Puro Rockin’ Country Texano…Che Volete Di Più? Randy Rogers Band – Hellbent

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Randy Rogers Band – Hellbent – Tommy Jackson Records/Thirty Tigers CD

Attivo discograficamente dal 2002, Randy Rogers è ormai un musicista sul quale contare a scatola chiusa, e da tempo non solo all’interno dei confini del natio Texas ma in tutta l’America. Originario di San Marcos (un sobborgo di Austin) Rogers rappresenta un piccolo miracolo nel panorama country a stelle e strisce, in quanto negli anni ha piazzato diversi album nella Top Ten (e non solo country, anche in quella generalista) senza smettere di fare musica di qualità. Infatti Randy pur incidendo a Nashville è rimasto un texano tutto d’un pezzo, e le sue canzoni sono quanto di meglio il Lone Star State possa proporre, con chitarre in primo piano, gran ritmo, feeling in dosi massicce ed una serie di brani semplici ma diretti ed immediati; il fatto di avere da anni la stessa band (Geoffrey Hill, chitarra solista, Johnny Chops, basso, Brady Black, violino, Les Lawless, batteria, Todd Stewart, vari strumenti) è poi un ulteriore punto a favore, in quanto ormai si è venuta a creare una amalgama ed una compattezza nei suoni che si ha solo quando ci si conosce a memoria.

Dulcis in fundo, Randy negli anni si è sempre affidato a grandi produttori, gente esperta che risponde al nome di Radney Foster, Jay Joyce, Lloyd Maines e, nell’ultimo Nothing Shines Like Neon di tre anni fa, Buddy Cannon https://discoclub.myblog.it/2016/03/21/ormai-si-va-sul-sicuro-randy-rogers-band-nothing-shines-like-neon/ : anche per questo nuovissimo Hellbent il nostro ha chiamato un nome che va per la maggiore, e cioè Dave Cobb, da anni ormai il miglior produttore “roots” in circolazione. Ma la RRB in questo disco non ha cambiato una virgola del proprio suono, una miscela stimolante e creativa di country e rock alla maniera texana, e Cobb si è limitato (si fa per dire) a portare la sua esperienza in sala di incisione dosando e calibrando i suoni con la consueta maestria. Drinking Money fa partire ottimamente il disco, un limpido ed arioso brano di puro country-rock, melodia scintillante e sonorità di stampo quasi californiano, con le chitarre in primo piano e puntuali riff di violino https://www.youtube.com/watch?v=qlYt-ReTiHQ . Con I’ll Never Get Over You torniamo in Texas, per un guizzante pezzo dal gran ritmo ed un ruspante suono chitarristico, una classica drinking song diretta e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=qJ98QCvKYdw ; Anchors Away è uno slow di ottimo livello e dal pathos indiscutibile, senza orpelli di sorta ma con un arrangiamento essenziale che va al cuore della canzone.

Di tutt’altro genere Comal County Line, un autentico e vibrante rock’n’roll ancora con le chitarre protagoniste, trascinante è dir poco, mentre Hell Bent On A Heartache è una country ballad distesa e gradevole, suonata con piglio sicuro e ben strutturata dal punto di vista compositivo; con You, Me And A Bottle abbiamo ancora un lento (ma il suono è sempre elettrico), ma We Never Made It To Mexico è una delle più belle, un valzerone dal delizioso sapore di confine e con una melodia cantata in stile “spanglish”, decisamente evocativa. Crazy People è puro country-rock, pulsante, vigoroso e dal motivo vincente https://www.youtube.com/watch?v=SRGz82scX1A , Fire In The Hole una strepitosa western song, ritmo sostenuto ed attitudine da vero rockin’ cowboy, un pezzo che evoca praterie sferzate dal vento; chiudono la tenue Wine In A Coffee Cup, altra ballata di buon valore, e la saltellante e coinvolgente Good One Coming On, puro Texas country al 100%, che mette il sigillo ad un album pienamente soddisfacente, tra i più riusciti della carriera di Randy Rogers.

Marco Verdi

Un Cognome, Una Garanzia! Edgar Loudermilk Band – Lonesome River Boat

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Edgar Loudermilk Band – Lonesome Riverboat Blues – Rural Rhythm CD

Edgar Loudermilk, cantante e bassista, non è un musicista alle prime armi, in quanto nel recente passato ha militato in ben tre gruppi (Carolina Crossfire, Full Circle e IIIrd Tyme Out), oltre a collaborare a lungo con Rhonda Vincent ed incidere anche qualche album come solista ed uno in duo con il chitarrista Dave Adkins. Se il suo cognome vi ricorda qualcosa, avete fatto centro: Edgar è in effetti parente alla lontana del noto cantautore John D. Loudermilk (scomparso nel 2016), ma soprattutto è un diretto discendente dei Louvin Brothers, un duo tra i più importanti della storia della country music (infatti il vero cognome dei fratelli Charlie ed Ira Louvin era proprio Loudermilk). Anche nonno e padre di Edgar erano strumentisti, e quindi è facile capire il perché il nostro sia nato con la musica nel sangue, ed una passione per country e bluegrass.

Coinvolto come abbiamo visto in mille progetti, nel 2016 ha formato la Edgar Loudermilk Band, un combo in puro stile bluegrass il cui primo album, Georgia Maple, ha ottenuto ottime critiche. Il gruppo propone una musica di chiaro stampo tradizionale pur suonando canzoni originali, il tutto con abbondanti dosi di feeling e con una notevole tecnica: oltre ad Edgar fanno parte della band l’eccellente chitarrista Jeff Autry, un altro con un’attiva carriera (e la cui presenza viene annunciata orgogliosamente anche sulla copertina dei CD del gruppo), il figlio di quest’ultimo, Zach Autry, al mandolino, Curtis Bumgarner al banjo e Dylan Armour al dobro, e la particolarità è che sia Edgar che Jeff che Zach cantano, così da ricreare le armonie tipiche dei gruppi della mountain music di un tempo. Lonesome Riverboat Blues è il nuovo album della ELB, ed è uno scintillante esempio di moderna old-time music, con brani che mischiano ottimamente country, bluegrass, folk e gospel, una tecnica sopraffina da parte dei cinque musicisti ed una serie di canzoni scritte oggi ma che sembrano risalire a più di sessant’anni fa, controbilanciate anche da brani di stampo più contemporaneo.

La title track è sintomatica, un pezzo cristallino tra folk e bluegrass con grande uso di strumenti a corda ed un motivo dl sapore decisamente tradizionale: il mandolino tiene il ritmo, mentre agli assoli ci pensano il banjo, la chitarra e il dobro. The House My Daddy Built ha una struttura più moderna, essendo una limpida country ballad dalla melodia gentile e squisita con il dobro che si eleva a strumento principale, ma con All I’m Missing Is You siamo ancora in territorio bluegrass, attacco tipico di banjo, poi entrano gli altri strumenti ed Edgar intona un motivo piacevole e diretto. Dinah ha un ritmo veloce nonostante l’assenza di batteria e si distinguono elementi western swing, con splendide prestazioni di mandolino e dobro: tecnica raffinata ma anche creatività e feeling. Have You Seen My Blueridge Girl è una tersa e spedita country song, deliziosa nella melodia e frizzante nell’accompagnamento.

I Missed My Chance è un lento intenso  con un sound più attuale ed ottimo motivo corale, mentre con The Winter Wind torniamo in piena festa bluegrass, sembra di sentire il live inedito dei Good Old Boys uscito di recente, con gli strumenti suonati a velocità supersonica. Since I Left Virginia è una country song pura, immediata ed orecchiabile, Singing To The Scarecrow una tenue ballata che per un attimo riproietta il disco ai giorni nostri (bello e toccante il refrain), mentre Until I Can Find My Way Back To You è un altro pezzo dal ritmo alto con dobro e banjo sugli scudi e solito ritornello corale. Chiudono un dischetto fresco, creativo e stimolante Living Life Without You, ancora un bluegrass davvero piacevole, e la limpida When I Grow Too Old To Dream, tra country e folk e con un assolo di gran classe da parte di Jeff Autry. Edgar Loudermilk: buon sangue non mente.

Marco Verdi

In Attesa Del Cofanetto Inedito Previsto Per L’Autunno Ecco La Storia Dei Fleetwood Mac & Peter Green: Un Binomio “Magico” Dal 1967 Al 1971, Parte II

fleetwood mac 1969

Parte seconda.

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Fleetwood Mac In Chicago/Blues Jam At Chess – 2 LP Blue Horizon 1969 – ****

Nel frattempo, ad inizio gennaio appunto del 1969, il giorno 4, il quintetto, con Kirwan, si era recato agli studi Chess Ter-Mar della famosa etichetta di Chicago, per un meeting con sette musicisti neri importantissimi, dei veri maestri per Green e soci, la jam session, uscita con due titoli diversi, è fenomenale, un incontro proficuo tra cinque giovani musicisti inglesi ed alcune vere leggende del Blues, come Otis Spann (piano e voce), Willie Dixon (contrabbasso), Shakey Horton (armonica e voce), J.T. Brown ( sax tenore e voce), Buddy Guy (chitarra), Honeyboy Edwards (chitarra), e S.P. Leary (batteria); forse, ma forse, solo Fathers And Sons, il disco che vide l’incontro tra Muddy Waters, Michael Bloomfield e Paul Butterfield della Paul Butterfield Blues Band, Donald “Duck” Dunn di Booker T. & the M.G.’s, Otis Spann e Sam Lay, si può considerare pari o di poco inferiore a quello dei Fleewood Mac, ma è un’altra storia.

A produrre l’album furono Mike Vernon e Marshall Chess e il disco profuma di musica in libertà, le 12 battute classiche appunto in libera uscita per questa occasione unica. L’apertura è affidata a Watch Out, uno dei due contributi di Green come autore, un brano che rivaleggia con le migliori composizioni di Willie Dixox, uno shuffle intensissimo dove il chitarrista inglese dimostra di meritare tutta la stima che B.B. King gli ha poi tributato, con la sua solista variegata ed incontenibile e una parte cantata convinta come poche altre volte.  Da lì parte una sequenza di classici del blues splendidi: Ooh Baby, un ondeggiante blues con profumi errebì dalla penna di Howlin’ Wolf, sempre con Peter in gran forma, seguono due diverse e tirate takes dello strumentale South Indiana di Big Walter Horton, altri perfetti esempi del miglior Chicago Blues, con Shakey Horton all’armonica, Last Night è un intenso slow di Little Walter, sempre con Horton all’armonica, tutte cantate da Green, che poi guida il gruppo in Red Hot Jam, uno strumentale dove tutti i musicisti si divertono.

Seguono quattro brani consecutivi di Elmore James, nei quali Jeremy Spencer assume la guida delle operazioni alla voce e slide, I’m Worried, il lento I Held My Baby Last Night, la potente Madison Blues, in cui l’accoppiata bottleneck con il sax di JT Brown anticipa i futuri sviluppi di George Thorogood, e infine I Can’t Hold Out, con i musicisti neri presenti in sala che approvano. World’s In A Tangle di Jimmy Rogers apre il secondo album, un lento atmosferico dove Danny Kirwan sale al proscenio, mentre Otis Spann accarezza il suo piano, Talk With You e la tirata Like It This Way sono due composizioni di Kirwan, ottime a livello musicali, anche se Danny non è un grande cantante le chitarre viaggiano alla grande, a seguire troviamo due pezzi di Otis Spann, Someday Soon Baby e Hungry Country Girl, soprattutto la prima uno slow magistrale. La quarta ed ultima facciata prevede Black Jack Blues, un pezzo di J.T. Brown, con il contrabbasso di Dixon in evidenza di fianco al sax,  notevole anche Everyday I Have The Blues, di nuovo con la slide di Spencer, che la canta, e il sax a fronteggiarsi. Rockin’ Boogie come da titolo è uno scatenato R&R ancora di Jeremy, mentre Sugar Mama è un colossale blues corale con Peter Green che riprende la guida della session e Homework una travolgente scarica di blues da cento ottani, un successo in origine di Otis Rush e poi un cavallo di battaglia per i Nine Below Zero.

Al solito nelle edizioni ampliate contenute nel box ci sono moltissime bonus extra.

Then Play On, End Of The Game E I Dischi Postumi 1969-1971

Naturalmente gli anni si riferiscono a quando questo materiale venne registrato, poi è stato pubblicato in un arco di tempo lunghissimo, fino ai giorni nostri, in cui la  Sony farà uscire in autunno un cofanetto triplo Before The Beginning 1968-1970 Rare Live & Demo Sessions, con materiale inedito e dal vivo trovato negli archivi, e che è anche tra i motivi di questo articolo retrospettivo.

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Then Play On – Reprise/Warner 1969 – *****

Proprio durante le sessions che poi daranno vita a  questo magnifico album, i compagni di avventura di Peter Green cominciano a notare dei cambi di umore che li allarmano: il nostro amico che comincia ad usare grandi quantità di LSD, si lascia crescere una lunga barba incolta, inizia ad indossare delle tuniche e portare dei crocifissi, si fa più pensoso e malinconico, come testimonia la peraltro splendida Man Of The World, un brano che esce solo come singolo per la Immediate Records, che poi fallisce a breve, e la band firma un nuovo contratto per la Warner.

Tornando a Peter, Mick Fleetwood ricorda che l’amico cominciava a diventare ossessivo sul fatto di non fare soldi, e voleva dare via tutti i loro averi, cosa su cui i suoi compagni non erano molto d’accordo. Comunque le registrazioni vanno bene e l’album che ne risulta è uno dei capolavori assoluti del rock dell’epoca. Lasciato il blues, che rimane comunque presente nello spirito della musica, il suono si fa più aggressivo, anche se non mancano i soliti brani dalle atmosfere sognanti e malinconiche, con le chitarre di Green e Kirwan che fanno meraviglie nel loro interscambio, mentre la sezione ritmica di Mick Fleetwood e John McVie è veramente irrefrenabile.

Il 19 settembre del 1969, con la bellissima copertina dell’uomo nudo sul cavallo bianco, un titolo ispirato da una frase della Dodicesima Notte di Shakespeare, e con il primo singolo Oh Well, uscito la settimana successiva e non presente nella prima versione dell’album, che arriva, come Man Of The World, al secondo posto delle classifiche inglesi (mentre negli States Rattlesnake Shake uscita per prima, si rivela un flop), esce Then Play On , un album veramente superbo. Attualmente il disco si trova in CD nella edizione Extended  & Remastered uscita nel 2013 e quella vi consiglierei di cercare, in quanto con i suoi 18 brani si tratta della versione definitiva: comunque la versione “rivista” di fine 1969 (con Oh Well) iniziava con Coming You Way, un pezzo “galoppante” (vista anche la copertina) di Danny KIrwan, con il nuovo sound delle due soliste subito in evidenza, percussioni a manetta, e finale chitarristico psichedelico che ha non ha nulla da invidiare a quelli dei Quicksilver di John Cipollina e Gay Duncan.

Closing My Eyes è il primo splendido brano di Peter Green, una misteriosa e sognante canzone a tempo di valzer, con le chitarre accarezzate e le sferzate dei timpani di Fleetwood a percorrerla, una rivisitazione dei suoni di Albatross, con inserti acustici, Show-Biz Blues è un omaggio al tanto amato blues, un pezzo intimo ed acustico con le stesso Peter alla slide, visto che Jeremy Spencer praticamente non si sente più nel disco. My Dream di Kirwan è un delizioso strumentale tra surf music e atmosfere più malinconiche, sempre con quelle chitarre magnifiche, Underway, che poi dal vivo diventerà colossale, ha più di un punto di contatto con le ricerche sonore di Hendrix in quel periodo, con un crescendo magnifico punteggiato dal lavoro superbo di Fleetwood alla batteria, peccato che venga sfumato quando Green e Kirwan iniziano a divertirsi.

Oh Well (Part 1 & 2) ci regala più di nove minuti di magia sonora, inizio quasi flamenco con chitarra acustica e uno dei riff più inconfondibili della storia del rock, poi entra l’elettrica e il cantato sincopato di Peter, continui rilanci e una prima sferzata rock con le soliste che impazzano, poi segue un lungo segmento elettroacustico quasi cameristico (ma comunque tipicamente tra progressive e baroque rock)  anche con il piano di Spencer, nella sua unica apparizione, a disegnare atmosfere uniche. Although The Sun Is Shining è un’altra breve composizione di Kirwan, di ispirazione quasi folk, dolce e malinconica, mentre Rattlenake Shake è un’altra sferzata di pura energia rock, che non sarà anche entrata in classifica, ma questo non impedisce a vere muraglie di chitarra di ululare e dibattersi con una veemenza incredibile,  poi portate a livelli fantasmagorici nelle versioni live da 25 minuti e oltre; la sequenza di Searching For Madge e Fighting For Madge, composte da McVie e Fleetwood, è un altro dei momenti topici, caratterizzati da fade in e fade out estrapolati da magnifiche lunghe jam strumentali , intermezzo orchestrale incluso, che poi potremo ascoltare nella loro colossale completezza sul postumo The Vaudeville Years https://www.youtube.com/watch?v=bv0nEvy3Pok .

When You Say è un altro valzerone acustico di Kirwan, forse l’unico brano non memorabile dell’album, meglio il duetto blues con Green nella piacevole Like Crying e l’ultimo brano di Peter, una eterea ed estatica Before The Beginning che ci permette ancora una volta di gustare la maestria sopraffina del nostro alla chitarra, che raggiunge poi la sua punta più “dura e cattiva” nel singolo The Green Manalishi (With The Two-Pronged Crown), altro brano destinato ad infiammare le platee americane nel tour americano dell’anno successivo, un esempio di proto metal (non stupisce che i Judas Priest ne abbiamo fatto un cavallo di battaglia), registrato a Hollywood nell’aprile ’70 e pubblicato come singolo, ma che i Fleetwood Mac avevano già suonato a febbraio e verrà pubblicato nel postumo Live In Boston.

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The Vaudeville Years 1969-1970 – 2 CD Receiver 1998 – ****

Live In Boston – 3 CD Snapper 1999 o come Boston 3 CD Madfish 2017 – ****

Questi due dischi in teoria non sono ufficiali, ma chi se ne frega, visto che sono incisi molto bene, perché consentono di ascoltare i Fleetwood Mac , sia in studio che dal vivo, nel pieno del proprio fulgore rock, quando tra il 1969 e il 1970 rivaleggiavano come potenza di suono con i Led Zeppelin, i Blind Faith e le varie band di Clapton, Hendrix e Jeff Beck, e Peter Green era forse superiore anche a questi grandi chitarristi, prima di consumarsi nella sua dipendenza con l’LSD sfociata in una overdose nel 1970 a Monaco in Germania, che probabilmente ha iniziato a bruciargli lentamente ma inesorabilmente le cellule del proprio cervello (una storia comune a Syd Barrett, Rocky Erickson e molti altri in quegli anni)., quindi ammesso che si trovino ancora, cercateli. Ma prima, nelle ultime fiammate di creatività, tra maggio e giugno del 1970, registra un album di pura improvvisazione come

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The End Of The Game – Reprise 1970 -***1/2

Secondo me un mezzo capolavoro, secondo altri un disco senza capo né coda: ai posteri l’ardua sentenza! Ah già ma siamo noi i posteri, allora dico il mio parere, riascoltando il CD dopo tanti anni. Già all’epoca mi aveva affascinato: registrato in una sola sessione notturna, poi “editata” e spezzettata in una serie di bozzetti sonori, Green è sempre più preda dei suoi problemi con LSD e sbandamenti mistico-religiosi, ma a livello musicale riesce ancora a realizzare un’opera quasi unica, che affianca le sonorità del Jimi Hendrix più sperimentale, con uso  costante del pedale wah-wah a improvvisazioni quasi zappiane, Alex Dmochowski il bassista che veniva dai  Retaliation di Aynsley Dunbar, poi suonerà proprio in un paio di album del baffuto chitarrista americano, Zoot Money, grande pianista e organista britannico è l’altro libero improvvisatore nel disco, Nick Buck, il secondo tastierista al piano elettrico, e Godfrey McLean, esperto batterista che anche lui contribuisce alla riuscita dell’opera, pubblicata nel dicembre del 1970 (e che non ha circolato molto in CD, al di là edizioni giapponesi e versioni economiche, ma al momento si trova abbastanza facilmente).

Sei brani strumentali, poco più di 33 minuti, che si aprono con il festival del wah-wah della iniziale magnifica Bottoms Up, con Dmochowski e McLean che sostengono in modo splendido le scale free form della chitarra di un Peter Green quasi trasfigurato nelle sue improvvisazioni sperimentali e jazzate, poi il basso assume un suono ancora più rotondo, entra un liquido piano elettrico e il lavoro della chitarra si fa ancora più intricato, insomma dovreste ascoltare per capire di cosa parliamo. Timeless Time è un breve brano, poco più di due minuti, lirico, intimo e malinconico più vicino al “solito” Green, mentre Descending Scale è più ascendente che discendente, lavoro frenetico della ritmica, piano e organo di Zoot Money in primo piano, fino all’ingresso perentorio e devastante della chitarra quasi rabbiosa di Peter, tra esplosioni e momenti di quiete, in un brano certo di non facile ascolto, ma siamo nell’anno di Bitches Brew di Miles Davis, la musica ha questa libertà assoluta.

Burnt Foot con la batteria dappertutto ha tocchi quasi tribali e il solito spirito di impronta jazz-rock, genere allora nascente, con spasmi ritmici devastanti, che poi virano di nuovo verso la psichedelia con il suono quasi deadiano e liquido delle improvvisazioni live di Jerry Garcia con la sua band, in un brano come Hidden Depth dove il wah-wah è ancora protagonista assoluto. La conclusiva End Of The Game, tra dissonanze e cacofonie sonore, esplora quasi i limiti dell’uso del wah-wah in un ambito che sembra avere poche parentele con il rock. Fine Del Gioco!

Per giustificare l’arco temporale indicato nel titolo del paragrafo, in effetti nel 1971 non succede molto: nel corso del tour americano di quell’anno, chiamato dai vecchi pards dei Mac, si presenta come Peter Blue per sostituire Jeremy Spencer, anche lui andato fuori di melone e che si unisce ai Children Of God (anche se poi molti anni dopo si parlò pure di abusi su minori), poi suona con il suo ammiratore BB King a Londra nel 1972, ma la malattia mentale e l’uso di droghe hanno la meglio su di lui, e leggenda o verità vogliono che regali tutti i suoi averi, compresa la Gibson del 1959 a Gary Moore, lavori come infermiere e in un kibbuz in Israele, poi si perdono le sue tracce.

Un primo ritorno tra il 1979 e il 1984, vede come miglior album In The Skies, mentre la seconda, più sostanziosa rentrée, è quella con lo Splinter Group a cavallo tra 1997 e 2003, ma a fianco di piccoli sprazzi dell’antico splendore e una ritrovata serenità, musicalmente sembrano più dischi di Nigel Watson, anche se una serie di ottimi musicisti ne garantiscono la qualità. Poi qualche tour ancora come Peter Green & Friends, fino all’inizio di questa decade, al momento non saprei dirvi come se la passa.. Ma tutto quello che ha fatto in quei cinque anni gloriosi basta e avanza.

Bruno Conti

In Attesa Del Cofanetto Inedito Previsto Per L’Autunno Ecco La Storia Dei Fleetwood Mac & Peter Green: Un Binomio “Magico” Dal 1967 Al 1971, Parte I

fleetwood mac 1968

Quando Green, Fleetwood, Spencer e Brunning fanno il loro debutto dal vivo al  Windsor Jazz and Blues Festival il 13 agosto del 1967, Peter Green non ha ancora compiuto 21 anni, ma ha già vissuto una stagione breve ed intensa come chitarrista dei Bluesbreakers di John Mayall, dove era entrato in sostituzione di Eric Clapton, realizzando con loro quello splendido disco che risponde al nome di A Hard Road, album che lo lanciò nel panorama del British Blues come una della stelle più fulgide di quegli anni dorati della musica inglese. Tanto che al momento di quell’esordio live la formazione si chiamava Peter Green’s Fleetwood Mac featuring Jeremy Spencer: il bassista era ancora Bob Brunning, in attesa che John McVie si liberasse anche lui dai suoi impegni con Mayall, e il gruppo non aveva ancora un contratto discografico, che sarebbe arrivato da lì a poco per la Blue Horizon di Mike Vernon.

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Nel frattempo Green aveva partecipato come ospite (in tutto l’album meno due brani) al disco del grande pianista blues americano Eddie Boyd intitolato appunto Eddie Boyd And His Blues Band Featuring Peter Green, dove suonavano anche Aynsley Dunbar, John McVie e Mayall, praticamente tutti i Bluesbreakers, album che insieme a 7936 South Rhodes, registrato l’anno successivo insieme ai Fleetwood Mac, se riusciste a trovarli in giro,  vi consiglierei di fare vostri, in quanto si tratta di due eccellenti esempi di blues elettrico della più bell’acqua.

Facciamo un breve passo indietro e per chi non lo conoscesse inquadriamo la figura di Peter Green, uno dei più grandi talenti della chitarra, subito dopo la triade Clapton/Beck/Page, l’irraggiungibile Jimi Hendrix e, forse, pochi altri, tanto che la rivista Rolling Stone ancora in anni recenti lo poneva al numero 58 dei “Più Grandi Chitarristi Di Tutti I Tempi” (ma secondo me meriterebbe di stare molto più in alto) e Guitar Player ha inserito il timbro della sua Gibson Les Paul nel brano strumentale The Supernatural  tra i 50 più ricercati della storia, e infine Mojo, ancora nel 1996, lo poneva al terzo posto assoluto.

Questo solo a mero livello statistico, ma non possiamo dimenticare che B.B. King lo ha sempre considerato uno dei musicisti che aveva il timbro di chitarra più “dolce”, l’unico che era in grado di fargli venire i sudori freddi mentre lo ascoltava. E così vale per tantissimi altri suoi colleghi, da Clapton e Page che lo ammiravano, passando per il suo discepolo Gary Moore che ha ereditato la Gibson Les Paul del 1959, poi acquistata da Kirk Hammett dei Metallica per due milioni di dollari: sarà vero, mi sembra una cifra un tantino esagerata? E tra i tanti che sono stati influenzati dallo stile di Green e si sono espressi con parole di grande rispetto, oltre a Moore, ricordiamo gente come Joe Perry, Andy Powell dei Wishbone Ash, Rich Robinson dei Black Crowes e molti altri. Uno stile che era basato su una grande maestria negli shuffle blues, ma che raggiungeva però il suo massimo splendore in quelle “scale minori” dove Peter otteneva questo “magico” vibrato attraverso il feedback controllato della sua chitarra, un suono pulitissimo tutto feeling e quella serie di note di dieci secondi circa, poi ripetute e sostenute, come nella appena citata The Supernatural e in molti altri brani del repertorio dei Fleetwood Mac, da Black Magic Woman allo strumentale Albatross passando per Man Of The World, fino a sviluppare in seguito un approccio decisamente più rock e tirato, con uno stile più complesso che, nel breve periodo che va dalla seconda metà del 1969 a gran parte del 1970, secondo molti, lo rese il più grande chitarrista dell’epoca (o comunque alla pari con Hendrix e gli altri), impegnato in una delle prime formazioni con due chitarre soliste in un periodo in cui gli Allman Brothers e i Wishbone Ash muovevamo ancora i primi passi.

Gli inizi Blues, Il Periodo Blue Horizon 1967-1969

Nel 1967 esce il primo singolo I Believe My Time Ain’t Long/ Rambling Pony e a settembre entra in formazione John Mcvie e quindi tra novembre e dicembre viene inciso il primo omonimo album, per intenderci quello con in copertina il bidone della spazzatura.

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Fleetwood Mac – Blue Horizon 1968 – ****

Jeremy Spencer, consigliato dal produttore Mike Vernon a Green, che voleva assolutamente un secondo chitarrista in formazione, era un brillante, eclettico e sorprendente virtuoso della slide, grande appassionato di Elmore James e di R&R, un personaggio esuberante e sopra le righe, che faceva da contraltare al più schivo e rigoroso Peter. Il disco fu un successo clamoroso, arrivando fino al 4° posto delle classifiche inglesi vendendo complessivamente più di un milione di copie. L’album non contiene ancora nessuno dei brani classici di Green, ma complessivamente risulta un ottimo disco di Blues, quasi uscisse dalle recondite profondità del South Side di Chicago. La critica, a tutt’oggi, lo considera uno dei dischi seminali di quel fenomeno che fu il British Blues. Mick Fleetwood e John McVie sono una sezione ritmica formidabile (ancora oggi) che permette ai due solisti di improvvisare in piena libertà: Spencer imperversa  con il bottleneck e la sua voce cruda, in versioni sapide di My Heart Beat Like A Hammer, una versione travolgente di Shake Your Moneymaker dove anche Green ci mette del suo, No Place To Go di Howlin’ Wolf con Peter all’armonica, My Baby’s Too Good To Me, l’intensa Cold Black Nighte la potente Got To Move.

Peter Green canta con la sua voce più laconica, ma subito riconoscibile e particolare, le restanti sei: Merry Go Round è uno splendido blues lento, con la chitarra lancinante di Peter ad incantare per il controllo della sua timbrica unica, Long Grey Mare, sempre scritta dal nostro, è un breve shuffle più mosso ed accattivante con Green anche all’armonica, l’unico con Brunning ancora al basso, mentre il traditional Hellhound On My Trail, arrangiato da Green solo per voce e piano è molto rigoroso, Looking For Somebody un altro “bluesone” con uso di armonica, lasciando a I Loved Another Woman il compito di rappresentare quei brani lenti e sognanti, vero marchio di fabbrica del chitarrista di Bethnal Green, unici ed irripetibili, sullo stile di quelli citati prima, con la solista a cesellare note, infine con The World Keep On Turning che illustra anche la sua maestria all’acustica in un blues primigenio.

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NDB. Questo album, come tutti gli altri pubblicati dalla Blue Horizon erano stati raccolti in uno splendido cofanetto di 6 CD The Blue Horizon Sessions 1967-1969, pubblicato dalla Columbia nel 2000, e ricchissimo di miriadi di brani inediti ed outtakes:è fuori produzione, ma se per caso lo trovaste ancora in giro, anche usato, non lasciatevelo sfuggire.

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Mr. Wonderful – Blue Horizon 1968 – ***1/2

Un disco che ha avuto critiche molto discordanti fra loro e non sempre proprio completamente positive, alcuni sono arrivati a dire che Peter Green sembrava “vagare ubriaco nella sua musica”, mentre altri hanno fatto notare che quattro dei brani iniziavano tutti con l’identico riff mutuato dallo stile di Elmore James. Potrebbe esserci un fondo di verità, ma a ben vedere, ed essendo pignoli, un po’ tutti i pezzi di James sono molto somiglianti tra loro e l’atteggiamento di Green, spesso pigro e distratto, potrebbe dare quella impressione riportata poc’anzi.

A me pare comunque un buon album, con alcune punte di eccellenza, anche se in effetti nell’insieme è molto simile al precedente, comunque averne di dischi così, considerando che in alcuni brani ci sono anche i fiati, la futura signora McVie Christine Perfect  che appare alle tastiere e alle armonie vocali e Duster Bennett all’armonica (nel cui disco del 1968 Smiling Like I’m Happy Green suonava in un brano). Stop Messin’ Around è il classico potente shuffle di Green, con uso fiati e il piano della Perfect, I’ve Lost My Baby di Jeremy Spencer è un blues lento ed intensissimo con la guizzante slide in evidenza, Rollin’ Man, ancora di Green, un vivace e mosso errebì, sempre con i fiati e la splendida chitarra del nostro dal timbro limpidissimo che imbastisce un assolo da sballo.

Dust My Broom di Elmore James, è uno quattro dei brani con il riff iniziale identico, ma francamente non vedrei in che altro modo suonarlo, Doctor Brown, in effetti suona simile, e Need Your Love Tonight pure, anche se il ritmo è leggermente più accelerato, ma il blues classico si suonava così (se non si era un genio come Green) e anche Coming Home, essendo sempre di James, legato  a quel tipo di suono, per quanto molto più rallentato, ma l’ultimo brano di Spencer, Evenin’ Boogie,  uno scatenato R&R (altra passione di Jeremy) strumentale, come da titolo viaggia a tutta velocità e i fiati imperversano.

Degli altri pezzi di Green Love That Burns è uno dei suoi magnifici lenti di atmosfera, cantato con grande passione e suonato ancor meglio con la Gibson che distilla feeling a piene mani, e anche If You Be My Baby conferma che Peter Green era uno dei pochi bianchi che poteva competere con i grandi neri del blues, in quanto ad intensità e rigore, Lazy Poker Blues è tirata e vivacissima, con il pianino della Perfect in azione e la chitarra questa volta ingrifata a lanciare fendenti, con la conclusiva Trying Hard To Forget che è un blues duro e puro, un altro lento appassionato e viscerale interpretato con classe cristallina, alla faccia di chi trova questo album scarso.

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The Pious Birds Of Good Omen – Blue Horizon 1969 – ****

Questo disco in teoria (ed anche in pratica) è una sorta di antologia, ma anche uno dei dischi più belli in assoluto dei Fleetwood di quell’epoca (molto bella anche la copertina), in quanto raccoglie alcuni brani usciti solo come singoli, alcuni già pubblicati in English Rose, un album uscito per la Epic ad inizio 1969 solo per il mercato americano, come usava in quei tempi in cui le discografie “transatlantiche” erano spesso diverse tra loro: ci sono alcuni dei capolavori assoluti di Peter Green, la superba Need Your Love So Bad, una ballata meravigliosa dove gli archi e i fiati aggiunti non stonano per nulla, anzi, una canzone che rivaleggia per bellezza struggente con le più belle di B.B. King (e di cui nel CD potenziato presente nel box citato, ci sono ben quattro versioni alternative strepitose).

I Believe My Time Ain’t Long/ Rambling Pony erano i due lati del primo singolo del 1967, The Big Boat e Just The Blues sono due pezzi tratti dalle collaborazioni con il pianista sommo Eddie Boyd, mentre Albatross, pezzo strumentale arrivato al n°1 delle classifiche inglesi, è di fatto una via di mezza tra un brano alla Santo & Johnny e la musica più sublime, dove il pop “orecchiabile” si eleva verso vette di magnificenza assoluta, con le chitarre di Green e del nuovo arrivato Danny Kirwan (entrato in formazione alla fine del 1968, su consiglio di Mick Fleetwood, in quanto Peter Green voleva un altro chitarrista, non essendo Jeremy Spencer più interessato a suonare nei brani di Green)) che vibrano all’unisono in modo da regalare impressioni di solenne magnificenza all’ascoltatore, che credeva di ascoltare forse solo un singolo da classifica, mentre era pura arte, ma in quegli anni succedeva.

E che dire di Black Magic Woman? Il controllo che Peter Green esercita sulle timbriche della sua Gibson Les Paul è superbo, con un riff di abbrivio trillante tra i più riconoscibili di sempre, se poi aggiungiamo che il pezzo è anche una delle costruzioni rock tra le più originali della storia di questa musica, compreso il cambio di tempo nel finale, si sfiora la perfezione. E Carlos Santana, sul pressante suggerimento di Gregg Rolie, che credeva moltissimo nel brano, ci ha costruito sopra una mezza carriera (riconoscendolo peraltro ed invitandolo alla sua induzione nella Rock And Roll Hall Of Fame del 1998, anche se Green non ci fece una gran figura, forse anche a causa di tutte le sue vicissitudini passate e di un pizzico di malizia nell’audio della sua chitarra mixata molto bassa? https://www.youtube.com/watch?v=9ntFjLY5rTc ). L’ultimo singolo contenuto nell’album raccoglie JIgsaw Puzzle Blues e Like Crying, due brevi brani entrambi composizioni di Danny Kirwan, che per certi versi anticipano in parte la futura svolta più rock della band, anche se prima, ad inizio gennaio i Fleetwood Mac si recano a Chicago per registrare un album di blues puro.

Quindi anche se la sequenza cronologica prevederebbe prima Then Play On, registrato tra il 1968 e il 1969 e pubblicato a Settembre del 1969: il seguito della storia lo trovate nella seconda parte dell’articolo.

Fine prima parte.

Bruno Conti

La Bella Favola Musicale Continua! Doug Seegers – A Story I Got To Tell

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Doug Seegers – A Story I Got To Tell – BMG CD

Se siete abituali frequentatori di questo blog forse vi ricorderete della vera e propria favola che vede protagonista Doug Seegers, country singer-songwriter. Ve la riassumo comunque in breve: Seegers era un musicista dotato di talento ma di scarsa fortuna che si esibiva per le strade di Nashville, proprio come un busker, fino a quando fu notato nel 2014 (pare su sollecitazione di un venditore ambulante di hot-dog) da Jill Johnson, stella svedese della musica country e della TV popolarissima in madrepatria, intenta a girare un documentario di sei puntate sulla Music City del Tennessee. Jill e la sua troupe rimasero folgorati da Doug, al punto che gli fecero incidere un album con le sue canzoni, Going Down To The River, al quale parteciparono anche Emmylou Harris e Buddy Miller. Il resto è storia: il disco andò al numero uno in Svezia, e Seegers diventò in poco tempo una superstar nel paese scandinavo (merito anche di un secondo album, In Tandem, inciso con la Johnson), ed anche negli Stati Uniti cominciarono ad accorgersi di lui.

Altri due ottimi lavori ricevuti molto positivamente dalla critica, Walking On The Edge Of The World https://discoclub.myblog.it/2016/11/20/dalle-strade-nashville-agli-studi-capitol-il-passo-breve-doug-seegers-walking-on-the-edge-of-the-world/  e l’omaggio al suo idolo assoluto Sings Hank Williams https://discoclub.myblog.it/2017/10/31/due-ottimi-lavori-nel-segno-del-padre-della-musica-country-doug-seegers-sings-hank-williamswillie-nelson-willies-stash-vol-2-willie-the-boys/ , ed ecco che Doug alla tenera età di 67 anni è pronto a fare il grande salto anche in America. E l’album che potrebbe dargli la meritata popolarità interna è sicuramente il nuovo A Story I Got To Tell, un disco davvero splendido nel quale Seegers ci delizia con undici canzoni di perfetto country d’autore, con la produzione nientemeno che nelle mani di Joe Henry. Proprio la presenza di Henry, uno che si muove solo per prodotti di qualità, vi può far capire lo status raggiunto dal nostro: nonostante le sonorità country non siano proprio il suo pane quotidiano, il buon Joe ha accettato di buon grado di mettersi al servizio di Doug, mettendogli a disposizione un gruppo di strumentisti coi baffi (Martin Bjorklund alle chitarre, Tyler Chester alle tastiere, Russ Pahl alla steel, David Pilch al basso e Jay Bellerose alla batteria, più una sezione fiati in un paio di pezzi con la presenza del figlio Levon Henry al sax) e cucendogli addosso un suono perfetto.

Dal canto suo Seegers ha risposto con le sue migliori canzoni di sempre, ed è per questo che A Story I Got To Tell è per il sottoscritto uno dei più bei dischi del 2019, e non solo in ambito country. White Line (una delle due cover del CD, è di Willie P. Bennett) parte lenta e meditata, voce e chitarra, poi entra un mandolino ed a poco a poco il resto degli strumenti, con la ballata che assume toni di grande bellezza grazie anche ad un refrain toccante ed alla presenza alla seconda voce di, udite udite, Jackson Browne. Give It Away è semplicemente splendida, una ballata dai toni country cantata e suonata con feeling straordinario e dotata di una melodia bellissima, con il nostro che tira fuori una voce che va dritta al cuore (mi ricorda non poco quella del povero Jimmy LaFave): tra le canzoni dell’anno. Strepitosa anche Demon Seed, una fantastica western song con arrangiamento tra Morricone e gli Shadows, pelle d’oca assicurata; Six Feet Under è puro country anni settanta, una ballata dal suono classico sfiorata da piano e steel, mentre con Angel From A Broken Home abbiamo un’altra canzone splendida, dal ritmo cadenzato ed atmosfera nuovamente western, strumentazione piena e ritornello formidabile: mi rendo conto di stare usando aggettivi importanti, ma se ascoltate questi brani non potrete che convenire con me che uno come Seegers era più che sprecato a cantare per strada.

Out On The Street è puro country che più classico non si può, e ci mostra l’abilità di Henry a destreggiarsi anche con suoni che non sono proprio il suo pane, My Little Falling Star vede invece il nostro alle prese con una ballatona anni cinquanta, sempre con il medesimo grado di credibilità; Poor Side Of Town è un brano di Johnny Rivers (che è sempre stato principalmente un interprete ma qualche canzone l’ha scritta anche lui), ed è una raffinata e deliziosa pop song dal retrogusto soul, che Doug rende alla perfezione. Rockabilly Bug, come suggerisce il titolo, è un divertissement tutto ritmo e chitarre dal passo irresistibile, Can’t Keep Running (Back To You) ci riporta in pieno West, un brano elettrico e dall’incedere quasi drammatico, con un motivo di grande impatto, mentre Life Is A Mystery (potrebbe essere benissimo il titolo della futura autobiografia del nostro) chiude l’album con una country ballad nella quale malinconia e finezza vanno a braccetto. Con A Story I Got To Tell Doug Seegers dimostra di essere un songwriter come non ce ne sono molti: peccato averlo scoperto così tardi.

Marco Verdi

Loro Lo Chiamano “Bluesabilly”, Chi Siamo Noi Per Dissentire. Cash Box Kings – Hail To The Kings!

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Cash Box Kings – Hail To The Kings! – Alligator Records  

Album numero nove (o forse dieci)  per il gruppo di Chicago, anzi forse sarebbe meglio dire duo con membri “onorari” che a rotazione suonano nei dischi di Joe Nosek, armonicista e fondatore dei Cash Box Kings, nonché di Oscar Wilson, che ne è la gagliarda voce solista: Billy Flynn è ormai il chitarrista fisso da alcuni dischi, Kenny ‘Beedy Eyes’ Smith, che nell’album precedente Royal Mint, il loro debutto su Alligator https://discoclub.myblog.it/2017/07/26/in-piccolo-ma-pure-loro-sono-re-del-chicago-blues-cash-box-kings-royal-mint/ , era presente solo in tre brani alla batteria, è tornato a sedere sullo sgabello che lo ha visto per lunghi anni anche con Muddy Waters, e John W. Lauder è il nuovo bassista. Ovviamente lo stile non cambia, quel consolidato approccio alla musica della Windy City, che loro  hanno definito “bluesabilly”, termine che non richiede spiegazioni, basta ascoltare.

Tra gli ospiti anche la brava tastierista Queen Lee Kanehira, Xavier Lynn alla solista in un paio di brani, e Little Frank Krakowski alla chitarra ritmica in quasi tutte le tracce, in sostituzione del dimissionario Joel Paterson, e la bravissima Shemekia Copeland, che duetta  alla grande con Wilson nella maliziosa ed intensa The Wine Talkin’. La divertente Ain’t No Fun (When The Rabbit Got The Gun) è  un coinvolgente jump blues sempre puro Chicago Blues, con l’armonica di Nosek e il piano della Kanehira in bella evidenza, Take Anything You Can un altro eccellente esempio del blues più classico, con la chitarra veramente pungente di Flynn a duettare con l’armonica. Smoked Jowl Blues è un viscerale shuffle lento ispirato chiaramente dallo stile di Muddy Waters, come pure Poison In My Whiskey, in entrambe Billy Flynn si fa notare con la sua solista, slide e wah-wah innestato nel secondo brano. Back Off, Joe, You Ain’t From Chicago e Hunchin’ On My Baby, sono I tre brani cantata da Joe Nosek, più leggeri e disimpegnati, a tutto swing la prima, con un bel drive à la Bo Diddley la seconda e nuovamente un movimentato shuffle la terza.

I’m The Man Down There, con il pianino di Queen Lee a dettare i tempi, è una cover di un pezzo di Jimmy Reed, mentre Bluesman Next Door, tra ritmi funky e errebì ci dice che “il blues non è nato in Inghilterra nel 1963, ma nelle piantagioni ai tempi dello schiavismo”, manco non lo sapessimo, con  un ennesimo ottimo assolo di chitarra, questa volta di Xavier Lynn, che si produce alla solista anche nella energica e gagliarda Jon Burge Blues, uno dei brani dove è presente anche una forte componente rock. Sugar Daddy è lo slow  che non può mancare in un disco di blues elettrico che si rispetti, con l’armonica di Nosek, la chitarra di Flynn e il piano della Kanehira a sottolineare una ulteriore grande prestazione vocale dell’ottimo Oscar Wilson, lasciando alla divertente The Wrong Number, tra swing anni ’20 e ragtime, il compito di chiudere questo disco che conferma la reputazione dei Cash Box Kings di onesti ed apprezzati depositari della grande tradizione del blues di Chicago.

Bruno Conti

Non Siamo Più In “Zona Ciofeca”, Ed E’ Già Molto, Quasi Bello! The Waterboys – Where The Action Is

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The Waterboys – Where The Action Is – Cooking Vinyl CD

Senza per forza dover risalire fino al loro capolavoro Fisherman’s Blues (1988), è da Room To Roam del 1990 che i Waterboys non fanno un grande disco, e per grande disco intendo un album “da copertina”. Dopo un lungo passaggio a vuoto durante tutti gli anni novanta, con due album molto rock ma con poche idee (Dream Harder e A Rock In The Weary Land, che per la verità è uscito nel 2000) e due lavori solisti del loro leader, il vulcanico e geniale Mike Scott, la band britannica si è presentata nel nuovo millennio tirata a lucido, con tre album che richiamavano le vecchie sonorità folk-rock: Universal Hall, ottimo, Book Of Lightning, non male, e soprattutto il raffinato ed intenso An Appointment With Mr. Yeats https://discoclub.myblog.it/2011/09/25/nuovamente-waterboys-an-appointment-with-mr-yeats/ . Poi una nuova preoccupante flessione, come se i nostri dovessero per forza alternare una decade buona ad una deludente: Modern Blues (2015) era un lavoro appena discreto, e privo di grandi canzoni, ma il fondo lo hanno toccato nel 2017 con il quasi orrendo (nel senso che qualche brano si salvava) Out Of All This Blue https://discoclub.myblog.it/2017/09/20/ma-e-veramente-cosi-brutto-come-dicono-quasi-tutti-waterboys-out-of-all-this-blue/ , nel quale Scott palesava il suo nuovo amore per sonorità elettroniche e di stampo hip-hop.

Non vi nascondo dunque la mia paura nell’approcciarmi a questo Where The Action Is, nuovo lavoro del musicista di Edimburgo e della sua band (Paul Brown, organo e tastiere varie, Steve Wickham, violino elettrico, Aongus Ralston, basso, Ralph Salmins, batteria): ebbene, devo riconoscere con un sospiro di sollievo che il disco si lascia ascoltare senza grossi problemi, non è un capolavoro e forse neppure un grande album ma non raggiunge neppure i livelli di nefandezza musicale di Out Of All This Blue (tranne che in un caso che vedremo a breve), e forse si colloca anche un gradino più su di Modern Blues. Le sonorità sono sempre moderne e Scott non rinuncia all’uso dell’elettronica (il nome dei due produttori, Puck Fingers e Brother Paul, è tutto un programma), ma stavolta Mike è più equilibrato, non si è dimenticato a casa le canzoni e la stessa band è abbastanza in palla; il suono è a metà tra rock e pop, il folk ormai è quasi un ricordo, ma la mia paura era che l’hip-hop prendesse un’altra volta il sopravvento. E poi, come se niente fosse, giusto alla fine del disco Scott piazza la classica zampata da fuoriclasse, un brano da cinque stelle che rivaluta da solo tutto il CD. L’album parte fortissimo con la title track, un riff di chitarra aggressivo ed un suono potente, molto rock, con la sezione ritmica che pesta di brutto e Mike che canta in maniera grintosa (e non mancano dei piacevoli fills di organo): una rock song tonica e vigorosa, non il suono che ci si può aspettare ma comunque un pezzo trascinante.

Ancora chitarre in tiro per London Mick, una rock’n’roll song pimpante e diretta tra Stones e Clash (e d’altronde il brano parla di Mick Jones), sicuramente coinvolgente; Out Of All This Blue (canzone che ha il titolo dell’album precedente) è invece un gradevolissimo errebi-pop dalla melodia decisamente accattivante e di derivazione folk, un brano intrigante con i fiati che fanno pensare a Van Morrison anche se l’arrangiamento è moderno. Quando ho sentito per la prima volta Right Side Of Heartbreak (Wrong Side Of Love), il primo singolo uscito già da diverse settimane, non mi sono per nulla impressionato in quanto trovavo questo funky dal ritmo sostenuto piuttosto banale e privo di una vera melodia, ma già il secondo ascolto ha migliorato un po’ le cose, anche se siamo ben lontani dall’eccellenza. Per contro In My Time On Earth è una bellissima ed intensa slow ballad ad ampio respiro, un genere in cui Scott e compagni sono maestri; Ladbroke Grove Symphony torna al rock, un pezzo caratterizzato da una ritmica pressante ma con un arrangiamento rilassato, tutto basato su piano, chitarre ed un motivo coinvolgente, mentre Take Me There I Will Follow You segna il temuto ritorno alle atmosfere funky-pop-rap-hip-hop, canzone fastidiosa ed irritante.

And There’s Love è una ballata ancora dal suono moderno, ma con l’approccio giusto e suoni dosati con misura, oltre ad una certa tensione emotiva di fondo, mentre Then She Made The Lasses O è un traditional folk che mette in contrasto la melodia d’altri tempi con un beat elettronico, ma il risultato finale non mi dispiace. Il meglio, come ho detto prima, si trova alla fine con la fantastica Piper At The Gates Of Dawn (con le parole originali dell’autore Kenneth Grahame, tratte dal settimo capitolo della celebre opera The Wind In The Willows, capitolo che ispirò anche il titolo di una canzone di Van Morrison, oltre che naturalmente del primo album dei Pink Floyd), lunghissima ballata pianistica di nove minuti dall’atmosfera straordinaria, un lento da pelle d’oca in cui Mike ci ricorda il suo amore per Van The Man: il brano è parlato, ma la musica sullo sfondo è sublime ed il pathos generale è altissimo. Se tutto il disco fosse stato a questo livello oggi Fisherman’s Blues avrebbe un serio contendente come miglior album dei Waterboys. Speriamo bene per il prossimo, per ora ci accontentiamo.

Marco Verdi

L’Ultima Scoperta Della Alligator: Un “Grosso” Chitarrista E Cantante, In Tutti I Sensi. Christone “Kingfish” Ingram – Kingfish

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Christone “Kingfish” Ingram – Kingfish – Alligator Records

Venti anni ancora da compiere, viene da Clarksdale, Mississippi, una delle culle del blues, a pochi minuti di strada dal famoso incrocio dell’incontro tra Belzebù e Robert Johnson, e pare essere un predestinato: a 15 anni viene “scoperto” da Tony Coleman, il bassista di BB King, Bob Margolin, con cui ha suonato dal vivo, lo ha presentato come una forza della natura, altri hanno detto che è il futuro delle 12 battute, ma  anche il salvatore del blues. Per questo suo album di debutto Kingfish, la Alligator (che continua nella sua striscia immacolata, senza sbagliare un album da lunga pezza) lo ha affidato ad un produttore importante come Tom Hambridge, che, reduce dai successi con Buddy Guy, ha chiamato in studio come ospite lo stesso Buddy, e ha affiancato a questo “Christone”, una band della Madonna (scusate ma non ho resistito). In effetti il nostro giovane amico, come si evince dalla foto di copertina, con Stratocaster d’ordinanza, è un ragazzone dalle dimensioni extralarge, la tipica “personcina”, ma è anche un vocalist e un chitarrista di quelli tosti: nel disco con lui suonano Rob McNelley alla seconda chitarra, Tommy McDonald al basso, ovviamente Hambridge alla batteria, che firma quasi tutte le canzoni del CD, alcune anche con Ingram.

Non bastasse, in sei pezzi c’è pure Keb’ Mo’ alla chitarra, normale e con Resonator, oltre a Marty Sammon al piano e all’organo, e come ospiti Billy Branch all’armonica in If You Love Me e soprattutto l’appena citato Buddy Guy, che canta e suona da par suo in Fresh Out, la seconda traccia del dischetto, uno di quei blues lenti e lancinanti in cui eccelle il musicista della Louisiana, ma Christone risponde colpo su colpo, e i due se le “suonano” di santa ragione (in senso buono ovviamente) per la gioia degli ascoltatori. Facendo un breve passo indietro, la canzone che apre le operazioni, Outside Of This Town, è una delle rare tracce in cui prevale un tipo di suono muscolare e vorticoso, con agganci al rock-blues, chessò, un nome a caso, di Stevie Ray Vaughan (ma potete sostituire con altri nomi a piacere), la chitarra spara fendenti a destra e manca e il trio alle sue spalle lo attizza alla grande e lui canta con voce sicura e potente, come un veterano di mille battaglie delle 12 battute.  It Ain’t Right è uno shuffle di quelli gagliardi, puro Chicago blues elettrico ed elettrizzante, con la solista che continua ad impazzare senza freni, Been Here Before con Keb’ Mo’ all’acustica, ha una atmosfera più intima e rilassata, con Sammon aggiunto al piano, per un pezzo che profuma di tradizione e ha radici nel folk, mentre If You Love Me, è il brano con Billy Branch all’armonica, Keb’ Mo’ e McNelley alle chitarre di supporto, qualche tocco di wah-wah che lascia sempre quell’impronta di modernità, ma un suono che sembra provenire anche dai locali della Chicago anni ’50-’60, quell’incrocio tra modernità e tradizione indicato da Margolin come prerogativa del giovane Ingram, che continua a lavorare di fino alla sua chitarra, immagino con profusione di faccine mentre gli assoli si susseguono.

Love Ain’t My Favorite Word è il classico lento dove Christone riesce a fondere con gusto sopraffino gli stili di BB King e Buddy Guy, tecnica e feeling a tonnellate vanno a braccetto, Listen è un duetto con Keb’ Mo’, che oltre a prodursi all’acustica è anche la seconda voce in un pezzo più leggero e sognante, con l’organo di Sammon ad ingentilire le atmosfere di questo delizioso southern mid-tempo che ci trasporta con il suo call and response a colpi di deep soul verso il sound di Memphis, seguito dalla minacciosa Before I’m Old, con tre chitarre e organo in azione, e quel suono che Hambridge ha perfezionato per gli ultimi dischi di Buddy Guy, con la solista sempre in azione senza remora alcuna, si può sostituire l’uno con l’altro e stranamente il risultato non cambia. Believe These Blues, con chitarrina e leggero ritmo funky, è un altro piccolo gioiellino di assoluta raffinatezza, suonato in scioltezza da cotanta band, prima di darsi ai ritmi più rotondi della gioiosa (nonostante il titolo) Trouble, e poi tornare ancora una volta alle radici del blues del Mississippi, accompagnato dal solo Keb’ Mo’ alla Resonator Guitar per una intensa Hard Times, prima del congedo affidato alla splendida ballata That’s Fine By Me, cantata in souplesse da Ingram che si conferma anche cantante di vaglia e poi, con il supporto efficace di Sammon al piano, disegna altre linee soliste di classe pura, per chiudere in gloria un album che ci potrebbe consegnare uno dei grandi bluesmen del futuro, già perfettamente formato.

Ottimo ed abbondante, prendere nota.

Bruno Conti

Un Gradito Ritorno Da Parte Di Un Vecchio Amico. Jesse Colin Young – Dreamers

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Jesse Colin Young – Dreamers – BMG CD

La fama di Jesse Colin Young, cantautore originario di New York ma californiano d’adozione, sarà per sempre legata alla stupenda Get Together, inno pacifista scritto da Chet Powers e portato al successo nel 1966 dagli Youngbloods, gruppo del quale Jesse era all’epoca leader.  Pensavo che Young (nato Perry Miller) si stesse ormai godendo una meritata pensione alle Hawaii, dove si è trasferito da diversi anni per coltivare piantagioni di caffé (dopo che la sua casa californiana bruciò in un tremendo incendio nel 1995) e per curarsi dalla malattia di Lyme, un morbo di origine batterica per fortuna curabile che provoca continui eritemi della pelle, infezioni o lesioni. Il suo ultimo album, il dimenticato Celtic Mambo, risale ormai al 2006, ma Young non ha ancora voglia di appendere la chitarra al chiodo, e con questo nuovissimo Dreamers ha voluto regalarci quella che potrebbe essere  la sua ultima testimonianza, 14 canzoni tra brani nuovi e rifatti che ci mostrano un artista ancora in sorprendente forma. Jesse, quasi 78 anni portati splendidamente (nonostante i lunghi capelli ed i folti baffi neri siano ormai un ricordo), ha ancora la stessa voce di un tempo, e non ha assolutamente perso il suo tocco: forse non è mai stato un fuoriclasse all’altezza dei grandi nomi del cantautorato mondiale, ma un musicista sincero, serio e preparato questo sì, e Dreamers è con tutta probabilità il suo miglior lavoro solista dagli anni settanta in poi.

Young non è uno che si arrende facilmente, ha ancora voglia di scrivere canzoni di attualità come ai vecchi tempi, ed in questo disco c’è più di un esempio in tal senso (come They Were Dreamers, dedicato ai figli degli immigrati clandestini rimpatriati dall’amministrazione Trump, o For My Sisters, ispirato al movimento femminista MeToo). Jesse si fa accompagnare da una band di giovani musicisti diretti dal figlio Tristan Young (che suona il basso), in cui spiccano Aleif Hamdan alla chitarra solista, Jenn Hwan Wong al piano ed organo e Donnie Hogue alla batteria, con in più un ospite del calibro di Colin Linden presente in tutte le canzoni tranne tre. E se vi aspettate un tipico disco da cantautore, voce, chitarra e poco altro (che pure sarebbe stato ben accetto) dovete riformulare il vostro pensiero, in quanto Dreamers è un disco di puro pop-rock di stampo californiano dal suono elettrico e pimpante, in alcuni casi decisamente rock, ma caratterizzato comunque dalla indiscutibile classe ed esperienza del leader. Cast A Stone fa iniziare il CD in maniera grintosa e potente, direi sorprendente per uno che da anni non metteva piede in uno studio: brano rock elettrico e coinvolgente con più di un elemento folk e sapori d’Irlanda, grazie anche al violino suonato da Rhiannon Giddens (che però non canta). Shape Shifters è pure meglio, una rock song distesa e fluida, sfiorata dal blues ed impreziosita dalla slide di Linden (ed un ottimo assolo da parte di Hamdan), e Jesse che canta con la sua famosa voce vellutata ma con piglio deciso.

Walk The Talk è un pop-rock cadenzato dal sapore californiano e con ottimi intrecci chitarristici, anch’esso servito da un motivo di quelli che piacciono al primo ascolto. For Orlando è una ballata sofisticata e raffinata strumentata con gusto e che profuma ancora di California lontano un miglio, Take Me To The River è pop-rock di classe, ricorda certe cose del David Crosby meno etereo e più diretto e si ascolta con piacere, They Were Dreamers è uno slow pianistico dal motivo toccante, sempre sostenuto da una strumentazione vigorosa alle spalle. Cruising At Sunset è un pezzo ritmato e delizioso tra blues e jazz, ben suonato e con un bel piano elettrico, Lyme Life uno scintillante folk-rock in cui Jesse affronta con leggerezza l’argomento della malattia che lo affligge, ed è tra le più belle del lavoro (solo a me qui ricorda Ian Hunter?) https://www.youtube.com/watch?v=1MVnJFixl1A , mentre Here Comes The Night (Van Morrison non c’entra) vede il nostro ancora alle prese con un pop-rock diretto e vibrante. For My Sisters è una rock ballad sontuosa e melodicamente impeccabile (e Jesse canta benissimo), While Texas Is Drowning è uno splendido slow tra country ed un pizzico di soul, con la partecipazione in duetto di Rosanne Cash https://www.youtube.com/watch?v=9Q84WjqwamY , One More Time è invece una rock’n’roll song coinvolgente ed orecchiabile. Il CD si chiude con la tenue ed acustica On And On e con Look Over Yonder, trascinante rock-blues che curiosamente ha un attacco identico a quello di Proud Mary.

Sinceramente mi ero un po’ dimenticato di Jesse Colin Young, ma per fortuna lui non si è dimenticato di noi: bentornato.

Marco Verdi

Forse “Il Canto Del Cigno” Di Un Grande “Aborigeno” Australiano. Archie Roach – The Concert Collection 2012 – 2018

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Archie Roach – The Concert Collection 2012 – 2018 – Bloodlines Records – Box 3 CD

Come promesso nella precedente recensione di Dancing With My Spirit https://discoclub.myblog.it/2019/05/11/a-volte-ritornano-ballando-sulla-storia-australiana-archie-roach-dancing-with-my-spirit/ , non ci siamo dimenticati di Archie Roach, cantautore australiano di origine aborigena (come i lettori di questo blog certo  sapranno), e quindi, grazie all’aiuto dell’amico Bruno, sono entrato in possesso di questo magnifico box The Concert Collection 2012-2018, una splendida serie di 3 CD di registrazioni dal vivo tratte dagli ultimi lavori più amati dallo stesso Roach, Into The Bloodstream (13), Let Love Rule (16), e, come detto, Dancing With My Spirit  (tutti puntualmente trattati su queste pagine virtuali dal sottoscritto).  Il primo CD combina le registrazioni dal vivo all’Arts Centre Di Melbourne nel Novembre 2012, e dello State Theatre di Sidney nel Gennaio 2013, annoverando ospiti “straordinari” come il nostro amico Paul Kelly, Emma Donovan, Dan Sultan, Jack Charles, e le immancabili sorelle Vika e Linda Bull. Il secondo disco cattura la registrazione effettuata nell’Ottobre 2016 al Melbourne Recital Centre, con la particolarità di avvalersi delle voci sublimi dei Dhungala Children’s Choir, e della Short Black Opera, mentre il terzo disco (quello più recente), è stato registrato alla Hamer Hall dell’Arts Centre di Melbourne il 6 Maggio 2018, con l’amato, premiato e osannato trio delle Tiddas, che insieme alla meravigliosa voce di Archie, crea e porta sul palco una magia armoniosa e rara. I musicisti che hanno accompagnato il buon Archie nel tour di Into The Bloodstream, erano come al solito una “line-up” di qualità che vedeva Craig Pilkington chitarre, banjo e tromba,  Jen Anderson al violino, mandolino e ukulele, Tim Neal all’hammond, Bruce Haymes alle tastiere, Steve Hadley alo basso, e Dave Folley alla batteria, con il contributo determinante di una sezione fiati con Paul Williamson al sassofono, Percy Landers e James Greening al trombone, Eamon McNeils e Phil Slater alle trombe, più una deliziosa sezione archi composta da Ceridwen Davies alla viola, Helen Mountfort al cello, e la brava Suzanne Simpson al violino, e come detto in precedenza le preziose armonie vocali delle storiche coriste Vika e Linda Bull.

Il concerto si apre con una introduzione strumentale di archi e trombe Sunrise, poi entra la calda e meravigliosa voce di Roach nella ballata che dà il titolo all’album Into The Bloodstream, per poi invitare sul palco la prima ospite Emma Donovan, e cantare in duetto una commovente Hush Now Babies, proseguendo nello stesso solco con la storia toccante di una dolorosa Old Mission Road, con la sezione fiati in evidenza, e dopo un inizio sontuoso di archi, cambiare ritmo nella galoppante “western-song”Big Black Train, seguita dal ritmo sincopato di una gioiosa Little By Little. Dopo i consueti e meritati applausi si riparte con i coretti “soul” di Dancing Shoes, cantata in coppia con Dan Sultan e irrorata da una robusta sezione fiati https://www.youtube.com/watch?v=W2qpjmtHtRI , per poi passare alla preghiera “gospel” di Heal The People, omaggiare il grande Paul Kelly con una melodiosa I’m On Your Side, ingentilita dalle voci di Vika & Linda https://www.youtube.com/watch?v=HtYtgWwQiB8 , per poi ricordare sua moglie Ruby con una straziante interpretazione di una dolcissima Mulyawongk (da pelle d’oca), e infine chiamare sul palco il suo amico Kelly per cantare insieme We Won’t Cry, dove a differenza della versione in studio, la canzone è resa più smagliante dalle trombe finali  e dalle voci delle coriste. Dopo un’altra ovazione del pubblico, il concerto si avvia alla fine con un altro “gospel” di matrice “dixie” come Wash My Soul In The River’s Flow, mentre la seguente Top Of The Hill è una sorta di romanza con l’apporto decisivo dello Skin Choir, si cambia ancora ritmo con le atmosfere di New Orleans di Song To Sing, e si va a chiudere un concerto magnifico chiamando sul palco il suo “compare” Jack Charles (un attore aborigeno australiano), per una replica spettacolare di We Won’t Cry (già cantata in coppia con Paul Kelly).  

Il secondo CD recupera una performance dal tour di Let Love Rule, mantenendo la solita “line-up” con l’aggiunta di un paio di musicisti sempre di “area australiana” ovvero Nancy Bates alla chitarra e voce, e Allara Pattison al basso, e come ospiti l’abituale Emma Donovan, Jessica Hitchcock e il coro Dhungala Children’s Choir, elementi indispensabili negli ultimi anni in tutti i concerti di Archie Roach. Come consuetudine  il vecchio Archie inizia i suoi concerti con la title track dell’ultimo album, e in questo caso si tratta di Let Love Rule, cantata meravigliosamente in coppia con Jessica Hitchcock e accompagnati dal Dunghala Children’s Choir, pezzo a cui fa seguito il suono di un mistico pianoforte che accompagna una ballata “soul” come Get Back To The Land https://www.youtube.com/watch?v=vFSuETutGvg , il moderno country australiano della solare There’s A Little Child, con in sottofondo il controcanto di Nancy Bates, e dopo un intro vocale che coinvolge il pubblico in sala, con una struggente versione per piano e voce della commovente Please Don’t GiveUp On Me. Dopo aver rimosso i fazzoletti si riprende con un’altra meravigliosa ballata cantata in duetto con la sua cantante preferita Emma Donovan, la dolce Love Sweet Love, totale cambio di  ritmo con la sbarazzina Spiritual Love, un’altra ballata di spessore come Always Be Here, e quindi le melodie notturne e tristi di It’s Not Too Late. La parte conclusiva del concerto vede ancora salire sul palco la Donovan per una baldanzosa Mighty Clarence River, dove spadroneggia il violino di Jen Anderson, e andare infine a chiudere alla grandissima con il moderno “gospel” finale di una sontuosa No More Bleeding, che per l’occasione viene accompagnata nuovamente dai cori di Dhungala Children’s Choir & Short Black Opera.

Il terzo CD è più recente e si riferisce all’ultimo tour, quello di Dancing With My Spirit, e di conseguenza a parte la polistrumentista Jen Anderson al violino, mandolino e ukulele, Bruce Haynes alle tastiere, e Craig Pilkington alle chitarre, accompagnano Archie nuovi musicisti di vaglia che rispondono al nome di Barb Waters alla chitarra slide, Archie Cuthbertson alla batteria, Ruben Shannon al basso, con il contributo determinante delle “riunite” e bravissime Tiddas (che sono Lou Bennett, Amy Saunders, Sally Dastey). La serata inizia con la delicata melodia di Dancing With My Spirit (non poteva essere altrimenti), e prosegue con il ritmo allegro di una orecchiabile My Grandmother con le tastiere in spolvero, per poi calare il primo asso della serata con la meravigliosa The River Song (un brano dedicato alla defunta moglie Ruby Turner), dove le parole, il cantato di Archie e la bravura delle Tiddas, regalano al pubblico continue emozioni, che proseguono con un’altra ballata di spessore come la dolce e suadente A Child Was Born Here. Dopo un prolungato applauso si prosegue con le armonie vocali di Morning Star, cantata in duetto con Amy Saunders https://www.youtube.com/watch?v=6WPkFT4sdJs , per poi tornare alle consuete ballate d’atmosfera quali F-Troop e Louis St. John dove imperversa il violino della brava Jen Anderson, e poi passare alle rinfrescanti note di Ever Watching e Heal The People. La parte finale del concerto vede Roach rendere omaggio alle Tiddas, che pescano dal loro repertorio una versione acustica di Come Into My Kitchen cantata sempre dalla Saunders, una corale Anthem (purtroppo non quella di Cohen), e una struggente Wild Mountain Thyme, cantata con voce rauca e baritonale da Archie, prima di andare a chiudere una ennesima serata sublime, con una danzante Dancing Shoes dal ritmo “caraibico” e  le Tiddas che coinvolgono il pubblico in sala con un coretto finale. Applausi meritati e giù il sipario!

Per chi ancora non conoscesse Archie Roach, secondo il sottoscritto, che come avrete capito lo ama visceralmente, si tratta di uno degli artisti più importanti australiani, un musicista che ha registrato dischi pluripremiati down under per quasi 30 anni, a partire dal suo album di debutto, lo storico Carchoal Lane del ’90, fino a questa ultima uscita, un cofanetto di registrazioni dal vivo, che viste le sue condizioni di salute (negli ultimi anni ha subito un ictus e perso un polmone a causa del cancro), forse potrebbe essere veramente il suo “canto del cigno” a livello musicale. Nel frattempo Archie Roach  ha continuato a scrivere canzoni che arrivano al cuore e alla mente della gente, canzoni che sono al centro della sua cultura “aborigena”, una “icona” locale che quando sale sul palco è in fondo un uomo solo, ma che attraverso la sua musica dà speranza e sostegno alla sua gente, immaginando per loro un futuro un poco più luminoso. Altamente consigliato (ma lo sapete e lo ribadisco, io sono di parte). Quindi lunga vita Archibald (speriamo)!

NDT: Giunge notizia che Roach stia attualmente scrivendo il suo “Memoir Book” che pare sarà nei negozi, con un CD di accompagnamento, entro la fine dell’anno.!

Tino Montanari