Produce Joe Bonamassa E Lei Ci Dà Dentro Di Brutto, Forse, Ma Forse, Anche Troppo! Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue

joanna connor 4801 south indiana avenue

Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue  – Keeping The Blues Alive

Ormai sembra che Joe Bonamassa stia perdendo lo scettro di artista più prolifico a favore di Neil Young che ultimamente cento ne pensa e cento ne fa: quindi il buon Joe ha pensato di incrementare il “suo secondo lavoro”, come produttore discografico per la propria etichetta Keeping The Blues Alive che,  dopo la pubblicazione dell’album di Dion Blues With Friends (e l’uscita del CD degli Sleep Eazys) ora si occupa del rilancio di Joanna Connor, una delle musiciste più valide e interessanti in ambito blues, nativa di New York, ma basata a Chicago, con una carriera discografica iniziata nel lontano 1989 con Believe It!, e proseguita, tra alti e bassi, con altri quattordici album, inclusi diversi dischi dal vivo, ed escluso questo nuovo 4801 South Indiana Avenue, dall’indirizzo del famoso locale della Windy City Theresa’s Lounge. La Connors (scusate ma mi scappa di dirlo, non è più una giovanissima, l’anno prossimo compirà 60 anni) fa parte della pattuglia delle musiciste bianche che praticano un blues piuttosto energico anziché no, quindi chitarriste cantanti molto influenzate anche dalla musica rock, con uno stile aggressivo e a tratti roboante, in grado di “maltrattare” spesso la sua Gibson (o una Delaney) per ridurla a più miti consigli https://www.youtube.com/watch?v=suwb2pdE2_g : era parecchi anni che non mi capitava di recensire un suo album per il Buscadero, ma il nuovo CD, grazie anche al lavoro di Bonamassa, mi sembra che la riporti ai fasti passati.

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joe e Joanna.una bella accoppiata. Non guasta il fatto che Joe le abbia affiancato un manipolo eccellente di musicisti, da Reese Wynans alle tastiere, a Calvin Turner al basso e Lemar Carter alla batteria, una piccola sezione fiati che ogni tanto interviene e i due co-produttori, Bonamassa e Josh Smith che spesso e volentieri fanno sentire anche le loro chitarre. La nostra amica è conosciuta soprattutto come una virtuosa della slide, e nel disco ce n’è a iosa: in effetti nel brano di apertura Destination, dal repertorio degli Assassins di Jimmy Thackery, la Connors inizia a mulinare il suo bottleneck a velocità vorticose, ben sostenuta dal piano di Wynans, con la sua voce potente supportata anche da quella del grande Jimmy Hall dei Wet Willie, con tutta la band che tira di brutto https://www.youtube.com/watch?v=89wb2tqg0io , mentre Come Back Home di nuovo con uno scatenato Wynans al piano, è una sorta di boogie rallentato, intenso e scandito, con Joanna che piazza un altro solo vigoroso di slide che ricorda quelli del miglior Thorogood https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . Bad News è uno dei pezzi più conosciuti di Luther Allison, per il quale la Connors in passato apriva i concerti, un lentone di quelli appassionati ed intensi, dove Joanna si cimenta in un lavoro di chitarra ricco di finezza e forza, mentre la sua voce è in grado di evocarne le atmosfere quasi stregate e sofferte, e Wynans alle tastiere è ancora una volta all’altezza della situazione, con i fiati a colorare l’atmosfera sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=FvYKatLNbc0 .

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I Feel So Good è uno dei grandi cavalli di battaglia di Magic Sam, un boogie frenetico e selvaggio, con il bottleneck sempre in grande evidenza, a duettare con la batteria di Carter, prima sfuma e poi riprende forza con finale a sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . For The Love Of A Man è un classico blues rovente con fiati, scritto da Don Nix, proveniente dal repertorio di Albert King, seguito da un altro piccolo classico delle 12 battute come Trouble Trouble, a firma Lowell Fulsom, reso noto da Otis Rush, altro slow blues lancinante, con Josh Smith alla seconda chitarra e Wynans che raddoppia a piano e organo, per un pezzo che sta tra Bloomfield, sentire i fiati, please e Stevie Ray Vaughan e la Connors che si infervora alla solista https://www.youtube.com/watch?v=0CgFMl5tGKc . Please Help era di JB Hutto ma è un tributo al grande Hound Dog Taylor, slide music alla ennesima potenza, Cut You Loose la faceva anche il vecchio Muddy, Chicago Blues attualizzato da un arrangiamento moderno, dove la quota rock si fa prevalente e il bottleneck fa sempre furore https://www.youtube.com/watch?v=6-TF4bsd2Fk . Per gli ultimi due pezzi Joe Bonamassa fa un passo avanti e duetta con Joanna, prima nelle volute soul blues di Part Time Love dove organo, sax e fiati tutti prendono la direzione del Sud https://www.youtube.com/watch?v=hTApLuD5Jow  e nella gagliarda It’s My Time, scritta da Josh Smith e che è l’occasione per un duello di slide tra Joe e Joanna, pezzo che rievoca le atmosfere del Cooder più trascinante, con la musica che scivola, scivola, scivola… https://www.youtube.com/watch?v=vDjQMaSL4Nc 

Bruno Conti

Costa Tanto E Non E’ Inciso Benissimo, Ma C’è Duane E La Performance E’ Ottima! The Allman Brothers Band – Down In Texas ‘71

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The Allman Brothers Band – Down In Texas ’71 – ABB Records CD

La Allman Brothers Band fa ormai parte da diversi anni di quella lunga schiera di gruppi la cui memoria viene discograficamente tenuta viva solo grazie a ristampe e pubblicazioni d’archivio, con proposte che, se dal punto di vista artistico sfiorano quasi sempre l’eccellenza, da quello del rapporto qualità/prezzo non sono sempre impeccabili. Il penultimo appuntamento con la grande band sudista era esplicativo di questa sorta di doppio binario, con un CD live splendido sotto ogni punto di vista (Erie, PA 7-19-05) ed un altro storicamente importante – l’ultima performance di Duane Allman – ma inciso come un bootleg di pessima qualità (The Final Note). Dagli archivi del gruppo è appena uscito un altro live, che si pone giusto a metà tra i due appena nominati, anche se forse siamo più dalle parti del secondo: intanto il CD è reperibile solo sul sito della band, con l’inconveniente per noi poveri italiani di dover spendere più di spedizione che per il disco stesso, e poi la qualità non è certamente perfetta, anche se stavolta non siamo ai livelli infimi di The Final Note, che era comunque un “audience recording”.

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Down In Texas ’71 (registrato al Municipal Auditorium di Austin il 28/09/71) arriva invece dal soundboard, ed alla fine si può giudicare più che accettabile visti i 50 anni che i nastri hanno sul groppone: inizialmente il sound va e viene, è un po’ zoppicante e c’è qualche passaggio a vuoto, ma poi il tutto si normalizza e complessivamente posso dire che alla fine ci si può dichiarare soddisfatti, anche e soprattutto per merito della qualità della performance dei nostri, che in quella serata texana di inizio autunno erano come si suol dire “on fire”. Stiamo infatti parlando del periodo classico della ABB, quando Duane era ancora saldamente nel gruppo e non sbagliavano uno show (dopotutto il mitico Live At Fillmore East, per chi scrive il miglior disco dal vivo di sempre, era stato registrato solo pochi mesi prima): la formazione era quella a sestetto, con Gregg Allman alla voce, piano ed organo, Duane e Dickey Betts (che all’epoca non cantava ancora) alle chitarre e la sezione ritmica formata da Berry Oakley al basso e dai due batteristi Butch Trucks e Jaimoe; in cinque pezzi come ospite interviene il sassofonista Rudolph “Juicy” Carter, anche se i suoi contributi sono quasi inudibili in quanto sepolti nel missaggio un po’ approssimativo.

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Si parte come al solito con Statesboro Blues (la scaletta gira e rigira è sempre la stessa): il suono all’inizio è un tantino fangoso ma migliora man mano che il brano prosegue, e Duane piazza subito un paio di assoli dei suoi con la sua splendida slide https://www.youtube.com/watch?v=7F9WP3fWslE ; giusto il tempo di riprendere fiato ed ecco Trouble No More di Muddy Waters con il classico riff ad introdurre la canzone (ed il sound che prima va e viene e poi si stabilizza), Gregg canta con grinta, la sezione ritmica macina che è un piacere e Betts fa sentire la voce della sua sei corde https://www.youtube.com/watch?v=oqxhrdiC6LI . Una vibrante Don’t Keep Me Wonderin’, dal ritmo spezzettato e con l’organo in evidenza, precede il doppio omaggio ad Elmore James con una breve ma fluida Done Somebody Wrong, con ficcanti assoli dei due axemen ben doppiati dal piano di Gregg, e con la mossa e coinvolgente One Way Out, gran ritmo e solita performance chitarristica davvero notevole e tutta da godere. Ed ecco arrivare i grossi calibri, a partire dalla classica In Memory Of Elizabeth Reed (nove minuti scarsi, ma la versione è incompleta anche se si è fatto di tutto per non far sentire troppo il “taglio” nel mezzo), con le sue tipiche sonorità calde ed il ritmo insinuante non distante da quello che proponevano i Santana in quel periodo, e con un Betts lirico ed ispiratissimo https://www.youtube.com/watch?v=xlBDRCsUTZw .

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Per proseguire con gli altri nove minuti di Stormy Monday (T-Bone Walker), uno slow blues sinuoso e reso ancora caldissimo dall’organo e con i due chitarristi che entrano in punta di piedi ma che non tardano a prendersi la canzone https://www.youtube.com/watch?v=kONF4AUz_Fc . E’ poi il momento del punto più alto del concerto, cioè il fantastico quarto d’ora della signature song di Willie Cobbs You Don’t Love Me, una vera e propria orgia sonora dal feeling formidabile, con i nostri in completa “modalità Fillmore East”, al punto che quindici minuti sembrano pure pochi https://www.youtube.com/watch?v=X_zCQCGv7FQ . Finale con Hot’Lanta, potente jam session con la fusione tra rock, blues e jazz tipica dell’inimitabile stile del gruppo di Macon. Un altro ottimo live dal passato della Allman Brothers Band (parlo della performance), anche se il costo alto e l’incisione piuttosto altalenante mi costringe a consigliarlo solo ai fedelissimi.

Marco Verdi

Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte II

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Seconda parte

Gli Anni ‘70, quelli di maggior “successo” commerciale 1970-1975

Successo è una parola forte, visto che al massimo arriveranno al 50° posto in UK, proprio con il disco successivo

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Looking In – 1970 Decca **** l’ultimo della formazione con Lonesome Dave Peverett che diventa la voce solista, Tone Stevens al basso e Roger Earl alla batteria, l’album conferma la buona vena compositiva della band, che alterna momenti raffinati ad altri più sanguigni che fanno arrivare il disco anche nella Top 40 americanhttps://www.youtube.com/watch?v=mQ9u3g1Nv-A . Copertina fantasy/horror e sound a tratti decisamente più virato ad un potente rock-blues, che poi i Foghat porteranno a compimento, vedi Poor Girl con Simmonds in gran forma, mentre Take It Easy più laidback, potrebbe passare per un brano di B.B. King, e anche Sunday Night, giocata in punta di dita, illustra il lato più swingante del gruppo, mentre nella sospesa Money Can’t Save Your Soul ci sono delle analogie con i Fleetwood Mac di Peter Green, con la lunga Leaving Again che opta per un approccio più tirato alla Humble Pie. Gran disco che prelude ad un cambio totale: Simmonds ingaggia praticamente quasi tutti i Chicken Shack dell’epoca, Raymond, Sylvester e Bidwell e il nuovo cantante Dave Walker. Il risultato è

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Street Corner Talking – 1971 Decca ***1/2 forse un filo inferiore, ma con la nuova line-up che va di rock (and roll): Tell Mama, con una ottima slide ricorrente, la cover di I Can’t Get Next To You dei Temptations, dove sembra di ascoltare gli Stones dell’epoca, la potente Let It Rock, la scandita Time Does Tell e la vibrante title track testimoniano di una band in buona salute e con Simmonds in grande forma, che poi nella seconda facciata si scatena nella lunga All I Can Do, dove piano e organo fanno da apripista alla lunga improvvisazione di Kim che poi la ribadisce in Wang Dang Doodle https://www.youtube.com/watch?v=YCSmA0gf14A .

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Hellbound Train – 1972 Decca *** Copertina ancora memorabile, meno il contenuto, al di là della lunga e travolgente title track che rimane uno dei loro brani più popolari sino ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=N6TkCLDcC7o , il resto è meno soddisfacente, benché il disco sarà quello di maggior successo negli States arrivando fino al n° 34 delle classifiche. Intendiamoci il disco non è brutto, però non soddisfa del tutto e segna l’inizio della parabola discendente dei Savoy Brown, ribadita nel successivo

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Lion’s Share – 1972 Decca *** che pure inizia bene con una A Shot In the Head a tutto bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=JBqFrMEobtQ  e due cover di blues come Howlin’ For My Far Darlin’ di Howlin’ Wolf e Hate To See You Go di Little Walter, con Simmonds che nel disco suona anche l’armonica, ma manca la grinta degli album precedenti, il suono è fin troppo scolastico.

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Jack The Toad – 1973 Decca **1/2 è anche peggio. Dave Walker lascia per i Fleetwood Mac e arriva tale Jackie Lynton come voce solista, Sue & Sunny come backing vocalist e Ron Berg alla batteria. Si salva giusto Simmonds alla chitarra e armonica, ma non basta.

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Boogie Brothers – 1974 Decca *** è migliore, grazie alla presenza del nuovo cantante e chitarrista, l’ottimo Miller Anderson, un veterano della scena rock-blues britannica, in arrivo dalla Keef Hartley Band: ottime l’iniziale Highway Blues, dove si apprezza la stentorea voce di Anderson https://www.youtube.com/watch?v=3VxeTV4zFBI , il country-blues Me And The Preacher con lap steel in evidenza, la cover a tutto riff di You Don’t Love Me (You Don’t Care) di Bo Diddley, con armonica aggiunta e il potente blues-rock Rock’n’Roll Star con Kim Simmonds al wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=_pw1WNmGD_w .

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Wire Fire – 1975 Decca **

Purtroppo Anderson rimane solo per un album, e in questo nuovo le parti vocali sono divise tra Simmonds, il bassista Andy Rae e il tastierista Paul Raymond: francamente si salva poco del disco, forse solo gli assoli di Simmonds, ma quelli sono sempre rimasti l’unica costante positiva nel percorso della band, insieme alla attività live, che ogni tanto ha riservato dei soprassalti di classe in un percorso in declino.

Come Per Altre Grandi Band, Un Lento Ed Inesorabile Declino 1976-2001

savoy brown greatest hits live in concert savoy brown live and kickin'

Vediamo cosa si può salvare in questo lungo periodo. Skin ‘N’ Bone – 1976 Decca ** è anche peggio, ma gli diamo una stelletta in più per la lunga Walkin’ and Talkin’ registrata dal vivo, dove Kim Simmonds rilascia un lungo assolo che vivacizza le operazioni e lavora di fino anche all’armonica. Su alcuni dischi dell’epoca stendiamo un velo pietoso: con l’uso di musicisti di provenienza Metal e Hard Rock, tipo l’ex cantante del Joe Perry Project. Tra i dischi dal vivo buono Greatest Hits Live In Concert – 1981 Town House *** con il titolo che dice tutto, mentre quelli in studio degli anni ‘80 è meglio dimenticarli. Per Kings Of Boogie – 1989 GNP Crescendo *** torna come cantante Dave Walker, che poi rimane anche per il successivo Live And Kickin’ – 1990 GNP *** Il resto della band, per usare un eufemismo, non è straordinario, ma il medley di 20 minuti con I’m Tired/Hard Way To Go/Louisiana Blues/Street Corner Talkin’/Hellbound Train è veramente gagliardo https://www.youtube.com/watch?v=vekUh34mWxs . In questo periodo escono anche molti CD dal vivo di archivio, alcuni registrati nel periodo 1969-1975, interessanti, ma visto che non credo siano molto reperibili vi ricordo solo, se vi capita di trovarli Live At The Record Plant 1975, Looking From The Outside: Live 69/70, Jack the Toad: Live ’70/’72, Hellbound Train, Live 1969-1972 tutti usciti a cavallo tra fine anni ‘90 e inizio 2000, fateci un pensierino.

Il Lungo “Ritorno” 2003-2020

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Improvvisamente, agli inizi degli anni 2000, Kim Simmonds decide di porre un freno alla situazione, firma un contratto con la Blind Pig che nel 2003 pubblica Strange Dreams – 2003 Blind Pig ***, il primo di una serie di album, dove il nostro amico , improvvisatosi in seguito quanto meno adeguato cantante, e rimanendo axemen tra i migliori in assoluto in ambito rock-blues, decide di tornare a fare le cose sul serio. La BGO ripubblica in CD, spesso accoppiati a due a due gli album classici e Simmonds inizia a pubblicare per la propria etichetta alcuni dischi dal vivo che danno il via in anticipo ai festeggiamenti per il 50° Anniversario del gruppo in avvicinamento. Ma prima escono alcuni ottimi album per la Ruf Records, dove la nuova line-up, ancora attiva ad oggi, si rivela solida, compatta e finalmente degna delle glorie passate.

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Il cantante e sassofonista Joe Whiting rimane solo per l’eccellente Voodoo Moon – 2011 Ruf Records ***1/2 per il quale riprendo quanto detto nella recensione dell’epoca “Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma sarà il passaggio ad una casa come la Ruf che conosce l’argomento Blues e dintorni come le proprie tasche, sarà la nuova formazione, comunque il risultato finale non è da buttare, anzi, di tanto il tanto, il vecchio “fuoco” che li aveva portati ad essere una delle formazioni più importanti del cosiddetto British Blues Revival si riaccende https://www.youtube.com/watch?v=_6R7Za5DMb4&list=OLAK5uy_kWdC5oLxYpasJ1Ou1lpyrGb-706NoGWl8 . Non siamo ai livelli dei primi album come Getting To Point o Blue Matter ma ci avviciniamo al sound più rock di ottimi album come Street Corner Talking e Hellbound Train, il loro più grande successo negli States.”.

savoy brown songs from the roadkim simmonds and savoy brown goin' to the delta

Stesso discorso per il successivo Songs From The Road – 2013 Ruf CD/DVD ***1/2 Anche in questo caso mi cito “Era l’ora. Lo so, si dice spesso, ma in questo caso è più vero che mai. Dopo i chiari segnali di ripresa con un buon disco come Voodoo Moon, uscito nel 2011 e di cui vi aveva parlato positivamente sempre chi scrive: il passo successivo poteva, e doveva, essere un bel CD dal vivo (magari con DVD aggiunto): e così è stato, e anche se non sempre l’assioma, “ah, ma dovrebbero fare un disco Live” viene poi confortato dai risultati sperati, per i Savoy Brown, in questo caso, vale!” https://www.youtube.com/watch?v=TZym9Q67WxA  Nel 2014 Whiting abbandona e il gruppo prosegue come power trio, con Simmonds alla voce (uhm!) Tanto che il CD successivo esce come Kim Simmonds And Savoy Brown – Goin’ To The Delta – 2014 Ruf Records ***1/2 lo stile sarà anche Delta Blues, ma, forse per la prima volta, Kim firma tutte le 12 tracce del disco e suona con una grinta e una classe che sembravano perdute: sentire per credere, Laura Lee, grande Chicago Blues, lo slow duro e puro di Sad News, la potente Nuthin’ But The Blues, lo strumentale Cobra dove sembra di ascoltare gli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=jP8ONu5cVTU .

kim simmonds and savoy brown the devil to paysavoy brown witchy feelin'

E anche il successivo The Devil To Pay – 2015 Ruf Records ***1/2 ribadisce la ritrovata vena, con Simmonds che scrive come un disperato, cosa mai fatta in passato, altre tredici nuove composizioni per festeggiare il cinquantesimo del gruppo che viene celebrato anche con il notevole Still Live After 50 Years Volume 1 pubblicato nel 2017 https://www.youtube.com/watch?v=TFUmjvoFpDk , al quale seguirà il volume 2 uscito nel 2019, entrambi per loro etichetta Panache Records, forse entrambi da 4 stellette. Nel 2017 Kim Simmonds festeggia i suoi 70 anni ed esce l’ultimo disco per la Ruf Records, tra streghe e blues, l’ancora una volta ottimo Witchy Feelin’ – 2017 Ruf Records ***1/2 con lui sempre i fedelissimi Pat DeSalvo al basso e Garnett Grimm alla batteria, in un disco che propone anche lo swamp Why Did You Hoodoo Me o Livin’ On The Bayou, tra Creedence e JJ Cale, il Mississippi Blues a tutto bottleneck di Standing On A Doorway, l’orgia hendrixiana con wah-wah a manetta di Thunder, Lighting And Rain https://www.youtube.com/watch?v=kUd-6ZNuvuc .

savoy brown you should have been theresavoy brown ain't done yet

Conclusa l’avventura Ruf Simmonds firma con la Quarto Valley, ma il risultato non cambia: ancora ottima musica per City Night – 2019 Quarto Valley ***1/2 con il gruppo che dopo tanto cercare sembra avere finalmente trovato l’elisir di lunga vita, con un ulteriore album solo di materiale originale di Simmonds, con le ottime Walking On Hot Stones a tutto riff e slide a manetta, uno slow lancinante come Selfish World e la eccellente title track dove la solista scorre fluida e fluente come ai vecchi tempi https://www.youtube.com/watch?v=2_7dd2IqzTs . Nel frattempo esce anche un ulteriore album dal vivo Savoy Brown Featuring Kim Simmonds  – You Should Have Been There! – Panache Records ****, registrato nel 2003 e che illustra gli inizi del comeback della band. Infine, ed è storia recente, come da titolo del CD https://www.youtube.com/watch?v=2l9HuI1MJ6E , non è ancora finita Savoy Brown – Ain’t Done Yet – Quarto Valley Records ***1/2, mi cito per una ultima volta “Puntuale come un orologio svizzero, quasi ogni anno, Kim Simmonds ci presenta un nuovo album: questo Ain’t Done Yet dovrebbe essere il numero 41 o 42 (parliamo solo di quelli di studio, se aggiungiamo Live e antologie il numero cresce in modo esponenziale), in 55 anni di carriera” https://www.youtube.com/watch?v=SzAgBCCu-hA . Quindi virus o non virus, non è ancora finita, o se preferite non sono finiti: prosegue la saga dei Savoy Brown, forse la più longeva band del blues-rock britannico, non contando nel novero ovviamente gli Stones.. Quindi lunga vita a Kim Simmonds e soci, e in attesa di nuove avventure, per il momento è tutto.

Bruno Conti

Un Moderno Hippie Sfida Il Triste Tempo Del Covid. Israel Nash – Topaz

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Israel Nash – Topaz – Desert Folklore Music/Loose Records

Per fortuna in questi travagliati anni duemila il mestiere del cantautore non sembra esser passato di moda, almeno in America, con una nuova generazione di talenti che, disco dopo disco, si stanno mettendo in luce grazie alla loro musica e alle loro personali visioni della realtà contemporanea. Ognuno di voi, certo, avrà la sua personale lista di preferiti, nella mia posso citare Jonathan Wilson, Drew Holcomb, Jason Isbell, Griffin House, Will Hoge e, last but not least, Israel Nash (all’inizio noto anche per un secondo cognome, Gripka), di cui vado a descrivervi l’ultimo album, Topaz. Anticipato alla fine dello scorso anno dall’omonimo EP con cinque brani scaricabili online, questo nuovo lavoro ha preso la sua forma definitiva dopo una lunga gestazione nello studio personale di Nash ad Austin, luogo dove il songwriter originario del Missouri si è stabilito da parecchio tempo. Gli anni degli esordi newyorkesi appaiono lontani, a giudicare da come si presenta l’amalgama sonoro che caratterizza Topaz, successore diretto dei precedenti Lifted del 2018 e Silver Season del 2015, già contraddistinti da quel sound denso e stratificato che qualcuno ha voluto definire cosmic country, dove si vuol far convergere il prog dei Pink Floyd bucolici modello Obscured By Clouds con la delicata patina di psichedelia presente nel roots rock targato Laurel Canyon.

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Paragoni legittimi, tuttavia anche a un ascolto distratto non si può fare a meno di notare l’influenza più rilevante tra tutte, quella di Neil Young e dei suoi gioielli che dagli anni settanta non hanno mai cessato di ispirare le successive generazioni di musicisti. Il brano di apertura, Dividing Lines, mostra il lato più pinkfloydiano di Israel col suo lisergico crescendo, il ruolo determinante della pedal steel guitar suonata dall’ottimo Eric Swanson e l’uso potente dei cori femminili, le bravissime Jenny Carson e Rockyanne Bull https://www.youtube.com/watch?v=VBvy2f9Tdr8 . La morbida Closer è immediatamente accattivante, ancora pedal steel, banjo e armonica a guidare una melodia sognante che sembra perdersi nella vastità degli orizzonti texani https://www.youtube.com/watch?v=OcqFPn8-7zs . La chitarra di Adrian Quesada, leader dei Black Pumas e coproduttore di Topaz, dà l’avvio al turgido soul di Down In The Country, dove ha modo di mettersi in luce l’accompagnamento fiatistico in puro stile Stax dell’ensemble Afrobeat Hard Proof https://www.youtube.com/watch?v=6lluZL-So7Y . In Southern Coasts le campionature ritmiche non rovinano l’atmosfera contemplativa del pezzo, impreziosito nel finale da un bel fraseggio di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=KJbRNq18PmU , mentre Stay cattura subito per le sue note calde ed avvolgenti, soul ballad purissima che potrebbe ambire al ruolo di singolo da classifica, sfruttando ancora un brillante uso dei fiati e dell’elettrica di Quesada https://www.youtube.com/watch?v=dykiv1T5-FQ .

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Canyonheart è talmente younghiana che potrebbe essere scambiata per un outtake di Harvest o After The Gold Rush, col suo incedere indolente e l’armonica che accarezza l’anima insieme a banjo e steel guitar https://www.youtube.com/watch?v=X0BePC-qJL0 . Ancora l’ombra del grande canadese si stende sul robusto tessuto melodico di Indiana, (o Alabama, mi verrebbe quasi da cantare!) https://www.youtube.com/watch?v=VA0KKfm1hUA  che si stempera nella contemplativa bellezza della successiva Howling Wind. Tanta spiritualità ed introspezione potrebbero indurci a pensare che Nash viva sospeso nel suo mondo dominato dalle suggestioni di Madre Natura, lontano dalla realtà contingente. A smentire quest’idea arriva la struggente Sutherland Spring, rievocazione della strage compiuta nel novembre 2017 nella chiesa battista dell’omonima località da parte dello squilibrato Devin Patrick Kelley che uccise ventisette persone e ne ferì altre venti. Ogni strumento contribuisce alla resa di questa allucinante vicenda, facendo di questa drammatica ballad uno dei vertici dell’album https://www.youtube.com/watch?v=KZVeal2qbjY . Pressure, con la sua bella enfasi fiatistica in chiave southern soul https://www.youtube.com/watch?v=jA6vEP2rL4o , chiude degnamente un disco piacevolissimo e rigenerante, ricco di sonorità azzeccate e suggestioni meditative, facendo di Israel Nash non più solo una promessa ma un sicuro protagonista della musica che amiamo.

Marco Frosi

Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte I

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Proseguendo nella nostra serie di monografie dedicate ad una disamina di alcune delle principali band britanniche, inserite in quel filone che è stato appunto definito British Blues, dopo Fleetwood Mac https://discoclub.myblog.it/2019/06/28/in-attesa-del-cofanetto-inedito-atteso-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-i/ , Ten Years After https://discoclub.myblog.it/2013/03/13/alvin-lee-1944-2013-il-chitarrista-piu-veloce-del-mondo/ , e ovviamente John Mayall, con e senza Bluebreakers https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ , questa volta ci occupiamo dei Savoy Brown, una delle band più longeve, in attività già dal 1965 e a tutti gli effetti, come dicono i nostri amici inglesi “still alive and well”, ancora vivi e vegeti, con una media di una o due nuove uscite discografiche all’anno, l’ultima pubblicazione risalente a fine agosto 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/10/05/non-e-ancora-finita-eccoli-di-nuovo-savoy-brown-aint-done-yet/ . Naturalmente nel conteggio non inseriamo i Rolling Stones, che sono i più longevi di tutti, e che ultimamente un paio di capatine dalle parti delle 12 battute le hanno fatte: per essere pignoli mancherebbero i Chicken Shack, di Stan Webb e Christine Perfect, e tutta una serie di band e solisti, di culto o meno, che stanno ai margini di questa scena, o in quanto predecessori del fenomeno, Yardbirds, Animals, Pretty Things, Manfred Mann, “eredi”, dai Free ai Taste, tra i “minori” la Climax Blues Band, i Groundhogs e la Keef Hartley Band passando per Cream, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, che però sono fenomeni a sé stanti; poi ci sarebbe la “second wave” del movimento, che partendo a metà anni ‘70 dai Dr. Feelgood, a inizio anni ‘80 approda a gente come la Blues Band e i Nine Below Zero. Magari dedicheremo una puntata al “Best Of The Rest”. Comunque bando alle ciance e veniamo alla vicenda dei nostri amici Savoy Brown: naturalmente mi sono fatto un bel ripasso riascoltando i loro album e ho avuto la conferma che i migliori album come sempre sono quelli di inizio carriera, per quanto punte di eccellenza più saltuarie, ci sono state anche negli anni successivi e nel clamoroso ritorno attuale.

Gli inizi, che coincidono proprio con gli “anni migliori” 1965-1970

Nel febbraio del 1965 Kim Simmonds, “lider maximo” e tuttora alla guida della band, decide di formare a Londra, insieme ad un gruppo di amici, quello che sarà il primo nucleo della sua futura creatura, nsieme a Bryce Portius, uno dei primi musicisti neri a fare parte di una band blues (rock) inglese, che era il vocalist, a cui si aggiungono il tastierista Trevor Jeavons, il bassista Ray Chappell, il batterista Leo Manning e John O’Leary all’armonica, molti dei quali non arriveranno neppure ad incidere, in un tourbillon di sostituzioni, il disco di debutto, che esce sotto il moniker di

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Savoy Brown Blues Band – Shake Down – 1967 Decca ***1/2 Il produttore, quasi inevitabilmente, è il deus ex machina della scena britannica, ovvero Mike Vernon, una garanzia. Undici brani, quasi tutte cover, meno due pezzi: uno The Doormouse Rides The Rails, firmato da Martin Stone, aggiunto come secondo chitarrista solo per questo primo album, poi troverà “fortuna” con i Mighty Baby, band a cavallo tra psych-rock e progressive, di cui se volete approfondire c’è un box di 6 CD At A Point Between Fate And Destiny – The Complete Recordings, con l’opera omnia https://www.youtube.com/watch?v=UnWMLRQ5eW0 . L’altro brano è la lunga Shake ‘Em On Down un traditional arrangiato collegialmente dalla band, con l’aiuto dell’ottimo pianista Bob Hall, che appare in tre brani del disco, in cui spiccano vibranti versioni di I Ain’t Superstitious, Let Me Love You Baby, Black Night, I Smell Trouble, Oh Pretty Woman, It’s All My Fault, ma tutto il disco è eccellente https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , con la formula della doppia chitarra, che viene riproposta per il successivo

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Getting To The Point – 1968 Decca ***1/2 dove come chitarrista arriva Dave Peverett (in futuro nei Foghat come Lonesome Dave Peverett), ottimo alla slide, e il suo socio Roger Earl alla batteria, anche lui poi nei coriacei Foghat. C’è anche un nuovo ottimo cantante Chris Youlden, mentre Bob Hall rimane in pianta stabile, con il nuovo bassista Rivers Jobe. Come vedete il bandleader Simmonds applicava la formula della rotazione, come Mayall con i Bluesbreakers; la band eccelle negli slow blues, dove si apprezza la tecnica sopraffina di Simmonds e la voce potente di Youlden, tipo l’iniziale Flood In Houston https://www.youtube.com/watch?v=pEVKNz0fyZw , Honey Bee di Muddy Waters, Give Me A Penny dove sembra di ascoltare il Jeff Beck Group, la potente Mr. Downchild con doppia chitarra https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , ma anche i pezzi più mossi come You Need Love di Willie Dixon, brano poi trasformato dagli Zeppelin in Whole Lotta Love prendendo spunto soprattutto dalla versione degli Small Faces, ma anche da questa https://www.youtube.com/watch?v=r0AQL0RnXMU . L’anno successivo, con l’innesto di Tone Stevens, viene realizzato

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Blue Matter – 1969 Decca **** che viene considerato (insieme al disco successivo) il loro capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=N7wTOiYavCs&list=OLAK5uy_lrUqtRSmh00t70YCyznMN_4s_sjHEpfUE . L’uno-due iniziale con l’accoppiata Train To Nowhere e la minacciosa Tolling Bells è da sballo, ma spiccano anche le cover di Don’t Turn From Your Door di John Lee Hooker, e nella sezione live una superba Louisiana Blues di Mastro Muddy, con le chitarre di Kim e Dave che si inseguono, brano che è tuttora uno dei loro cavalli di battaglia, ottima anche una incendiaria It Hurts Me Too e il brano di Peverett May Be Wrong dove la band tira di brutto. Lo stesso anno, a distanza di pochi mesi, esce anche

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A Step Further – 1969 Decca **** altro disco che prosegue nella collaudata formula studio + live https://www.youtube.com/watch?v=Uybbl1wHWLo . E’ l’ultimo disco con Bob Hall al piano, che faceva da trait d’union tra il loro animo blues e quello più rock: Youlden firma quasi tutte le tracce della prima facciata in studio, tra cui spicca il solito “lentone” intenso Life’s One Act Play, dove appaiono anche gli archi, e spicca un assolo fantastico di Kim, e insieme a Simmonds, il vero tour de force Savoy Brown Boogie, registrato dal vivo a Londra nel Maggio 1969, un lungo medley ribollente di oltre 22 minuti, che incorpora Feel So Good, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Little Queenie. Purple Haze e Fernando’s Hideway. I Savoy Brown ai vertici della loro potenza, quando competevano alla pari con Ten Years After e Fleetwood Mac, con in più la presenza di Chris Youlden che era un cantante fantastico, sentire per credere., anche se poi la sua carriera solista sarà del tutto deludente. Ma prima di abbandonare registra ancora con loro nel 1969 l’ottimo

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Raw Sienna – 1970 Decca **** non più prodotto da Vernon, ma da Youlden e Simmonds, entrambi anche al piano in alcuni brani, oltre a scrivere la totalità delle canzoni: anche se qualcuno azzarda che Youlden avesse “problemi” di dipendenza e forse fu questa una delle ragioni del suo mancato successo come solista. In effetti in questo album troviamo Needle And Spoon, brano ricercato, come altri presenti nel disco, meno portato al boogie e più rivolto verso il formato canzone https://www.youtube.com/watch?v=R4rQvaL9qxE , come ribadiscono la fiatistica A Litte More Wine, dove Peverett va di slide alla grande, con il supporto di Youlden al piano, in un pezzo in stile Chicago o Blood, Sweat And Tears, come pure That Same Old Feelin’, con grande solo di Kim, reiterato nella superba Master Hare, dove appaiono anche gli archi, mentre anche l’ottima Is That So di Simmonds non scherza, un lungo brano strumentale molto raffinato con forti elementi jazzy. Tutto l’album è comunque solido e centrato, tra i loro migliori.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Dopo Willie Nelson, Ecco Una “Giovane Promessa” Al Femminile! Loretta Lynn – Still Woman Enough

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Loretta Lynn – Still Woman Enough – Legacy/Sony CD

Se Willie Nelson a quasi 88 anni pubblica ancora grande musica con sorprendente regolarità, lo stesso si può dire di quella che può essere definita la sua controparte femminile, cioè la leggendaria Loretta Lynn, che di anni ne sta per compiere 89 (sia lei che Willie sono nati ad aprile). Tornata ad ottimi livelli, anche di vendite, nel 2004 con Van Lear Rose (prodotto da Jack White), la Lynn si è poi presa una lunga vacanza per ritornare più agguerrita che mai nel 2016 con l’altrettanto riuscito Full Circle, il primo di cinque album pianificati con la produzione di John Carter Cash, figlio del grande Johnny Cash. Dopo il natalizio White Christmas Blue ed il sempre valido Wouldn’t It Be Great del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/07/appendere-la-chitarra-al-chiodo-magari-tra-dieci-anni-loretta-lynn-wouldnt-it-be-great/ , ora Loretta torna tra noi con un altro bellissimo lavoro intitolato Still Woman Enough (stesso titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2002), sotto la supervisione della figlia Patsy Lynn Russell e del solito Cash Jr. Still Woman Enough non sposta di una virgola il suono e lo stile della Lynn (ma a quasi novant’anni mi stupirei del contrario), country che più classico non si può, cantato alla grande con un timbro vocale decisamente giovanile (anche Nelson, tanto per continuare col parallelo, ha ancora una grande voce, ma dimostra tutti i suoi 87 anni) e suonato con classe immensa da un manipolo di luminari di Nashville.

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Un gruppo folto di musicisti con al loro interno nomi notissimi come Paul Franklin alla steel, Ronnie McCoury al mandolino, Shawn Camp e Randy Scruggs alle chitarre, Dennis Croutch e Dave Roe al basso, Matt Combs al violino e, come vedremo tra poco, una manciata di famose colleghe di Loretta a duettare con lei. Puro country, di piacevolissimo ascolto e che una volta di più ci mostra un’artista che, nonostante l’età e la splendida carriera ricca di successi, non ha ancora perso la voglia di fare musica. L’album, tredici canzoni, è diviso a metà tra rifacimenti di brani già interpretati in passato ed altri affrontati per la prima volta: l’unico pezzo veramente nuovo è la title track che apre il CD (scritta da Loretta insieme alla figlia), un country-rock elettrico e sorprendentemente grintoso specie per un’ottuagenaria: gran voce, ritmo cadenzato, un bel mix di chitarre acustiche, elettriche e dobro con la ciliegina della presenza di Reba McEntire e Carrie Underwood ad alternare e sovrapporre le loro ugole a quella di Loretta https://www.youtube.com/watch?v=BB5FHS3eJ_c . I brani “nuovi” proseguono con due omaggi alla Carter Family, una deliziosa e cristallina ripresa della popolare Keep On The Sunny Side in puro stile bluegrass (grande canzone e grandissima voce, una cover da brividi) ed una limpida I’ll Be All Smiles Tonight, dal motivo ammaliante e gustoso accompagnamento per sole chitarre, mandolino ed autoharp.

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Chiudono il lotto dei pezzi mai incisi prima dalla Lynn due riprese di altrettanti traditionals: la solare I Don’t Feel At Home Anymore, ancora dal sapore bluegrass tra dobro, chitarra e mandolino, e la nota Old Kentucky Home (di Stephen Foster, quello di Oh, Susanna! e Hard Times Come Again No More), con quattro strumenti in croce e la voce inimitabile di Loretta per un altro esempio di eccellente country d’altri tempi, oltre ad una trascinante e ritmata rilettura dell’evergreen di Hank Williams I Saw The Light, tra country e gospel, suonata in modo eccelso. E veniamo alle riproposizioni di brani già pubblicati in passato, a partire dall’incantevole Honky Tonk Girl, luccicante esempio, indovinate, di honky-tonk classico suonato in maniera sopraffina (splendidi il pianoforte e la steel), seguita da una versione particolare di Coal Miner’s Daughter, la signature song di Loretta, che non canta ma si limita a recitare il testo in maniera indubbiamente suggestiva, accompagnata solo da un banjo. One’s On The Way è uno splendido honky-tonk elettrico (l’autore è il grande Shel Silverstein) con ben cinque chitarre più la steel e la seconda voce di Margo Price, due ugole strepitose al servizio di una melodia di prim’ordine https://www.youtube.com/watch?v=tmH95_a2Vtk .

loretta lynn - margo price

loretta lynn – margo price

I Wanna Be Free è un country-rock mosso ed orecchiabile, cantato come al solito in modo scintillante, mentre Where No One Stands Alone è un antico gospel di Lister Mosie che Loretta trasforma in una superba country ballad pianistica decisamente toccante al tempo di valzer lento (ma sentite come canta!). Chiudono il CD, forse il migliore tra quelli registrati negli studi del figlio di Cash, la dolce ed emozionante My Love e la guizzante You Ain’t Woman Enough, altra strepitosa honky-tonk song in cui la Loretta divide il microfono con un’altra “ragazzina”, Tanya Tucker https://www.youtube.com/watch?v=8LKJRJYPTZc . Non posso che augurare a Loretta Lynn una vita ancora lunga e piena di salute, in modo da poter godere nell’immediato futuro di altri dischi del livello di Still Woman Enough. 

Marco Verdi

Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

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Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Uno Dei “Figli Di…” Migliori In Circolazione! AJ Croce – By Request

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AJ Croce – By Request – Compass Records

Nell’ampia categoria che include i “figli di” AJ Croce è sicuramente uno dei più validi ed interessanti (senza fare la lista della spesa, lo metterei più o meno a livello di Jeff Buckley, Jakob Dylan, Adam Cohen, i primi che mi vengono in mente): una vita ricca di tragedie, orfano a meno di due anni per la morte del padre Jim Croce, a quattro anni cieco completamente, anche se poi ha riacquistato parte della visione dell’occhio sinistro, a quindici anni l’incendio della casa in cui aveva sempre vissuto con la madre Ingrid, con la quale ha avuto un rapporto complesso e turbolento, nel 2018 la moglie Marlo, con lui da 24 anni, è morta di una rara malattia cardiaca, lasciandolo con due figli. Nonostante la pesante eredità del padre Jim ha saputo creare un suo approccio alla musica, non seguendo pedissequamente lo stile del babbo, ma ispirandosi al blues, al soul (punti di riferimento Ray Charles e Stevie Wonder), ma con elementi rock, a tratti country, e anche di pop raffinato, grazie all’uso costante del piano di cui AJ è una sorta di virtuoso, ma suona anche tastiere assortite e chitarre: ha realizzato una serie di 10 album, incluso questo By Request, più un disco di rarità dai primi anni di carrierahttps://discoclub.myblog.it/2017/08/20/di-padri-in-figli-aj-croce-just-like-medicine/.

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Dopo la morte della moglie Croce ha voluto rientrare, come suggerisce il titolo, con un disco di cover, realizzate con garbo, classe e ottimi risultati, un album veramente godibilissimo: aiutato da una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spiccano Gary Mallaber alla batteria, Jim Hoke a sax vari, armonica e pedal steel, David Barard al basso, Bill Harvey e Garrett Stoner alle chitarre, Scotty Huff alla tromba e Josh Scaff al trombone, più un terzetto di backing vocalist, in pratica la sua touring band e con la presenza di Robben Ford in un brano, AJ sceglie una serie di canzoni molte adatte al suo stile, in base alla formula “a gentile richiesta” che si applica nei concerti più intimi. E così ecco scorrere Nothing From Nothing, un vecchio brano di Billy Preston, con i fiati molto in evidenza, in questo classico e mosso R&B dove Croce si disbriga con classe al piano https://www.youtube.com/watch?v=dp2sd7IhGsg , la molto più nota Only Love Can Break Your Heart di Neil Young, una delle ballate più belle del canadese, resa molto fedelmente da AJ e soci che però aggiungono un retrogusto da blue eyed soul o country got soul, con la voce sottile di Croce che ricorda quelle dei Bee Gees degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=SKy_PcSEyR0 ; scatenata la versione di Have You Seen My Baby di Randy Newman, un’altra delle maggiori influenze del nostro https://www.youtube.com/watch?v=K-Ec5Od0WsI , Nothing Can Change This Love è un oscuro ma delizioso brano di Sam Cooke, con elementi doo-wop, e il piano che viaggia sempre spedito https://www.youtube.com/watch?v=FmeCGbt7glE , Better Day è un country-blues-swing di Brownie McGhee, con Robben Ford alla slide che contrappunta in modo elegante il lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=nQuHTW7viVc . O-O-H Child è il vecchio brano soul dei Five Stairsteps che ultimamente pare tornato di moda, visto che appare anche nel recente disco Paul Stanley con i Soul Station https://discoclub.myblog.it/2021/03/20/ebbene-si-e-proprio-lui-si-e-dato-al-funky-soul-con-profitto-paul-stanleys-soul-station-now-and-then/ , versione adorabile e delicata. https://www.youtube.com/watch?v=56btlAqRZLY 

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A seguire una robusta rilettura di Stay With Me il classico R&R di Rod Stewart con i Faces, con AJ al piano elettrico e una ficcante slide, Harvey per l’occasione. a ricreare lo spirito ribaldo del brano originale, e non manca neppure il New Orleans soul di Brickyard Blues una canzone di Allen Toussaint, qui resa in una versione a metà strada tra Dr. John e i Little Feat, grazie all’uso del bottleneck del chitarrista Garrett Stoner che interagisce con il piano di Croce, ricreando il dualismo Lowell George/Bill Payne https://www.youtube.com/watch?v=mH-dKTFOfbU . Incantevole anche la versione di San Diego Serenade di Tom Waits, con un arrangiamento che ricorda lo stile dei brani “sudisti” della Band, con tanto di pedal steel sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=CinzazO7Ti8 , e che dire di una versione barrelhouse blues di Sail On Sailor dei Beach Boys? Geniale e sorprendente! Tra i brani poco noti anche Can’t Nobody Love You di Solomon Burke: non potendo competere con la voce del “Bishop of Soul” AJ opta per un approccio gentile e minimale, con l’organo a guidare e con le coriste che danno il tocco in più, e per completare un disco di sostanza arriva infine Ain’t No Justice un esaltante funky-soul strumentale di Shorty Long targato Motown 1969.

Bruno Conti

Dopo La Scorpacciata Elettrica Coi Crazy Horse, Ecco Il “Giovane Nello” In Beata Solitudine, Esce Il 26 Marzo! Neil Young – Young Shakespeare

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Neil Young – Young Shakespeare – Reprise/Warner CD – CD/LP/DVD Box Set

Ho ancora nelle orecchie il magnifico live del 1990 Way Down In The Rust Bucket, registrato insieme ai Crazy Horse, che già Neil Young pubblica un altro album dal vivo tratto dai suoi sterminati archivi: Young Shakespeare è però l’esatto opposto di Rust Bucket per quanto riguarda il suono, in quanto vede il nostro da solo sul palco armato unicamente di chitarra ed occasionalmente pianoforte. L’album (pubblicato in CD, LP e cofanetto che comprende entrambe le configurazioni aggiungendo un DVD con le riprese video della serata, *NDB al solito prezzo assurdo)) presenta tredici canzoni tratte dal concerto del 22 gennaio 1971 allo Shakespeare Theatre di Stratford, Connecticut, uno spettacolo che si tenne appena tre giorni dopo il famoso show alla Massey Hall di Toronto già pubblicato nel 2007 nell’ambito degli archivi younghiani (ed infatti la setlist di Stratford ricalca per dodici tredicesimi quella canadese).

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Nel presentare Young Shakespeare il nostro non ha nascosto la sua personale preferenza per questo show rispetto a quello di tre giorni prima, a suo dire troppo autocelebrativo e meno spontaneo: io sinceramente dopo aver ascoltato Young Shakespeare non so decidermi, in quanto siamo comunque di fronte a due eccellenti performance. D’altronde stiamo parlando di uno dei grandi della nostra musica in uno dei periodi più creativi della sua carriera, un songwriter di livello sopraffino e performer nato, in grado, ed in questo è uno dei pochi al mondo, di tenere alta l’attenzione del pubblico per un intero concerto anche stando da solo sul palco. Young Shakespeare offre quindi una performance splendida da parte di un artista eccezionalmente ispirato, il tutto di fronte ad un pubblico attento e preparato, e se Way Down In The Rust Bucket è la quintessenza del Neil Young rocker, questo live acustico non è certo inferiore in quanto ad intensità e capacità di emozionare; tra l’altro il suono è stato meticolosamente ripulito e rimasterizzato, ed il risultato è tale da farlo sembrare un concerto registrato un mese fa. E poi i titoli in scaletta parlano da soli, con Neil che già all’epoca era avvezzo a sorprendere il pubblico presentando, su tredici pezzi totali (ma il concerto completo era di sedici), ben sei canzoni all’epoca ancora inedite su disco.

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E non siamo parlando di brani secondari: quattro sono anteprime da Harvest (che uscirà dopo un anno), e cioè le splendide The Needle And The Damage Done e Old Man, la drammatica A Man Needs A Maid, eseguita al pianoforte ed in medley con la sempre formidabile Heart Of Gold (anch’essa al piano, e questa è una rarità), mentre l’oscura Journey Through The Past uscirà nel 1973 sul live Time Fades Away e Dance Dance Dance sarà ceduta ai Crazy Horse per il loro omonimo debut album (ma Neil ne riutilizzerà più avanti la melodia per Love Is A Rose). Il resto del CD è una superba full immersion nel meglio del songbook younghiano dell’epoca, con versioni intime ma allo stesso tempo coinvolgenti di capolavori del calibro di Tell Me Why https://www.youtube.com/watch?v=X_dWqfmPfU8 , Don’t Let It Bring You Down, Helpless, l’arrabbiata (ed applauditissima) Ohio, la conclusiva Sugar Mountain e due imperdibili Cowgirl In The Sand e Down By The River https://www.youtube.com/watch?v=Up0dI-QpqF8 . Dopo un 2020 ricco di pubblicazioni, il 2021 di Neil Young si annuncia ancora più interessante, e se le future uscite saranno del livello di Way Down In The Rust Bucket e di Young Shakespeare il godimento musicale è assicurato.

Marco Verdi

Una Etnomusicologa Canadese Dalla Voce Sopraffina Per Un Album Eclettico E Di Grande Spessore. Kat Danser – One Eye Open

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Kat Danser – One Eye Open – Black Hen Music

Accidempoli, ma questi canadesi non finiscono mai di stupirci: d’altronde qualcosa devono pur fare per scaldarsi da quel freddo “sbarbino” che imperversa dalle loro parti. Prendiamo Kat Danser da Edmonton, stato di Alberta, nel momento in cui sto scrivendo questa recensione la temperatura lassù è a  -12, ma questo non preclude agli indaffarati abitanti della città di indulgere nelle loro attività: per esempio Kat Danser, anzi la dottoressa Danser, visto che ha un master in etnomusicologia e lavori sociali, insegna pure, è una esperta di musica latina, cubana in particolare, grazie ai suoi viaggi in loco, ha realizzato già sei album, vincitrici di svariati premi nelle più disparate categorie e anche candidata ai Juno Awards. Ma quello che conta al di là del CV è la musica che si sprigiona da questi album, il nuovo One Eye Open incluso: un mèlange, un frullato di stili, che includono Mississippi Delta blues da cui si parte. che sfuma in quello di New Orleans, soul e gumbo locali inclusi, profumati ed arricchiti da sfumature molto evidenti di musica cubana e per non farsi mancare nulla anche un po’ di sano R&R https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Se aggiungiamo che la produzione del tutto è stata affidata a Steve Dawson, che da Nashville ha assemblato tutto quello che gli arrivava da Edmonton, Vancouver e Toronto, visto che durante la pandemia non ci si poteva muovere, facendo sembrare il risultato organico e vitale, e regalando anche la sua maestria alle chitarre, spesso in modalità slide, come un novello Ry Cooder, alle tastiere il grande Kevin McKendree, una sezione fiati composta da Dominic Conway, Jeremy Cooke e Malcolm Aiken, ai quali si aggiunge Daniel Lapp, che suona violino, tromba e tenor guitar, e la sezione ritmica con Jeremy Holmes al basso e il bravissimo Gary Craig alla batteria, che ricordiamo con Blackie And The Rodeo Kings e Bruce Cockburn, giusto per citarne un paio.

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Il risultato finale, se non prodigioso, per non fare le solite inutili esagerazioni, è comunque eccellente, con materiale in gran parte originale, con un paio di cover scelte con cura. Way I Like It Done, è un midtempo delizioso, con McKendree che con il suo pianino intrigante, dà poi stura alla slide di Dawson, mentre i fiati imperversano tra blues e moderato R&R e lei canta in assoluta souplesse, come se passasse di lì per caso, ma non fatevi ingannare https://www.youtube.com/watch?v=gqYHEM1mWu4 . E siamo solo all’inizio: Lonely And The Dragon è un “lentone”malinconico, un blues intriso di umori sudisti, con chitarre, organo e fiati che sorreggono in modo robusto il cantato quasi sussurrato di Kat, che porge le 12 battute con garbo e classe senza forzare il suo timbro vocale comunque affascinante https://www.youtube.com/watch?v=dsUeiNJoXCw , poi ci trasporta con la cover di Bring It With You When You Come di Gus Cannon nel blues arcano degli anni ‘20, però quelli del secolo scorso, con chitarrine accarezzate, fiati e ritmi discreti, lei che gigioneggia appena il giusto, perché il brano lo richiede, ma è pronta a tuffarsi nel R&B ribaldo di Frenchman Street Shake, quando i suoi musicisti alzano i ritmi, la voce si fa più limpida e scherzosa, la solita chitarra slide di Dawson volteggia, la ritmica si fa più complessa e coinvolgente, i fiati sempre più coinvolti e non mancano dei tocchi latini https://www.youtube.com/watch?v=GJ_cFtJ5Abk .

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steve dawson photo

steve dawson photo

Get Right Church è l’altra cover, dal repertorio di Jessie Mae Hemphill, una delle regine pellerossa del blues del secolo scorso, grande brano, cantato con passione e “anima”, nel quale lentamente andiamo sulle rive del Mississippi, sempre grazie al lavoro essenziale delle chitarre di Dawson, doppiato anche da un assolo di trombone https://www.youtube.com/watch?v=buW1IoxqpKI ; non dico che One Eye Closed viri addirittura verso il punk come qualcuno ha detto, ma la Danser in questa canzone si infervora e si arrochisce, il rock’n’roll raggiunge quasi una intensità alla Patti Smith dei tempi che furono, assolo tiratissimo della solista incluso, si chiude un occhio ma l’altro è decisamente aperto https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Ottima anche Trainwreck, altra canzone dai tempi mossi dove rock (delle radici) e blues, incrociano le loro traiettorie, con Dawson che aggiunge il solito tappeto sonoro per le evoluzioni vocali, misurate ma impetuose della brava Kat https://www.youtube.com/watch?v=dtkLZZ7dh4Y ; Please Don’t Cry è una struggente ballata, con qualche tocco country, grazie all’uso del violino di Lapp, ma senza mai dimenticare blues e anche un pizzico di jazz notturno e demodé https://www.youtube.com/watch?v=gXkI1ggLKW0 . Molto bella anche End Of Days, dove blues e canzone d’autore convergono sulla melodia superba del brano, con assolo di organo strappamutande di McKendree che sottolinea il cantato soave della Danser, che mi ha ricordato quasi la Christine McVie dei tempi d’oro https://www.youtube.com/watch?v=7RsUAa-AONM . E last but not least Mi Corazon, convoglia pulsioni cubane, tex-mex, dolci trasporti amorosi a tempo di valzer e carezzevoli sentimenti tutti insiti nella voce leggiadra di Kat https://www.youtube.com/watch?v=kjbIOehnz2Q . Well Done Mrs, Danser.

Bruno Conti