Torna Una Delle Regine Della Moderna “Texas Music”. Robyn Ludwick – This Tall To Ride

robyn ludwick this tall to ride

Robyn Ludwick – This Tall To Ride – Late Show Records

Dopo un meraviglioso disco come Out Of These Blues (11), seguito dall’ottimo Little Rain (14) http://discoclub.myblog.it/2014/09/02/ultimi-ripassi-lestate-dal-texas-la-sorella-musicale-lucinda-williams-robyn-ludwick-little-rain/ , secondo chi scrive non era facile riproporsi ai quei livelli, ma Robyn Ludwick, sorella di Bruce e Charlie Robison (una delle più interessanti dinastie delle Texas Music), mi smentisce e si ripresenta con questo quinto lavoro This Tall To Ride (il tutto uscito nell’arco di una dozzina d’anni), affidando la produzione al marito e musicista John Ludwick (dopo gli ultimi due gestiti dal grande Gurf Morlix), per dieci brani di grande passione, che non cambiano di una virgola (è questo, almeno secondo me, è un pregio), il “sound” dei dischi precedenti. This Tall To Ride, inciso negli Zone Recording Studios a Dripping Springs in Texas, vede come sempre il marito John al basso, Rick Richard alla batteria, e come ospiti il polistrumentista Bukka Allen, e il bravissimo chitarrista David Grissom (Storyville, Mellencamp, Joe Ely), dove la signora Ludwick spicca sempre con il suo stile di scrittura, come già detto in passato, certamente influenzato da Lucinda Williams, con le canzoni che raccontano di personaggi dalle vicende tragiche ma anche ricche da grintosi messaggi d’amore, che spesso sono il tema principale delle sue canzoni.

Nella prima traccia l’energica ed elettrica Love You For It si nota subito la presenza della chitarra di Grissom, canzone seguita dalla “sociale” Rock’n’Roll Shoes (dove paragona il sesso con la cocaina), una ballata urbana dove le note delle chitarre e la voce di Robyn la fanno da padrone, per poi passare alle melodie “classicamente country” di Lie To Me, e commuoverci con la meravigliosa Freight Train, giocata tra chitarra elettrica ed acustica, e finire la prima parte con le note di un dolce pianoforte in perfetto Lucinda Williams “style”. Con Bars Ain’t Closin’ (cantata con il consorte) si racconta la storia di un musicista alla fine di una relazione, mentre nella seguente Insider descrive la vita di una donna sottoposta ad abusi, entrambe con testi attuali e importanti, suonate con arrangiamenti grintosi e incisivi, mentre Mexia inizia con una chitarra acustica, per poi svilupparsi in una lunga e dolente ballata dai sapori “texani”, passando poi ancora alla bella melodia rock di Wrong Turn Gone, con la chitarra elettrica di Grissom che “singhiozza” all’unisono con la voce di Robyn, e il resto dei musicisti che lavora di fino come in tutto l’album. Nella parte finale la Ludwick si fa più concreta, come nel personale autoritratto della sofferta Junkies And Clowns o nella conclusiva Texas Jesus, un ottimo country-folk che si sviluppa in un diluvio di pedal-steel, con dei risultati superiori alla media di questo pur ottimo album.

Il senso di questo disco, This Tall To Ride (una colonna sonora perfetta per sognare le infinite strade americane) è una manciata di canzoni che giocano sul dolore dei rapporti di solitudine e speranza per trovare un senso nella vita, e, come già detto, oltre a quello di Lucinda Williams nelle canzoni di Robyn Ludwick affiorano molti altri stili che portano ai nomi di Patty Griffin, Mary Gauthier, Rosanne Cash (le prime che mi vengono in mente): una carriera fatta di una musica intensa, un insieme di canzone d’autore e folk-rock, una donna tosta e ostinata che non ha paura di rivaleggiare con le “signore” sopracitate, certificando che, a parere di chi scrive, della famiglia “canterina” allargata (i fratelli Charlie e Bruce, le nuore Kelly Willis e Emily Erwin (Dixie Chicks), da qualche anno lei è forse la migliore della “dinastia” Robison. Sicuramente a fine anno farà parte del mio “listone”.

Tino Montanari

*NDB. Questa volta lo aggiungo io: manco a dirlo, ancora una volta, il CD purtroppo non è di facile reperibilità nelle nostre lande, e di conseguenza anche abbastanza costoso da recuperare oltre oceano, buona ricerca.

Supplemento Della Domenica: Il Giusto Modo Di Celebrare Una Grande Cantautrice! Natalie Merchant – The Natalie Merchant Collection

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Natalie Merchant – The Natalie Merchant Collection – Nonesuch/Warner 10CD Box Set

Non so in quanti, all’indomani dello scioglimento dei 10.000 Maniacs, gruppo pop-rock di culto degli anni ottanta separatosi dopo il live MTV Unplugged del 1993, avrebbero previsto una carriera luminosa alla cantante della band, Natalie Merchant: ebbene, quasi un quarto di secolo dopo bisogna riconoscere oggi che Natalie è tra le artiste più brave e complete nel panorama internazionale. Non ha inciso molto, solo sette album, ma sempre con una qualità media altissima, e con in mezzo due-tre dischi che non è fuori luogo definire capolavori: oggi la Nonesuch celebra la carriera solista della Merchant, con l’aiuto di Natalie stessa, con questo succulento boxettino di dieci CD intitolato The Natalie Merchant Collection, che comprende tutti e sette gli album della cantante di Jamestown (Leave Your Sleep era doppio) aggiungendo altri due dischetti esclusivi per il box, uno nuovo di zecca (Butterfly) ed un altro, intitolato Rarities 1998-2017, che è appunto una compilation di brani rari ed inediti (ma manca l’album live del 1999: perché?). Reputo quindi doveroso omaggiare questa bravissima musicista con una veloce panoramica dei dischetti contenuti nel cofanetto.

Tigerlily (1995): Natalie fa subito centro con un album che sarà anche il suo più venduto, grazie anche ai tre singoli, Wonder, Carnival e Jealousy, esempi di perfetto pop-rock di gran classe. Ma la Merchant ci regala altre perle, come l’opening track San Andreas Fault, la pianistica Beloved Wife, splendida e struggente, la raffinatissima River, la lunga I May Know The Word, più di otto intensissimi minuti e con una strepitosa coda chitarristica. Natalie mostra da subito un talento che verrà fuori prepotentemente nei dischi successivi.

Ophelia (1998): altro ottimo lavoro, che rappresenta una transizione tra il pop-rock adulto dell’esordio e la Merchant raffinata musicista dei dischi che seguiranno. Numerose le canzoni bellissime, partendo dalla straordinaria title track, un brano dal pathos incredibile, e continuando con la sontuosa ballad Life Is Sweet, la toccante My Skin, nella quale Natalie dà un saggio della sua notevole tecnica pianistica, la splendida King Of May (che classe) e la vibrante Thick As Thieves, con Daniel Lanois alla chitarra elettrica (ed è poco bella The Living?).

Motherland (2001): dopo due album quasi ottimi, Natalie sale ad un livello addirittura superiore: prodotto da T-Bone Burnett, Motherland è un disco più introspettivo nei testi ma musicalmente ricco e variegato. Si passa dalla suggestiva This House Is On Fire, intrigante commistione tra reggae e musica mediorientale, alla stupenda Motherland, una drammatica ballata con un’atmosfera quasi da chanteuse francese, ed una melodia da pelle d’oca d’ispirazione coheniana (una delle canzoni più belle di sempre della Merchant), passando per il folk-blues Saint Judas, con Mavis Staples alla seconda voce, la languida e suadente Put The Law On You, la raffinata rock ballad Build A Levee, e, giusto per non citarle tutte, la tersa e scintillante Not In This Life. Questo sarà per molto tempo l’ultimo disco di canzoni originali per Natalie, ma non per questo i prossimi saranno meno belli (anzi).

The House Carpenter’s Daughter (2003): un album meraviglioso, il più bello di Natalie se non ci fosse il successivo, una serie di interpretazioni strepitose di traditionals, canzoni popolari antiche e (poche) più recenti, con splendidi arrangiamenti in puro stile folk-rock (un paragone? I migliori Waterboys, solo un filo meno rock). Un capolavoro, con titoli celeberrimi che nelle mani della Merchant assumono nuova vita, come Which Side Are You On?, Bury Me Under The Weeping Willow (Carter Family, fantastica), House Carpenter, Down On Penny’s Farm, Poor Wayfaring Stranger, meno noti ma sempre splendidi come Soldier, Soldier ed Owensboro, o addirittura un classico dei Fairport Convention come Crazy Man Michael. E la voce di Natalie è sempre più bella, disco dopo disco.

Leave Your Sleep (2010): ben sette anni di attesa, ma ne valeva la pena: Leave Your Sleep è un doppio album, ben 26 canzoni, in cui Natalie alza ancora l’asticella e si conferma come una delle migliori artiste in circolazione. La Merchant prende una serie di poesie per bambini scritte da autori dell’800 e del 900, aggiunge le musiche scritte di suo pugno e mette a punto un’operazione culturale di altissimo livello e musicalmente sublime. Senza dubbio il suo disco più bello, ma anche uno dei più importanti in assoluto della decade, inutile nominare un brano piuttosto che un altro; dentro c’è di tutto: rock (poco), folk, musica irlandese, blues, old time music, dixieland, pop, country, reggae, e perfino kletzmer e musica da camera, il tutto condito da melodie imperdibili e da una classe inimitabile.http://discoclub.myblog.it/2010/04/14/l-ultima-grande-cantautrice-americana-natalie-merchant-leave/

Natalie Merchant (2014): primo disco di canzoni originali da Motherland ed altro grande album, anche se forse un gradino sotto gli ultimi due (che però sono dei capolavori): Ladybird, che apre il disco, è un’eccellente ballata pianistica dal motivo decisamente bello, ma ci sono anche l’intensa e roots-oriented Texas, la soulful (e splendida) Go Down Moses, in duetto con Corliss Stafford, l’emozionante, quasi da pelle d’oca, Seven Deadly Sins, la jazzata e sensuale Black Sheephttp://discoclub.myblog.it/2014/05/25/il-disco-della-domenica-del-mese-forse-dellanno-natalie-merchant/

Paradise Is There: The New Tigerlily Recordings (2015): Natalie celebra i vent’anni di Tigerlily, il suo disco più famoso, re-incidendolo da capo a piedi (ma cambiando l’ordine della tracklist) con lo stile odierno. Paradise Is There ricalca quindi la Natalie Merchant del 2015, meno pop-rock e più musicista a 360 gradi: le canzoni sono sempre belle (soprattutto, a mio parere, San Andreas Fault, Beloved Wife, River e I May Know The Word, che poi erano le mie preferite anche nel disco originale), ma i nuovi arrangiamenti e la maggiore esperienza di Natalie fanno la differenza.

Butterly (2017): un disco nuovo di zecca, nel quale Natalie re-interpreta sei canzoni del suo songbook e ne aggiunge quattro nuove, con l’ausilio di una band ridotta all’osso e con un quartetto d’archi in ogni pezzo. Un esperimento decisamente interessante e riuscito, che dona uno spessore diverso ai pezzi già noti (The Worst Thing e The Man In The Wilderness, con nuovi arrangiamenti tra Spagna e Messico, sono addirittura meglio degli originali) e fa brillare anche i brani nuovi: la cupa e drammatica Butterfly, dal pathos notevole, la jazzata She Devil, che rimanda a certe cose di Joni Mitchell, la dolcissima ninna nanna Baby Mine e la struggente Andalucia, davvero bella.

Rarities 1998-2017 (2017): formidabile compilation che ha, tra l’altro, solo due brani in comune con il secondo dischetto dell’antologia A Retrospective, uscita nel 2005 e con appunto il secondo CD dedicato alle rarità. Ben otto brani su quindici totali sono inediti, e due di essi sono rifacimenti di brani già noti, Saint Judas e Build A Levee, entrambi con Amy Helm ospite ed entrambi incisi quest’anno. Gli altri sei: il primo è una meravigliosa versione di The Village Green Preservation Society dei Kinks, una rilettura fluida, pianistica e coinvolgente, che da sola vale gran parte del prezzo richiesto; poi abbiamo lo slow raffinato Too Long At The Fair (scritto dal misconosciuto cantautore Joel Zoss), l’intensa e folkie Sonnet 73, adattamento musicale di un sonetto di Shakespeare, la deliziosa ninna nanna My Little Sweet Baby, un demo casalingo del traditional Sit Down, Sister ed il breve e bizzarro strumentale Portofino, che ha il profumo della musica folk nostrana. Tra i brani già editi meritano una citazione il brano dei Cowboy Junkies To Love Is To Bury, tratto da Trinity Revisited, un’intensissima Learning The Game di Buddy Holly, il testo di Woody Guthrie Birds & Ships, cantata con l’accompagnamento chitarristico di Billy Bragg (da Mermaid Avenue), la splendida The Lowlands Of Holland insieme ai Chieftains ed una rarissima versione voce e piano della divertente Political Science di Randy Newman, presa da una session pubblicata anni fa su ITunes, solo per download.

Il cofanetto costa tra i quarantacinque e i cinquanta euro: sta a voi decidere se farlo vostro, ma è certo che se di Natalie Merchant possedete solo qualche disco, la parola imperdibile è l’unica che mi viene in mente.

Marco Verdi

“Strano” Nome A Parte, In Pratica Sono I Decemberists Più Olivia Chaney Che Reinventano Il Folk-Rock Britannico! Offa Rex – The Queen Of Hearts

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Offa Rex – The Queen Of Hearts – Nonesuch/Warner

In effetti un po’ il nome “misterioso” della formazione rimanda a quei gruppi storici che hanno fatto la storia del folk-rock britannico, e ai quali la band si ispira: i Fairport Convention, gli Steeleye Span, l’Albion Band, tutte formazioni in cui una voce femminile guidava un organico che era impegnato a fondere il folk tradizionale delle Isole Britanniche con il rock (e qualche traccia, più o meno percepibile, della psichedelia che imperava in quegli anni oltre oceano, nella West Coast e altrove), con creatività ma anche amore per le radici della musica popolare, e, diciamolo, una buona dose di talento nei suoi praticanti. Forse non a caso tutti questi gruppi sono stati fondati ai tempi da Ashley Hutchings, vero “genio” del folk e dell’electric folk inglese. Nel caso dei Decemberists, e nello specifico il loro leader Colin Meloy, da sempre estimatore di questo filone musicale (oltre che del rock progressivo, sempre inglese, quello più complesso) che si è professato un fan di Olivia Chaney, sin dalla pubblicazione del primo album per la Nonesuch della cantante, The Longest River, pubblicato nel 2015 (e di cui vi avevo parlato in un post doppio ad inizio 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/01/04/recuperi-sorprese-inizio-anno-4-due-voci-femminili-scoprire-olivia-chaney-joan-shelley/ ): come racconta lei stessa, prima Meloy l’aveva contattata via Twitter esprimendo la sua ammirazione per quel album, invitandola ad andare in un tour americano con i Decemberists, e poi durante quella serie di concerti le ha proposto, con una frase che lascio volutamente in inglese, perché rende perfettamente l’idea:  ‘Have you ever thought of having a backing group? We’ll be your Albion Dance Band.'”!

Nel link del Post indicato sopra, potete trovare tutte le informazioni sulla Chaney, dei Decemberists ci siamo occupati spesso e volentieri sul Blog, basta usare la funzione ricerca e li trovate, per cui proseguiamo a vedere come è andata a finire la vicenda: intanto, per curiosità, Offa è stato un celebre Re di Mercia, un regno dell’antica Inghilterra, tra il 757 e il 796 Anno Domini, e se volete conoscerne la storia digitate in rete Offa di Mercia, ma visto che noi ci occupiamo di musica, la divulgazione culturale la lasciamo ad altri. Si diceva della proposta di Meloy, che è diventata una realtà, portando Olivia a Portland, Oregon, nella tana del leone, negli studi di Tucker Martine, per vedere cosa poteva scaturire dall’incontro tra i musicisti americani e una vera praticante del folk britannico (per quanto anche con le influenze americane citate nella recensione): insomma Sandy Denny Maddy Prior (ma anche Anne Briggs), vanno a braccetto con Joni Mitchell Natalie Merchant, nella splendida voce della Chaney, mentre i Decemberists provvedono a “ri-aggiornare” questo stile musicale, che comunque vanta ancora molti dei precursori originali in attività, e penso, oltre alla Prior e Hutchings a Richard Linda Thompson, ed altri che ricorderemo strada facendo.  Intanto lo fa andando a pescare nello stesso bacino tradizionale inglese-irlandese-scozzese da cui avevano attinto le prime band britanniche, a cavallo della fine anni ’60, primi anni ’70. Anche se la storia del disco non è solo questa: intanto agli arrangiamenti di The Queen Of Hearts ha contribuito la stessa Chaney, che nell’album, oltre a cantare con voce angelica suona pure clavicembalo elettrico, harmonium, piano, chitarra acustica e dobro, mentre Colin Meloy oltre ad essere un altro degli arrangiatori (con il resto della band) e co-produttore con Martine, suona tutti i tipi di chitarra, elettrica, classica, 12 corde ed  acustica, e, forse non è ancora stato detto, anche se si intuiva, il CD è veramente brillante e di grande qualità.

Per completare aggiungiamo che nel disco suonano pure Chris Funk, anche a lui a chitarra, mandolino, autoharp e hammered dulcimer, Nate Queery al basso, Jenny Conlee, piano elettrico Fender Rhodes, organo e fisarmonica, Jon Moen, batteria e percussioni, più Anna Fritz al cello, Ralph Carney a clarinetto e fiati, Mirabai Peart alla viola e Steve Drizos alle congas. A tratti si percepisce anche il sound abituale della band americana, specie nei brani più elettrici, ma il folk-rock (psichedelico o tradizionale) è all’ordine del giorno. Prendiamo il brano di apertura, la title track Queen Of Hearts, introdotta dal clavicembalo elettrico della Chaney poi si sviluppa in una cavalcata elettrica che sembra scaturire da Liege And Lief dei Fairport, con chitarre elettriche psych a duettare con la voce eterea e sognante di Olivia, in un pezzo dove qualcuno ha intravisto persino analogie con le prime Heart, quelle più bucoliche di inizio carriera di Dreamboat Annie. Blackleg Miner, cantata da Meloy (con Olivia poi alla seconda voce), ricorda moltissimo la versione degli Steeleye Span dal loro debutto Hark! The Village Wait, con un mandolino a guidare la melodia, mentre la versione di un altro traditional come The Gardener è direi splendida, una ballata, o “aria”, se preferite la terminologia folk, ricorda moltissimo appunto quelle ballate soffuse ed intense in cui Sandy Denny era maestra, e anche se la Chaney forse non raggiunge i vertici vocali della Sandy ci si avvicina moltissimo, con tutti i musicisti perfetti ai loro strumenti, dalla chitarra elettrica alla viola, alle tastiere, alla sezione ritmica discreta, ma comunque presente, veramente un ottimo brano. The First Time I Ever Saw Your Face è un brano celeberrimo di Ewan MacColl, un altro dei padri fondatori del revival del British folk (ha scritto anche Dirty Old Town), canzone famosa anche nella versione molto bella e quasi soft-soul di Roberta Flack, qui riacquista la sua dimensione tradizionale in un mood sonoro guidato dall’harmonium che rimanda al sound dell’Albion Dance Band a guida Shirley Collins, anche se la voce ricorda nuovamente sia la Denny che Natalie Merchant, quando affronta le canzoni folk.

Flash Company se non ricordo male dovrebbero averla cantata sia Norma Waterson (nel disco di famiglia Waterson:Carthy) che June Tabor, altre due delle grandi icone del folk inglese tuttora in attività, altra deliziosa ballata sulle ali di una chitarra elettrica e di un violino (o è una viola?) che rimanda alle più belle canzoni dei Fairport Convention di Richard Thompson e Sandy Denny, la voce, credo raddoppiata, di Olivia in questo pezzo è evocativa come raramente è dato sentire ai giorni nostri. The Old Churchyard uno dei brani più pastorali viceversa ricorda nuovamente gli Steeleye Span di Maddy Prior, anche vocalmente, tra intrecci di chitarra elettrica, tastiere, viola e harmonium, su cui svetta nuovamente la voce cristallina della Chaney. Constant Billy (Oddington) / I’ll Go Enlist (Sherborne) è un breve e coinvolgente strumentale, con la fisarmonica della Conlee a guidare letteralmente le danze, in un brano che rimanda moltissimo ai progetti più tradizionali di Hutchings nelle varie versione della Albion Band. Altro grande brano, uno dei più belli del disco è Willie o’ Wisnbury, che si ricorda in decine di versioni, forse le più famose quelle di Dick Gaughan, dei Pentangle e degli Sweeney’s Man (tra gli “antenati” dei Planxty): la rilettura degli Offa Rex, di oltre sette minuti, è un’altra di quelle canzoni dove si apprezza a fondo l’angelica voce della Chaney, ma anche la maestria del gruppo nel ricreare con pochi tocchi le malinconiche e suadenti atmosfere tipiche del miglior folk britannico. Poi replicate nelle note scandite e quasi marziali di Bonny May, altro brano legato a June Tabor, ancora pezzo corale di grande livello ed intensità. Ci avviciniamo alla fine con Sheepcrook and Black Dog, un altro dei brani più elettrici di questo CD, dove prevale l’anima più rock e psych, quasi sperimentale, del gruppo, con sciabolate di chitarre elettriche, la voce stranamente lavorata e grintosa e quell’aria tipica delle storie popolari, tra fato e disgrazie varie che si intrecciano nel racconto della canzone. L’ultimo brano viene pure dal songbook della famiglia Waterson, Lal nello specifico è l’autore di To Make You Stay, altra evocativa e sospesa ballata elettrica affidata ala voce di Colin Meloy (sempre con la doppia voce della Chaney), con chitarra acustica e pianoforte che creano altre magie sonore, orientali a tratti, che portano ad una degna conclusione questo splendido album.

Altamente consigliato, tra i migliori dischi del 2017 fino ad ora.

Bruno Conti

Lui Non Mi Fa Impazzire, Ma Stavolta Non E’ Malaccio! Eric Church – Mr. Misunderstood On The Rocks

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Eric ChurchMr. Misunderstood On The Rocks: Live And (Mostly) Unplugged – EMI Nashville EP/CD

Non sono un grande fan di Eric Church, country rocker del North Carolina in attività da poco più di dieci anni, ed oggi uno dei musicisti più popolari in USA, perlomeno in ambito country. Eric non era neppure partito male, esordendo con un discreto album di robusto country chitarristico (Sinners Like Me, 2006) e bissando tre anni dopo con l’altrettanto valido Carolina: peccato che, con l’aumentare delle vendite, Church sia scivolato disco dopo disco verso una musica sempre più commerciale, un country finto southern di grana grossa, ma in fin dei conti perfettamente allineato con quello che chiedono a Nashville. Il suo live album del 2013, Caught In The Act, era piuttosto buono, elettrico e roccato al punto giusto, ma sia The Outsiders che Mr. Misunderstood, i suoi due ultimi lavori in studio, non avevano certo le carte in regola per piacere a chi ama il vero country. Mr. Misunderstood tra l’altro ha venduto meno della metà del suo predecessore, segno che anche in America forse un certo tipo di musica fatta per le classifiche comincia a stufare: è forse per questo che Eric ha appena pubblicato un altro disco dal vivo, un EP con solo sette canzoni, che però si candida da subito come una delle sue cose migliori.

Mr. Misunderstood On The Rocks è intanto registrato nella suggestiva cornice del Red Rocks Amphitheatre in Colorado, un luogo capace di tirare fuori il meglio da chiunque, e poi Church sceglie di presentarsi in una veste spoglia, acustica al 90%, come recita il sottotitolo del CD. Non è da solo sul palco, anzi in un paio di brani c’è la sua band al completo, ma se si eccettua una occasionale chitarra elettrica, il suono è più intimo, più vero, meno legato alle sonorità dei dischi di studio; ed Eric si dimostra un buon performer, in grado anche di emozionare: peccato che il dischetto duri solo poco più di mezz’ora. Apre un medley decisamente interessante che, partendo dalla sua Mistress Named Music, tocca vari classici come Like A Rock di Bob Seger, Danny’s Song di Loggins & Messina, Willin’ dei Little Feat, Piano Man di Billy Joel (accolta da un’ovazione) e Troubadour di George Strait, il tutto eseguito solo con l’ausilio della chitarra acustica, ma senza rinunciare al feeling.

Con Chattanooga Lucy arriva la band, per una robusta canzone dal ritmo sostenuto e potente anche in questa versione stripped-down, con umori southern neanche troppo nascosti; Mixed Drinks About Feelings (bel titolo, molto Jimmy Buffett) vede il nostro in trio con il piano di Jeff Cease ed il controcanto femminile di Joanna Cotten, per una toccante ballata dalla melodia ulteriormente valorizzata dalla veste acustica (e che voce lei), mentre Knives Of New Orleans, ancora con Eric da solo sul palco, è comunque un pezzo con una certa vitalità. Kill A Word è ancora elettroacustica e con il gruppo al completo, maschia, vibrante e soprattutto privata delle diavolerie in studio per renderla commerciale; l’intensa Record Year, ancora in trio (ma con due chitarre ed il piano) e molto amata dal pubblico, conduce al brano conclusivo, una versione voce e chitarra (elettrica) del superclassico di Leonard Cohen Hallelujah, rilettura che tiene presente quella di Jeff Buckley ma rimane comunque personale e soprattutto sentita. Non sto dicendo che questo dischetto sia imperdibile, tutt’altro, ma se anche voi non siete estimatori di Eric Church sappiate che qui troverete solo la parte buona di lui.

Marco Verdi

Da New Orleans Con Ritmo “Galattico”, Per Allen Toussaint. Stanton Moore – With You In Mind

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Stanton Moore – With You In Mind: The Songs Of Allen Toussaint – Mascot/Provogue

Stanton Moore, chi è costui? Direi che il quesito manzoniano ci è sempre utile, e quindi rispondiamo. Trattasi di batterista, nello specifico dei Galactic, noto combo di New Orleans, specializzato in jazz, funky, rock, blues, anche heavy metal (con i Corrosion Of Confomity): parliamo ovviamente solo di lui, Stanton, bianco, 45 anni quando uscirà questo With You In MInd il 21  luglio, eclettico pare di capire, ma per l’occasione impegnato in un disco (già il settimo nella sua carriera solista, più una decina con i Galactic, e svariate altre collaborazioni e progetti alternativi) il cui sottotitolo The Songs Of Allen Toussaint, aiuta a capire a cosa ci troviamo di fronte. L’album, in origine, doveva essere una prova in trio, con James Singleton al basso e il “grande” David “Tork” Torkanowsky alle tastiere, tre luminari della musica della Crescent City, in quello che avrebbe dovuto essere un album strumentale di jazz. Ma poi mentre stavano per entrare in studio di registrazione li ha raggiunti la notizia della morte improvvisa in Spagna di Allen Toussaint, e quindi hanno deciso di intraprendere la strada di un tributo al grande musicista di NOLA, coinvolgendo anche un nutrito gruppo di altri musicisti, compresi pure diversi cantanti. E il risultato è ottimo. D’altronde non poteva essere diversamente, il materiale di base, ossia le canzoni di Toussaint, di per sé è già stupendo, se poi nel disco suonano e cantano, in ordine sparso, Nicholas Payton e Donald Harrison Jr., Trombone Shorty, Cyril Neville, Wendell Pierce, Maceo Parker, una cantante poco nota ma bravissima di New Orleans (che lo stesso Moore confessa di non avere conosciuto, prima della registrazione di questo album) Jolynda Kiki Chapman, il risultato è un eccitante “gumbo” di suoni che non esiteremmo a catalogare nella categoria “altri suoni”, anche se il funky/soul e il jazz classico sono i principali elementi.

Ad aprire le danze è Here Come The Girls un vecchio funky del 1970, inciso in origine da Ernie K. Doe, qui cantato da Neville e Trombone Shorty, in una orgia danzereccia di fiati sincopati ma anche solisti, voci femminili di supporto e ritmi scatenati (*NDB quelle dei video qui sopra non sono ovviamente le versioni dal disco di Stanton Moore, ma in rete non c’è; per cui “accontentatevi”). Life è un altro dei brani più noti di “Tousan” (come era affettuosamente chiamato il nostro), cantata di nuovo da Cyril, e con il ritmo mutato in un intricato 7/8, con il sassofonista Skerik e Payton a dividersi il proscenio nella jazzata parte centrale, poi è il turno delle coriste, mentre Stanton Moore imperversa con la sua maestria percussiva; in Java uno dei primi cavalli di battaglia di Toussaint, uno strumentale del 1958 si gusta la classe del trio Harrison, Payton e Trombone Shorty, in un brano che mischia gli stili e si trovava in un disco intitolato The Wild Sounds Of New Orleans, inutile dire che i solisti e tutta la band sono meravigliosi. All These Things è cantata da Kiki Chapman, una ballata notturna di struggente bellezza, cantata con grande pathos e voce spiegata da questa cantante che mi era ignota prima d’ora, ma è veramente bravissima, nell’originale cantava Art Neville, ma che voce anche lei ragazzi e Torkanowsky illumina la canzone con il suo pianoforte, che anche nei brani precedenti è comunque spesso al proscenio; per Night People arriva uno dei “concorrenti” principali nel funky americano, quel Maceo Parker che per anni ha suonato con James Brown, ma di certo non si tira indietro anche se c’è da soffiare nel suo sax sui ritmi tipici del funk made in New Orleans, con Neville di nuovo voce solista e  il gruppo di musicisti ancora a tutto groove.

E anche The Beat, fin dal titolo, è tutto un programma, ancora Cyril alla voce solista, che doveva cantare un solo brano, ma poi è rimasto coinvolto, alla grande, in quattro brani, nello specifico si tratta di un poemetto inedito di Allen Toussaint, su cui Neville declama i versi, mentre il liquido piano elettrico di Tork si muove sullo sfondo; Riverboat vira di nuovo verso notturni lidi jazzistici, uno strumentale raffinato che gira attorno agli assolo di Nicholas Payton e Donald Harrison jr., mentre Moore, Singleton e Moore lavorano di fino ai rispettivi strumenti. Everything I Do Gonh Be Funky (From Now On), di nuovo un titolo, un programma, era cantata in origine da uno dei preferiti di Toussaint, quel Lee Dorsey che non sempre viene ricordato tra i grandi del soul e del R&B (ma lo è), per l’occasione i musicisti, che si sono molto divertiti a registrare il disco, hanno cambiato il tempo del pezzo in un più complesso 5/4, assolo ancora di Maceo Parker; With You In My Mind è un’altra splendida ballata dove si apprezzano ancora il tocco vellutato del piano di David Torkanowsky e del basso di Singleton. A chiudere Southern Nights, un brano che fu un insospettato n°1 nelle classifiche per Glen Campbell, qui con Payton alla tromba e Tork all’organo e l’attore Wendell Pierce a recitarne i versi, strana ma “magica”, come tutto il disco. Esce oggi.

Bruno Conti

Il Vero Inventore Del Folk-Rock? Dion – Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions

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Dion – Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions – Norton CD

Tutti i libri e siti che trattano di storia della musica contemporanea sono soliti far coincidere la nascita del folk-rock, genere popolarissimo nella seconda metà degli anni sessanta, con il 1965, ed in particolare intorno a tre eventi principali: l’uscita dell’album Bringing It All Back Home di Bob Dylan, nel quale il grande cantautore per la prima volta elettrificava le sue canzoni (in realtà lo aveva già fatto nel 1962 con il singolo Mixed-Up Confusion, ma non siamo troppo pignoli), la sua partecipazione al Festival di Newport accompagnato dalla band di Paul Butterfield, che scandalizzò i puristi del folk, e l’esordio dei Byrds, gruppo inventore e leader del jingle-jangle sound, con Mr. Tambourine Man (album e singolo). Sempre nello stesso anno ci furono altri eventi minori sempre legati alla nascita del folk-rock, come l’uscita del singolo The Sound Of Silence di Simon & Garfunkel (evento che a ben vedere tanto minore non è, dato che stiamo parlando di una canzone che è nella mia Top 3 di sempre), con l’aggiunta arbitraria da parte del produttore Tom Wilson di strumenti elettrici e sezione ritmica, brano che di fatto rilanciò la carriera del duo, oppure l’esordio di altri gruppi dal suono che rimandava al nuovo genere musicale, come Turtles e Sonny & Cher, o ancora la pubblicazione del disco più famoso (e più bello) di Barry McGuire, quell’Eve Of Destruction la cui title track è tra i capolavori assoluti del folk-rock.

Pochi però sanno che il primo destinatario dell’idea di elettrificare la musica folk è un “insospettabile”, cioè Dion Di Mucci, che con i suoi Belmonts aveva già assaporato il successo sul finire dei fifties, e che in quegli anni, dopo aver sciolto il suo gruppo originale e formato i Wanderers, era alla ricerca di qualcosa di nuovo dal punto di vista sonoro. Galeotto fu l’incontro, verso la fine del 1964, proprio con Tom Wilson, che non dimentichiamo in quel periodo era anche il produttore di Dylan (ed anche Bringing It All Back Home vedrà Tom in cabina di regia), il quale propose a Dion di prendere delle canzoni folk note e meno note e di rivestirle di sonorità elettriche: al musicista del Bronx l’idea piacque molto, dato che era anche un fan di Dylan (ammirazione tra l’altro ricambiata), e così nel 1965 i due entrarono negli studi della Columbia, all’epoca la casa discografica per la quale lavorava Dion, ed incisero quindici pezzi, tra cover (poche) e brani originali, di puro folk-rock, con l’aiuto dei Wanderers (Johnny Falbo alla chitarra solista, Pete Falsciglia al basso e Carlo Mastrangelo alla batteria) e delle tastiere di Al Kooper, altro musicista determinante per il 1965 dylaniano. Il risultato finale soddisfò sia il cantante italoamericano che Wilson, ma inspiegabilmente la Columbia si rifiutò di pubblicare il disco, limitandosi a fare uscire qualche canzone su singolo: scelta abbastanza inspiegabile, in quanto in quel periodo il folk-rock si stava affermando come il genere in assoluto più in voga, ed anche perché le incisioni che Dion aveva portato in dote erano di ottimo livello. Fatto sta che la cosa rovinò i rapporti tra il cantante e l’etichetta, che gli rescisse il contratto lasciandolo a piedi, cosa che dovette lasciare il nostro abbastanza sconcertato visto che il suo album successivo, Dion, uscì solo tre anni dopo.

Oggi finalmente la Norton ripara al torto subito da Di Mucci 52 anni fa pubblicando quelle quindici canzoni ed intitolando l’album Kickin’ Child: 1965 Columbia Sessions: da qualche parte è stato detto che questo disco è inedito, ma va detto che di inedito non c’è nulla, in quanto tutte le canzoni, oltre ai singoli dell’epoca, sono uscite in LP successivi o in antologie (quindi non è un’operazione analoga, per fare un esempio, ad Out Among The Stars di Johnny Cash), ma di sicuro è la prima volta che l’album esce così come era stato pensato in origine (e poi comunque voglio vedere in quanti già possiedano tutte queste canzoni). Che Dylan fosse un modello per queste registrazioni lo si capisce dalla title track, che sembra una outtake proprio da Bringing It All Back Home (anche se è l’unica, insieme ad altri due pezzi a non essere prodotta da Wilson, bensì da Bob Mersey, già collaboratore del cantante newyorkese), compreso il modo di cantare di Dion che ricalca quello di Bob. Come già detto le cover non sono poi molte, solo cinque su quindici: tanto Dylan, ovviamente (presente con ben tre brani, le all’epoca inedite Baby, I’m In The Mood For You e Farewell, quest’ultima molto bella, ed una scintillante ripresa di It’s All Over Now, Baby Blue), Tom Paxton, la cui Can’t Help But Wonder Where I’m Bound è suonata in puro Byrds-style, mentre All I Want To Do Is Live My Life, scritta da Mort Shuman, è anch’essa figlia del nuovo suono di Mr. Zimmerman. I brani originali sono tutti in perfetto stile folk-rock, con chitarre ed organo in primo piano, come le orecchiabili My Love e Wake Up Baby, alcune con l’influenza di His Bobness decisamente pronunciata (Tomorrow Won’t Bring The Rain e Two Ton Feather), qualcuna con un maggior gusto pop, sia beatlesiano (Now) che non (Time In My Heart For You, impreziosita dai cori e dall’inconfondibile organo di Kooper), altre belle e basta, come la limpida Knowing I Won’t Go Back There, dall’ottima melodia cantata benissimo (Dion è sempre stato un’ugola notevole) e la deliziosa You Move Me Babe, eseguita quasi nello stile doo-wop delle origini musicali del nostro.

Più di 50 anni per riparare ad un torto, in un tipico caso di sliding doors chissà che piega avrebbe preso la carriera di Dion se Kickin’ Child, come da progetto iniziale, fosse stato pubblicato nel 1965?

Marco Verdi

Torna Uno Dei Migliori Rocker In Circolazione, Nuovo Album E Concerto. Kenny Wayne Shepherd Band – Lay It On Down

kenny wayne shepherd band lay it on down

Kenny Wayne Shepherd  – Lay It On Down – Mascot/Provogue – 21-07-2017

Kenny Wayne Shepherd (nato Brobst a Shreveport, Louisiana, esattamente 40 anni fa, ma poi diventato “pastore”, almeno di cognome, per ragioni artistiche) da una decina di anni sembra non sbagliare più un disco: era partito come una delle “Grandi Speranze Bianche Del Blues” ( e della chitarra) quando era un ragazzino (insieme a Bonamassa, Jonny Lang e John Mayer, per citare i più famosi), poi si era perso un po’ per strada, l’album del 2004 The Place You’re In era veramente bruttino, con un suono hard rock da FM, ed ha venduto pure poco. Poi dal 2006 tutto è cambiato, Shepherd si è sposato con la figlia di Mel Gibson, dalla quale ha avuto cinque figli (lui e Johnny Lang fanno a gara per chi ne ha di più, per ora sono alla pari) e, cosa che più ci interessa, ha deciso di tornare al blues(rock), prima con 10 Days Out, dove ripercorreva la strada delle 12 battute, insieme ad alcuni dei grandi “vecchi” del genere, poi l’ottimo Live In Chicago http://discoclub.myblog.it/2010/10/12/forse-e-la-volta-buona-kenny-wayne-sheperd-live-in-chicago1/ . Con How I Go ha proseguito nella strada della qualità, culminata nell’eccellente Goin’ Home del 2014, dove apparivano come ospiti Warren Haynes, Joe Walsh, Ringo Starr, Robert Randolph, Keb’ Mo’, Kim Wilson, e la Rebirth Brass Band; nel frattempo, insieme a Stephen Stills e Barry Goldberg, ha dato vita ai Rides, gruppo autore di due notevoli dischi nel 2013 e 2015.

Proprio la sezione ritmica dei Rides, Chris Layton alla batteria e Kevin McCormick al basso è stata utilizzata da Kenny Wayne per registrare questo nuovo Lay It On Down, concepito non a caso nella città natale di Shreveport, con l’abituale produttore Marshall Altman e con l’aiuto del tastierista Jimmy McGorman e la presenza del suo pard abituale, il bravissimo cantante Noah Hunt. Il disco è stato registrato a gennaio di quest’anno, praticamente live in studio, e si sente, il suono è fresco e vibrante, con la chitarra di Shepherd sempre in evidenza e una serie di dieci canzoni (con la title track ripresa anche in versione acustica) tutte di buone fattura e firmate insieme ad alcuni dei suoi co-autori abituali, Mark Selby e Tia Sillers, in primis, ma anche nuovi arrivi come Danny Myrick, Dylan Altman e Keith Stegall, oltre al produttore Marshall Altman. Al solito sto scrivendo la recensione più di un mese prima dell’uscita (esce il 21 luglio), per cui vado anche a sensazioni: Baby Got Gone è un bel brano rock, per entrare subito nel mood dell’album, suono anche un filo radiofonico, ma nulla di scandaloso, chitarre a tutto riff, organo “scivolante” e la voce di Hunt in grande spolvero, al resto ci pensa la chitarra di Shepherd; Diamonds Got Gold aggiunge anche una sezione fiati, il suono è più funky e rotondo, forse più “lavorato” rispetto alle precedenti uscite, Kenny Wayne scalda comunque il wah-wah anche se il sound rimane forse fin troppo radiofonico e “commerciale”, ma sarebbero radio che ci piacerebbe ascoltare rispetto a quello che passa il convento del rock mainstream. Insomma parrebbe che Shepherd si sia messo in concorrenza con Jonny Lang e John Mayer, per quanto con migliori risultati.

Nothing But The Night ha un retrogusto quasi errebì, anche se la realizzazione è forse fin troppo “leccata”, manca per il momento il blues dei dischi precedenti, ma la chitarra scorre sempre fluida e ricca di inventiva; Lay It  OnDown finalmente risente dello spirito della Louisiana, una delicata ballata elettroacustica con deliziose armonie vocali e quell’umore sudista unito ad una bella melodia, un pizzico di zucchero di troppo, ma con una solista acustica che sostituisce l’elettrica. She’s $$$ è un gagliardo shuffle rock-blues con chitarre e organo assai indaffarati, più vicino allo stile abituale di Shepherd, e la qualità continua a salire anche nella successiva Hard Lessons Learned una sontuosa ed avvolgente ballata country-gospel con uso di pedal steel, veramente splendida e con un lirico assolo di chitarra del nostro. Down For Love è un altro pezzo rock di quelli tosti, un Texas Blues quasi alla Stevie Ray Vaughan, tirato e grintoso il giusto e con la chitarra incattivita di brutto, fluida e torrenziale; How Long Can You Go vira verso territori tra soul e rock sempre con la massima intensità, con la band che macina ritmo dietro le evoluzioni della solista di Kenny Wayne. Louisiana Rain è un’altra malinconica ballata dedicata al suo stato natale, eseguita con impeto e classe da Shepherd e compagni, veramente affiatati in questo album, inutile dire che l’assolo, al solito, è di grande qualità. Con Ride Of Your Life si torna al blues-rock duro e puro, a questo punto la band ha aggiustato il tiro e il brano  ricorda certe cose del miglior Bonamassa, quando l’ispirazione non fa cilecca. A chiudere il CD manca la versione “acustica” di Lay It On Down, pure questa decisamente bella. Quindi, se sorvoliamo sui piccoli cedimenti iniziali, un altro eccellente album per Kenny Wayne Shepherd,  a conferma del suo attuale status come uno dei migliori rocker americani in circolazione.

Bruno Conti

P.S.

KWS

Se volete vederlo dal vivo, Kenny Wayne Shepherd e la sua band saranno in concerto a Milano, anzi al Carroponte di Sesto San Giovanni la prossima domenica 23 luglio. Un evento da non perdere, sia per la KWS Band (se leggete i nomi e guardate pure il video qui sopra, capirete perché) che dal vivo è veramente strepitosa e anche per il musicista di supporto, il bravissimo cantante e chitarrista inglese Laurence Jones, più volte “”magnificato” su questo Blog http://discoclub.myblog.it/2015/05/05/lo-shakespeare-del-blues-magari-laurence-jones-whats-it-gonna-be/.

Gli Ultimi Bellissimi Episodi Di Una Carriera Luminosa. Bert Jansch – On The Edge Of A Dream

bert jansch on the edge of a dream

Bert Jansch – On The Edge Of A Dream – Earth 4CD Box Set

A pochi mesi dal notevole box quadruplo Living In The Shadows, che raccoglieva i tre album che il grande Bert Jansch aveva pubblicato negli anni novanta, ai quali era stato aggiunto un CD di inediti del periodo http://discoclub.myblog.it/2017/02/03/gli-anni-novanta-di-un-grandissimo-musicista-bert-jansch-living-in-the-shadows/ , la benemerita Earth fa uscire il seguito di quel cofanetto (in mezzo c’è stata anche la riedizione del live del 2001 Downunder, reintitolata Live In Australia http://discoclub.myblog.it/2017/02/12/una-doverosa-appendice-al-cofanetto-1-bert-jansch-live-in-australia/ ): On The Edge Of A Dream, sempre formato da quattro CD, ed ancora con il quarto totalmente inedito, prende in esame i tre album finali del grande chitarrista ex Pentangle, Crimson Moon (2000), Edge Of A Dream (2002) e The Black Swan (2006), tre dischi splendidi, uno meglio dell’altro, ancora più belli di quelli già notevoli della decade precedente e con almeno uno di essi (The Black Swan) meritevole di essere messo sullo stesso piano dei suoi classici. Nel nuovo millennio Jansch era tornato in forma smagliante, e chissà quanta altra grande musica avrebbe potuto regalarci se solo non se ne fosse andato per sempre nel 2011 (“Bert Jansch è stata forse la mia più grande influenza”, detto da Jimmy Page, non esattamente l’ultimo pirla): questo box ricalca il formato e la veste grafica del precedente (quello era giallo, questo è verde), anche se questa volta fortunatamente non mancano le note su chi suona cosa. Ma ecco una rapida disamina disco per disco.

Crimson Moon: con il figlio Adam al basso ed un trio di chitarristi formato da Johnny Marr (Smiths), Bernard Butler (Suede) e Johnny “Guitar” Hodge (Lightning Raiders), questo è un album splendido, con qualche scampolo elettrico (dire rock mi pare eccessivo) e canzoni formidabili, a partire dall’evocativa Caledonia, la deliziosa title track, contraddistinta dalla classe immensa del nostro, lo strepitoso strumentale Downunder, sublime prova di maestria da parte di Bert, la cristallina cover di October Song (Incredible String Band), la bluesata Looking For Love, la straordinaria Walking This Road, un mix elettroacustico con melodia davvero suggestiva, il puro folk di Neptune’s Daughter, per finire con una rilettura personalissima del classico di Guy Mitchell Singing The Blues.

Edge Of A Dream: album ancora più strumentato del precedente, oltre a ritrovare sia Butler che Hodge, troviamo il folksinger Ralph McTell all’armonica, l’ex cantante dei Mazzy Star, Hope Sandoval, e soprattutto in due brani il violino del grande Dave Swarbrick. Il disco comincia in maniera quasi rock con la tonica On The Edge Of A Dream, un folk-blues elettrico di grande impatto; altri pezzi degni di nota sono All This Remains, guidata dalla suggestiva voce della Sandoval, lo scintillante e cadenzato folk-rock What Is On Your Mind, le due canzoni con Swarb (la tenue Sweet Death, puro Jansch, e lo strumentale Gypsy Dave, nel quale l’ex Fairport Convention ruba la scena al leader), il gustoso blues I Cannot Keep From Crying, con la slide cooderiana di Paul Wassif, per chiudere con la straordinaria La Luna, con la splendida chitarra flamenco di Hodge, tra le cose più belle di Bert, e l’intenso traditional (già nel repertorio dei Fairport) The Quiet Joys Of Brotherhood, con la moglie del nostro, Loren Jansch, alla voce solista.

The Black Swan: come ho già detto, un disco formidabile, più folk dei due precedenti, anche se non mancano gli elementi rock e blues, e con la partecipazione di Beth Orton e di Devendra Banhart: canzoni splendide che rispondono ai titoli di The Black Swan, malinconica e struggente, High Days, nella quale Jansch suona veramente da Dio, Watch The Sun Comes Up, un sontuoso blues elettroacustico cantato dalla Orton, Katie Cruel, emozionante duetto tra Beth e Devendra, con Bert che ricama da par suo sullo sfondo, la strepitosa Watch The Stars, folk purissimo, ed il sorprendente western tune Magdalina’s Dance, quasi un bluegrass. E mi fermo qui se no le cito tutte.

The Setting Of The Sun: dischetto che contiene undici pezzi mai sentiti, sette demo di brani tratti dai tre CD precedenti, dall’arrangiamento più spoglio ma non per questo meno interessanti, e quattro inediti assoluti, due con Johnny Marr (una riedizione del classico anni sessanta di Bert It Don’t Bother Me ed una incredibile versione strumentale del traditional Cocaine), una preziosa Chambertin con Gordon Giltrap ed un intrigante strumentale senza titolo.

Un box quasi imprescindibile, dato che non costa neppure troppo (ma neppure te lo tirano dietro), a meno che non possediate già i tre album interessati da questa ristampa.

Marco Verdi

Una Band Leggendaria Del Rock Californiano, Al Secondo Tentativo. Moby Grape – Ebbet’s Field 1974

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Moby Grape  – Ebbet’s Field 1974 – Keyhole

Di questi tempi un bel Live di un broadcast radiofonico non si nega a nessuno, figuriamoci ad una band che ai tempi è stata leggendaria e a tutt’oggi occasionalmente si esibisce con la formazione che registrò questo concerto del 1974. Stiamo parlando dei Moby Grape, grande gruppo californiano in attività soprattutto nella San Francisco del tempi aurei, tra fine anni ’60 e primi anni ’70, autori di alcuni splendidi album pubblicati dalla Columbia (soprattutto il primo) e poi ristampati una decina di anni fa dalla Sundazed in eccellenti, ma subito scomparse, a parte i due dischi di inediti tuttora in catalogo, edizioni rimasterizzate e potenziate che mettevano in evidenza il grande potenziale di una formazione che vedeva la presenza di ben cinque cantanti e compositori nel proprio organico. Skip Spence, una delle classiche “casualties” del rock, con una carriera afflitta da perenni problemi con droghe e acidi, fu presente solo fino al 1968 e con un breve ritorno di fiamma nel 1971, ma gli altri hanno fatto vari tentativi di ravvivare la loro storia: anche verso la fine del 1973, i due chitarristi Peter Lewis e Jerry Miller, con il bassista e leader Bob Mosley, e l’aggiunta del chitarrista Jeff Blackburn e del batterista Johnny Craviotto (in sostituzione del membro originale Don Stevenson, che per motivi misteriosi diventa Jerry, nelle raffazzonate note del CD) tentarono una ennesima reunion per una serie di concerti.

Sempre dalle suddette note, presenti nel libretto allegato e che in pratica sono un articolo della rivista ZigZag del giugno 1974, apprendiamo che all’inizio di quel tour le esibizioni della band non furono all’altezza della loro fama, ma quando si presentano al famoso Ebbet’s Field di Denver per un concerto destinato ad una trasmissione radiofonica paiono in ottima forma, come testimonia questo dischetto, la cui qualità sonora è buona senza essere memorabile, ma i cui contenuti sono assolutamente destinati a piacere agli estimatori del gruppo. I cavalli di battaglia ci sono tutti, lo stile è quello tipico del quintetto, un misto di rock, blues, folk-rock e qualche traccia di soul/jazz nonché di psichedelia leggera, sciorinato con ottimi intrecci vocali, uno dei loro punti di forza e intricati passaggi chitarristici. Ecco scorrere il vorticoso medley chitarristico dell’iniziale Changes/Falling con la voce “nera” di Mosley che si fa largo in un corposo sound tra rock e R&B, caratterizzato anche dalle armonie vocali sempre presenti, Ain’t No Secret è una potente rock song che evidenzia il sound d’assieme dei Grape, mentre Hey Grandma e Murder In My Heart (For The Judge) mettono in fila due dei loro brani migliori e più celebri, il primo un blues-rock westcoastiano incalzante di Lewis, il secondo, di Miller, uno dei loro pezzi più noti, una piccola “pepita” dello psych-rock della San Francisco di fine anni’ 60, sempre punteggiato dalle chitarre.

Gypsy Wedding era un brano leggermente funky estratto dall’unico album solista di Bob Mosley, con la potente voce del bassista in evidenza, seguito da una lunga rilettura di Miller’s Blues, un “lentone” che non aveva nulla da invidiare a quelli che Bloomfield, l’altro Miller, Steve e svariati altri musicisti proponevano come variazioni rock delle classiche 12 battute. Alcuni brani come Window To My Soul e Long Black Train, come pure la countryeggiante East Train (un pezzo presentato come di Hank Williams?) manco li ricordo, ma confermano la buona vena dei Moby Grape all’epoca, sempre con le chitarre in primo piano. Anche Silver Wings ha questo sound country-rock che imperava in quel periodo, mentre Get On Up ritorna al rock più vibrante, prima di arrivare al gran finale con la potente Can’t Be So Bad, il super classico Omaha e una Goin’ Down che fa sempre la sua porca figura, tra stilettate chitarristiche e voci in libertà.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Se Quattro Ore (Abbondanti) Di Rock’n’Roll Vi Sembrano Poche… Bruce Springsteen & The E Street Band – Olympiastadion, Helsinki, July 31st 2012

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Olympiastadion, Helsinki, July 31st 2012 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 4CD – Download

Ultimamente le uscite degli archivi live di Bruce Springsteen si sono concentrate soprattutto sugli anni più recenti, lasciando da parte lo scopo iniziale della serie di documentare i concerti storici (anche se in ognuna di queste uscite c’è un fatto importante, tipo la serata di Buffalo nel 2009 che era l’ultimo concerto con Clarence Clemons in formazione): mentre scrivo queste righe è già disponibile il nuovo volume, di cui tratterò prossimamente, che documenta uno show allo Spectrum di Philadelphia nel 2009, l’ultimo concerto prima della demolizione della storica venue (ma il sito sul quale si possono acquistare questi concerti promette che con la successiva uscita si tornerà indietro nel tempo, vedremo…). La particolarità di questo show all’Olympiastadion di Helsinki è che, oltre a concludere la tournée europea seguita alla pubblicazione di Wrecking Ball, con le sue quattro ore e sei minuti di durata complessiva è ad oggi il concerto più lungo del Boss (ed infatti è il primo della serie ad uscire su quattro CD). Ma, lunghezza e considerazioni sull’opportunità di pubblicare un altro concerto recente a parte, siamo di fronte ad una delle uscite migliori della serie, in quanto in quella serata Bruce ed i suoi compagni di viaggio sono in forma strepitosa, forse ancora di più del solito (io li avevo visti a San Siro il 7 Giugno di quell’anno e già allora erano stati indimenticabili, tra l’altro sfiorando anche lì le quattro ore), e diederp veramente tutti loro stessi in una serata all’insegna del miglior rock’n’roll che si possa trovare in circolazione (Tom Petty e Rolling Stones permettendo).

Uno spettacolo che sarebbe stato sconsigliabile perdersi (e peccato che questi live non escano anche in video): inizio roboante con Rockin’ All Over The World di John Fogerty, con Bruce e la band che hanno subito tutto il pubblico in pugno, brano seguito a ruota da una sequenza micidiale formata da Night, un classico da Born To Run che però non viene eseguito sempre, Out In The Street, la rara Loose Ends, Prove It All Night, introdotta da un assolo torcibudella di Little Steven, e l’allora nuova We Take Care Of Our Own, più trascinante dal vivo che in studio. Il concerto fu la solita grande festa rock’n’roll, con classici acclarati (bellissime versioni di My City Of Ruins, torrenziale soul-rock di altissimo livello, una tonicissima Downbound Train, una Because The Night al solito strepitoso showcase per l’abilità chitarristica di Nils Lofgren, ed una sempre emozionante The Rising).

Ottime renditions di brani presi da Wrecking Ball (tra le quali spiccano le trascinanti Death To My Hometown e Shackled And Drawn ed una toccante Jack Of All Trades, con un grande Roy Bittan), e rarità varie come le preistoriche Does This Bus Stop At 82nd Street? e Be True, l’intensa Back In Your Arms (dalla raccolta di outtakes Tracks) ed un torrido medley tra Light Of Day ed il classico di Wilson Pickett Land Of 1000 Dances. Nei soliti lunghissimi bis (che occupano tutto il quarto CD ed il 70% del terzo), oltre alle presenze più o meno fisse di Born In The U.S.A., Born To Run, Dancing In The Dark e Tenth Avenue Freeze-Out (ma manca Thunder Road), c’è posto per il sempre formidabile Detroit Medley e, nel finale, una commovente rilettura di I Don’t Want To Go Home di Southside Johnny (in duetto con Little Steven, che poi è colui che l’ha scritta) ed un’infuocata (Your Love Keeps Me Lifting) Higher And Higher di Jackie Wilson (nella quale per l’occasione suona la chitarra perfino lo storico manager del Boss, Jon Landau), oltre al consueto e travolgente happy ending di Twist & Shout.       Più di quattro ore di grandissimo rock’n’roll: il pubblico finlandese è steso per terra, e anch’io ho bisogno di un integratore vitaminico.

Marco Verdi