Una Doppia Razione Di Country-Rock Come Si Deve: Parte Prima. Cody Jinks – After The Fire

cody jinks after the fire

Cody Jinks – After The Fire – Late August CD

Se fossimo ancora negli anni settanta, uno come Cody Jinks apparterrebbe senz’altro al movimento degli Outlaws. Texano, Jinks è infatti un countryman di quelli duri e puri, che non scendono a compromessi ma fanno la loro musica, infischiandosene se il risultato finale è buono per le radio oppure no: dotato di un’ottima voce e di una altrettanto valida capacità di scrittura, Cody ha il ritmo ed il rock’n’roll nel sangue, e la sua musica è sempre molto elettrica e decisa. Attivo da più di dieci anni, Jinks ha avuto una carriera che è cresciuta disco dopo disco, sia in qualità che in popolarità, ed i suoi ultimi due lavori, gli eccellenti I’m Not The Devil (2016) e Lifers (2018) https://discoclub.myblog.it/2018/07/31/almeno-per-ora-il-disco-country-rock-dellanno-cody-jinks-lifers/ , sono entrambi saliti nella Top Five della classifica country, e tutto senza modificare di una virgola il suono. Il nostro è anche un musicista incredibilmente prolifico, e lo dimostra ora pubblicando ben due album quasi in contemporanea, After The Fire e, ad una settimana di distanza, The Wanting.

Qui mi occupo del primo dei due lavori, un album di puro country-rock texano come d’abitudine, che non mancherà di soddisfare gli estimatori del musicista di Haltom City. A differenza dei dischi precedenti After The Fire ha però una netta prevalenza di ballate rispetto ai pezzi più mossi, mentre The Wanting come vedremo è più spostato sul versante rock. Niente paura però, in quanto Jinks non ha perso la bravura di scrivere belle canzoni (spesso collaborando con altri autori, tra cui Paul Cauthen, Josh Morningstar, Larry Hooper e la moglie Rebecca Jinks), né di rivestirle con un sound robusto e vigoroso: la noia è quindi bandita in queste dieci canzoni, anche grazie alla durata contenuta dell’album (32 minuti). Cody è accompagnato da una rodata band che sa il fatto suo, che comprende Chris Claridy  alla chitarra solista, Joshua Thompson al basso (e produzione del disco), David Colvin alla batteria, il bravissimo Austin Tripp alla steel, Drew Harakal al pianoforte e Billy Contreras al violino. Un drumming potente introduce la title track, un brano cadenzato ma dal passo lento, con chitarre arpeggiate ed una melodia profonda e diretta: il suono si apre a poco a poco e la ballata si rivela di ottimo livello, grazie anche alla bella steel in sottofondo.

Ain’t A Train ha un ritmo pulsante, un dobro che lavora nell’ombra ed il pezzo procede spedito verso il refrain, che è seguito da uno spettacolare cambio di tempo sottolineato da un vibrante assolo di violino: puro rockin’ country di alto livello. Yesterday Again è uno slow elettroacustico e disteso, ancora con la splendida steel di Tripp a punteggiare la melodia ed elevare il brano dalla media, Tell’em What It’s Like è puro country texano, un lento decisamente ben eseguito e con il consueto motivo avvolgente e piacevole fin dal primo ascolto: Cody in questo album è più balladeer del solito, ma la grinta non viene di certo messa da parte. Think Like You Think è ancora uno slow cadenzato di ottima fattura, country al 100% e con un uso ispirato degli strumenti (con steel e chitarra twang in evidenza); William And Wanda è toccante, suonata benissimo e cantata ancora meglio, mentre One Good Decision movimenta il disco con un godibilissimo honky-tonk elettrico dal gran ritmo, texano fino al midollo. La delicata ed acustica Dreamed With One è quasi folk, con Cody che ci mette tutto il feeling in suo possesso, ed anche Someone To You prosegue sul tema delle country ballads evocative; il CD termina con la coinvolgente Tonedeaf Boogie, un irresistibile western swing strumentale suonato come si faceva ai tempi di Bob Wills, con assoli a ripetizione dei vari strumenti, un divertissement che chiude l’album all’insegna di ritmo ed allegria.

After The Fire ci presenta quindi un Cody Jinks diverso e più meditativo, ma non per questo meno interessante.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 10. Rinviato Più Volte Ecco Finalmente Questo Eccellente Box “Inedito”, Anche Se… Fleetwood Mac – Before The Beginning

fleetwood mac before the beginning front

Fleetwood Mac – Before The Beginning 1968 -1970 Rare Live & Demo Sessions – 3 CD Sony Music

Vi avevo annunciato l’uscita di questo box alla fine di maggio, in quanto in un primo tempo sarebbe dovuto uscire all’inizio di giugno, poi rinviato al 18 ottobre, ed infine pubblicato il 15 novembre. Chi mi legge su queste pagine virtuali (e anche su quelle del Buscadero) sa che sono un grande estimatore di Peter Green, che secondo il sottoscritto, e non è solo il mio parere, nel periodo che va dal 1966 (anno dell’esordio con i Bluesbreakers di John Mayall) fino al 1971, forse ancora al 1972 quando partecipò a B.B: King In London, è stato nella Top 10 dei più grandi chitarristi rock(blues) in circolazione, e nel 1970 in particolare, anno da cui proviene parte del materiale di questo triplo, era forse il migliore in assoluto. Poi i noti problemi con l’LSD hanno iniziato ad erodere le sinapsi del suo cervello e anche se nel corso degli anni successivi è riuscito parzialmente a recuperare qualcosa del suo grande talento, non più riuscito a tornare quello di un tempo. Ma questa è un’altra storia, raccontata più volte, e che se volete, potete trovare qui https://discoclub.myblog.it/2019/06/28/in-attesa-del-cofanetto-inedito-atteso-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-i/ e qui https://discoclub.myblog.it/2019/06/29/in-attesa-del-cofanetto-inedito-previsto-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-ii/.

Prima di addentrarci nel contenuto di Before The Beginning vi spiego il perché di quel “Anche se…” del titolo: fa riferimento alla parola inedito, perché appunto, anche se, persino nel libretto, vogliono farci intendere che si tratta di registrazioni, ritrovate di recente negli Stati Uniti, senza etichette esplicative, in qualche non meglio specificato magazzino, e poi autenticate dagli esperti ed approvate per la pubblicazione ufficiale dagli stessi Fleetwood Mac: in effetti la fonte dei concerti è ben nota, al di là delle pie balle che ci raccontano, in quanto il materiale del 1968 è estratto da alcune serate del giugno 1968 al Carousel Ballroom di San Francisco, una serie di tre serate trasmesse alla radio in cui si erano alternati con Jefferson Airplane e Grateful Dead, mentre il secondo, quello del 1970, risale ad un paio di concerti, il 30 e 31 maggio, alla Warehouse di New Orleans, sempre con i Grateful Dead, e registrati dal loro tecnico del suono Owsley Stanley, e quindi note come Bear Tapes. Ovviamente come bootleg, anche radiofonici “ufficiali”, hanno circolato in diverse versioni, e pure i quattro cosiddetti demo sono in effetti delle registrazioni BBC del febbraio e luglio 1968. Dato a Cesare quel che è di Cesare, e detto che la qualità delle registrazioni, che era già decisamente alla fonte, è stata ulteriormente migliorata con la rimasterizzazione effettuata per questo box, quello che ci interessa è il contenuto musicale che ci presenta una band, prima in quartetto e poi in quintetto, che era, come detto, una delle migliori in concerto sull’orbe terracqueo all’epoca.

Quindi, per tutti quelli che comunque non possiedono le varie uscite “piratate”, ma sono giustamente interessati, veniamo al contenuto, di cui vi ripropongo prima la tracklist completa, e poi vediamo quali sono le parti salienti dei contenuti, quasi tutti in pratica.:

CD1

1. Madison Blues  (Version 1) (Live) (Remastered) 1968 recording
2. Something Inside of Me (Live) (Remastered) 1968 recording
3. The Woman That I Love (Live) (Remastered) 1968 recording
4. Worried Dream (Live) (Remastered) 1968 recording
5. Dust My Blues (Live) (Remastered) 1968 recording
6. Got To Move (Live) (Remastered) 1968 recording
7. Trying So Hard To Forget (Live) (Remastered) 1968 recording
8. Instrumental (Live) (Remastered) 1968 recording
9. Have You Ever Loved A Woman (Live) (Remastered) 1968 recording
10. Lazy Poker Blues (Live) (Remastered) 1968 recording
11. Stop Messing Around (Live) (Remastered) 1968 recording
12. I Loved Another Woman (Live) (Remastered) 1968 recording
13. I Believe My Time Ain’t Long (Version 1) (Live)  (Remastered) 1968 recording
14. Sun Is Shining (Live)  (Remastered) 1968 recording

CD2

1. Long Tall Sally (Live)  (Remastered) 1968 recording
2. Willie and the Hand Jive (Live)  (Remastered) 1968 recording
3. I Need Your Love So Bad (Live)  (Remastered) 1968 recording
4. I Believe My Time Ain’t Long (Version 2) (Live)  (Remastered) 1968 recording
5. Shake Your Money Maker (Live)  (Remastered) 1968 recording
6. Before the Beginning (Live)  (Remastered) 1970 recording
7. Only You (Live)  (Remastered) 1970 recording
8. Madison Blues (Version 2) (Live)  (Remastered) 1970 recording
9. Can’t Stop Lovin’ (Live)  (Remastered) 1970 recording
10. The Green Manalishi (With The Two Prong Crown) (Live)  (Remastered) 1970 recording
11. Albatross (Live)  (Remastered) 1970 recording
12. World In Harmony (Version 1) (Live)  (Remastered) 1970 recording
13. Sandy Mary (Live)  (Remastered) 1970 recording
14. Only You (Live)  (Remastered) 1970 recording
15. World In Harmony (Version 2) (Live)  (Remastered) 1970 recording

CD 3

1. I Can’t Hold Out (Live)  (Remastered) 1970 recording
2. Oh Well (Part 1) (Live)  (Remastered) 1970 recording
3. Rattlesnake Shake (Live)  (Remastered) 1970 recording
4. Underway (Live)  (Remastered) 1970 recording
5. Coming Your Way (Live)  (Remastered) 1970 recording
6. Homework  (Live) (Remastered) 1970 recording
7. My Baby’s Sweet (Live)  (Remastered) 1970 recording
8. My Baby’s Gone (Live)  (Remastered) 1970 recording
9. You Need Love (Demo) (Remastered)
10. Talk With (Demo) (Remastered)
11. If It Ain’t Me (GK Edit) (Demo) (Remastered)
12. Mean Old World (Demo) (Remastered)

L’iniziale scandita e travolgente Madison Blues è uno dei classici esempi dell’impetuoso stile alla slide di Jeremy Spencer, uno dei massimi esperti ed epigoni di Elmore James, che anticipa sia le sarabande sonore di Johnny Winter che quelle successive di George Thorogood, altri due che hanno sempre amato il grande bluesman nero, con in più il fatto che nei Fleetwood Mac agiva anche la sezione ritmica di Mick Fleetwood John McVie, una delle più tecniche e potenti in circolazione, e la seconda chitarra di Peter Green, sentire per credere anche il successivo “lentone” intensissimo Something Inside Of Me e più avanti nel concerto del 1968 Dust My Blues e Got To Move, più Elmore di James, e ancora The Sun Is Shining, con Green pure all’armonica. Nel secondo CD, nei brani a guida Spencer c’è anche una forsennata Long Tall Sally a tutto R&R, altra grande passione di Jeremy, che canta pure una sinuosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, futuro cavallo di battaglia di Eric Clapton, nonché due diverse versioni di I Believe My Time Ain’t Long di Robert Johnson, la prima di qualità sonora all’inizio leggermente inferiore, sempre con Green all’armonica. Green che guida il gruppo, prima in una sontuosa The Woman That I Love di B.B. King, che lo considerava il miglior chitarrista bianco che suonava il blues, come dimostra subito con il suo tocco unico, “spaziale” e lancinante, e anche la lunga Worried Dream, sempre di Mr. B:B. ha un assolo che è un capolavoro di equilibri sonori, con Peter che dalla sua Les Paul Standard del 1959 estrae delle sonorità quasi magiche. Fantastica anche una lunga Jam strumentale senza nome dove Green, McVie e Fleetwood tirano come delle “cippe lippe” (vedi Amici Miei), prima di lanciarsi nel classico slow blues di Have You Ever Loved A Woman che rivaleggia con le tante versioni ascoltate da Slowhand nel corso degli anni, un distillato delle 12 battute vicino alla perfezione, come ribadito nei ritmi latineggianti e sognanti di una I Loved Another Woman che non fa rimpiangere l’assenza del cavallo di battaglia della band Black Magic Woman.

Nel 2° CD, sempre dal concerto del 1968 c’è un altro dei brani migliori del primo Green, I Need Your Love So Bad che purtroppo però dura solo 1:30, ampiamente compensata dalla conclusiva vorticosa Shake Your Moneymaker, dagli espliciti riferimenti sessuali, un altro festival del bottleneck a guida Jeremy Spencer. Che nel concerto a New Orleans del 1970 è decisamente meno utilizzato, anche per l’ingresso nel gruppo di un altro grande chitarrista come Danny Kirwan, che sposta l’asse del sound verso un rock-blues aggressivo e di grande spessore tecnico con le twin guitars dei due ad anticipare i duelli di Duane Allman e Dickey Betts, o quelli più rarefatti dei Wishbone Ash, tra le formazioni dove agivano due chitarre soliste. Before The Beginning è il primo estratto dal capolavoro Then Play On, con la chitarra di Green che fluttua sulle scariche alla grancassa di Fleetwood, prima di lasciare spazio a Only You un brano gagliardo di Kirwan dove le due soliste si fronteggiano in modo superbo (perché anche il buon Danny non scherzava), presente in due differenti versioni. A questo punto c’è la breve sezione dedicata a Spencer, con la versione n°2 di Madison Blues Can’t Stop Lovin’ , sempre di Elmore James. Poi le cose si fanno serie: prima con una versione pantagruelica, oltre dodici minuti, e potentissima di The Green Manalishi (With the Two Prong Crown), che rivaleggia con quella del Live In Boston, con chitarre impazzite e ruggenti ovunque, seguita da una celestiale ed inarrivabile dello splendido strumentale Albatross e sempre a proposito di twin guitars suonate all’unisono da Kirwan e Green, anche la deliziosa cavalcata di World In Harmony presente in due differenti versioni, inframmezzate dal poco noto ma gagliardo rock di Sandy Mary.

All’inizio del 3° CD torna Jeremy Spencer per un’altra perla di Elmore James come I Can’t Hold Out, poi arriva una breve ma strepitosa e selvaggia Oh Well Part I, sempre con il famoso riff in overdrive delle chitarre e assolo da sballo di Kirwan, e ancora, sempre da Then Play On, un trittico incredibile, con la “solita” ferocissima Rattlenake Shake, tredici minuti di chitarre e sezione ritmica impazzite, in continua accelerazione e in assoluta libertà, seguita dalla estatica e sognante psichedelia di una quasi mistica Underway. Ma è un attimo e arriva di nuovo il turbinio rock di Coming Your Way dall’inizio con le chitarre dei due leader prima di nuovo all’unisono a dividersi il proscenio, in continua competizione con Mick Fleetwood che imperversa da par suo alla batteria, per poi lasciare spazio di nuovo alle due chitarre feroci: la qualità sonora forse non è sempre eccelsa ma è comunque un gran bel sentire. Homework, dal repertorio di Otis Rush, uno dei preferiti di Green, non molla comunque la presa, sempre con l’intera band scatenata a tutto blues and roll. My Baby’s Sweet My Baby’s Gone, di nuovo di James, con Jeremy Spencer sempre a voce e bottleneck non sembrano provenire dal concerto del 1970, come riportato, ma forse sono prese da qualche altra fonte sonora del 1968, come le quattro tracce finali riportate nelle note come demos, ma provenienti da BBC Sessions varie, una rara You Need Love di Willie Dixon con un Green abbastanza arrapato, Talk With You di Danny Kirwan, che come Homework viene dal periodo di Blues Jam At Chess, e If It Ain’t me, un boogie blues con piano e armonica, ma una qualità sonora rivedibile e infine una ottima Mean Old World con il buon Peter Green in modalità blues completano il triplo CD. Forse non un capolavoro assoluto, ma l’ennesima dimostrazione che la band di Peter Green e soci è stata in quegli anni una delle grandi realtà di una epoca storica che li ha visti spesso grandi protagonisti.

Bruno Conti

Cofanetti Autunno-Inverno 9. Un Album Che Col Passare Degli Anni E’ Persino Migliorato! R.E.M. – Monster 25th Anniversary

r.e.m. monster box

R.E.M. – Monster 25th Anniversary – Concord/Universal 5CD/BluRay Box Set

In campo musicale non è mai facile dare seguito ad un disco che è considerato all’unanimità il tuo capolavoro, ed è ancora più complicato se lo stesso disco arrivava dopo il tuo album più venduto di sempre. Questo è esattamente ciò che capitò ai R.E.M. nel 1994, quando si erano trovati nell’imbarazzo di dover pubblicare un nuovo lavoro che seguisse il loro masterpiece indiscusso Automatic For The People, che a sua volta era arrivato un anno dopo Out Of Time, il loro best seller assoluto. Il quartetto di Athens fece allora una scelta che a mente fredda era la più logica, ma sul momento spiazzò non poco fans e critici: pubblicare un album dal suono completamente diverso, pigiando l’acceleratore sul rock senza avere paura di distorcere le chitarre, citando palesemente il grunge così di moda in quel periodo ed il glam anni settanta come influenze principali. Il risultato fu Monster, il disco più rock mai realizzato fino a quel momento dal gruppo guidato da Michael Stipe (come sempre insieme a Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry), un lavoro che, seppur “annacquato” dalle melodie pop e orecchiabili tipiche dei nostri, diede un bello scossone a chi si aspettava un clone di Automatic For The People https://discoclub.myblog.it/2017/12/19/25-anni-dopo-e-ancora-un-capolavoro-r-e-m-automatic-for-the-people-25th-anniversary/ . Il suono era rock al 100%, con il livello delle chitarre spesso ad un volume molto più alto della voce di Stipe, al punto che qualcuno disse che i R.E.M. erano tornati quelli di inizio carriera quando nelle loro canzoni non si capivano le parole: il disco ebbe comunque un ottimo successo, grazie anche alla decisione dei nostri di portarlo in tour (cosa che non avveniva dall’album Green, 1989).

Oggi Monster beneficia della campagna di ristampe per i 25 anni dei dischi della band georgiana, e l’operazione è quella più dettagliata e ricca tra quelle uscite finora, anche più di Automatic For The People: ben cinque dischetti audio ed un BluRay, in una pratica confezione formato CD con copertina dura tipo libro, che però creerà non pochi problemi ai collezionisti dato che è la quarta veste grafica differente finora (gli album degli anni ottanta erano tutti in formato “clamshell”, Out Of Time in stile libro/DVD size – tipo le ristampe dei Jethro Tull – ed Automatic For The People in dimensione simil-LP). Sul primo dischetto troviamo l’album originale completamente rimasterizzato, un disco che risentito oggi appare molto migliore di quanto era sembrato all’epoca (anch’io nel 1994 ero rimasto inizialmente disorientato dal suono) e che ha superato l’esame del tempo molto meglio, ad esempio, di Up del 1998. Detto dei soliti testi di difficile interpretazione e pieni di nonsense e riferimenti oscuri, il CD parte con il singolo What’s The Frequency, Kenneth?, una deliziosa pop song dalla solida veste rock, con un accattivante contrasto tra la chitarra quasi distorta di Buck e la melodia decisamente orecchiabile. Crush With Eyeliner vede Thurston Moore dei Sonic Youth alla seconda chitarra ed è una delle mie preferite: una rock song potente e cadenzata che ricorda molto Lou Reed sia per il suono tra rock’n’roll e glam sia per il modo di cantare di Stipe, con le chitarre che alternano riff taglienti all’uso del vibrato. King Of Comedy è un funk-rock con una parte di basso molto accentuata, e se consideriamo anche la chitarra in evidenza come sempre la voce di Stipe è quasi nelle retrovie; l’attendista I Don’t Sleep, I Dream è sempre rock ma più vicina alle atmosfere tipiche dei nostri.

Star 69 è testosterone puro, più un esercizio di forza rocknrollistica che una vera e propria canzone, mentre Strange Currencies è una splendida ballata elettrica ricca di pathos che non avrebbe sfigurato su Automatic For The People, forse il capolavoro del disco. Tongue è completamente diversa dal resto dell’album, essendo uno squisito blue-eyed soul dal sapore anni sessanta con Stipe che canta in falsetto ed un organo sullo sfondo, ma con la bella Bang And Blame (che ha somiglianze nella melodia con Losing My Religion) torniamo alle atmosfere rock, per un altro dei pezzi più riusciti del CD; la trascinante I Took Your Name è ancora puro rock’n’roll chitarristico, con Stipe che sembra cantare dalla stanza accanto, Let Me In è caratterizzata dal contrasto tra la traccia di chitarra decisamente aggressiva e la voce pacata di Michael, Circus Envy è distorta, cupa e “cattiva”, mentre You chiude l’album su una nota quasi ipnotica. Il secondo dischetto presenta quindici demo presi dalle sessions di Monster, ma stranamente senza alcuna canzone che poi finirà sull’album: infatti ci troviamo in presenza di vari brani strumentali che sono in realtà prove, bozzetti ed ipotesi di canzoni che poi verranno in gran parte lasciate in un cassetto, con titoli provvisori come Uptempo Ricky, AM Boo, Sputnik 1 Remix, Rocker With Vocal e Experiment 4-28 No Vocal. Gli unici brani cantati sono Revolution 4-21, che in un’altra versione e con il semplice titolo di Revolution finirà sulla colonna sonora di Batman & Robin, e la già citata Rocker With Vocal che però vede Mills al microfono. In un paio di casi le tracce verranno riprese in seguito, come per l’intrigante western tune Harlan County With Whistling che diventerà Final Straw sull’album Around The Sun e Black Sky 4-14 che attenderà addirittura 14 anni prima di finire su Accelerate con il titolo di Until The Day Is Done. Alcuni pezzi sono quasi finiti e mancherebbe solo la voce, come il gradevole pop-rock chitarristico Pete’s Hit, il rock’n’roll Uptempo Mo Distortion o la suggestiva ballata acustica Mike’s Gtr. Un dischetto forse non indispensabile ma piacevole.

Il terzo CD presenta Monster remixato ex novo dal produttore originale Scott Litt: normalmente considero questi “nuovi” remix un pretesto per allungare il brodo e far salire il prezzo del prodotto finale, ma in questo caso l’operazione ha senso, dato che Litt non era mai stato soddisfatto del suono originale del 1994 in quanto in aperto disaccordo con le idee del gruppo. Ora ha finalmente avuto la possibilità di rimetterci le mani sopra e di confezionare un album più coerente con il suo pensiero, ed in alcuni casi le differenze si sentono eccome. La voce di Stipe è adesso ben al centro e più pulita (Strange Currencies è esemplare in questo senso), Let Me In ha una parte di organo in meno, You non ha la batteria all’inizio e What’s The Frequency, Kenneth? ha una parte di chitarra diversa, così come in King Of Comedy. Ma le differenze più marcate si notano nella già citata Strange Currencies e Crush With Eyeliner, per le quali Litt ha addirittura utilizzato delle tracce vocali alternate. Non saltate quindi a piè pari questo terzo CD, vale la pena ascoltarlo per avere una visione di Monster abbastanza diversa. I restanti due supporti audio contengono un concerto completo, ovviamente inedito, registrato a Chicago il 3 Giugno del 1995 durante il tour promozionale seguito alla pubblicazione di Monster, una serie di concerti che causò diversi problemi ai membri del gruppo ed in particolare a Berry che soffrì di un aneurisma cerebrale in Svizzera, che lo costringerà a lasciare i compagni due anni dopo.

Dati i presupposti creati da Monster, il concerto è molto rock, con il nuovo album rappresentato da ben nove pezzi tra i quali spiccano What’s The Frequency, Kenneth?, Crush With Eyeliner, Strange Currencies (accolta con un boato dal pubblico) e Tongue. Automatic For The People è presente solo con tre brani, e per fortuna due sono le splendide Man On The Moon e Everybody Hurts (la terza è Monty Got A Raw Deal, ma avrei preferito Drive). Chiaramente non mancano i classici del gruppo, Losing My Religion in testa, ma pure Country Feedback, Orange Crush, So. Central Rain (I’m Sorry), e c’è anche Revolution in anticipo di due anni sulla pubblicazione (non un grande brano comunque), oltre a due inediti assoluti, Undertow e Departure, che nel 1996 finiranno su New Adventures In Hi-Fi. Finale con altre due canzoni molto note, Pop Song 89 e la frenetica It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine). Il BluRay contiene Monster in due configurazioni audio alternative (surround ed alta risoluzione), sei video tratti dall’album e la riproposizione del film-concerto Road Movie, uscito all’epoca solo in VHS e DVD.

A livello di ristampe dei R.E.M. questa riedizione di Monster è quindi quella che offre più materiale interessante, e sono fin da ora in curiosa attesa per il 2021, quando ricorreranno i 25 anni di New Adventures In Hi-Fi, che personalmente giudico il miglior lavoro della band di Athens da Automatic For The People in poi.

Marco Verdi

Le “Capre” Del Donegal Sono Tornate. Goats Don’t Shave – Out The Line

goats don't shave out the libe

Goats Don’t Shave – Out The Line – Pat Gallagher Music

Chi ci segue regolarmente sul Blog avrà notato che regolarmente, ad ogni uscita dei Goats Don’t Shave, il sottoscritto (con immenso piacere) è chiamato dall’amico Bruno a recensire i loro lavori: una ottima band irlandese che a partire dai primi anni ’90 è stata sicuramente una stella di prima grandezza nel panorama folk del periodo, alfieri di un suono intrigante che recupera in parte elementi popolari, e li mescola con robuste dosi di sanguigno rock (in tal caso recuperate i primi due bellissimi album The Rusty Razor (92) e Out In The Open (94). A distanza di tre anni dal loro ultimo lavoro in studio Turf Man Blues (16) https://discoclub.myblog.it/2016/04/28/cartoline-dal-donegal-goats-dont-shave-turf-man-blues/ , Pat Gallagher e le sue “capre” tornano con Out The Line (il CD non è recentissimo, uscito la scorsa primavera, ma ne sono venuto in possesso solo ora), registrato nei Gweedore GMC Studios, situati appunto nella verde contea del Donegal, con l’attuale “line-up” composta oltre che dal leader indiscusso Pat alla chitarra e voce, dal fratello Michael Gallagher alla batteria, Gerry Coyle al basso, Declan Quinn al mandolino e whistle, Seàn Doherty alla chitarra acustica, Charlie Logue alle tastiere, Jason Phibin al violino, con il contributo come corista della figlia Sarah Gallagher.

L’inizio di Out The Line è affidato alla corale Faraway Boys, con la sezione ritmica come al solito in gran spolvero, mentre la seguente The Drowning Man è una folk-ballad pulita, lineare, che fa da preludio alla più tirata e corposa Half Hanged Mcnaghten, che riporta alla mente certe cose dei mai dimenticati Pogues, mentre Don’t Give Your Love To Anyone è abbastanza anonima e purtroppo non aggiunge nulla di nuovo. Si prosegue con una song delicata e carica di emozioni come Just A Girl, con il cantato di Gallagher che duetta con il violino di Jason Phibin, seguita da We Got It Made grande ballata alla Hothouse Flowers, con tanto di influenze “soul” e il controcanto di Sarah, per poi recuperare dal singolo dello scorso anno una ballata “folk” dal titolo natalizio Christmas Day, e una Brother cantata alla Christie Moore, con una bella melodia intessuta dal violino di Phibin e la voce delicata di Sarah di supporto. La parte finale sposta l’obiettivo su un folk-rock indiavolato come Trouble In The Promised Land, con alla ribalta Mark Crossan e il suo Whistle, mentre Two Friends è una bella, acustica e nostalgica “love-song”, e infine andare a chiudere con il brano musicalmente più completo del lavoro, I Know Better Now, con un pregnante sound chitarristico, con la fisarmonica di Declan e il violino di Jason in evidenza.

Oggi come ieri la “leadership” dei Goats Don’t Shave è saldamente nelle mani di Pat Gallagher, che è cantante e autore di tutti i brani presentati sin dalla nascita del gruppo, brani che ancora oggi hanno punti di contatto con gruppi simili di riferimento come i Saw Doctors, Men They Couldn’t Hang per le ballate, e per i brani più tirati e corposi i Levellers e i Pogues dello “sdentato” Shane MacGowan. Per chi scrive Out The Line è di nuovo una prova decisamente positiva, che ci consegna una band che vive ancora un buon momento creativo, che ha ancora buone cartucce da sparare e diverse cose da dire, con canzoni che hanno un senso e una logica, che fanno pensare oltre che rilassare. In definitiva li conosce sa già cosa fare (o lo ha già fatto), per tutti gli altri è l’occasione migliore per entrare in contatto con una delle più interessanti band di musica “folk-rock” celtica ancora oggi in circolazione. Intramontabili!

*NDT: Come al solito purtroppo il CD è di difficile reperibilità, però se siete interessati scrivete al vecchio Pat sul suo sito, e sarà felice (dopo pagamento) di inviarvelo autografato. Alla prossima!

Tino Montanari

Dopo Cinque Anni Di “Assenza” Sono Più In Forma Di Prima! Micky & The Motorcars – Long Time Comin’

micky & the motorcars long time comin'

Micky & The Motorcars – Long Time Comin’ – Thirty Tigers CD

Tornano a ben cinque anni di distanza dal loro ultimo lavoro Hearts From Above (quattro se contiamo il bellissimo live del 2015 Across The Pond https://discoclub.myblog.it/2015/10/12/dei-migliori-live-minori-dellanno-micky-the-motorcars-across-the-pond-live-from-germany/ ) i bravi Micky & The Motorcars, quintetto guidato da Micky e Gary Braun, fratelli originari dell’Idaho ma da anni trapiantati ad Austin, Texas. I due Braun Brothers sono soltanto la metà di altri due fratelli, Cody e Willy Braun, che a loro volta sono i leader dei noti Reckless Kelly (ed il loro padre è il countryman di culto Muzzie Braun). Una famiglia dalle profonde radici musicali quindi, e con tutti i componenti dotati di un notevole talento: attivi dal 2003, Micky e le sue Autovetture hanno infatti proposto da subito un country-rock elettrico e coinvolgente, dove ritmo e chitarre la fanno da padroni e le melodie orecchiabili vanno di pari passo con l’accompagnamento robusto. Più country dei Reckless Kelly, Micky e Gary (entrambi chitarristi, mentre Micky è anche la voce solista) non hanno mai fatto un disco sottotono, ed il mio dubbio era che dopo cinque anni di silenzio avessero un po’ perso lo smalto.

Niente di più lontano dalla verità: Long Time Comin’ è un altro lavoro solido, piacevole e coinvolgente allo stesso tempo, con una serie di canzoni fatte apposta per piacere al primo ascolto; oltre ai due leader troviamo ancora i fidi Joe Fladger al basso e Bobby Paugh alla batteria, mentre il posto della chitarra solista di Pablo Trujillo è stato preso da Josh Owen, che suona anche la steel. L’avvio del CD è al fulmicotone con la splendida Road To You, una country song tersa e solare dalla melodia vincente, che ricorda non poco il primo Steve Earle, che aveva lo stesso tipo di approccio rock: too rock to be country, too country to be rock, si diceva (così come Joe Ely negli anni settanta). La cadenzata Rodeo Girl potrebbe essere il genere di brano che avrebbe fatto Tom Petty se fosse nato in Texas: diretta, robusta e con le chitarre in primo piano; Alone Again Tonight è Americana al 100%, vibrante e decisamente bella, ancora con le chitarre a dominare affiancate da un organo hammond; Lions Of Kandahar ha un intro duro, al limite della psichedelia, poi Micky inizia a cantare e riporta tutto su territori più familiari, ma il pezzo resta decisamente rock e potente, con un bel crescendo strumentale https://www.youtube.com/watch?v=gotK5DVs9po .

All Looks The Same è più lenta ma mantiene comunque una certa tensione elettrica, e spunta anche un’armonica leggiadra, Thank My Mother’s God ha un ritmo sostenuto nonostante una strumentazione in parte acustica, ed è il brano più country finora, mentre Break My Heart è nuovamente puro rockin’ country, con l’ennesimo connubio vincente tra melodia e ritmo, ed è tra le più piacevoli, in contrasto con la lenta Run To You, una ballatona romantica alla maniera texana (cioè senza eccedere in smancerie). L’album termina con la tonica Stranger Tonight, country-rock song vigorosa e col solito refrain che “acchiappa”, la bella Hold This Town Together, ballatona in odore di Eagles con ottima prestazione di Owen alla slide https://www.youtube.com/watch?v=9PIeQscl_54 , e con la bucolica e deliziosa title track, scritta insieme a Bruce Robison https://www.youtube.com/watch?v=qtQu3T78h04 . Non solo Micky & The Motorcars non si sono persi per strada, ma Long Time Comin’ è probabilmente il loro album più riuscito.

Marco Verdi

L’Ennesimo Live Album…Ma Avercene! John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks

john fogerty 50 year trip live at red rocks

John Fogerty – 50 Year Trip: Live At Red Rocks – BMG CD

Da quando nel 1972 Johh Fogerty sciolse i Creedence Clearwater Revival, la sua carriera solista è sempre stata all’insegna della discontinuità temporale. Solo due dischi negli anni settanta (anzi tre, ma Hoodoo venne rifiutato dalla Asylum, l’etichetta dell’epoca di John, e non venne mai pubblicato ufficialmente), altri due negli anni ottanta dopo dieci anni di silenzio (con in mezzo la battaglia legale con la Fantasy ed il suo ex boss Saul Zaentz), uno solo nei novanta, lo splendido Blue Moon Swamp, e “ben” quattro nel nuovo millennio, anche se l’ultimo composto da canzoni nuove risale ormai a 12 anni fa (Revival). Da quando ha ricominciato a pubblicare dischi con continuità (si fa per dire, appunto), Fogerty ci ha anche gratificato di più di un album dal vivo: Premonition nel 1998, The Long Road Home In Concert nel 2006 ed il DVD Comin’ Down The Road nel 2009. Qualcuno in questi anni ha accusato John di cucinare con gli avanzi riciclando sempre le stesse canzoni (ricorderei anche l’antologia Long Road Home e l’album di vecchi successi rifatti in duetto con vari artisti Wrote A Song For Everyone https://discoclub.myblog.it/2013/06/06/sempre-le-stesse-canzoni-ma-che-belle-john-fogerty-wrote-a-s/ ), ma quando si parla del songbook del rocker californiano sono comunque avanzi che parecchi suoi colleghi non “assaggeranno” mai, neanche come portata principale in una cena di gala.

Fogerty è infatti uno degli autori più importanti di sempre, i cui brani sono per la maggior parte diventati degli standard della musica mondiale, uno che può stare tranquillamente nello stesso club di Bob Dylan, Van Morrison, Neil Young, Paul Simon ed anche il Robbie Robertson di quando era ancora il leader di The Band. Quest’anno John ha celebrato in giro per l’America non i 50 anni di carriera, ma le cinque decadi da quell’irripetibile 1969 in cui diede alle stampe ben tre dei quattro album più leggendari dei Creedence: Bayou Country, Green River e Willie And The Poor Boys (il quarto, Cosmo’s Factory, uscirà nel 1970), ed ora ha deciso di celebrare l’evento con la pubblicazione di 50 Year Trip: Live At Red Rocks, registrato nella famosa location di Morrison in Colorado lo scorso 20 Giugno, e disponibile per il momento solo in USA (in Europa uscirà il 24 Gennaio, ma spendendo qualche euro in più potete accaparrarvi anche adesso senza grossi problemi la versione americana. * NDB Comunque stranamente poi, in Italia, di tutti i paesi del mondo, Il CD è stato pubblicato, e pure a un prezzo molto più basso). Un altro live di Fogerty quindi? Sì, ma ci si poteva anche aspettare che questo tour fosse festeggiato con un’uscita discografica ad hoc, e poi comunque vorrei riallacciarmi al discorso imbastito prima affermando che, pur essendo le scalette dei suoi concerti sempre simili fra loro, Fogerty dal vivo è sempre una goduria assoluta, sia per il livello insuperabile dei brani sia per le performance infuocate che John a 74 anni suonati è ancora in grado di garantire, sia dal punto di vista strumentale che soprattutto vocale.

Il CD è singolo (non c’è stranamente il DVD), in quanto il nostro ha scelto di privilegiare solo i pezzi del suo repertorio e ha purtroppo escluso le cover non riconducibili né ai Creedence né al suo periodo solista eseguite quella sera, e sto parlando di brani di John Lennon (Give Peace A Chance), Beatles (With A Little Help From My Friends), The Who (My Generation) e Sly & The Family Stone (Everyday People e Dance To The Music). Ma quello che c’è basta ed avanza, ed è suonato in maniera strepitosa dal nostro e dalla sua eccellente band, che comprende i figli Shane (chitarra e voce) e Tyler Fogerty (voce), il formidabile batterista Kenny Aronoff (una macchina da guerra), il tastierista Bob Malone, il bassista James Lomenzo, due backing vocalist femminili ed una sezione fiati di tre elementi. E’ inutile recensire il concerto in maniera classica con l’esegesi brano per brano, dato che i titoli si commentano da soli: Born On The Bayou, Green River, Lookin’ Out My Back Door, Who’ll Stop The Rain, Hey Tonight, Up Around The Bend, Long As I Can See The Light (e se qui non vi scende una lacrimuccia siete senza cuore), Run Through The Jungle, Suzie Q, Have You Ever Seen The Rain (altro momento altamente emozionale), Down On The Corner, Fortunate Son, due esplosioni di puro rock chitarristico (ed anche Shane non è affatto male alla sei corde) del calibro di I Heard It Through The Grapevine (otto minuti straordinari, con uno splendido intermezzo pianistico di Malone) ed una Keep On Chooglin’ da stendere un toro, fino ai classici bis di Bad Moon Rising e Proud Mary, qui nettamente accelerata nel ritmo e con i fiati, quasi a voler omaggiare la versione di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=xI3ZtOEBXVk .

Come vedete una setlist nettamente sbilanciata verso i brani dei Creedence, anche se gli unici pezzi del repertorio solista di John, le trascinanti Rock And Roll Girls, Centerfield e The Old Man Down The Road, non sfigurano affatto nemmeno vicino a canzoni così leggendarie. E mancano brani altrettanto mitici come Travelin’ Band, Wrote A Song For Everyone, Lodi, Rockin’ All Over The World, Almost Saturday Night e chi più ne ha più ne metta. Il disco dal vivo migliore di John Fogerty (insieme a The Long Road Home In Concert): ora però vorrei davvero un nuovo album di studio, che infatti sembrerebbe in dirittura d’arrivo per il 2020.

Marco Verdi

Forse Uno Dei Suoi Dischi Migliori, Peccato Non Esista Il CD: Old Songwriters Never Die. Max Meazza – 70’s Dreams

max meazza 70's dreams

Max Meazza – 70’s Dreams – Desolation Angels Records – Download Only 

L’album dello scorso anno di Max Meazza Together Like A Car Crash era stato il primo dell’artista milanese a non venire pubblicato in CD. Con suo grande dispiacere, come mi ha detto lo stesso Max, anche questo nuovo 70’s Dreams non esce in formato fisico, ma solo per il download: come sapete sul Blog raramente parliamo di dischi digitali (anche se in questo caso il termine è improprio, questo vocabolo ha sempre un suo fascino, a maggior ragione in questi giorni in cui arriva la notizia dagli USA che le vendite dei vinili hanno superato in volume quelle dei CD), ma per l’occasione facciamo una eccezione visto che la nuova fatica di Meazza mi sembra una delle sue migliori degli ultimi anni e tra le più valide della sua corposa discografia. Il titolo potrebbe fare anche riferimento agli anni in cui Max Meazza muoveva i primi passi nella musica, pubblicando nel 1974 l’album dei Pueblo, uno dei primi dischi italiani che fondeva il suono del country-rock e della musica west-coastiana, e grazie al singolo Mariposa entrò anche nella Hit Parade dell’epoca, tanto che la band in alcune cronache di quei tempi si meritò l’appellativo di “Eagles” italiani. Della band faceva parte anche l’ottimo chitarrista Claudio Bazzari, che negli anni è rimasto tra i collaboratori (saltuari ma ricorrenti) del nostro amico, tanto che anche nel nuovo album, sia pure sotto la forma del “campionamento”, appare nel brano Wolfman Jack.

L’album, come lascia intuire l’ultima informazione, nasce da una sorta di patchwork sonoro, dove Leonard Wolf, produttore, arrangiatore e musicista di Nashville, da qualche anno con Max, ha preparato alcune basi, sulle quali lo stesso Max ha poi inserito parti di chitarra elettrica, tastiere e Fender Rhodes, aggiungendo testi e melodie in alcuni casi, oppure utilizzando basi pre-esistenti di gruppi non notissimi come Airtone, Nordgroove Loveshadows, più altre canzoni scritte dallo stesso Max. Il risultato rientra in quello stile sonoro che il sito CD Baby, dove potete trovare a questo link https://store.cdbaby.com/cd/maxmeazza28 il download del CD, classifica come Rock: Adult Contemporary, che mi sembra una buona definizione, “moderno” nelle sonorità, ma sempre con quei richiami fascinosi ai vecchi maestri di Meazza, come l’amato John Martyn, i cantanti West Coast americani raffinati come Marc Jordan, Bill LaBounty, Marc Dupree e soci, il blue-eyed soul, insomma i soliti noti della sua musica. Quindi anche se non sempre sono d’accordo con delle sonorità a tratti troppo “sintetiche”, il disco nel complesso mi piace e mi sento di consigliarlo a chi ama questo genere (magari nuovi adepti), che ha comunque i suoi seguaci, grazie ad una serie di canzoni che sono tra le più ispirate e nostalgiche, come da titolo, rispetto al suo passato.

E così ecco scorrere le atmosfere sospese di 70’s Dreams, uno dei brani pescati dalla rete, suonata da Max, tra chitarre elettriche e tastiere vagamente pinkfloydiane, per questo strumentale inquietante, seguito da Desire Code, uno dei tipici pezzi di impostazione californiana di Meazza, dolce, serena ed avvolgente love song, con una bella melodia, grazie ad una sinuosa chitarra elettrica che la percorre continuamente, mentre un piano elettrico e le tastiere la caratterizzano, con affascinanti spunti jazzy e la voce vissuta di Max, il tutto assemblato da Wolf, che l’ha suonata ed arrangiata in quel di Nashville. Eve, https://www.youtube.com/watch?v=KmqxdwzBnps è una sorta di mosso blue-eyed soul che prende lo spunto dall’originale dei russi Nordgroove, adattato ai gusti del nostro e con qualche vago rimando al John Martyn più leggero ed elettronico dei primi anni ’80: In Fearless peraltro l’influenza di Martyn è ancora più marcata, grazie ad una malinconica melodia sottolineata dal raffinato uso del pedale della chitarra elettrica, che avvolge l’ascoltatore mentre la voce di Max quasi ti culla dolcemente. Imogene è un brano della band Airtone, al quale Meazza ha aggiunto una chitarra, oltre alla melodia e al testo, un altro brano soffuso e delicato dalla raffinata ricerca sonora esplicata in un groove insinuante.

Life Is A Game, anche se il nostro amico (plurale maiestatis) ha scritto testo e musica e suonato tutto, diciamo che non è una delle mie preferite, suono troppo eighties (che è all’incirca l’epoca in cui ho iniziato a recensire i suoi dischi per il Buscadero), decisamente meglio NowYou’re Gone, più romantica, raccolta e sussurrata https://www.youtube.com/watch?v=jdRtrYWPWy8 , e interessante anche la lunga Slave in a liquid room, un brano che era giù uscito lo scorso anno con lo pseudonimo Mask Of Dust, a cui sono stati aggiunti batteria, basso, chitarra e una voce femminile, altra canzone che va molto, forse troppo, di groove.There’s a better way, in origine dei Loveshadows di Jeff Grant, un duetto con una voce femminile, spensierato ma con un ritmo danzereccio, non mi fa impazzire, mentre apprezzo di più Where the sidewalk ends una bella ballata suonata con strumenti veri, un piano elettrico liquido, chitarre accarezzate e la voce roca e vissuta di Max Meazza https://www.youtube.com/watch?v=YcGpuxS_Gj4 , seguita dalla già citata Wolfman Jack, dedicata al grande DJ radiofonico degli anni ’50, ’60 e ’70, quello di American Graffiti per intenderci, un divertissement, un collage sonoro che poi si trasforma in un brano rock strumentale tipo quelli di Dick Dale, dei Chantays o dei Surfaris, con la parte di chitarra campionata di Claudio Bazzari, uno dei migliori chitarristi italiani https://www.youtube.com/watch?v=Bf8u5DVqcvY . Chiude un altro blue-eyed soul piacevole ma non memorabile come You can wait till next Sunday, forse dalle sonorità sintetiche accentuate ma che non inficia il giudizio comunque decisamente favorevole dell’album di un “vecchio” cantautore.

Bruno Conti

Stanno Tornando! Mandolin’ Brothers, Sabato 30 Novembre Allo Spazio Teatro 89 Di Milano Presentazione Del Nuovo Album “6”

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Ah, quei bei titoli di una volta, “6”, sarà mica per caso il sesto album della band pavese (diciamo di Voghera e dintorni)? Certo che sì: a cinque anni dal precedente album Far Out, e a due anni dall’uscita del disco solista di Jimmy Ragazzon,i Mandolin’ Brothers pubblicano un nuovo album anche per festeggiare 40 anni di carriera (ok i dischi hanno iniziato a farli parecchi anni dopo, ma non stiamo a spaccare il capello in quattro, anche perché non per tutti ce ne sono ancora molti). La formazione si è stabilizzata da parecchi anni in un sestetto, dove oltre a Jimmy, voce solista, armonica e chitarra acustica, ci sono Marco Rovino, chitarre, mandolino e voce, Paolo Canevari, chitarra elettrica e slide, Riccardo Maccabruni, piano, organo, fisarmonica e voce, Joe Barreca, basso e Daniele Negro, batteria.

Per questa serata speciale, che si terrà alla Spazio Teatro 89 a Milano in Via F.lli Zoia 89, ci saranno alcuni ospiti, non a sorpresa, visto che sono annunciati Paolo Bonfanti, Bruno De Faveri e Dado Bargioni; non ci sarà Jono Manson, che ha prodotto il nuovo album ai suoi Kitchen Sink Studios di Santa Fé nel New Mexico, disco che è stato registrato nel corso dell’ultimo anno tra i Downtown Studios di Pavia e il Raw Wine Studio di Buffalora (PV), Jono che sarà probabilmente presente nelle date di febbraio del tour. Il disco riporta nove nuove composizioni della band, un brano inedito di Jono Manson e una cover di Steve Earle, da sempre uno dei preferiti del gruppo, insieme agli amati Bob Dylan, Stones, Little Feat e ai grandi bluesmen della tradizione della musica americana, tanto per citare solo alcune delle influenze che animano la musica dei sei: quindi blues, rock, country, folk, roots music, vogliamo chiamarla Americana (quello che si offende se usi il termine è Dan Stuart dei Green On Red)? Ovviamente il concerto prevede, oltre alla esecuzione dei nuovi brani, anche una carrellata di canzoni dai vecchi album e qualche cover succosa scelta nel loro sterminato repertorio.

Che altro dire? Il prezzo del biglietto sarà 13 euro, 10 euro quello ridotto. Poi la settimana prossima, o comunque non appena in possesso del CD, che verrà venduto pure al Teatro, recensione dell’album sul Blog. Non mi rimane che dirvi di intervenire numerosi: se li conoscete già è quasi pleonastico dirlo, ma se non li avete mai visti dal vivo (vedere sopra), si tratta di una esperienza da fare assolutamente, in quanto siamo di fronte ad una delle migliori band in circolazione, e non solo in Italia.

Bruno Conti

Una Gran Bella Collezione Di Successi…Degli Altri! The Mavericks – Play The Hits

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The Mavericks – Play The Hits – Mono Mundo/Thirty Tigers CD

Quando ho letto che tra le uscite di Novembre c’era un album dei Mavericks intitolato Play The Hits ho subito pensato ad un’antologia o, meglio, ad un disco dal vivo incentrato sui loro brani più popolari, cosa che sarebbe stata anche logica dato il periodo pre-natalizio. Dopo essermi informato meglio ho invece constatato che Play The Hits è un lavoro nuovo di zecca da parte della band di Miami, nel quale i nostri rileggono alla loro maniera una serie di canzoni che sono stati dei successi nelle mani di altri artisti. Un album di cover in poche parole, scelta anche logica in quanto Raul Malo e compagni (Eddie Perez, Jerry Dale McFadden e Paul Deakin) fin dai loro esordi nell’ormai lontano 1991, quando venivano etichettati come country, erano in grado di interpretare qualunque tipo di musica, dal rock’n’roll al country, dal tex-mex alla ballata anni sessanta, passando per pop e ritmi latini (ricordo che Malo nasce da genitori cubani). Da quando i Mavericks si sono riformati nel 2003 la loro carriera è stata un continuo crescendo, ed il loro ultimo album di materiale originale, Brand New Day, è stato uno dei dischi più belli del 2017; lo scorso anno ci siamo divertiti con il loro album natalizio Hey! Merry Christmas! https://discoclub.myblog.it/2018/12/12/ancora-sul-natale-la-festa-e-qui-the-mavericks-hey-merry-christmas/ , ed ora Play The Hits ci fa vedere la bravura dei nostri nel prendere canzoni di provenienza abbastanza eterogenea e di plasmarle al punto da farle sembrare opera loro.

Con l’aiuto ormai abituale dei Fantastic Five (una sorta di gruppo-ombra che collabora con i nostri da diverso tempo, e che vede l’ottimo Michael Guerra alla fisarmonica, Ed Friedland al basso ed una sezione fiati di tre elementi) il quartetto ci regala 42 minuti di estrema piacevolezza, con undici brani scelti tra successi più o meno famosi rifatti con grande creatività ma senza stravolgere le melodie originali, nel segno quindi del massimo rispetto. Malo è ormai uno dei migliori cantanti in circolazione, una voce melodiosa e potente al tempo stesso che lo ha imposto da tempo come vero erede di Roy Orbison (ci sarebbe anche Chris Isaak, che però non può raggiungere l’estensione vocale di Raul), mentre i suoi tre compari sono in grado di suonare qualsiasi cosa. Il CD, prodotto da Malo con Niko Bolas (vecchio collaboratore di Neil Young), inizia in maniera decisa con Swingin’ (del countryman John Anderson), brano cadenzato che perde l’arrangiamento originale per acquistarne uno nuovo che si divide tra rock, swamp ed errebi, un mood trascinante e caldo grazie all’uso dei fiati e Raul che canta da subito alla grande. I fiati colorano ancora di rhythm’n’blues la mitica Are You Sure Hank Done It This Way di Waylon Jennings, con i nostri che mantengono il passo del compianto artista texano in mezzo ad un suono forte ed impetuoso; Blame It On Your Heart è un pezzo di Patty Loveless che qua diventa uno splendido tex-mex tutto ritmo, colore e grinta, con Guerra che fa il suo dovere alla fisa ed i nostri che confezionano una performance irresistibile.

Don’t You Ever Get Tired (Of Hurting Me), di Ray Price, è un delizioso honky-tonk lento con buona dose di romanticismo e solita prestazione vocale da favola di Malo, e Guerra che garantisce anche qui un sapore di confine. I nostri omaggiano anche Freddy Fender con una toccante versione di Before The Next Teardrop Falls: bellissima melodia cantata un po’ in inglese un po’ in spagnolo ed ancora la grandissima voce del leader a dominare (davvero, non ci sono molti cantanti a questo livello in circolazione), mentre è sorprendente la rilettura di Hungry Heart di Bruce Springsteen, che si tramuta in un country-swing con fiati dal sapore anni sessanta, con tanto di chitarra twang, una trasformazione decisamente riuscita che però non snatura l’essenza della canzone; Why Can’t She Be You è una versione jazzata e raffinatissima di un pezzo di Hank Cochran portato al successo da Patsy Cline (che ovviamente aveva cambiato il titolo volgendolo al maschile), con Mickey Raphael ospite all’armonica: grande classe. Once Upon A Time è un noto standard rifatto anche da Frank Sinatra, qui arrangiato come un ballo della mattonella in puro stile sixties, con l’aggiunta della seconda voce di Martina McBride, mentre Don’t Be Cruel non ha bisogno di presentazioni: famosissimo brano di Elvis che viene riproposto con un gustoso e trascinante arrangiamento tra country e big band sound, una meraviglia. Finale con un’intensa versione del classico di Willie Nelson Blue Eyes Crying In The Rain, solo Raul voce e chitarra (ma che voce), e con I’m Leaving It Up To You, una hit del dimenticato duo Dale & Grace che è una ballatona dal muro del suono potente ed un’atmosfera ancora d’altri tempi.

Quindi un altro ottimo disco in questo ricco autunno musicale.

Marco Verdi

Un Ritorno Ai “Fasti” Del Passato. Danny Bryant – Means Of Escape

danny bryant means of escape

Danny Bryant – Means Of Escape – Jazzhaus Records

E’ innegabile che I dischi migliori del chitarrista inglese siano stati quelli pubblicati a nome Danny Bryant’s RedeyeBand, per intenderci quelli della prima decade degli anni 2000, quando il padre Ken era il bassista della formazione: questo non è per dire che gli album successivi siano brutti, tutt’altro, però il nostro amico aveva un poco perso il bandolo del suono, come avevo detto in una recensione di qualche tempo fa era passato dal blues-rock degli inizi al rock-blues tendente all’hard rock degli anni ’10 https://discoclub.myblog.it/2014/11/24/robusto-spessore-chitarristico-i-sensi-danny-bryant-temperature-rising/ , più o meno in concomitanza dell’inizio della collaborazione con il produttore e tastierista Richard Hammerton, che spesso (non sempre) nelle canzoni aveva portato un suono più patinato, di maniera, con l’utilizzo massiccio delle tastiere, synth incluso.. Per l’occasione di questo Means Of Escape, disco n° 11, Bryant ha deciso di tornare a prodursi in proprio, si è cercato un bravo ingegnere del suono e poi ha spedito i nastri per il mixaggio a Eddie Spear (uno che ha lavorato con Brandi Carlile, Anderson East, Old Crow Medicine Show, Chris Stapleton), ed infine il tutto è stato masterizzato agli Abbey Road Studios di Londra.

L’album poi è stato registrato praticamente in presa diretta : il risultato è uno dei suoi migliori dischi in assoluto, e tra le migliori uscite dell’anno in ambito blues e dintorni. Un CD che ricorda molto le pubblicazioni recenti del suo amico e mentore Walter Trout: voce vissuta, grintosa e dolente a tratti, la sua fedele Fender Stratocaster spesso e volentieri in azione in modo splendido, ora roboante e potente come nell’iniziale Tired Of Trying, ispirata proprio dall’amico Walter, e dove ci sono chiari rimandi anche all’amato Jimi Hendrix, con fiumi di note che escono dalla solista e una sezione ritmica cadenzata e veemente che ben lo asseconda, ora lancinante e più “classica https://www.youtube.com/watch?v=S52T_tWqTN4 ”, come nello splendido slow blues con fiati e piano e organo di una intensa Too Far Gone, dove la chitarra si libra lirica grazie ad un timbro “grasso” e corposo.. La title track con un testo per certi versi autobiografico, per essere sinceri ricorda alquanto il celebre riff e la melodia di All Along The Watchtower, ma si poteva scegliere peggio, visto che poi il risultato è veramente coinvolgente e trascinante, con l’organo di Stevie Watts ancora a spalleggiare con classe la solista di Bryant che volteggia inarrestabile; Nine Lives è un altro brano energico, dalle parti del Texas blues di Stevie Ray Vaughan, con l’organo Hammond di Watts nella parte che fu di Reese Wynans https://www.youtube.com/watch?v=0wxp-88nMg0 .

Skin And Bone è un ricordo accorato e sentito della figura del padre, morto nel 2018 dopo una lunga malattia, “Pelle e ossa” descrive in modo crudo ma efficace la situazione che si trova ad affrontare chi deve assistere una persona cara che ci sta lasciando (e che personalmente comprendo), solo voce, chitarra acustica e alcuni “tocchi” laceranti della elettrica, ma tanta partecipazione emotiva; in Warning Signs (In Her Eyes) tornano i fiati per un’altra cavalcata nel blues elettrico che profuma e ricorda lo stile del Muddy Waters degli anni d’oro, non un brano specifico ma tanti rimandi alle riletture delle band del British Blues. Where The River Ends l’aveva già incisa per il suo secondo album del 2003 Shadows Passed, ma non era rimasto soddisfatto del risultato, la nuova versione di questa ballata in effetti centra il suo scopo che è quello di ricordare la scomparsa della figlia di un vecchio amico, con la chitarra che convoglia disperazione ed intense emozioni in un assolo di rara bellezza https://www.youtube.com/watch?v=A2bQt_4adGM  .Hurting Time ci presenta il suo debutto discografico alla slide, un altro blues fiatistico dove le 12 battute classiche sono protagoniste assolute, e per chiudere un album eccellente ecco Mya, un’ulteriore ballata, questa volta strumentale, incentrata sull’uso di piano elettrico e organo su cui si innesta una ennesima dimostrazione della tecnica e del feeling di questo superbo chitarrista che rilascia un lunghissimo e torrenziale assolo veramente “da urlo”.

Bruno Conti