Oltre Le Curve C’e’ Di Più! Meghan Patrick – Country Music Made Me Do It

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Meghan Patrick – Country Music Made Me Do It – Warner CD

Il titolo dell’album di debutto del 2016 di Meghan Patrick, country-rocker canadese di trent’anni, è perfetto per identificare lei e la sua musica: Grace & Grit, grazia e grinta, in quanto ci troviamo di fronte ad una bionda spettacolare dalle curve mozzafiato, che nel contempo è depositaria di un suono vigoroso ed elettrico, molto lontano dal country-pop industriale tipico di Nashville, anche se è proprio là che la ragazza dell’Ontario va ad incidere i suoi dischi. Parlo al plurale in quanto è da poco uscito il suo secondo lavoro, dal titolo intrigante di Country Music Made Me Do It, che non fa altro che confermare quanto di buono Meghan aveva fatto intravedere con il suo esordio. Vero country, con le chitarre sempre al centro del suono, ed una grinta che non manca neppure nelle ballate: la ragazza sa il fatto suo, scrive di suo pugno quasi tutti i brani (anche se in collaborazione con altri) ed è in possesso di una splendida voce limpida, che mescola appunto grazia e grinta (un timbro alla Carlene Carter, per intenderci).

Per rendere il suono comunque appetibile anche nei circuiti radiofonici Meghan si è affidata al produttore Jeremy Stover (Justin Moore, Jack Ingram), che, invece di circondarla del solito stuolo di sessionmen che timbrano il cartellino, ha convocato una band ristretta di soli sei elementi, due chitarre (il solista è Derek Wells, uno dei più quotati a Nashville), un piano, basso, batteria ed una backing vocalist di supporto: poca gente, ma che bada al sodo. Il resto lo fa la Patrick, le sue canzoni, la sua voglia di affermarsi come una delle più promettenti “new breeders” del country femminile. E ha tutte le carte in regola per riuscirci. Il disco parte benissimo con la title track, una sontuosa ballata elettrica, subito dominata dalla bellissima voce di Meghan, chitarre in primo piano ed ottimo refrain: un perfetto biglietto da visita. George Strait, chiaro omaggio al famosissimo countryman, è tenue e leggera, quasi bucolica, e possiede ancora un ritornello immediato, Walls Come Down è roccata e dal suono pieno, con un occhio attento al suono radio-friendly ma assolutamente non compromesso, e si ascolta tutta d’un fiato; The Bad Guy è attendista e più normale, ma comunque gradevole, mentre Small Town non è la cover del classico di John Mellencamp, ma una fluida ballata ancora con la voce in evidenza e con la strumentazione parca ma solida.

The Buzz è elettrica e distesa, con una melodia vincente ed un mood quasi southern, Feel Me Gone è lenta e cadenzata, con uno sviluppo intrigante e valorizzata da un songwriting di classe, mentre con Hardest On My Heart più che in Canada (o a Nashville) sembra di essere in Texas, chitarre ruspanti, grinta e ritmo. La guizzante We Got It All è tra le più immediate, Case Of Beer And A Bed è uno slow toccante costruito intorno a chitarra acustica e piano, probabilmente la migliore ballata del CD; CD che si chiude con la bella The Way You Apologize, limpido country-rock decisamente evocativo, e con Underrated, contraddistinta da un delizioso sapore anni sessanta. Meghan Patrick ha tutte le qualità per sfondare: è bella, brava e con il suono giusto per piacere sia alle radio di settore che a chi ama la vera musica country. Da tenere d’occhio, anche perché (e mi rivolgo ai maschietti) non si fa neanche troppa fatica a farlo.

Marco Verdi

Rockin’ Country O Country-Rock Texano? Mike And The Moonpies – Steak Night At The Prairie Rose

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Mike And The Moonpies – Steak Night At The Prairie Rose – Mike And The Moonpies LLC  

Sono in sei, vengono dal Texas, dai pressi di Austin, dove è anche stato registrato questo nuovo album Steak Night At The Prairie Rose. Sono un sestetto guidato dal cantante Mike Harmeier, che scrive anche più o meno tutte le canzoni, e direi si possa affermare che fanno Texas country. A questo punto si apre il dibattito, breve: ma è rockin’ country, o country-rock, come dice una famosa battuta, è via Giuseppe Garibaldi vista da sinistra e via Garibaldi Giuseppe vista da destra, quindi solo una questione di prospettiva? Oppure c’è veramente differenza tra i due stili? Ho chiesto un parere al collega Marco Verdi che recensisce spesso dischi di questo filone e secondo lui:” Country-rock è una musica di base country, ma con i classici strumenti rock (tipo le chitarre elettriche) che si prendono la scena a scapito di banjo, violini, steel eccetera. Mentre il rockin’ country sono canzoni rock ma influenzate dal country, soprattutto nelle linee melodiche e nelle tematiche”. In effetti il confine è molto labile, visto che i Mike And The Moonpies annoverano due chitarristi (uno è lo stesso Mike), una steel guitar, un tastierista e la sezione ritmica, ma il loro genere è definito ugualmente rockin’ country, e quindi?

E quindi sorvoliamo e passiamo ai contenuti: questo è il loro quarto album di studio (più un live uscito nel 2017), tutti rigorosamente autodistribuiti e di difficile reperibilità, però il nuovo disco ha attirato anche l’attenzione della rivista Rolling Stone, e pertanto si è acceso l’interesse per la band, che comunque fa quasi 200 date all’anno in giro per gli Stati Uniti e quindi sono particolarmente rodati come gruppo; per l’occasione il disco ruota intorno a dieci brani, per un totale di circa 37 minuti di musica, e raccoglie un po’ tutte le sfumature della country music (come certifica anche la presenza dell’unico ospite Mickey Raphael, all’armonica in The Worst Thing). La partenza è sparatissima con Roadcrew, un rockin’ country (aaah!) vorticoso e a tutta pedal steel (il bravissimo Zachary Moulton) e chitarre (Catlin Rutherford), che però è apparentato anche con lo western swing e il boogie, qualche analogia con il sound di Commander Cody e soci (ma senza violino e con un organo vintage, suonato da John Carbone, nel ruolo del piano), comunque piacevolissimo; Might Be Wrong è più elettrica, più orientata verso il R&R, un misto di Asleep At The Wheel e Marshall Tucker Band, quindi pure elementi southern, con le chitarre che viaggiano sempre che è un piacere, Carbone passa al piano, Mike Harmeier canta sempre con ardore e bello stile, se fosse blues potremmo definirlo uno shuffle. Ma i nostri non sono estranei all’arte della ballata country, la title track Steak Night At The Prairie Night, ne è un ottimo esempio, direi più mid-tempo che ballad, comunque estremamente gradevole e decisamente ben suonata e cantata, tra le influenze possiamo citare George Strait, Clint Black, Dub Miller, ma anche il country-rock (aah aah!) anni ’70, forse più la Nitty Gritty che gli Eagles o i Poco, magari i primi Amazing Rhythm Aces.

Gettin’ High At Home ha un sound più tradizionale, anche se le chitarre vanno a tratti di riff come fossero gli ZZ Top per poi calmarsi subito, ma in generale siamo in prevalenza dalle parti di Nashville, con qualche capatina appena accennata, nel Bakesfield sound. The Last Time, scritta da Jonathan Terrell, ha perfino un piano elettrico in evidenza, qualche analogia con Loggins And Messina per gli elementi  pop anni ’70, una melodia orecchiabile e radiofonica, mentre Beaches On Biloxi, uno dei brani migliori, è tipica Texas music, molto cantabile, con belle armonie vocali, la pedal steel che torna a farsi sentire, anche un bel ritmo, Rolling Stone lo ha paragonato a Elvis del periodo Vegas (bah). In Things Ain’t LikeThey Used To Be la voce è quella del “bravo cantante country”, ma il ritmo è decisamente più mosso, c’è persino una chitarra con wah-wah e degli accenni funky misti a R&R, tra piano elettrico e organo che irrobustiscono il suono con decisione. The Worst Thing, vista la presenza di Rapahel all’armonica e una weeping pedal steel, potrebbe passare per una delle ballatone in cui Willie Nelson è maestro, bella; Wedding Band è una classica honky tonky song in puro stile texano, molto avvolgente, con la conclusiva We’re Gone che riprende a viaggiare tra boogie, western swing e organetti vintage all’impronta, e chiude su una nota ottimista un disco che magari non entrerà negli annali della musica, ma piacerà agli estimatori del genere: già, ma quale?

Bruno Conti

Ancora Una Volta Ai “Confini” Del Mondo: Da Bamako A Istanbul, Comunque Sempre Buona Musica. Dirtmusic – Bu Bir Ruya

dirtmusic bu bir ruya

Dirtmusic – Bu Bir Ruya – Glitterbeat Records

A distanza di più di dieci anni dall’ omonimo album d’esordio, Chris Eckman e Hugo Race, dopo l’abbandono di Chris Brokaw nel 2010, continuano il loro intrigante viaggio musicale in giro per il mondo, questa volta facendo tappa sulle rive del Bosforo, nella bellissima Istanbul,  per registrare il quinto album del progetto Dirtmusic, coinvolgendo questa volta uno dei protagonisti della scena locale turca, Murat Ertel, leader e voce dei Baba Zula: una esperienza che era stata fatta anche in passato nei lavori precedenti, con musicisti come Samba Tourè, Ben Zabo, e la band dei Tamikrest, sia in studio che dal vivo. Bu Bir Ruya è stato registrato nei Saniki Studios, messi a disposizione dallo stesso Ertel a Istanbul, in cui Eckman voce, chitarre, kalimba, e Race voce, chitarre, basso,, sono accompagnati come detto dal polistrumentista Murat Ertel voce, saz elettrico, divan saz, bagiama (una infernale macchina del ritmo), da Umit Adakale alle percussioni e altri strumenti del posto a noi sconosciuti come darbuka, davul e bendir, da Gorken Sen allo yaybahar (?!?), e da due bravissime coriste che rispondono al nome di Gaye Su Akyol (la nuova regina del rock turco), e Brenna Mac Crimmon,(canadese che vive da molto tempo in Turchia, già in passato collaboratrice dei Baba Zula), per un lavoro che nelle sue sette tracce, in totale circa  quarantadue minuti di musica, abbandona i precedenti suoni ispirati all’Africa Occidentale, per muoversi nella nuova e moderna scena “psichedelica” di Istanbul.

Ad aprire le danze, è il caso di dirlo, sono le chitarre e le percussioni tribali di Bi De Sen Sòyle che accompagnano la voce grezza di Hugo Race in una sorta di preghiera, con in evidenza il suono del saz di Ertel e il controcanto della Mac Crimmon, a cui fanno seguito il “post-punk” potente e riverberato di The Border Crossing, il rock blues desertico di Go The Distance, con le percussioni di Umit Adakale che dettano il ritmo, per poi passare ad una melodia ipnotica e di ampio respiro come Love Is A Foreign Country, cantata e sussurrata dalla splendida voce di Gaye Su Akyol. Atmosfere groove afro-etno si manifestano in una Safety In Numbers, dove il suono del saz elettronico di Murat accompagna nuovamente la melodiosa voce della Mac Crimmon, seguito dal “dub-sound” psichedelico di una Outrage, con la collaborazione di Gorken Sen e del suo strumento tradizionale (lo yaybahar), un innovativo strumento a corda che emette suoni dal riverbero elettronico, e infine terminare questa sorta di viaggio cinematografico con il brano più sperimentale dell’album (non casualmente messa in coda), con le libere suggestioni “psichedeliche-levantine” della title track Bu Bir Ruya, che vedono ancora protagonista il citato  Gorken Sen e il suo “infernale” strumento.

Dopo quattro album ispirati ai suoni dell’Africa Occidentale (il migliore per chi scrive rimane BKO), il duo americano-australiano Chris Eckman (ex Walkabouts) e Hugo Race (ex Bad Seeds), con questo nuovo lavoro Bu Bir Ruya, si cimenta con i suoni dei territori a nord della Turchia, il tutto con l’aiuto di artisti locali  per il loro consueto  “nomadismo” musicale dove trovano spazio il rock blues, il punk, groove ed elettronica, afro e tecno, tutti generi che poi convergono in una moderna “psichedelia” etnica. Sono passati circa quattro anni da Troubles http://discoclub.myblog.it/2013/07/26/musica-dal-mondo-tra-afrobeat-e-desert-blues-dirtmusic-troub/ , uno dei capitoli precedenti, e certamente questo nuovo lavoro non è, ancora una volta, un disco di facile ascolto, ma altrettanto sicuramente, per chi vuole “esplorare”, vale ogni minuto di ascolto: una sorta di colonna sonora dove i Dirtmusic non ci offrono soluzioni politiche (come altri fanno), ma grande musica che va ascoltata prima con la testa, e poi certamente con il cuore. Da scoprire e assimilare!

Tino Montanari

Forse La Migliore Band Di Blues Elettrico “Bianca” Di Tutti I Tempi, Al Top Della Forma! Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield – Born In Chicago/Live 1966

butterfield blues band & mike bloomfield born in chicago live 1966

Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield – Born In Chicago/Live 1966 – Live Recordings

Il nome dell’etichetta (?!?) già vi fa capire a cosa ci troviamo di fronte, ma il contenuto, sottolineato dalla scritta “Classic Radio Broadcast”, è, viceversa, splendido. Per il resto stendiamo un velo pietoso: il CD riporta solo i titoli dei brani, non ci sono i nomi dei musicisti, né tanto meno la data e il luogo in cui è stato registrato, e pure l’immagine di copertina è fuorviante, perché nonostante il disco annunci la Paul Butterfield Blues Band & Mike Bloomfield, poi la foto ritrae in primo piano Elvin Bishop. Comunque niente paura, l’anno coincide, è il 1966, secondo alcune fonti siamo al Fillmore West, secondo gli archivi del Concert Vault di Bill Graham, la location è il Winterland Ballroom di San Francisco, visto che la data coincide, il 30 settembre. Il materiale era già uscito in un doppio bootleg giapponese intitolato Droppin’ In With The Paul Butterfield Blues Band, in cui gli ultimi otto brani del secondo CD riportavano questa performance. E’ una delle ultime uscite di Bloomfield con la band e nel concerto viene eseguita anche Work Song dal LP East/West: il materiale è anche abbastanza differente dal live “ufficiale” Got a Mind To Give Up Living: Live 1966, pubblicato dalla Real Gone nel 2016, e che avevo recensito su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2016/07/09/ripescato-dalle-nebbie-del-tempo-suonavano-peccato-il-suono-the-paul-butterfield-blues-band-got-mind-to-give-up-living-live-1966/ , per me un eccellente documento anche se in quel caso la qualità del sonoro non era impeccabile, soprattutto la voce di Butterfield non svettava, ma il contenuto era fantastico.

Diciamo che qui la voce è molto più “presente”, anche se il suono è pur sempre quello di un broadcast registrato nel lontano 1966. I tre solisti, Butterfield, Bloomfield e Bishop, sono in gran forma, e Mark Naftalin alle tastiere, Jerome Arnold al basso e Billy Davenport alla batteria completano una line-up formidabile. Droppin’ Out, inedita su album all’epoca, uscirà solo su The Resurrection of Pigboy Crabshaw nel 1967, è un  impeccabile Chicago blues elettrico scritto da Butterfield, con qualche nuances psych-rock, vibrante e potente, con la voce “cattiva” del leader subito in bella evidenza, mentre Bloomfield e Bishop cominciano ad interagire con le loro soliste leggermente acide. La tracklist del CD riporta come secondo brano Baby, Please Don’t Go, il pezzo che quasi tutti ricordiamo nella versione dei Them di Van Morrison, ok scordiamocela, e anche quella originale di Big Joe Williams del 1935: nella tracklist del sito Concert Vault è riportata come Mother-In-Law Blues (sapete che nel blues i brani hanno mille vite e mille titoli diversi, ognuno piglia quello che può), direi che la versione della Butterfield Blues Band è ritagliata su quella di Muddy Waters per la Chess, primi anni ’50, con l’armonica di Paul pronta alla bisogna e in gran spolvero e la qualità sonora che, visto il periodo, ripeto, è più che buona, in tutto il CD, con la voce e gli strumenti bel delineati, grande blues elettrico di una band ai vertici del proprio rendimento.

(Our Love Is) Drifiting, dal primo album eponimo, è un blues lento magistrale con la chitarra di Mike Bloomfield limpida e cristallina, molto simile come timbro a come l’avremmo sentita nella Supersession con Stills e Al Kooper e nelle altre “avventure” di fine anni ’60, con la voce nera di Butterfield a guidare le danze. Born In Chicago è uno dei loro cavalli di battaglia, immancabile, e sul quale molti gruppi blues venuti dopo (anche in Italia) ci hanno costruito una carriera, sincopata e trascinante con un grande drive da parte di tutta la band e il call and response armonica, voce e le due pimpanti e swinganti chitarre, impeccabile; Willow Tree, inedita su album è un altro slow blues splendido, con le chitarre che centellinano note in risposta all’accorato cantato del leader, che soffia anche nell’armonica da par suo https://www.youtube.com/watch?v=1s5p2hfxywY . Anche My Babe, inedita su album, era uno dei punti di forza dei loro concerti, il classico brano di Willie Dixon scritto per Little Walter, uno dei brani più noti e più belli della storia del Chicago blues, grande versione. La cover di Kansas City è una rara occasione per sentire Mike Bloomfield alla voce solista, un pezzo che all’epoca faceva anche Jorma Kaukonen nei Jefferson Airplane, e l’approccio in entrambi i casi ha un che di psichedelico, come era tipico di quegli anni, un tocco che è presente in tutto il disco, blues va bene, ma anche rivisitato con classe e grinta. E per concludere in gloria, una versione fantasmagorica di Work Song, il brano di Cannonball Adderley che era uno dei punti di forza di East-West, 13 minuti di pura libidine sonora, con i solisti che improvvisano in modo libero ed incredibile (l’organo purtroppo si sente in lontananza), tra jazz, blues, rock e derive orientali, splendido, come tutto il CD: ritiro tutto quello che ho detto e pensato della etichetta Live Recordings. Da avere assolutamente.

Bruno Conti

Musica Esuberante E Contagiosa…Nel Nome Del Signore! Rend Collective – Good News

rend collective good news

Rend Collective – Good News – Rend Family Records/Capitol CD

I Rend Collective sono un quintetto proveniente da Bangor, Irlanda del Nord, specializzato nel sottogenere denominato “worship music”, musica di culto, caratterizzata quindi da testi tendenti a celebrare la grandezza di Dio e di Gesù, attraverso dischi e canzoni pieni di messaggi positivi, che inneggiano alla bellezza della vita ed alla gioia di celebrare tutti insieme il culto religioso: temi forse ingenui, ma al giorno d’oggi è bello avere anche chi cerca ancora il bello della vita, circondati come siamo da problemi e negatività. Quello della worship music è un filone molto popolare, specie in America dove i Rend Collective sono abbastanza famosi (il loro album del 2014, The Art Of Celebration, è entrato addirittura nella Top 20), e questo nuovo album, anch’esso dal titolo positivo di Good News, pare destinato a consolidare la loro fama (è già primo nella speciale classifica dedicata alla musica di culto). I RC, che hanno iniziato ad incidere nel 2010 e hanno già quasi una decina di album alle spalle, sono costruiti intorno ad un nucleo di cinque elementi (Gareth ed Ali Gilkeson, che sono anche marito e moglie, Chris Llewellyn, Patrick Thompson e Stephen Mitchell, cantano tutti e suonano una lunga serie di strumenti), che sono quelli che vanno in tour, ma su disco sono aiutati da una lunghissima schiera di amici e collaboratori, fino a formare un vero e proprio collettivo musicale, più che una band.

Ed il suono nel risente: nonostante i temi trattati i RC non fanno gospel, bensì una sorta di folk-rock potenziato, dove vicino ai classici strumenti della tradizione irlandese se ne aggiungono altri più propriamente rock, ed in grande quantità, tanto da formare un vero e proprio muro del suono, un cocktail esuberante e dal ritmo quasi sempre elevato. In alcuni momenti le sonorità sono talmente cariche che sfiorano quasi il pacchiano, ma le melodie sono talmente coinvolgenti (tutti i brani sono originali) da poter perdonare loro qualche eccesso, anche perché canzoni con questo tipo di messaggi positivi si prestano ad essere suonate con forza e partecipazione. Good News è un disco abbastanza lungo (quasi un’ora), ma è pieno di idee e di soluzioni melodiche, ed alla fine si ascolta tutto con piacere, anche nei momenti più di grana grossa. L’apertura di Life Is Beautiful è festosa come suggerisce il titolo, all’inizio sembra quasi un brano natalizio, il ritmo è alto ed il muro del suono strumentale è notevole, anche se il ritornello corale ad alcuni potrà sembrare un po’ kitsch. Anche I Will Be Undignified ha un mood gioioso, una giga elettrica indubbiamente coinvolgente, con un motivo che colpisce subito: il ritmo alto e l’uso corale delle voci potrebbero far pensare ai Lumineers, anche se il genere è completamente diverso; Rescuer (Good News) è il primo singolo, e sposta il suono verso territori gospel, sia per il suono “sudista” del pianoforte che per l’uso del coro, ed il ritornello è orecchiabile anche se aleggia ancora quel sentore di nazionalpopolare.

Counting Every Blessing inizia ancora per voce e piano, poi il ritmo prende piede e la strumentazione cresce: ottime come al solito le voci, con il suono che qui riesce ad essere bello pieno senza risultare eccessivo; Nailed To The Cross ha una melodia molto fluida e gradevole, ed un arrangiamento giusto a metà tra Irlanda e rock, ed alla fine risulterà una delle più riuscite, mentre Hymn Of The Ages è una rock ballad fatta e finita, maestosa e toccante, alla quale sono disposto a perdonare un suono leggermente sopra le righe dato che la linea melodica è decisamente bella. Stesso discorso per la vivace e contagiosa True North, forse ruffiana nel ritornello ma di sicuro impatto: è proprio questo continuo equilibrio tra bello e pacchiano la carta vincente dei nostri, in quanto riescono a colpire dritto al cuore di chiunque. Resurrection Day è forse troppo radiofonica, No Outsiders per contro è vigorosa e di grande respiro, ricorda un po’ gli U2 dei bei tempi, Weep With Me è uno slow ben costruito ed ottimamente cantato a due voci, mentre la potente Marching On è eccessivamente commerciale, con un ritmo praticamente da discoteca, ed è l’unico pezzo davvero da pollice verso. Il CD si chiude con la tenue ed intensa Yahweh, tra le più emozionanti, una saltellante ripresa di Counting Every Blessing più acustica, in cui l’ukulele assume un ruolo centrale, ed il finale di Christ Lives In Me, altra limpida ed ariosa ballata, diretta e senza sbavature.

I Rend Collective non saranno forse un gruppo per tutti, ma se gli darete un ascolto la loro forza e la loro gioia di vivere potrebbero anche contagiarvi.

Marco Verdi

Se Fosse Uscito Nel 1970 Sarebbe Stato Un Gran Disco, Ma Pure Oggi Non Scherza! Jimi Hendrix – Both Sides Of The Sky

jimi hendrix both sides of the sky

Jimi Hendrix – Both Sides Of The Sky – Experience/Sony Legacy

Poco meno di due mesi fa, nella rubrica delle anticipazioni discografiche, avevo pubblicato un Post http://discoclub.myblog.it/2018/01/26/uscite-prossime-venture-2-un-altro-hendrix-nuovo-esce-il-9-marzo-jimi-hendrix-both-end-of-the-sky/  dedicato a questo ennesimo “nuovo” album di Jimi Hendrix Both Sides Of The Sky. Devo dire che di tutto il materiale e dei dischi postumi, anche box, che si sono succeduti nel corso degli anni dedicati al mancino di Seattle, e ne sono usciti alcuni veramente belli, questo ultimo è uno dei più interessanti in assoluto, curato come al solito da Eddie Kramer.

Per cui riprendo quanto scritto all’epoca e lo rielaboro alla luce dell’ascolto che ho potuto fare del materiale contenuto nel CD. Vediamo, brano per brano le tredici canzoni, 65 minuti di musica in tutto:

:1. Mannish Boy La prima registrazione in assoluto in studio del trio Hendrix, Buddy Miles Billy Cox, prima ancora di chiamarsi Band Of Gypsys, alle prese con uno dei grandi brani di Muddy Waters.  Uno dei classici blues psichedelici di Jimi: nel corso dei suoi concerti eseguiva periodicamente anche (I’m Your) Hoochie Coochie Man, in effetti lo troviamo nelle BBC Sessions. Il brano, registrato ai Record Plant Studios di New York il 22 Aprile 1969, ha il classico sound delle prime registrazioni con gli Experience, anche se è suonato con una diversa sezione ritmica, classico suono hendrixiano con scat voce-chitarra tipico del suo solismo ma senza particolari acrobazie sonore, si fa per dire, visto che si parla di Hendrix, comunque un brano solido e completamente rifinito.

2. Lover Man Altro pezzo di studio, registrato due settimane prima degli storici concerti di Capodanno al Fillmore East di New York. Il brano, pubblicato anche in un singolo in vinile a tiratura limitata, uscito sempre in questi giorni. Si trova in vari dischi postumi, da quello all’Isola di Wight a Hendrix In The West, come anche nel box quadruplo, quello in vellutino del 2000 per intenderci, versione non molto diversa da questa, anche se c’è Mitch Mitchell alla batteria, mentre in questa ci sono le velocissime scariche percussive di Buddy Miles. Altra classica canzone del songbook del mancino di Seattle, con i suoi inconfondibili riff e quelle accelerazioni chitarristiche che hanno influenzato generazioni di musicisti. Bella versione comunque, molto funky-rock.

 3. Hear My Train A Comin’  Questo è uno dei pezzi più famosi di Hendrix tra quelli non “ufficiali”, registrato in varie versioni, ma mai apparso in nessun disco ufficiale di studio, solo in dischi postumi dal vivo: la colonna sonora di Jimi Hendrix, Rainbow Bridge, Jimi Hendrix Concerts, il solito “vellutino”, ma anche l’altro box West Coast Seattle Boy. La versione presente in Both Sides Of The Sky è una delle ultime registrazioni in studio dei Jimi Hendrix Experience con Noel Redding Mitch Mitchell, 9 aprile 1969. Versione spettacolare che non ha nulla da invidiare a quelle dal vivo, con Hendrix in grande forma e la sua chitarra che rilascia una serie di assoli lancinanti con il wah-wah a manetta innestato, come solo il nostro amico sapeva fare nei momenti più ispirati, cioè quasi sempre, detto per inciso, grande anche il lavoro della sezione ritmica, come nei brani migliori di Electric Ladyland, forse la vetta assoluta della sua purtroppo troppo breve carriera.

4. Stepping Stone Anche questo pezzo venne eseguito dal vivo nei concerti al Fillmore della Band Of Gypsysqui presentato in una “rara” versione, diversa da quella che fu anche brevemente pubblicata come singolo all’epoca, prima di essere subito ritirata. Classico pezzo rock molto tirato, anche se non una delle vette dell’opera del nostro amico, comunque un’altra gradita aggiunta alla sua opera ominia

5. $20 Fine Si tratta di un brano scritto da Stephen Stills, che suona l’organo e canta in questa canzone, con Jimi Hendrix che sovraincise diverse parti di chitarra, mentre alla batteria c’era Mitch Mitchell e al piano  era presente anche Duane Hitchings dei Buddy Miles Express. Il tutto fu registrato nel settembre del 1969 e fa parte delle diverse collaborazioni che i due musicisti ebbero in quegli anni. Il pezzo è cantato da Stills e ricorda molto quelli che poi sarebbero usciti sul suo primo disco solo: classico brano rock del musicista di CSN&Y impreziosito dalle trame soliste di Hendrix e con lo stesso  Stephen Stills che fa molto lo Steve Winwood della situazione,

6. Power Of Soul è una studio session del brano registrata nel gennaio 1970, tre settimane dopo i concerti del Fillmore, un pezzo che venne completato in studio da Hendrix e Eddie Kramer agli Electric Lady Studios il 22 Agosto del 1970. Un altro dei brani che facevano parte dei concerti al Fillmore East della Band Of Gypsys, in questa versione estesa ci sono decine di chitarre sovraincise, come era tipico delle tracce in lavorazione all’epoca, con Jimi che sfruttava fino in fondo le possibilità degli studi di registrazione e lo stile che risente del suono funky/R&B usato nel periodo con Cox e Miles.

7. Jungle Altra rarità,:si tratta di una variazione sul tema del Villanova Junction Blues incluso nella colonna sonora di Woodstock: uscita in svariati bootleg, questa è una delle versioni più compiute pubblicate. Un pezzo strumentale, solo Jimi e Buddy Miles, di cui prima dell’uscita di Both Sides Of The Sky si diceva che ci fossero forti influenze dello stile di Curtis Mayfield,  cosa che peraltro non mi sembra di avere percepito. Forse uno dei brani meno interessanti del CD, non brutto, perché non c’è nulla di brutto nell’album, ma non esiziale.

8. Things I Used To Do Una rilettura del celebre pezzo di Guitar Slim è l’occasione per ascoltare una delle varie collaborazioni che si vocifera esistano tra Hendrix e Johnny Winter, qui presente alla slide, con Billy Cox al basso e Dallas Taylor, della band di CSN & Y, alla batteria. Anche questa traccia nel corso degli anni è apparsa in vari bootleg e illustra ancora una volta il grande amore di Hendrix per il blues classico, con un Jimi stranamente misurato alla chitarra e Winter che imperversa con la sua solita verve alla slide, molto bello.

 9. Georgia Blues Altra chicca, uno slow blues di quelli magnetici e magnifici, che segna una sorta di reunion con Lonnie Youngblood, qui alla voce, che era il cantante di Curtis Knight & The Squires, già nel periodo pre-Jimi Hendrix Experience. Youngblood suona anche il sax in un lungo solo durante la parte strumentale e John Winfield appare all’organo, assieme a Jimmy Mayes alla batteria e Hank Anderson al basso, registrazione del marzo 1969.. Quasi otto minuti di pura magia sonora con Hendrix che lavora di fino alla solista come solo lui sapeva fare, unico ed inimitabile. Anche questo brano è parente stretto dei brani più jam apparsi nelle facciate centrali del vinile di Electric Ladyland

10. Sweet Angel Una deliziosa versione strumentale di Angel, registrata durante le sessioni per Electric Ladyland nel gennaio 1968 agli Olympic Studios di Londra, con Jimi alla chitarra, al basso e al vibrafono e Mitch Mitchell alla batteria, la melodia del brano è presente in modo completo, ma l’arrangiamento è più complesso senza stravolgerlo troppo rispetto alle “edizioni” già conosciute, diciamo una alternative version affascinante per i fan più accaniti.

11. Woodstock E’ proprio la canzone di Joni Mitchell, che Stephen Stills, qui sempre all’organo, portò alle jam sessions che stava avendo con Hendrix in quel periodo, 30 settembre 1969. Questa versione venne registrata prima di quella con Crosty, Stills, Nash & Young: Buddy Miles sedeva alla batteria e la canzone ricorda moltissimo quella poi incisa da C.S.N. & .Y con Jimi al basso: comunque il pezzo è molto bello e valeva la pena di sentirlo. Pare che esista molto altro materiale registrato dai due, vedremo se uscirà mai in versione ufficiale

.12. Send My Love To Linda  Altro pezzo inedito registrato con Billy Cox Buddy Miles per l’ipotetico album di studio dei Band Of Gypsys, mai completato e neppure questa volta mi pare, visto che si tratta di vari segmenti di diverse takes, registrate nel gennaio 1970, unite assieme non dico a caso, ma quasi. Oltre a tutto inizia solo voce e chitarra e poi nella parte finale, quella strumentale, arrivano anche il basso e la batteria e qui il brano si fa veramente interessante con notevoli improvvisazioni della solista che ne giustificano la presenza in questo CD.

13. Cherokee Mist  Altra improvvisazione chitarristica, quasi otto minuti, con Mitchell alla batteria e Hendrix che suona anche il sitar guitar ed imperversa con il suo feedback avvolgente in tutto il brano. Se non ricordo male già apparsa nel quadruplo box Jimi Hendrix Experience, quello con il “vellutino” http://discoclub.myblog.it/2013/08/02/per-la-seconda-volta-ma-sempre-un-classico-rimane-jimi-hendr/ ! Anche se la versione qui presente, del maggio 1968 ai Record Plant. oltre ad essere una delle tracce più interessanti della raccolta, pura psichedelia sonora come solo Jimi Hendrix sapeva fare, è anche uno dei brani più indicativi di quella che sarebbe potuta divenire la musica del mancino di Seattle nell’immediato futuro, ma non lo sapremo mai.

Come al solito qualcuno potrà obiettare che stiamo scavando sempre più a fondo nel barile della musica di Hendrix, ed è vero, ma fin che i risultati sono questi apprezziamo e consigliamo: come detto nel titolo del Post, se fosse uscito nel 1970 sarebbe stato un bel disco, ma pure oggi fa la sua porca figura, non solo per fan accaniti.

Bruno Conti

Un Grande Bluesman Di “Peso”, Ma Anche Di Spessore! The Nick Moss Band featuring Dennis Gruenling – The High Cost Of Low Living

nick moss band the high cost of low living

The Nick Moss Band featuring Dennis Gruenling – The High Cost Of Low Living – Alligator/Ird

Gli ultimi due album di Nick Moss mi erano piaciuti parecchio: sia l’ottimo doppio From The Root To The Fruit, uscito nel 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/07/13/breve-gustosa-storia-del-blues-rock-due-dischi-nick-moss-band-from-the-root-to-the-fruit/ , che era una sorta di viaggio cronologico a ritroso nel blues, da quello classico di Chicago fino al rock-blues grintoso e chitarristico, come pure avevo apprezzato l’eccellente Live And Luscious. Il tutto sempre edito dalla piccola etichetta Blue Bella Records, ed in entrambi i dischi non si poteva non notare la presenza del formidabile vocalist (e secondo chitarrista) Michael Ledbetter, cantante dall’ugola potente. Era quasi inevitabile che prima o poi Nick Moss, nativo di Chicago, approdasse alla Alligator Records, una delle etichette principali della Windy City, e che facesse un album interamente dedicato alle sonorità classiche della sua città, quindi electric e jump blues, e R&R vecchia scuola. Purtroppo Ledbetter non è più presente, ma Moss si è scelto un “sostituto” quasi di pari livello, per quanto differente, l’armonicista e cantante Dennis Gruenling, sulla scena da parecchi anni, con alcuni album all’attivo, e di cui ricordo la partecipazione agli ottimi album di Peter Karp (anche il live con Mick Taylor) http://discoclub.myblog.it/2017/02/27/pronti-via-eccolo-di-nuovo-sempre-ottima-musica-peter-karp-alabama-town/ .

Ma non solo, nell’album è presente anche una piccola sezione fiati, Eric Spaulding e Jack Sanford, oltre a Kid Andersen, co-produttore con Nick del CD, e chitarrista aggiunto in un paio di brani, nonché di Jim Pugh, lo storico tastierista di Robert Cray; il resto la fa la Nick Moss Band, con l’ottimo Taylor Streiff al piano, e la sezione ritmica, Nick Fane, basso e Patrick Seals, batteria. Il sound è puro blues urbano, con il disco registrato a Elgin, Illinois, a due passi dalla capitale delle 12 battute che risulta essere uno dei migliori dischi di Chicago Blues sentiti negli ultimi album.. Il repertorio non pesca dai classici (ci sono solo tre cover), ma sia Nick Moss (8 brani) che Dennis Gruenling (2 canzoni) hanno firmato una serie di pezzi che suonano ugualmente come i “classici” dell’era d’oro del blues elettrico, pur restando ben ancorati allo stile praticato da gente che è venuta prima di loro, alla rinfusa penso ai Bluesbreakers di John Mayall, alla Butterfield Blues Band, ma anche ai Dr. Feelgood o ai Nighthawks. Come certo saprete Nick Moss è un “grosso” chitarrista in tutti i sensi (anche come dimensioni), in possesso di uno stile eclettico e ricco di tecnica, in grado di spaziare in tutte le branche del blues: prendiamo l’iniziale Crazy Mixed Up Baby, il suono pimpante della chitarra ricorda quello dei grandi Bluesbreakers (Clapton, Green o Taylor, in Crusade, vista la presenza dei fiati), Gruenling soffia con forza nella sua armonica e Streiff si disbriga con classe al piano, ma sembra anche di essere tornati al sound della Chicago metà e fine anni ’60 (non dimentichiamo che Moss ha mosso, scusate il bisticcio, i primi passi come bassista di Jimmy Dawkins); Get Right Before You Get Left è un jump blues di quelli vorticosi, qui siamo negli anni ’50, fiati e ritmi sincopati, interventi vocali corali assai brillanti, armonica e chitarra che si fronteggiano a tutta birra.

Per non dire di No Sense un classico “lentone” quasi barrelhouse, grazie al pianino di Streiff, dove l’ospite Kid Andersen inchioda un assolo perfetto, ma pure la title track merita, Moss va di bottleneck alla grande e la band lo segue come un sol uomo. Poi in Count On Me tocca a Dennis Gruenling passare alla guida per un R&R vorticoso, sembra quasi un pezzo di Chuck Berry accompagnato dai Dr. Feelgood o dai Nighthawks, con Moss che tira come una “cippa lippa” e anche in Note On The Door, un classico slow di quelli da locali fumosi, l’atmosfera non si raffredda; con Nick e soci che poi rilanciano nella prima cover, una Get Your Hands Out Of My Pockets scritta da Otis Spann, con Streiff, Gruenling e Moss che duettano in modo splendido. Anche Tight Grip On Your Leash, sembra uscire da qualche vecchio vinile Chess, con i tre solisti sempre brillantissimi, fantastico anche l’omaggio allo scomparso Barrelhouse Chuck con una sentita He Walked With Giants, un altro lento di quelli duri e puri, con Streiff ancora magnifico al piano, ma pure Moss non scherza con la sua solista pungente, difficile fare meglio, ma ci provano con lo shuffle incalzante di A Pledge To You, dove Moss imperversa ancora con la solista. A Lesson To Learn è l’altro brano a firma Gruenling, con l’ospite Jim Pugh al piano, qui siamo dalle parti del R&B e del rock con un suono più tirato, quasi alla Nighthawks con Moss che fa il Thackery di turno, lancinante e “cattivo” il giusto: Pugh rimane (all’organo) anche per una sorprendente All Night Diner, che era il lato B di Sleepwalk di Santo & Johnny, un vorticoso strumentale tra swing e surf. Come commiato un’altra cover di prestigio, Rambling On My Mind, non è quella di Robert Johnson ma di Boyd Gilmore, in ogni caso blues d’annata, sembra di nuovo un pezzo dei grandi bluesmen della Chess anni ’50 e c conclude in gloria un album di grande spessore, sarà sicuramente uno dei migliori nel genere di questo 2018.

Bruno Conti

Le Origini Di Un Genio Della Chitarra, Parte Seconda. Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part II)

bert jansch a man i'd rather be part 2

Bert Jansch – A Man I’d Rather Be (Part II) – Earth/BMG 4CD Box Set

Secondo cofanetto, uscito a poca distanza dal primo http://discoclub.myblog.it/2018/02/07/le-origini-di-un-genio-della-chitarra-parte-prima-bert-jansch-a-man-id-rather-be-part-1/ , che ripercorre gli inizi della carriera solista del grande Bert Jansch (dopo i due dello scorso anno che si occupavano degli anni novanta e duemila): anche questo come il precedente contiene quattro album del chitarrista scozzese, il tutto di nuovo senza inediti.

Nicola (1967) è l’ultimo disco di Bert prima del suo esordio con i Pentangle (ed il titolo è una dedica a Judy Nicola Cross, donna con la quale il nostro ebbe una breve ed intensa relazione). Nei brani acustici il suo stile non cambia, dalla cristallina Go Your Way My Love ai blues Come Back Baby (di Walter Davis) e Weeping Willow Blues, alla limpida Box Of Love, puro Jansch. Ma in cinque pezzi troviamo anche le orchestrazioni curate da David Palmer a base di archi ed ottoni che all’epoca inquietarono non poco i puristi: e se chitarre elettriche, piano e sezione ritmica vivacizzano A Little Sweet Sunshine e Wish My Baby Was Here dando loro un gusto pop, l’orchestra in Woe Is Love, My Dear e Life Depends On Love appare posticcia ed inadatta al suono dei Bert, suonando già datata all’epoca.

Birthday Blues (1969) vede invece il nostro accompagnato da una band ridotta, che è poi la sezione ritmica dei Pentangle, Danny Thompson al basso e Terry Cox alla batteria (ed anche il produttore, Shel Talmy, è lo stesso), più Ray Warleigh a sassofono e flauto: ed il suono, senza gli orpelli del disco precedente, è diretto, compatto ed asciutto, ma anche fruibile, per uno degli album più piacevoli di Jansch, a partire dalla solare Come Sing Me A Happy Song (ho abbreviato il titolo, che è infinito), e proseguendo con l’intensa Tree Song, che è di Bert ma sembra un vecchio traditional, la complessa (e straordinaria) Poison, che non avrebbe sfigurato in un album dei Pentangle, e le bluesate I’ve Got A Woman e Promised Land. E Bert dà il meglio anche nei pezzi da solo, come negli splendidi strumentali Miss Heather Rosemary Sewell e Birthday Blues.

E da solo Jansch lo è anche in Rosemary Lane (1971), in cui torna quindi alle sonorità dei primi lavori (ed anche il produttore è il medesimo, Bill Leader). E fa un grande disco, con punte di eccellenza nella rilassata Tell Me What Is True Love, la scintillante title track, i formidabili strumentali M’Lady Nancy e Alman, pura poesia chitarristica, la delicata Wayward Child e la superba Peregrinations. Ma potrei citarle tutte.

Moonshine (1973) vede invece Jansch circondato da una lunga serie di musicisti, alcuni di gran nome (ancora Danny Thompson, che produce anche il disco, Tony Visconti, la cantante Mary Hopkin, il chitarrista Gary Boyle, già membro di Brian Auger And The Trinity, Ralph McTell, e ben tre batteristi, tra cui Laurie Allen dei Gong e Dave Mattacks, all’epoca con i Fairport Convention), e con solo tre pezzi scritti da lui, due cover (compresa The First Time Ever I Saw Your Face di Ewan McCall, già incisa da Bert su Jack Orion) e quattro brani tradizionali. Il centerpiece è sicuramente Night Time Blues, che dura più di sette minuti, una splendida jam folkeggiante che è migliore di molto materiale finito poi su Solomon’s Seal, ultimo album dei Pentangle uscito l’anno prima. Ma sono da segnalare anche lo stupendo folk-rock di Yarrow, l’intensa ballata The January Man, la malinconica ma raffinatissima title track e la rockeggiante Oh My Father, con un grande Boyle all’elettrica.

Non conosco i piani della Earth, etichetta responsabile di questa serie di cofanetti dedicati a Bert Jansch, ma spero non si fermi qui, dato che ne mancano ancora un paio per completare la discografia del chitarrista scozzese. Staremo a vedere.

Marco Verdi

Da “Solo” O Con La Band, Dice Sempre La Verità. Lance Lopez – Tell The Truth

lance lopez tell the truth

Lance Lopez – Tell The Truth –  Mascot/Provogue

Sono passati solo poco più di 4 mesi dall’uscita di Califonisoul, il secondo album dei Supersonic Blues Machine http://discoclub.myblog.it/2017/11/28/anche-loro-sulle-strade-della-california-rock-supersonic-blues-machine-californisoul/ , ed ecco che il frontman della band, Lance Lopez, voce e chitarra solista nel power trio americano, pubblica già un nuovo album. Come spesso capita ho ascoltato il disco parecchio in anticipo sull’uscita e quindi le informazioni erano ancora poche. Quello che veniva annunciato,  cioè che il disco era stato registrato durante gli ultimi tre anni negli abituali studi di Los Angeles, sotto la produzione di Fabrizio Grossi, che aveva anche curato le parti basso di durante le varie sessioni tenutesi nello stesso periodo in cui veniva inciso l’album dei SBM, come pure  la presenza di un batterista dal suono  vigoroso e potente, che ha tutta l’aria di essere Kenny Aronoff, e il fatto che negli arrangiamenti fossero presenti anche piano, organo, armonica e backing vocalist aggiunti, era abbastanza sintomatico. Quindi il suono a grandi linee è assai simile a quello recente della band, ma Lopez ha comunque un lungo passato di musicista, prima come accompagnatore di musicisti di spessore, da Bobby “Blue” Bland e Johnnie Taylor passando per Johnny Guitar Watson, e poi, dopo il trasferimento dalla natia Louisiana al Texas, attraverso l’incontro con musicisti come Billy Gibbons e Johnny Winter, con cui ha condiviso i palchi a lungo nell’ultima parte della carriera di quest’ultimo.

Anche se la primaria influenza è stata sicuramente Jimi Hendrix, come pure, da un lato più blues, B.B. King e Stevie Ray Vaughan, e qualche trucchetto glielo hanno insegnato anche Lucky Peterson e Buddy Miles, nelle cui rispettive band ha suonato. Nel 1999, a soli 21 anni, pubblica il suo primo album First Things First, poi ripubblicato dalla Grooveyard, che sarà la sua etichetta nella prima decade degli anni 2000, i suoi album migliori Salvation From Sundown, Handmade Music e il Live in NYC, di cui vi ho parlato su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2016/05/28/del-buon-blues-rock-chitarristico-dal-vivo-lance-lopez-live-nyc/ . Sempre sano e vigoroso rock-blues, anche hard power trio con la chitarra del nostro spesso e volentieri in evidenza; ovviamente Tell The Truth non cambia la strada maestra, il suono pare solo più centrato, la musica, pur essendo dura e tirata, spesso è ben costruita ed arrangiata: prendiamo l’iniziale Never Came Easy, il suono è rotondo, con basso e batteria ad ancorare il suono, inserti di chitarra acustica, armonica, piano elettrico e la slide a supportare la voce rauca e profonda di Lopez in un pezzo che ha forti profumi blues. Mr. Lucky era la title track di uno degli ultimi album di John Lee Hooker, qui ripreso in una versione power trio, molto Hendrix e SRV, basso pompatissimo, chitarre lancinanti e anche in modalità wah-wah, l’armonica ad addolcire la vena quasi hard-rock-southern di questa versione, che comunque è di eccellente fattura, con la chitarra che scorre fluida e potente.

Insomma, capito il genere, e non è difficile, l’album si gode appieno: Down To One Bar, più dura e riffata, ha qualche vago elemento soul, grazie all’organo e alle coriste, ma le chitarre, sia normale che slide, sono sempre cattive, e se ogni tanto si cerca qualche elemento più commerciale non è un delitto, è nella natura del produttore Grossi. High Life ha persino qualcosa di “claptoniano”, miscelato con elementi sudisti, un bel drive ritmico e la rauca voce di Lance (molto simile a quella di Popa Chubby) in evidenza, oltre alle chitarre stratificate che contribuiscono alla riuscita del brano; Cash My Check è il primo singolo del CD, un bel boogie rock incalzante, con piano, armonica e coretti incisivi, ancora a punteggiare il sound sudista della canzone, veramente riuscita e coinvolgente, rock classico della più bell’acqua con un bel solo di slide che è la ciliegina sulla torta. Tutti i brani sono compatti, tra i tre e i quattro minuti, non si sbrodola troppo e l’insieme ne guadagna, ottime anche The Real Deal, con la solista sempre in modalità bottleneck e Raise Some Hell, una hard ballad elettroacustica dall’atmosfera sospesa, come pure Angel Eyes Of Blue, a tutto wah-wah, forse anche con talk-box inserito, “duretta” anziché no, e comunque sempre di fattura pregevole.

Tutta musica sentita mille volte ma se viene fatta bene, e questo è il caso, estremamente godibile, come conferma il rock made in the 70’s della energica Back On The Highway con pianino boogie, organo e le solite coriste a tirare la volata all’infoiata chitarra di Lopez, mentre la ritmica picchia di brutto; Blue Moon Rising è una delle rare ballate dell’album, peraltro riuscitissima, ambientazione sudista ed un arrangiamento raffinato e complesso, con la solista a punteggiare il mood del brano. E per concludere in bellezza un buon album di rock-blues energico ma, ripeto, ben fatt,o ecco Tell The Truth ancora con sventagliate di riff e soli dalla solista, non male Mister Lopez!

Bruno Conti

Nostalgia “Californiana” Targata Anni ’70. Ekoostik Hookah – Halcyon

ekoostik hookah halcyon

Ekoostik Hookah – Halcyon –  Home Grown Music Network – 2 CD

Superata una logica e naturale “impasse” per la morte inaspettata avvenuta il 13 Giugno dello scorso anno, del membro fondatore, chitarrista e vocalist John Mullins, si ripresentano a distanza di circa cinque anni dal precedente lavoro in studio, Brij  http://discoclub.myblog.it/2013/11/03/jam-band-per-eccellenza-ekoostik-hookah-brij-5749418/ gli Ekoostik Hookah (si pronuncia “Acoustic” Hookah), una delle “jam band” stranamente meno considerate del panorama musicale americano. Questo nuovo lavoro, Halcyon, è prodotto dagli stessi Ekoostik Hookah in coppia con Robert Rutherford, ed è stato registrato negli studi della Capital University di Columbus, Ohio, dove si sono ritrovati i due membri originali (in formazione dal 1991 in poi), Dave Katz voce, chitarra e tastiere, e Steve Sweeney alle chitarre, l’altra nuova chitarra solista Eric Sargent,  con la sezione ritmica formata da Phil Risko al basso (sostituito di recente da Matt Paetsch), Eric Lanese alla batteria, e il ritorno per l’occasione alle percussioni dell’ex componente Don Safranek, con il risultato di una decina di solide canzoni (con brani lunghi dai sette ai dieci minuti), che vanno a formare una sorta di “concept-album”, che i “fans” di lunga data apprezzeranno sicuramente.

Chi li conosce sa perfettamente che ogni canzone ha una spesso lunga intro strumentale prima che la voce di Katz dia corpo al brano, in questo caso con l’iniziale Start It All Over, dieci minuti di grande musica con le chitarre che dettano il ritmo, a cui fanno seguito altri dieci minuti di “jam” torrenziale con la bella Ambrosia, per poi passare a oltre otto minuti per la pura melodia di Roll The Dice, per approdare alla meravigliosa title track Halcyon, tredici minuti di pura bellezza sonora. Giunto a metà percorso dell’ascolto mi accorgo che il suono della band non è cambiato di una virgola rispetto al solito, con le tastiere di Katz che sono il fulcro degli arrangiamenti, assieme alle chitarre rock di Sweney e Sargent; come testimoniamo anche una sorta di’”honky-tonky” jam di un’ariosa Rock’N’Roll Band, mentre invece Timber è puro e divertente country elettrico, per poi giungere ad una ballata molto ispirata come Rest, che si sviluppa tra le note di un pianoforte che assorbe i “guizzi” di chitarra, canzone cantata con trasporto da Dave Katz. Smile And Sing invece è una lunga e piacevole composizione ancora di stampo country rock, dall’arrangiamento molto “roots”, che sfocia nel finale in una “jam” di grande spessore, a cui fanno seguito una ulteriore ballata country rock classica come Hidden Away, con chitarre e pianoforte in evidenza per quasi dieci minuti di musica sempre eccellente, e andare infine a chiudere con un brano strumentale, la bonus-track Cassiopeia, puro esercizio sonoro che lascia i musicisti e i loro strumenti liberi di improvvisare come se fossero in una “jam session”, ma che strano!

E’ abbastanza ovvio che gli Ekoostik Hookah, come d’altronde quasi tutte le “jam band” il meglio lo offrono nei concerti dal vivo, ma nello stesso tempo abbastanza raramente un gruppo di questo filone e genere musicale riesce a trasferire in studio (come in questo nuovo lavoro Halcyon), quasi novanta minuti di solido rock, con influenze blues e country, e le abituali lunghe improvvisazioni, dove le chitarre, il pianoforte, e la sezione ritmica sono sempre in evidenza. Nonostante siano in pista sin dall’inizio degli anni ’90, gli Ekkostik Hookah, si confermano attualmente, oltre che una delle più popolari band del circuito “southern-jam”, anche una delle poche formazioni ancora in una “nuova” fase creativa!

NDT: Purtroppo al solito anche questo CD, come peraltro i precedenti, per usare un eufemismo, è di reperibilità abbastanza difficoltosa!

Tino Montanari