Semplicemente Uno Dei Migliori Chitarristi Americani! Sonny Landreth – Recorded Live In Lafayette

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Sonny Landreth – Recorded Live In Lafayette – Mascot/Provogue 2CD

Clyde Vernon “Sonny” Landreth non lo scopriamo certo oggi. In giro dagli anni ottanta, si è fatto conoscere inizialmente come chitarrista di John Hiatt (l’album era Slow Turning, il seguito del magnifico Bring The Family), dato che in quegli anni i suoi (pochi) album erano maldistribuiti e quindi difficili da reperire. Poi, negli anni novanta, prima con Outward Bound, ma soprattutto con l’ottimo South Of I-10, Sonny ha alzato la testa cominciando a crearsi un seguito come musicista di culto, ottenendo anche l’apprezzamento di diversi colleghi che lo hanno voluto a suonare con loro (due a caso, Eric Clapton e Mark Knopfler, non proprio degli sprovveduti). Ha inciso pochi dischi Landreth, ma quasi sempre con una qualità molto alta (Levee Town e The Road I’m On sono i miei preferiti), ed il suo particolare stile, che fonde blues (il suo genere di appartenenza) e zydeco (essendo lui della Louisiana), unito al fatto di essere forse il miglior chitarrista slide in circolazione insieme a Ry Cooder (NDB E Derek Trucks dove lo mettiamo? Parlando solo dei viventi!), gli hanno fatto guadagnare il soprannome di “The King Of Slydeco”. Sonny fino ad oggi aveva all’attivo un solo album dal vivo, l’ottimo Grant Street (2005), ma questo nuovo Recorded Live In Lafayette, registrato in diverse serate di Gennaio 2017 appunto a Lafayette, Louisiana, oltre ad essere doppio (Grant Street era singolo), si pone su un livello addirittura superiore, candidandosi forse a miglior disco della sua carriera.

Recorded Live In Lafayette è un album formidabile, suonato in maniera eccellente da Sonny e dalla sua band, un trio formato, oltre che da lui, da David Ranson al basso e Brian Brignac alla batteria: il gruppo per l’occasione è aumentato da due elementi, che però danno un tocco vincente al suono del concerto, vale a dire Sam Broussard, secondo chitarrista che si occupa delle parti ritmiche e soliste “non slide”, e soprattutto dell’eccezionale fisarmonicista (e pianista) Steve Conn, la cui prestazione, oltre a dare un sapore decisamente zydeco a gran parte del concerto, arriva ad entusiasmare quasi quanto quella di Sonny stesso. Il disco, sedici canzoni (di cui solo due sono cover, più una di Conn) ha poi la peculiarità di dividersi in due metà esatte, la prima acustica e la seconda elettrica: se il Landreth elettrico lo conoscevamo, la vera sorpresa è quello unplugged, che riesce a tenere altissimo il livello della performance grazie anche alla bravura dei collaboratori, al punto che dopo due o tre canzoni quasi non ci si accorge che la spina è staccata. Il blues fa come sempre la parte del leone, ma c’è anche parecchio rock (nella parte elettrica) e, grazie alla prestazione fantastica di Conn, la componente zydeco-cajun è perfino più pronunciata del solito.

Il primo CD, che come ho già detto è quello acustico, vede i nostri subito in palla con Blues Attack, un blues quasi canonico al quale la splendida fisarmonica, vera arma in più del gruppo, dona un sapore decisamente zydeco, e le dita di Sonny iniziano a scorrere che è un piacere, ben doppiate da quelle di Broussard. Ancora blues con Hell At Home, con brevi ma ficcanti assoli dei due chitarristi ed altre delizie provenienti dalla fisa (un vero piacere per le orecchie), e con una rilettura fluida del classico di Big Bill Broonzy Key To The Highway, nella quale Sonny sopperisce alla mancanza di una voce da bluesman (l’ugola è forse il suo unico punto debole) con una tecnica sopraffina. La ritmata Creole Angel è coinvolgente anche senza strumenti elettrici, ed anche la melodia è di derivazione cajun; A World Away è una ballata di gran classe solo sfiorata dal blues, con assoli ancora strepitosi e la solita fisa da urlo, mentre, dei tre brani che chiudono il primo dischetto, bisogna citare assolutamente la trascinante The U.S.S. Zydecoldsmobile, uno dei pezzi più popolari del nostro, un rock-blues-zydeco contraddistinto da una prestazione monstre della band sul palco.

Il CD elettrico si apre con la roboante Back To Bayou Teche, un rock’n’roll dal chiaro sapore cajun, chitarra sublime e gran ritmo, sette minuti da manuale, seguita dalla meno appariscente True Blue, anche se neppure qui si scherza, grande musica e grandissimo manico. Poi abbiamo tre strumentali di fila: The Milky Way Home ha ancora un gran tiro (qui siamo in territori puramente rock) e le dita del leader scivolano che è un piacere, Brave New Girl è uno slow dal suono comunque potente, ma forse meno personale delle altre, mentre Uberesso è nuovamente un’esplosione di ritmo e suoni, con Sonny ormai in trance agonistica, al punto che secondo me si porterebbe dietro la chitarra, continuando a suonarla, anche se dovesse andare in bagno. Il doppio si conclude con l’orecchiabile e saltellante Soul Salvation, in cui si risente la fisa, seguita da una scintillante versione di Walkin’ Blues di Robert Johnson, e con The One And Only Truth, scritta e cantata da Conn, uno scatenato e trascinante zydeco-blues, che chiude il concerto nel migliore dei modi.

Fino ad ora, insieme a quello di Bonamassa, disco live dell’anno, senza dimenticare naturalmente quello della Tedeschi Trucks Band.

Marco Verdi

*NDB 2. Come avevo detto nella anticipazione dell’album pubblicata sul Bog il 27 maggio scorso http://discoclub.myblog.it/2017/05/27/alcune-prossime-interessanti-uscite-estive-parte-ii-beach-boys-jason-isbell-joe-bonamassa-jeff-tweedy-willie-nile-peter-perrett-sonny-landreth/ , quindi molto prima dell’uscita di fine giugno, però in rete si trovano vari filmati del concerto ripresi a livello professionale dalla Mascot Provogue: non è che poi dobbiamo aspettarci una ennesima “fregatura”, ovvero la pubblicazione di un DVD o di qualche formato multiplo in un secondo tempo?

Pensavo (Al) Peggio… Anche Se. The Isley Brothers & Santana – Power Of Peace

isley brothers santana

The Isley Brothers & Santana – Power Of Peace – Sony/Bmg

Dopo l’uscita di Santana IV dello scorso anno (recensito sul Blog casualmente sempre di domenica http://discoclub.myblog.it/2016/04/10/supplemento-della-domenica-anticipazione-unoperazione-marketing-anche-finalmente-gran-bel-disco-santana-santana-iv/ ), e poi anche del successivo ottimo CD/DVD dal vivo, c’era curiosità per questa collaborazione tra Carlos Santana e gli Isley Brothers, una delle istituzioni della black music americana, prima R&B e soul, poi ancora ottimo funky, anche hendrixiano, nei primi anni ’70, ma sinceramente, per il mio gusto personale, non ricordo un disco veramente valido dei fratelli Isley da lunga pezza, anche se qui e là sprazzi della vecchia classe non sono mai mancati, sia nei dischi come gruppo che in quelli di Ronald ed Ernie Isley (ne ricordo solo uno per la verità). Comunque Ronald Isley era presente appunto, come cantante aggiunto, in due brani di Santana IV, e il suo tipico vocione ben si era amalgamato con il sound classico della Santana Band migliore della storia. Quindi forse, ma forse, i presupposti per questa sorta di supergruppo c’erano, anche se poi leggendo le anticipazioni si era visto che il gruppo utilizzato per questo album era la road band di Carlos Santana, con il solo bassista Benny Reitveld tra quelli utilizzati nel disco, e la moglie di Carlos Cindy Blackman, alla batteria, nonché “produttrice” dell’album insieme al marito. Gli altri musicisti non mi fanno impazzire, a partire dal tastierista Greg Phillinganes, nonostante il suo passato nella band di Stevie Wonder, e, sulla carta, anche l’idea di fare un disco di sole cover (ma non degli Isley Brothers o dei Santana, anche se forse poi le suoneranno nel tour di promozione dell’album), visto il “tragico” precedente del pessimo Guitar Heaven, non era il massimo.

E invece, pur non potendo parlare certo di capolavoro, anzi, questo Power Of Peace, è un disco piacevole, per quanto non memorabile, insomma si lascia ascoltare (a fatica), con una buona scelta dei brani da rivisitare, e un sound che solo a tratti raggiunge i limiti di guardia del cattivo gusto, ma lo fa: la partenza avviene con il classico groove santaneggiante dell’iniziale Are You Ready, un vecchio brano dei Chambers Brothers, una delle prime formazioni a fondere rock, psichedelia e musica nera, con ottimi risultati, tra fine anni ’60 e inizio anni ’70, le chitarre di Carlos e Ernie, in modalità wah-wah (di cui è sempre stato uno dei maestri, e discepolo hendrixiano di Jimi che aveva suonato a lungo ad inizio carriera con gli Isley) interagiscono con grinta, la voce di Ronald è ancora potente, e il lavoro di Karl Perazzo (l’altro musicista di vaglia presente) alle congas è pregevole. Partenza buona quindi, confermata dal classico rock’n’soul della vibrante Total Destruction Of Your Mind, un brano del misconosciuto Swamp Dogg, con le chitarre ancora assolutamente in piena libertà, soprattutto quella di Santana. E non male, anche se forse troppo carica di sonorità un filo turgide, la cover di Higher Ground di Stevie Wonder, diciamo che l’assolo di wah-wah di Ernie Isley non riesce forse a salvarla del tutto, ma la rappata di tale Andy Vargas non aiuta.

Una lunga rilettura di God Bless The Child di Billie Holiday è tra le sorprese del CD, parte come una ballata pianistica, poi entra la voce ancora intensa, per quanto segnata dal tempo, di Ronald, e il pezzo diventa una soul ballad alla Isley Brothers, con i due chitarristi impegnati in un fine lavoro di cesello, soprattutto il classico solo melodico di Carlos, suo marchio di fabbrica. L’unico brano originale dell’album, I Remember, firmata da Santana e da Cindy Blackman, che poi la canta, in una lotta di falsetti con Ronald, è un’altra onesta ballata, molto “nu soul”, ma non deleteria. Mentre Body Talk, un  vecchio pezzo di Eddie Kendricks dei Temptations, pur se ricorda il sound Motown, rimanda anche al brano omonimo degli Imagination, e francamente, come la precedente, se ne poteva fare anche a meno, si salva giusto l’assolo di Santana.Gypsy Woman di Curtis Mayfield è il veicolo ideale per il classico falsetto di Ron, e anche l’idea di dargli una atmosfera gitana, ispirata dal titolo, non è del tutto peregrina ,, quindi il brano risulta uno dei migliori dell’album, con le due chitarre sempre in brillante spolvero, mentre I Just Want To Make Love To You  di Willie Dixon l’ho riconosciuta giusto perché ho letto il titolo, per il resto tra un riff di Foxy Lady e rullate a tutto campo della batteria della Blackman sembra un pezzo, di quelli brutti, di Eric Gales, e in questo le chitarre wah-wah ovunque non aiutano (e qui i limiti del cattivo gusto si superano).

Love, Peace And Happiness, l’altro pezzo dei Chambers Brothers, pur con qualche eccesso, riporta i binari del sound su un rock’n’soul energicomeglio la melliflua cover del classico di Burt Bacharach What The World Needs Now Is Love, portata al successo da Dionne Warwick Jackie De Shannon, che qui riceve il trattamento Santana + Isley Brothers, con Ronald Isley che la canta veramente bene, e poi il pezzo è bello, comunque lo giri. E non dispiace neppure la rilettura molto fedele del classico di Marvin Gaye Mercy Mercy Me (The Ecology), soul anni anni ’70 di gran classe, come pure la jazzata Let The Rain Fall On Me, una ballata suadente del poco conosciuto Leon Thomas, dove si apprezza nuovamente il phrasing impeccabile di Ronald Isley, e un assolo di piano mirabile, presumo del bistrattato dal sottoscritto Phillinganes, e zero chitarre.. Let There Be Peace On Earth di Sy Miller Jill Jackson, francamente non me la ricordavo, e forse è meglio, un pezzo simil gospel-natalizio portato al successo da Vince Gill, cantato coralmente da Blackman e Isley, anche in questo caso, l’unica cosa che si salva è l’assolo di chitarra di Carlos. In definitiva il disco, pur non dando ragione in toto al titolo del Post, non è, diciamo, indispensabile, quindi, come direbbero a Roma, “Aridatece Santana IV”!

Bruno Conti

Ripassi Estivi 2: Un Viaggio “Diverso” Nella Tradizione, Intenso E Originale. Kronos Quartet – Folk Songs

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Kronos Quartet – Folk Songs – Nonesuch Records

Di questo gruppo “classico” forse colpevolmente non abbiamo mai parlato, e così dopo circa 40 anni di carriera e una sessantina di dischi pubblicati, lo facciamo ora, in occasione dell’uscita di questo ultimo lavoro, dal magari non innovativo titolo Folk Songs. I Kronos Quartet sono, come dice il nome, un quartetto d’archi creato da un giovane violinista di Seattle David Harrington nel lontano ’73, con un gruppo di amici composto allora  da un altro violinista John Sherba, da Hank Dutt alla viola,e da Joan Jeanrenaud al violoncello (sostituita dopo un decennio da Jennifer Culp), e che ha lasciato a sua volta il posto all’attuale titolare Sunny Yang: formazione tipica con una strumentazione “cameristica”, che però si cimentava sia nel repertorio avanguardista, sia in un più vasto raggio d’azione che comprendeva e comprende i suoni di Africa, Giamaica, Oriente, passando anche attraverso brani di Philip Glass, Thelonius Monk, Jimi Hendrix, Bill Evans, Astor Piazzolla, diventando nel tempo, con merito, un fenomeno quasi “divistico”.

Nella loro corposa e spesso eccelsa discografia mi sembra opportuno segnalare almeno lavori “tematici” come Monk Suite (85), Music Of Bill Evans (86), The Complete String Quartets (88), Dracula (99), e i più recenti Kronos Quartet Plays Sigur Ròs (07) e Terry Riley: The Cups Of Magic (08). L’idea di questo ultimo lavoro Folk Songs è nata nel 2014, quando la Nonesuch Records ha celebrato il suo 50° anniversario con due grandi concerti al Barbican Center di Londra e all’Accademia di Musica di Brooklyn di New York, facendo salire sul palco con i Kronos Quartet  altri musicisti a “libro paga” dell’etichetta, gente del calibro di Sam Amidon, Olivia Chaney (eccellente cantante e pianista britannica, di recente all’opera con gli Offa Rex http://discoclub.myblog.it/2017/07/22/strano-nome-a-parte-in-pratica-sono-i-decemberists-piu-olivia-chaney-che-reinventano-il-folk-rock-britannico-offa-rex-the-queen-of-hearts/ ), Rhiannon Giddens (membro fondatore della Carolina Chocolate Drops), e la bravissima Natalie Merchant (ex solista dei 10.000 Maniacs), il tutto poi è stato anche trasportato in sala di registrazione negli Avatar Studios di New York, con la produzione di Doug Petty, con il brillante risultato di nove canzoni “tradizionali”, ma con una chiave di lettura che spazia tra folk e rock.

Le “opere d’arte” si aprono con onde di suono “appalachiano”, con una struggente Oh Where dove il cantato di Sam Amidon è intercalato dai violini di Harrington e Sherba, a cui fa seguito la dolce rilettura in stile “folk inglese” di Rambling Boys Of Pleasure, che non poteva che essere declamata dalla brava Olivia Chaney, per poi passare alla meravigliosa voce della Merchant,  in una superba e emozionante “romanza” come The Butcher’s Boy. Con Factory Girl i Kronos Quartet spaziano di nuovo in un intrigante “appalachian-blues” ispirato al blues tradizionale e affidato alla voce della Giddens, mentre Last Kind Words è un puro esercizio strumentale, dove si evidenzia ancora una volta la bravura del quartetto. Mentre con la spettrale I See The Sign ritorna il folksinger Sam Amidon (un brano che aveva già inserito nella raccolta omonima nel 2010). La parte finale vede gli archi dei Kronos Quartet salire ancora alla ribalta, prima con l’aria “francofona” di una dolcissima Montagne Que Tu Es Haute cantata al meglio nuovamente dalla Chaney, poi lasciarsi ammaliare ancora dalla superba voce di Natalie Marchant, nella rilettura di un famoso canto risalente alla Guerra d’Indipendenza, come Johnny Has Gone For A Soldier, e chiudere un disco affascinante con la filastrocca folk Lullaby, cantata da Rhiannon Giddensm con la mente rivolta alle piantagioni di cotone dell’Alabama.

Nel corso degli anni i Kronos Quartet hanno eseguito di tutto, da brani di musica religiosa ad altri di chiara matrice storica, passando da Purple Haze del grande Hendrix, a Spoonful di Willie Dixon, da brani di Kurt Weill a composizioni, come detto in precedenza, create appositamente per loro dagli artisti e personaggi più disparati, ricordo John Zorn, Philip Glass, John Lurie e Astor Piazzolla fra i tanti. Con questo ennesimo esperimento di Folk Songs, i Kronos Quartet dimostrano di essere sempre al centro del progetto, rileggendo pagine pescate da libri tradizionali di canzoni francesi, britanniche e nordamericani, assistiti in questa occasione da “guest-vocalist” di grande spessore come Rhiannon Giddens, Sam Amidon, la scoperta Olivia Chaney, e l’immancabile conferma Natalie Marchant, per un viaggio nella tradizione intenso, ricco e emotivo, decisamente originale e di grande fascino.

Tino Montanari

Ma Lei, Buon Uomo, Di Grazia, Quanti Anni Ha? Mick Jagger – Gotta Get A Grip/England Lost

mick jagger gotta get a grip

Mick Jagger – Gotta Get A Grip/England Lost – Universal CD Single – 12” Vinyl Single – Download

La frase del titolo è la stessa che veniva rivolta durante ogni puntata del programma Quelli Della Notte da Renzo Arbore a Giorgio Bracardi (che però all’epoca di anni ne aveva 50), ma potrebbe benissimo essere formulata a Mick Jagger, che di anni ne ha 74 (appena compiuti tra l’altro, il 26 Luglio), ma che non perde occasione per tentare di sembrare giovane, alla moda e “cool”. Di tutte le volte che ha tentato di combinare qualcosa al di fuori dei Rolling Stones, il buon Mick ne ha azzeccate poche (a mia memoria solo Wandering Spirit del 1993 era un bel disco, i due degli anni ottanta facevano, con rispetto parlando, cagare, e Goddess In The Doorway del 2001 strappava una sufficienza risicata): la penultima sortita senza le Pietre era stato il pasticciato (eufemismo) album del supergruppo SuperHeavy, nel quale oltre a Jagger trovavamo la soul singer Joss Stone, Dave Stewart (ex metà degli Eurythmics), Damian Marley (figlio di Bob) ed il musicista indiano A.R. Rahman.

Ho detto penultima perché proprio oggi esce, direi a sorpresa, un singolo con due brani nuovi di zecca, Gotta Get A Grip e England Lost, due canzoni che Mick ha scritto ispirato dalla difficile situazione politica e sociale che sta attraversando il suo paese, specie dopo la Brexit; se dal punto di vista testuale l’operazione può risultare interessante, da quello strettamente musicale invece avrei da ridire, in quanto Mick non ha perso l’occasione neppure questa volta di prendere quasi le distanze dal suo gruppo principale, producendo due brani che nelle sue intenzioni dovrebbero farlo apprezzare anche tra i fruitori con meno primavere sulle spalle, anche se a mio parere l’esito finale, cioè una musica buona forse per i club più cool della città, frequentati da fighetti con portafoglio gonfio e mojito nella mano destra (ma ai quali della musica non frega una cippa), finirà per scontentare un po’ tutti. Gotta Get A Grip non è neppure oscena, una via di mezzo tra reggae, rock e hip hop, con la chitarra elettrica (suonata da Mick) nelle retrovie ed una ritmica ossessiva ed ipnotica. Jagger canta anche bene (come sempre d’altronde), ma il brano, pur non facendo proprio schifo, non è di certo imperdibile.

Pollice decisamente verso invece per England Lost, con il ritmo che spinge ancora di più sul genere hip hop, l’armonica di Mick che vorrebbe dare un tono blues ma che alla fine finisce per confondere ancora di più un suono già brutto di suo. Il testo sarà anche degno di nota (la situazione inglese vista metaforicamente come una partita di calcio), ma la musica ricorda il peggior Jagger degli anni ottanta, con in più il tragico intervento a metà canzone del rapper Skepta. Proprio l’altro giorno il portavoce degli Stones ha confermato che, dopo il tour (che li porterà anche a Lucca il prossimo Settembre), lo storico gruppo inizierà finalmente a lavorare al nuovo album di inediti: ebbene, se i brani che Jagger porterà in dote saranno del livello di England Lost, due calci in culo ben assestati da parte di Keith Richards non glieli leverà nessuno.

La versione in vinile contiene anche diversi remix che per decenza eviterei: in definitiva questo singolo è una sorpresa inattesa, ma della quale forse avremmo fatto volentieri a meno.

Marco Verdi

*NDB Concordo del tutto, anzi alcune frasi e giudizi sono il frutto di pareri che ci siamo scambiati con Marco, il risultato finale quindi, visto l’argomento, è una sorta di remix!!!

Il Disco Blues Dell’Anno? Forse No, Ma Soltanto Perché Non E’ (Solo) Blues! Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo

tajmo

Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo – Concord CD

Henry Saint Clair Fredericks, meglio conosciuto come Taj Mahal, è una vera e propria leggenda della musica americana. Considerato giustamente uno dei giganti del blues, Taj non è mai stato però solo un bluesman: certo, la musica del diavolo è sempre stata quella più presente nei suoi dischi, ma spesso e volentieri il musicista di Harlem si è fatto contaminare da folk, rock, soul, R&B, country, musica africana e, sue grandi passioni, le musiche caraibica e hawaiana. Nella sua carriera ha inciso, live compresi, più di trenta dischi, meno di quanto uno potrebbe pensare (preferendo quindi la qualità alla quantità), ma è stato coinvolto negli anni in una serie innumerevole di collaborazioni, le più note delle quali sono il famoso e variopinto Rock And Roll Circus dei Rolling Stones ed il supergruppo dei Rising Sons insieme a Ry Cooder, una band giovanile dalle enormi potenzialità che avrebbe meritato ben altra fortuna: discograficamente Mahal è fermo dal 2008, anno in cui diede alle stampe l’ottimo MaestroKeb’ Mo’, pseudonimo di Kevin Moore, è invece un personaggio di minor profilo, ma pur sempre di una certa importanza: attivo dagli anni ottanta, Moore è sempre stato un bluesman raffinato e con spesso un occhio rivolto alle vendite, con non infrequenti ammiccamenti al pop e diversi Grammy vinti, anche se ultimamente sembra aver preso stabilmente la strada del blues; Moore e Mahal non avevano mai collaborato, almeno fino ad oggi, dal momento che hanno deciso di unire le forze e pubblicare questo album di coppia, intitolato semplicemente TajMo.

Ed il disco è una vera sorpresa, non tanto per Mahal che sappiamo essere un fuoriclasse, quanto per Moore, il quale, forse stimolato dalla presenza del grande Taj, ha dato il meglio di sé, forse come raramente aveva fatto prima. Un album splendido, suonato e cantato alla grande dai due leader (davvero due generazioni a confronto) e con una lunga serie di ottimi sessionmen che rendono il suono del disco davvero ricco e pieno di sfumature e sfaccettature; come ho scritto nel titolo, il disco non è solo blues, almeno non nel senso canonico del termine: certo, il blues è quasi sempre presente, ma il più delle volte mescolato con il soul (i fiati sono molto presenti), il folk, la musica roots ed anche un paio di ballate, con un giusto bilanciamento di cover e brani originali, questi ultimi, sei su undici totali, tutti scritti da Moore, e due di essi insieme a Taj. Dulcis in fundo, abbiamo anche diversi ospiti di nome (e sostanza), come Bonnie Raitt, l’Aquila Joe Walsh, il songwriter canadese Colin Linden, la percussionista Sheila E. (sorella di Alejandro Escovedo), il grande batterista Chester Thompson, già con Frank Zappa Genesis e la cantante soul e jazz Lizz Wright. Quello che forse stupisce di più è però l’affiatamento tra i due leader, quasi come se TajMo non fosse il primo disco in coppia ma l’ultimo di una lunga serie, con il vecchio Taj (ma anche Kevin non è certo un ragazzino) che si presta volentieri a collaborare in brani non proprio tipici del suo stile.

Si parte benissimo con Don’t Leave Me Here, uno scintillante e potente rock-blues, con i fiati a colorare il suono e le due grandi voci che si alternano, con ottimi interplay tra la chitarra di Moore e l’armonica di Billy BranchShe Knows How To Rock Me è un vecchio brano di William Lee Perryman, alias Piano Red (ed inciso anche da Little Richard), che qui assume le tonalità di un country-blues rurale, con le due voci arrochite e le due chitarre acustiche (quella di Kevin è slide) a guidare le danze, mentre All Around The World è un ritmato soul-errebi di grande presa, vivace, colorato e coinvolgente, con grande uso del pianoforte ed un ottimo background da parte dei fiati e cori femminili, un pezzo più nelle corde di Moore che di Mahal, ma comunque davvero godibile. Om Sweet Om è una ballata decisamente raffinata, quasi vellutata, arrangiata con gusto e con la gran voce della Wright che si unisce a quelle del duo, un brano quasi easy listening ma di gran classe; Shake Me In Your Arms è un rock’n’soul scritto da Billy Nichols, mosso e grintoso, con fiati e chitarre (l’assolo è di Walsh) che si contendono la scena ed i due “giovanotti” che secondo me si divertono un mondo; That’s Who I Am è ottima, un vibrante blues-got-soul dalla melodia orecchiabile e train sonoro diretto (il genere in cui eccelle uno come Robert Cray), ancora con i fiati in gran spolvero ed i nostri che sembrano interagire da sempre.

Diving Duck Blues, di Sleepy John Estes, è l’unico blues “duro e puro” del CD, affrontato alla maniera di Mississippi John Hurt, due voci, due chitarre ed un’aria leggermente folkeggiante, ed il risultato finale è, manco a dirlo, superlativo; Squeeze Box, proprio il brano degli Who, di recente l’ho sentita anche rifatta da Bruce Robison ma, con tutto il rispetto per il countryman texano, qui siamo su un altro pianeta: gran ritmo, atmosfera vagamente caraibica, grande uso di fisarmonica (squeeze box, appunto) da parte di Phil Madeira, ed i due che divertono divertendosi: senza dubbio tra gli highlights del disco. Disco che si chiude con altri due brani scritti da Moore (il secondo con Mahal), la bella Ain’t Nobody Talkin’, altro travolgente errebi venato di rock, e la solare, colorata e godibilissima Soul, nella quale il vecchio Taj si trova nel suo ambiente musicale naturale, per finire con Waiting On The World To Change, una soul ballad di John Mayer, ancora in veste spoglia ma con un leggero accompagnamento ritmico, oltre alle armonie vocali della Raitt.

Un gran bell’album quindi, cosa prevedibile se si mettono insieme una leggenda ed un veterano: consigliato anche a chi non ha il blues come sue genere preferito.

Marco Verdi

La Musica E’ Ottima, Ma Per I Testi Tappatevi Le Orecchie! Wheeler Walker Jr. – Ol’ Wheeler

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Wheeler Walker Jr. – Ol’ Wheeler – Pepper Hill/Thirty Tigers CD

Torna ad un anno di distanza da Redneck Shit Wheeler Walker Jr., countryman del Kentucky tanto bravo musicalmente quanto sboccato nei testi http://discoclub.myblog.it/2016/04/25/testi-film-porno-musica-bellissima-wheeler-walker-jr-redneck-shit/ ; in realtà Walker non esiste, in quanto è l’alter ego del comico americano Ben Hoffman (un po’ quello che Tony Clifton era per Andy Kaufman), ma il suo talento come musicista è tale che potrebbe tranquillamente proseguire la carriera esclusivamente facendo dischi. Redneck Shit aveva molto fatto parlare si sé, sia per la musica, un outlaw country robusto, elettrico e pieno di ritmo, ma anche per i testi, esageratamente volgari al limite dell’imbarazzo, roba che avrebbe fatto arrossire uno scaricatore di porto, al punto che il disco aveva avuto un’anteprima in streaming sulla piattaforma hardcore Pornhub (e, credo, passaggi radiofonici vicini allo zero). Ol’ Wheeler è il secondo volume delle avventure musicali di Walker/Hoffman, e si conferma molto valido sia dal punto di vista musicale, sia scurrile da quello delle liriche, al punto tale che in America viene considerato quasi una parodia e venduto sia come “country album” che come “comedy album” (ed in copertina uno sticker rivendica quasi con orgoglio il fatto di essere bandito sia da Walmart che da Target che da Best Buy, ovvero le tre catene di vendita più importanti degli States).

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https://www.youtube.com/watch?v=rCC6Etx93-U

Sarà anche un comedy album, ma la musica in Ol’ Wheeler è terribilmente seria: il disco è prodotto, come il precedente, da Dave Cobb, uno che ultimamente lavora come un matto ma sempre in progetti di qualità, ed in studio troviamo gente tosta come Leroy Powell alla chitarra e steel, Brian Allen al basso e Chris Powell alla batteria. Niente violini, mandolini e banjo, solo sano country elettrico e robusto, ad un livello che tanti musicisti professionisti non riescono a raggiungere, mentre per quanto riguarda i testi…beh su quelli stenderei un velo, e badate bene che non mi considero affatto un bacchettone (a proposito, mi scuso in anticipo per i titoli delle canzoni che mi accingo a scrivere, ma come si dice, ambasciator non porta pena). L’iniziale Pussy King è più rock che country, il ritmo è spezzato e le chitarre dure e tignose, ma il brano non è il massimo ed un po’ troppo di grana grossa, senza particolari guizzi. Decisamente meglio Fuckin’ Around, un puro country alla Waylon Jennings, con la doppia voce femminile di Kacey Walker che rende ancora più sconcia l’atmosfera (ma in realtà è la nota country-rocker Nikki Lane nella parte dell’ex moglie di Walker), mentre Puss In Boots è ancora migliore, gran ritmo, refrain godibilissimo, chitarre e piano in grande spolvero e Wheeler che canta con piglio da veterano (testo osceno a parte); la breve Finger Up My Butt velocizza ancora di più il ritmo, un quasi bluegrass elettrico e divertentissimo, che non fa star fermo il piede neanche per un attimo: l’inizio incerto è già dimenticato.

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https://www.youtube.com/watch?v=Mx4IjDVLE2o

Ma il nostro sa destreggiarsi anche nelle ballate, e Summers In Kentucky è una di quelle: motivo fluido e disteso, grande feeling, e se non ascoltate le parole vi sembrerà di avere di fronte qualche oscura outtake degli anni settanta (e nei brani lenti il contrasto tra la musica ed il testo è ancora più stridente); con Drunk Sluts andiamo addirittura nei sixties, un country alla Flying Burrito Brothers di grande impatto, con quell’aria cosmica tipica di Gram Parsons (che però mai si sarebbe sognato di cantare parole del genere): una delle migliori del CD. Ain’t Got Enough Dick To Go Around è un gustoso honky tonk perfetto per i camionisti texani, If My Dick Is Up, Why Am I Down? (davvero, provo quasi imbarazzo a scrivere frasi simili, seppur in inglese) riporta il disco in area Sweetheart Of The Rodeo, dimostrando che dal punto di vista musicale il nostro conosce i classici alla perfezione. Il disco si chiude con Small Town Saturday Night, tra country e rockabilly, gran ritmo e chitarre al vento (uno come Dale Watson ne andrebbe orgoglioso), l’intenso slow Pictures On My Phone, una ballata decisamente bella nonostante il testo da censura, e con Poon (che sarebbe un modo non troppo gentile di chiamare l’organo femminile di una teenager), un brano dal delizioso sapore western morriconiano. Se Wheeler Walker Jr. si mettesse in testa di scrivere canzoni “normali”, potrebbe tranquillamente diventare uno dei leader del nuovo movimento Outlaw Country insieme a Chris Stapleton, Jamey Johnson e compagnia bella (è molto più bravo di Shooter Jennings, tanto per fare un esempio), ma così, pur essendo musicalmente ai confini dell’eccellenza, rischia di essere classificato per sempre come una macchietta.

Marco Verdi

In Piccolo, Ma Pure Loro Sono Re, Del Chicago Blues. Cash Box Kings – Royal Mint

cash box kings royal mint

Cash Box Kings  – Royal Mint – Alligator Records/Ird

Li avevo lasciati nel 2015 su etichetta Blind Pig con l’album Holding Court http://discoclub.myblog.it/2015/05/07/vecchia-scuola-del-blues-elettrico-cash-box-kings-holding-court/ , e me li ritrovo nel 2017 con questo nuovo Royal Mint su Alligator. Dovrebbe essere il loro ottavo album, almeno stando alle discografie disponibili, ma nelle note interne del CD, Joe Nosek e Oscar Wilson, i due leader della band, scrivono che si tratta del nono, e chi siamo noi per contraddirli? Purtroppo non c’è più Barrelhouse Chuck, il pianista che aveva condiviso con loro una lunga parte di carriera, che ha dovuto soccombere ad una lunga battaglia con il cancro, ma per il resto non è cambiato molto, i Cash Box Kings sono sempre fieri rappresentanti di quel blues vecchia scuola di Chicago, sia pure fuso al rockabilly di Memphis (e aggiungo io, a soul, R&B e Jump) in quello che il gruppo definisce “bluesabilly”. La missione è quella di perpetrare la grande tradizione delle registrazioni Chess, che un po’ rappresentavano tutti questi stili, cercando di modernizzarlo, ma appena un poco, forse più dal lato delle tecniche di registrazione, e magari con l’iniezione, a fianco di brani classici, di composizioni che portano la firma di Nosek e Wilson, ma nello spirito sono identiche ai brani in modalità anni ’40 e ’50 che compongono il loro repertorio.

Per fare tutto ciò si avvalgono più o meno degli stessi musicisti del disco precedente: Billy Flynn, il solista, e Joel Paterson, l’altro chitarrista, Kenny “Beedy Eyes” Smith, presente solo in tre brani, viene affiancato alla batteria da Mark Haines, mentre c’è un nuovo bassista Brad Beer, che sostituisce Gerry Hundt. E. ovviamente, in sostituzione di Barrelhouse Chuck, c’è un nuovo tastierista aggiunto, Lee Kanahira, oltre ad una piccola sezione fiati, in un brano. L’apertura, House Party, un piccolo classico di Amos Milburn, uno dei veri re del jump blues, indica quale sarà l’atmosfera dell’album, allegra e divertita, con Al Falaschi presente al sax solo in questo pezzo, con il vocione poderoso di Oscar Wilson a guidare le danze e l’armonica amplificata del virtuoso Joe Nosek, a farsi largo tra piano e chitarra, mentre la ritmica swinga di brutto. I’m Gonna Get My Baby è classico Chicago blues, e anche se l’autore Jimmy Reed non ha mai inciso per la Chess,  il sound è quello di quei dischi, poi ribadito nel classico slow di una Flood, proveniente dal repertorio di Muddy Waters, ancora con la bella voce espressiva di Wilson in evidenza, ma anche la slide di Flynn, e gli altri solisti si danno da fare. Comunque il risultato sonoro non cambia neppure quando i Cash Box Kings cantano e suonano le proprie canzoni, come nel divertente rockabilly di Build That Wall, con la piacevole e squillante voce di Nosek e la chitarra twangy di Flynn, oppure nel solido Blues For Chi-Rag, scritta a quattro mani da Joe e da Oscar, che la canta con la sua potente ugola, mentre i fiati aggiungono spessore all’eccellente lavoro del sempre eccellente Billy Flynn.

Certo, un pezzo di Robert Johnson, come Travelling Riverside Blues, anche in una versione solo per voce e chitarra bottleneck, ha ben altro spessore autorale; poi ci si torna a divertire con la leggera e vorticosa If You Get A Jealous Facebook Woman Ain’t Your Friend (titolo che segue la “modernità” della Download Blues del precedente album, anche se il sound è pur sempre quello del secolo scorso). E pure la leggiadra Daddy Bear Blues, cantata in modo suadente da Nosek, è sempre musica da club degli anni ’50, con il pianino barrelhouse di Kanahira che si fa notare, come pure il mandolino di Flynn; altro “bluesaccio” torrido del grande Muddy in una pimpante Sugar Sweet, https://www.youtube.com/watch?v=vQI2o5oP35w sempre più o meno Chess Records metà anni ’50, fedele all’originale, forse fin troppo, e questo è per certi versi il (piccolo?) limite di questo album, fin troppo didascalico e citazionista a tratti, anche se assai godibile. I’m A Stranger è un buon slidin’ blues, con uso puree di armonica e piano, e la solita voce passionale di Wilson, che rilancia nella successiva I Come All The Way From Chi-Town, un omaggio alla propria città di origine, ovvero Chicago, sede della loro nuova etichetta Alligator, solo per voce, chitarra e armonica, prima di tornare al divertimento con la spensierata e scatenata All Night Long di Clifton Chenier e al “bluesabilly” di Don’t Let Life Tether You Down, affidata di nuovo a Joe Nosek.

Bruno Conti    

Ripassi Estivi 1: Tornando Sul Luogo Del Delitto. Graziano Romani – Soul Crusader Again

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*NDB Siamo entrati in quella stagione, quindi come tutti gli anni nel periodo “vacanziero” (per chi le fa), ci dedichiamo, oltre a novità e anticipazioni discografiche che comunque non mancheranno, ad alcune recensioni di album che per vari motivi durante l’anno sono scappate: un anno sono recuperi, un anno sono ripassi, in questo 2017 si è optato per la seconda opzione. Il primo post della serie, del tutto casualmente, tocca a Tino, come sempre buona lettura.

Graziano Romani – Soul Crusader Again – Route 61 Music

Questo signore è sempre stato uno degli artisti italiani più strettamente legati alla musica di Bruce Springsteen. Infatti tutta la sua carriera artistica lo testimonia, a cominciare dalla creazione dei “mitici” Rocking Chairs (il suo primo gruppo), una band simile, almeno nelle concezione, alla famosa E Street Band, con tanto di sassofonista (il bravo Max Marmiroli), e con diverse “cover” del Boss nel repertorio. Conclusasi l’esperienza dei Rocking, il “nostro” continua anche da solo a cantare e suonare la musica del Boss, fino a mettere in piedi un trio semiacustico i Souldrivers, il cui nome (guarda il caso) è preso dal titolo di un brano di Springsteen, e di conseguenza era quasi naturale che un artista che ha impostato il suo stile e ha tratto ispirazione dalla sua musica, realizzasse un disco completamente dedicato alle sue canzoni; Soul Crusader: The Songs Of Bruce Springsteen, meno naturale che a distanza di sedici anni, Graziano Romani (come i personaggi di Alfred Hitchcock) tornasse sul “luogo del delitto” con un nuovo capitolo della saga, pescando questa volta quasi completamente dal repertorio meno conosciuto, anche con brani “donati” dal Boss a cantanti  e amici come Gary U.S.Bonds e icone della Dance Music. tra le quali una insospettabile Donna Summer.

Le registrazioni dell’album sono state effettuate al Bunker Studio di Rubiera, e in minima parte ai Blue Velvet Studios di Modena, con una line-up che vede la potente sezione ritmica composta da Lele Cavalli al basso e Gigi Cavalli Cocchi alla batteria, lo storico Max Marmiroli al sassofono, il fido Erik Montanari e Fabrizio Tedeschini alle chitarre, Francesco Germini al pianoforte, con l’indispensabile sostegno di Franco Borghi e Andrea Rovacchi alle tastiere e percussioni, e con le armonie vocali di David Scholl e Paola Torricelli Romani.

Data la particolarità del lavoro, mi è sembrato giusto sviluppare il disco “track by track”:

Hold On (To What You Got) – Si parte con il primo brano recuperato da On The Line di Gary U.S. Bonds (se non ne siete in possesso recuperatelo insieme a Dedication), che viene rifatto da Graziano in una tosta versione molto “sixties”.

Protection – Devo riconoscere che questa me l’ero persa, tratta dall’album iniziale omonimo della Summer, viene riletta e le viene resa giustizia in modo convincente, con un bel lavoro del sax di Max.

Because The Night – Questo è sicuramente il brano più noto della raccolta, portato al successo da Patti Smith, cantato con passione da Romani in una bella e accorata versione “rock’n’soul”.

Club Soul City – Secondo estratto dall’album On The Line, una straziante ballata che non sfigura a confronto con l’originale di Gary U.S.Bonds, e questo credetemi è il miglior complimento per Graziano Romani.

Love’s On The Line – Con questo brano si conclude il trittico tratto da On The Line, una potente e trascinante rilettura in stile “Asbury Sound”, impreziosita dall’intrigante giro di armonica.

Man On The Top – Questa canzone viene dalle sessions di Born In The U.S.A. e poi fu recuperata su Tracks, rivisitata con energia e chitarre in gran spolvero, nonché, come al solito, interpretata con passione.

Life Me Up – Questo brano e la “chicca” dell’album (uscito anche in 45 giri per il Record Store Day con lato B When The Lights Go Out): è recuperata dalla colonna sonora di Limbo, film del regista di videoclip John Sayles, si tratta di una struggente ballata, che rimanda ai Rocking Chairs più intimi e passionali, dove svetta di nuovo il sax di Max.

Lion’s Den – Un’altra bella sorpresa, sempre tratta da Tracks, la quadrupla antologia di inediti e rarità uscita nel 1998, qui  rivoltata come un calzino in una rilettura scanzonata e spumeggiante, dove tutta la band sembra divertirsi a far muovere il piedino dell’ascoltatore.

I Wanna Be With You – Stranamente questa canzone (del periodo di The River e recuperata poi sempre su Tracks), è rimasta nascosta colpevolmente per molti anni, e meritoriamente Graziano le rende giustizia riproponendola in una torrida versione “rock”.

The Long Goodbye – Da Human Touch (uno dei dischi meno considerati del Boss) viene riproposto questo brano in versione elettroacustica, con un intrigante e pregevole intervento di Andrea Rovacchi all’harmonium.

Factory – Dal classico Darkness On The Edge Of Town viene ripescata Factory (di recente entrata anche nel repertorio di Lucinda Williams), con un arrangiamento molto più chitarristico e “folkie” rispetto all’originale, che mette ancora una volta in risalto la voce e la bravura di Romani.

The Promise – Questo brano Romani l’aveva già inserito nel disco tributo Light Of Day (uno dei migliori usciti, dedicati a Springsteen), una registrazione del lontano 2002, con una formazione composta oltre che da Graziano, da Fabrizio Tedeschini, Francesco Germini e Max Baldaccini alla batteria e Alex Class al basso, una splendida versione da cui si evince ancora una volta la voglia di cantare il Boss di Graziano.

Il risultato di questo Soul Crusader Again (come era stato per il precedente capitolo) è eccellente, perché Graziano Romani, per il sottoscritto, è di gran lunga il miglior cantante in lingua inglese del panorama italiano, e le sue passionali interpretazioni certificano una personalità e una originalità che temono pochi confronti anche in ambito internazionale. Il suo amore per Springsteen è dichiarato ed evidente, a suo favore giocano sia la passione che la conoscenza profonda del repertorio, anche quello marginale e minore del Boss (come dimostra questa raccolta): il tutto gli viene riconosciuto dai suoi “fans” che lo considerano come un “rocker” che lavora duro, uno che non ha mai gettato la spugna, e soprattutto non ha mai dimenticato le sue radici musicali, quelle sulle quali è cresciuto, ovvero il rock americano, il soul e rhythm and blues.

Tino Montanari

Per Rimanere In Famiglia: Musica Fatta Con Amore E Passione! Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band

bruce robison and the bach porch band

Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band – Motel Time CD

 Ritorna a pubblicare un disco da solista il texano Bruce Robison, fratello del più famoso Charlie (*NDB. E come da titolo del post c’è pure la sorella Robyn Ludwick di cui avete letto nel Blog recentemente http://discoclub.myblog.it/2017/07/24/torna-una-delle-regine-della-moderna-texas-music-robyn-ludwick-this-tall-to-ride/ ), a ben otto anni dal suo precedente lavoro, His Greatest (che a dispetto del titolo non era un’antologia, ma una serie di brani scritti da Bruce per altri artisti e da lui interpretati per la prima volta), anche se nel mezzo abbiamo avuto due album incisi in coppia con la moglie Kelly Willis. E per il suo ritorno Bruce decide di tornare indietro nel tempo, cioè a quando si registrava in analogico e non in digitale, a volte perfino in presa diretta: Bruce Robison & The Back Porch Band è quindi un lavoro fatto con passione, un atto d’amore verso la musica country più pura e suonata al 90% con strumenti acustici. La copertina potrebbe far pensare ad un trio, ma in realtà il gruppo è più esteso, e comprende, oltre a Robison alla chitarra, Macy Muse alla steel, il bravissimo Chip Dolan al piano, Brian Beken al violino e Conrad Choucroun alla batteria, oltre ad alcuni ospiti tra cui Andrew Pressman al basso, Geoff Queen alle chitarre ed ovviamente la moglie Kelly alle armonie vocali. Un piccolo disco, nove canzoni per 33 minuti di musica, che non contribuirà di certo a rilanciare la carriera del nostro in termini commerciali, ma di certo saprà accontentare i suoi estimatori ed i seguaci della country music più pura. Come abbiamo visto dalla formazione, il gruppo è una “back porch band” per modo di dire, in quanto la sezione ritmica è ben presente e c’è una certa ricchezza strumentale, ma l’approccio è quasi del tutto acustico, intimo ed incontaminato; e poi Bruce è uno che le canzoni le sa scrivere, e dulcis in fundo abbiamo anche qualche cover scelta con cura (e almeno in un caso sorprendente).

L’apertura spetta a Rock And Roll Honky Tonk Ramblin’ Man, un delizioso country’n’roll suonato unplugged, dal ritmo sostenuto ed ottimi interventi di dobro e violino, un inizio coinvolgente. Long Time Comin’ è una tenue folk ballad scritta a quattro mani con Micky Braun (Micky And The Motorcars), dalla bella melodia e pochi strumenti ad accarezzare la voce del nostro; Paid My Dues, scritta ancora da Braun questa volta con Jason Eady, è un godibilissimo honky-tonk alla Jerry Jeff Walker, cantato in duetto con Jack Ingram, puro country just for fun (ottimo il pianoforte), mentre Lake Of Fire è una limpida slow tune dal mood malinconico e con il solito languido violino in evidenza. Squeezebox è proprio il brano degli Who, un pezzo che Bruce ha definito “una bella country song suonata da un gruppo di ragazzi inglesi”, ed in effetti a sentirla rifatta con questo scintillante arrangiamento molto Texas country sembra strano che abbia un passato rock’n’roll: splendida versione, di sicuro l’highlight dell’intero album; The Years, di Damon Bramblett, è un altro brano lento ed intenso, come anche Long Shore, sorta di dolcissima ninna nanna cantata a due voci con la Willis, delicata e toccante. Il CD si chiude con la bucolica Sweet Dreams (non è il classico di Don Gibson, ma un originale di Bruce), cristallino e terso honky-tonk, e con la cover di Still Doin’ Time (In A Honky Tonk Prison), un vecchio pezzo di George Jones, ballata classica suonata in maniera rigorosa. Buona musica fatta per il piacere di farla: questo è Bruce Robison & The Back Porch Band.

Marco Verdi

Adesso Iniziano Anche Con Quelli Ancora Vivi? Ora E’ Il Turno Di Aretha!

aretha franklin a brand new me with rpo orchestra

Adesso Iniziano Anche Con Quelli Ancora Vivi? Ora E’ Il Turno Di Aretha!

Il 10 Novembre la Rhino pubblicherà A Brand New Me: Aretha Franklin With The Royal Philarmonic Orchestra, che non è il nuovo album della grande cantante di colore (che comunque dovrebbe pubblicarne uno nei primi mesi del 2018, anche se è da troppi anni che di dischi belli non ne fa più), ma un’operazione commerciale dello stesso genere delle due di Elvis Presley (If I Can Dream e The Wonder Of You) e di quella già annunciata ed in uscita sempre a Novembre di Roy Orbison, A Love So Beautiful http://discoclub.myblog.it/2017/05/26/non-ci-posso-credere-lo-hanno-fatto-pure-con-lui-anche-peggio-di-elvis-il-3-novembre-esce-a-love-so-beautiful-roy-orbison-with-the-royal-philarmonic-orchestra/ . Si tratta quindi di un’altra discutibile, per non dire di peggio, iniziativa che consiste nel prendere 14 tracce vocali originali di Aretha (il periodo è quello Atlantic, il suo migliore) ed appiccicargli addosso altrettanti accompagnamenti incisi ex novo da un’orchestra filarmonica, operazione kitsch e di dubbio gusto di cui ho già detto quello che pensavo sia per Elvis che per Roy. La novità in questo caso è che Aretha è ancora tra noi, anche se la forma non è quella dei bei tempi, ed è un precedente pericoloso che potrebbe dare il via a decine di azioni simili per altri artisti che, per dirla con Massimo Bubola, sono ancora “da questa parte del cielo”.

Per dovere di cronaca, riporto la tracklist:

1. Think
2. Don’t Play That Song (You Lied)
3. I Say A Little Prayer
4. Until You Come Back To Me (That’s What I’m Gonna Do)
5. A Brand New Me
6. A Natural Woman (You Make Me Feel Like)
7. Angel
8. Border Song (Holy Moses)
9. Let It Be
10. People Get Ready
11. Oh Me Oh My (I’m A Fool For You Baby)
12. You’re All I Need To Get By
13. Son Of A Preacher Man
14. Respect

Io, se fossi in voi, mi terrei alla larga.

Marco Verdi

*NDB Aggiungo che, per la serie non c’é fine al peggio, alle registrazioni verranno aggiunti nuovi backing vocals guidati da Patti Austin. Una domanda sorge spontanea, ma a questo punto non era il caso di fare incidere ex novo tutti i brani dalla stessa Aretha Franklin? Cattivo gusto per cattivo gusto almeno erano nuove versioni (e comunque a giudicare dal video postato sopra, e registrato al Kennedy Center nel 2015, di fronte ad una stupefatta Carole King e ad un Obama con lacrimuccia, Aretha ha ancora una voce della Madonna), ma forse è anche perché la Franklin non è più sotto contratto con il gruppo Warner!