Lovin’ Spoonful, che raccontano la genesi di questi nastri e parlano dell’uomo Tim Buckley al di là del mito. I primi quattro brani sono tra gli inediti del CD. solo voce e chitarra acustica come detto, ma la voce e il carisma già si percepiscono anche in questa dimensione folk: Sixface, subito scintillante, con quella voce inconfondibile e inconsueta che passa da un falsetto quasi estremo al suo tenore abituale, ci presenta un cantautore che già spingeva la sua ricerca vocale lontano da quella che era l’abituale approccio dei cantanti dell’epoca, accompagnamento di chitarra minimale ma grande intensità. Contact,  mossa e con continui cambi di tempo, ma con una melodia più accentuata, Lady, Give Me Your Key con Tim che scherza con il tecnico in studio prima di partire con il brano, un pezzo più complesso, dalla melodia tipica avvolgente dei suoi brani del periodo folk, con un testo leggermente mistico, ma sempre nell’ambito delle love songs anche ardite, mentre Once Upon A Time, come Contact, è un bozzetto, dal tempo incalzante, la chitarra quasi percossa, alla Richie Havens e la voce che spinge a lungo le note nel suo stile caratteristico, prima di esplodere nei suoi acuti quasi impossibili. Once I Was, lenta e solenne, è in una versione più lunga di quella che poi apparirà su Goodbye And Hello, la voce solenne ed intensa, magnifica per il modo in cui comunica con l’ascoltatore, rapito come il cantante.

I Never Asked To Be Your Mountain era uno dei centrepiece del disco del 1967, e  anche in questa versione, pur in una dimensione acustica, indica quella che sarà la futura svolta più complessa e all’avanguardia della musica di Buckley, con questa voce stentorea e decisa che ti colpisce per l’impeto e la veemenza che si percepiscono anche in un “semplice” demo. Anche Pleasant Street sarà presente in Goodbye And Hello, altra versione splendida dall’atmosfera sospesa che si anima improvvisamente a tratti, in questo stile acido e visionario, tipico del grande cantautore di Washington, DC, uno dei maestri dell’improvvisazione vocale nella musica folk e rock. Knight-Errant uno dei brani scritti con Larry Beckett, con il leggero fruscio dell’acetato dell’epoca che aggiunge solo ulteriore fascino a questo miracoloso ritrovamento di materiale inedito, è un’altra canzone che esplora il lato favolistico e mistico dell’opera di Tim, mentre la successiva Marigold, sempre dall’acetato di proprietà dello stesso Beckett, è un altro degli inediti assoluti, una sorta di folk-blues à la Buckley,meno esplosivo e più raccolto, ma sempre godibile nella sua “semplicità”, come pure una versione, cantata in un delicato semi-falsetto, della dolce Carnival Song. 

Mentre la successiva antimilitarista No Man Can Find The War, che apriva Goodbye And Hello, scritta con Beckett e che viene dal nastro di studio, non ha perso un briciolo della sua grinta e potenza, a quasi 50 anni dalla registrazione originale, magnifica. Alla fine del disco gli ultimi due inediti: I Can’t Leave You Lovin’ Me, incalzante e che nell’arrangiamento funky-rock di Greetings From L.A avrebbe fatto sfracelli. La conclusiva She’s Back Again è un’altra delle sue tipiche folk ballads degli inizi, urgente ed incalzante, come se Tim Buckley già presagisse che il tempo gli sarebbe sfuggito dalle mani in un non lontano futuro e quindi il presente era da vivere con intensità. Questo album non si trova facilmente, costa abbastanza caro, ma per gli amanti di Tim Buckley è indispensabile, e forse anche per gli altri.

Bruno Conti

E Questi Invece Li “Manda” Sempre Johnny Winter: Bravi Ma Non Indispensabili. Jay Willie Blues Band – Hell On Wheels

jay willie blues band hell on wheels

Jay Willie Blues Band – Hell On Wheels – Zoho Music

Questo è il quarto album consecutivo (ce ne sarebbe un quinto uscito per la Musis Boulevard in Europa) pubblicato dalla Zoho Music per la band del Connecticut, guidata da Jay Willie, ma che vede nelle propria fila, come membro onorario, anche l’armonicista Jason Ricci, e dallo scorso album http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/tornano-gli-amici-johnny-winter-jay-willie-blues-band-johnnys-juke-joint/ pure la poderosa vocalist del New England Malorie Leogrande. Il nome di peso è quello di Bobby T Torello, il vecchio batterista di Johnny Winter, mentre a completare la formazione ci sono il bassista Steve Clarke https://www.youtube.com/watch?v=Rd_SupH4UKs  e il sassofonista Teddy Yakush, impegnato anche alle tastiere., o all’armonica quando non c’è Ricci. Il repertorio pesca sempre principalmente dal passato, e se nel disco precedente c’erano covers di Wooly Bully, You Got Me Dizzy, Barefootin’, People Get Ready, oltre all’inevitabile tributo al maestro Winter con una versione di I Love Everybody, oltre a pezzi blues di Robert Johnson, James Cotton, Buddy Guy & Junior Wells che permettevano di gustare le evoluzioni all’armonica di Jason Ricci, anche in questo album, a fianco di quattro brani originali della band, troviamo alcune canzoni molto conosciute.

Da una torrida Willie And The Jand Jive di Johnny Otis, che si trovava su 461 Ocean Boulevard di Eric Clapton, che troviamo in una versione a cavallo tra un drive alla Bo Diddley e il classico blues elettrico, con l’armonica di Ricci protagonista assoluta, passando per The Horse, dove all’armonica si aggiunge la pimpante voce della Leogrande, veramente una cantante di classe, per un sano tuffo nel rock-blues più veemente, poi ripreso a fine disco anche in una versione strumentale dove è la chitarra di Jay Willie ad avere un maggiore spazio. Anche la title-track Hell On The Wheels profuma di sano blues-rock, sempre con l’armonica (e la batteria) protagoniste, mentre la voce del leader non rimarrà negli annali dei grandi cantanti (o è Bob Callahan, l’altro chitarrista e cantante che non avevamo citato?), viceversa il lavoro alla slide si apprezza. Non tutto è memorabile nel disco, You Left The Water Runnibg, la versione di un classico Stax scritto da Dan Penn e noto per le versioni di Redding e Pickett, tramutato in un blues, pur con discrete prestazioni della Leogrande e della slide di Willie, non brilla; molto meglio Alive Again, un gagliardo pezzo dove rivive lo spirito del Johnny Winter più sanguigno, con Jay Willie veramente micidiale nell’occasione, e assai piacevole pure la cover di un vecchio classico Motown delle Marvelettes The Hunter Captured By The Gane, con la voce sexy della brava Malorie Malone ben coadiuvata ancora una volta dall’armonica di Ricci.

Peccato per un classico assoluto come Take Me To The River, il pezzo di Al Green trasformato in un anonimo funky-rock, mentre funzionano, grazie alla Leogrande, le due cover dei brani, in sequenza, di Barbara Lynn, This Is The Thanks I Get, con sax aggiunto e la bellissima ballata soul You’ll Loose A Good Thing. Everybody è un anonimo R&R vagamente alla J.Geils Band, qui neppure il buon solo di slide può fare molto; non male, anzi molto bella, ancora una volta grazie al contributo della brava Malorie, la delicata versione, solo voce e il basso elettrico di Clarke, di uno splendido brano anni ’50 di Little Sylvia, A Million Tears. Prima della ripresa di The Horse, una discreta 21, dai ritmi funky blues e con la voce ricca di echi e riverberi della Leogrande, conclude il disco. Sempre piacevole ma non indispensabile.

Bruno Conti