Torna La “Nostra Signora Della Canzone”…Ma Senza Le Canzoni! Marianne Faithfull With Warren Ellis – She Walks In Beauty

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Marianne Faithfull With Warren Ellis – She Walks In Beauty – Panta Rei/BMG Rights Management CD

Lo scorso anno Marianne Faithfull ha rischiato di raggiungere l’amico John Prine nell’aldilà: ammalatasi di Covid, Marianne ha infatti avuto complicazioni che l’hanno portata a contrarre una polmonite che per poco non dava il colpo di grazia ad un fisico già provato dall’età (sono 75 primavere) e soprattutto dagli stravizi delle decadi passate. Ma la bionda chanteuse inglese ha la pelle dura e ce l’ha fatta, e dopo un periodo di convalescenza si è subito rimessa al lavoro per dare un seguito allo splendido Negative Capability, uno dei dischi più belli del 2018. Questa volta però Marianne ha messo a punto un progetto molto particolare, e cioè quello di prendere alcune famose opere dei poeti inglesi del Romanticismo (John Keats, Lord Byron, Thomas Hood, Lord Alfred Tennyson, William Wordsworth e Percy Bysshe Shelley) e metterle in musica con l’aiuto di Warren Ellis, braccio destro di Nick Cave nei Bad Seeds. Il risultato è She Walks In Beauty, un disco in cui il nome di Ellis in copertina è messo allo stesso livello di quello della Faithfull, in quanto l’australiano è autore di tutte le parti strumentali nonché produttore (insieme a Head, noto per i suoi lavori con PJ Harvey), mentre Marianne si limita a prestare la sua affascinante voce.

I paesaggi sonori di Ellis sono decisamente moderni, con un ampio uso di sintetizzatori e loops (ma anche qua e là un violino, un flauto ed un glockenspiel), e Warren ha coinvolto anche il suo “boss” Nick Cave al pianoforte, Brian Eno anch’egli a synth e tastiere e Vincent Segal al violoncello (e niente chitarre), il tutto per creare un sottofondo d’atmosfera che servisse da alveo per le interpretazioni della Faithfull. C’è però un problema, e non da poco: She Walks In Beauty non è un disco di canzoni, in quanto Marianne si limita a recitare le varie poesie sopra al tappeto sonoro di Ellis e compagni, senza un minimo accenno di melodia o di cadenza musicale. Un album “spoken word” quindi (e gli acquirenti avrebbero dovuto secondo me essere avvertiti con un bollino sulla confezione esterna del CD), che però si rivela di difficile ascolto in quanto già alla terza “canzone” la nostra pazienza è messa a dura prova. Un altro problema non secondario è l’interpretazione di Marianne, che recita i vari sonetti in maniera sempre uguale (per non dire piatta), svilendo in un certo senso la sua partecipazione come titolare del disco: in parole povere, la sua presenza non aggiunge nulla al livello della registrazione, e se al posto suo ci fosse stato un qualsiasi attore britannico dotato di bella voce non sarebbe cambiato nulla.

Il CD si apre con la title track, con il piano di Cave (l’unico strumento che dona una parvenza di musicalità nel disco) che si fa largo tra gli effetti sintetizzati di Ellis, e la voce che entra dopo più di un minuto ma a cantare non ci prova neanche. Già con il secondo pezzo The Bridge Of Sighs il gioco comincia a mostrare la corda: la voce di Marianne dimostra tutti i suoi anni e questo forse contribuisce a renderla più affascinante, ma questa non è musica. Il disco prosegue con questo mood, tra atmosfere algide e quasi taglienti (La Belle Dame Sans Merci di Keats è quasi inquietante) ed il piano di Cave come unica concessione alla parte musicale: fortunatamente la maggior parte dei brani è di breve durata, a parte la conclusiva The Lady Of Shallot di Tennyson, che dura ben dodici minuti francamente interminabili. Io amo Marianne Faithfull, ma She Walks In Beauty è un album spiazzante, elitario, con più controindicazioni che musica e quindi difficilmente consigliabile.

Marco Verdi

Un Ritorno Inatteso Per Una Band Molto Amata, Ed In Ottima Forma: Un Altro Disco Che (Quasi) Non C’è, Solo Vinile E Download Dal 21 Maggio! Counting Crows – Butter Miracle Suite One EP.

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Counting Crows – Butter Miracle Suite One – BMG Rights Management EP Vinile e Download 21-05-2021

Gli anni 90 musicali non hanno fortunatamente prodotto solo grunge e brit-pop, ma anche una bella serie di gruppi che si rifacevano ad un cantautorato rock classico tipico dei seventies, e due tra i migliori esponenti in tal senso erano senza dubbio i Wallflowers ed i Counting Crows. Per un “simple twist of fate” le due band hanno deciso di tornare a pubblicare nuova musica proprio quest’anno, entrambe dopo una lunga assenza dalle scene: se il gruppo di Jakob Dylan ha annunciato di recente un nuovo lavoro in uscita a luglio (Exit Wounds) a ben nove anni da Glad All Over, il combo guidato da Adam Duritz ha deciso un po’ a sorpresa di rifarsi vivo con un EP di quattro canzoni intitolato Butter Miracle Suite One, che segue di sette anni Somewhere Under Wonderland. Sinceramente temevo che l’avventura dei Crows si potesse dichiarare conclusa, dal momento che in questi sette anni l’unico membro attivo musicalmente è stato il multistrumentista David Immergluck, perlopiù coinvolto in progetti per conto terzi (fra i quali vanno ricordate le collaborazioni con John Hiatt e James Maddock), mentre poco si sapeva del resto della combriccola (i chitarristi David Bryson e Dan Vickrey, il tastierista Charlie Gillingham e la sezione ritmica formata da Millard Powers e Jim Bogios).

Duritz sembrava più interessato a condurre il suo podcast radiofonico inaugurato nel 2018 che a comporre nuova musica, ma circa un paio d’anni fa era arrivato l’annuncio che il cantante di Berkeley aveva ripreso a scrivere per una serie di EP con canzoni dal carattere semi-autobiografico, ed ora abbiamo la possibilità di ascoltare il primo prodotto di questa sequenza: Butter Miracle Suite One. E’ chiaro che dopo sette anni di nulla il mio timore sulla forma di Duritz e compagni era più che legittimo, ma è bastato un solo ascolto per spazzare via ogni dubbio: Butter Miracle Suite One è un dischetto davvero bello e riuscito, che ci fa ritrovare un gruppo tra i più creativi delle ultime decadi, e con il suo carismatico leader che non ha perso l’ispirazione. E’ bello ascoltare nuovi pezzi in uno stile familiare, un misto di influenze che vanno da Van Morrison al Bruce Springsteen più classico, con la band che gira a mille: i Counting Crows non hanno mai sbagliato un disco, e anche se forse il successo clamoroso dei primi album e del singolo Mr. Jones non tornerà più, questo EP è un bel modo, anche se un tantino troppo breve (18 minuti totali) per tornare tra noi.

I quattro brani sono uniti come in un medley (da qui il Suite One del titolo), e partono con Tall Grass: una percussione elettronica dà il via, subito doppiata da una chitarra acustica e dalla voce discorsiva di Duritz, che inizialmente sembra che parli più che cantare: poi organo e chitarre elettriche cominciano a farsi largo e lo stesso leader intona una melodia ben definita con un buon pathos (ed anche la batteria entra in azione). Un brano che si apre a poco a poco in un crescendo tipico dei nostri, pur mantenendo un tono intimista di fondo. Elevator Boots è invece una rock ballad potente e decisamente immediata, con un motivo vincente che denota un’indubbia freschezza compositiva ed un bellissimo accompagnamento classico in cui chitarre e piano formano l’ossatura del suono: non a caso è stata scelta come singolo. Con Angel Of 14th il ritmo cresce e si fa molto più sostenuto, le chitarre si mantengono al centro del suono ma la linea melodica, grazie anche ai cori sullo sfondo e ad un notevole wall of sound, fa sì che il brano assuma toni pop-rock diretti e piacevoli (e con un insolito assolo di tromba a metà canzone). La conclusiva Bobby And The Rat Kings è splendida senza mezzi termini: il riff di chitarra doppiato dal pianoforte rimanda direttamente al suono della E Street Band, Duritz intona uno dei refrain in assoluto più coinvolgenti della storia del gruppo, e le similitudini con Springsteen continuano anche nello stile di scrittura. Una canzone magnifica (sentire per credere), che purtroppo interrompe il dischetto sul più bello.

Butter Miracle Suite One è quindi un ottimo lavoro che ci fa ritrovare una band in forma nonostante la lunga assenza: speriamo almeno che il secondo volume di questo EP, disponibile solo in vinile e download arrivi entro fine anno e diventi anche un album completo in tutti i formati.

Marco Verdi

Musica Per L’Infanzia, Ma Ottima Anche Per Gli Adulti! Sara Watkins – Under The Pepper Tree

Sara Watkins Under The Pepper Tree

Sara Watkins – Under The Pepper Tree – New West

Sara Watkins più o meno tutti sappiamo chi è: cantante e violinista assai eclettica, fondatrice con il fratello Sean e con Chris Tile dei Nickel Creek, una delle migliori band di country/bluegrass “contemporaneo”, in attività da fine anni ‘80 fino alla prima decade degli anni 2000, con un paio di reunion, nel 2014   e lo scorso anno per un Live At Fox Theater, autoprodotto e di difficilissima reperibilità, con il fratello ed alcuni amici ha dato vita anche al progetto Watkins Family Hour, autori di due deliziosi album https://discoclub.myblog.it/2015/08/28/simpatico-affare-famiglia-amici-watkins-family-hour/ , nel 2018 con le amiche Sarah Jarosz e Aoife O’Donovan ha registrato un eccellente disco sotto il moniker I’m With Her. E in questi anni, a partire dal debutto omonimo del 2009, prodotto da John Paul Jones degli Zeppelin, ha lanciato anche una solida carriera solista https://discoclub.myblog.it/2016/08/10/recuperi-estivi-gruppetto-voci-femminili-1-sara-watkins-young-all-the-wrong-ways/ : nei suoi dischi, oltre a country e bluegrass progressivo, ci sono anche morbidi elementi rock/pop e cantautorali, quindi cosa mancava?

Un bel disco di canzoni per bambini: ed ecco Under The Pepper Tree. Fermi, dove andate! Per bambini cresciuti e adulti a cui piace sognare, perché questo album è veramente piacevole e incantevole: sono nove cover, scelte tra musiche di film famosi, alcuni della Disney, standard della canzone americana, perfino un pezzo dei Beatles, scritto da John Lennon per Ringo, la dolce e sognante Good Night, che chiudeva il White Album, oltre a due brani scritti per l’occasione, il tutto suonato in punta di dita con grande classe da un gruppo di musicisti provetti, a partire dal produttore Tyler Chester, che suona anche una infinità di strumenti nel CD, Alan Hampton al basso e Ted Poor alla batteria, David Garza e Sean Watkins alle chitarre, Chris Thile, mandolino e voce, Rich Hinman alla pedal steel guitar, oltre alle armonie vocali di Aoife O’Donovan, Sarah Jarosz, Taylor Goldsmith (Dawes), Sam Cooper e alla stessa Sara Watkins, che canta, suona violino, chitarra acustica e piano elettrico. Alcuni dei musicisti citati appaiono come I’m With Her in Tumbling Tumbleweeds e come Nickel Creek in Blue Shadows On The Trail. Un disco ideale per placare i nervi provati dal Covid.

 Pure Imagination viene da Willy Wonka, atmosfere celestiali, violino accarezzante, come pure la voce cristallina di Sara che gorgheggia arrangiamenti complessi molto da musical, brano che poi confluisce senza soluzione di continuità in The Second Star To The Right da Peter Pan, poi arriva Blue Shadows On The Trail, il pezzo con i Nickel Creek, un vecchio standard di Roy Rogers, pura cowboy song con il picking splendido dei musicisti e armonizzazioni vocali sublimi. La dolcissima Edelweiss dove la Watkins duetta con la giovanissima figlia fa da preludio a Moon River, con contrabbasso, organo sullo sfondo, una chitarra acustica spagnoleggiante e la voce delicata che intona questa melodia senza tempo; la title track è un breve strumentale per solo violino, delizioso anche l’approccio per una calda When You Wish Upon A Star, altro classico Disney, questa volta da Pinocchio, chitarra elettrica appena accennata che precede l’arrivo dell’arpeggiata acustica in Night Singing, una ninna nanna originale scritta dalla stessa Sara che poi la dedica amorevolmente alla figlia.

La La Lu da Lady And The Tramp (o se preferite Lilly E Il Vagabondo) è un’altra soave canzone senza tempo a cui fa seguito il brano con le I’m With Her Tumbling Tumbleeweeds, voci in armonia, piano, pedal steel e violino per un’altra delizia. Blanket For A Sail sembra un pezzo di Norah Jones, anche per il timbro vocale della Watkins, che viene raggiunta da Goldsmith per questo country/swing jazzato e demodè, con ritmica appena accennata, violino e steel sempre pronti alla bisogna. Beautiful Dreamer è una canzone di Roy Orbison, spogliata dalla voce stentorea dell’autore, pur mantenendo la melodia del pezzo, mentre non poteva mancare una trasognata Stay Awake da Mary Poppins e pure “l’inno del Liverpool” You’ll Never Walk Alone, solo per voce e chitarra acustica, con il violino che entra nel finale, diventa un’altra ninna nanna per grandi e piccini e quando in chiusura un pianoforte diffonde le immortali note di Good Night possiamo andare a dormire sereni cullati dalla voce carezzevole di Sara Watkins.

Progetto inconsueto ma riuscito.

Bruno Conti

Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte II

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Seconda Parte.

Volendo, e potendo, a fatica e cercando con pazienza, si dovrebbe trovare ancora in giro il box The Complete Columbia Albums Collection – 16 CD – **** uscito nel 2013, raccoglie l’opera omnia del primo periodo, con in più due CD extra, The Hidden Treasures Of Taj Mahal, in studio e un formidabile Live At the Royal Albert Hall April 18 1970, ancora con Jesse Ed Davis alla chitarra, che quasi da soli varrebbero il prezzo, se già non ci fosse tutto il ben di Dio degli album ufficiali, cercatelo, ne vale la pena, in rete si trova ancora abbastanza facilmente, e anche il doppio si trova separatamente se avete già tutti gli altri CD.

1977-1997 Gli Anni Del Vorrei Fare Di Tutto, Ma Non Sempre Tutto Funziona.

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Anzi direi che non si salva molto di questo periodo, vediamo cosa.

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Dei tre album usciti su Warner tra il 1977 e il 1978 nessuno è particolarmente memorabile, forse il migliore è la colonna sonora di Brothers ***. Più interessante, ma introvabile Live & Direct *** registrato e pubblicato nel 1979. Per il resto negli anni ‘80 ci sono svariati dischi di canzoni per bambini e Taj – Gramavision uscito nel 1987, bella la copertina di Robert Mapplethorpe, ma per il resto è notte fonda.

Dancing_the_Blues

Like Never Before – 1991 Private *** è meglio, segnali di vita, ma se consideriamo che la migliore canzone è una ripresa di Take A Giant Step non ci siamo ancora. Buono anche Dancing The Blues – 1993 Private *** se non altro perché nel disco appaiono Bob Glaub, Richie Hayward, Etta James, Bill Payne, Ian MacLagan, e ci sono belle versioni di That’s How Strong My Love Is, Mocking Bird, Sitting On Top Of The World, I’m Ready. Da segnalare Mumtaz Mahal – 1995 Water Lily Acustics *** il disco con i due musicisti indiani N. Ravirikan e V.M. Bhatt, collaboratori anche di Ry Cooder.

Phantom_Blues

E pure Phantom Blues – 1996 Rca Victor *** non è niente male, anche qui c’è una serie di ospiti impressionante: Bonnie Raitt, Eric Clapton, Mike Campbell, David Hidalgo, Jon Cleary, tanto per citarne solo alcuni, produce John Porter, che suona anche la chitarra e notevole anche An Evening Of Acoustic Music – 1994 Ruf Records ***1/2 registrato in Germania nel 1994, che dimostra che le sue qualità di performer sono intatte.

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Il migliore di questo periodo è peraltro Senor Blues – 1997 **** che lo riporta ai fasti del passato, tanto che vince il premio come miglior disco di Blues Contemporaneo alla 40a edizione dei Grammy (una rarità, visto a chi li danno ai giorni nostri!). Niente ospiti ma una dream band con Tony Braunagel alla batteria, Jonny Lee Schell alla chitarra, Jon Cleary e Mick Weaver alle tastiere e i Texacali Horns come sezione fiati: ottima anche la scelta dei brani, tra cover e materiale scritto per l’occasione, tra cui Queen Bee dello stesso Taj e 21st Century Gypsy Singing Lover Man scritta con Jon Cleary, e tra le riprese Mr. Pitiful dell’amato Otis Redding, Think dei 5 Royales, Senor Blues di Horace Silver.

Mind Your Own Business di Hank Williams, complessivamente è di nuovo un piacere riascoltarlo tornato in grande spolvero, anche al dobro e all’armonica, per non dire della voce, più vissuta, ma sempre potente ed espressiva, sentire il brano di Otis, che grinta ragazzi!

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1998-2020

Hanapepe_Dream

Purtroppo è in parte un fuoco di paglia. Anche se i dischi di musica Hawaiiana, quelli con la Hula Blues Band sono affascinanti, Sacred Island – 1998 Private ***1/2 e Hanapepe Dream – 2003 Tone-Cool ***1/2 con una versione splendida di All Along The Watchtower. Per il sottoscritto eccellente anche il disco dal vivo Shoutin’ In Key – 2000 Private Music ***1/2, registrato nel 1998 con la Phantom Blues Band, in pratica la formazione del disco del 1997, con Danny Freeman aggiunto alla chitarra., ci sono ottime versioni di Honky Tonk, EZ Rider, Stranger In My Own Hometown di Percy Mayfield, Leaving Trunk, Corrina.

Tra il 2003 e il 2006, alla rinfusa, escono varie antologie tra le quali, nel 2003, quella della serie Martin Scorsese Presents The Blues***1/2, nel 2005 un altro disco dal vivo con la Phantom Blues Band In St. Lucia ***1/2, pubblicato anche in DVD, e nel 2004 un Taj Mahal Trio Live Catch ***1/2.

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Poi finalmente, per festeggiare 40 anni di carriera discografica, esce un disco nuovo di studio Maestro – 2008 Heads Up International**** altro disco di notevole caratura, con una quantità iperbolica di ospiti: i Los Lobos presenti in Never Let You Go e Tv Mama, Jack Johnson che duetta con TM in Further On Down The Road, Ben Harper in Dust Me Down, Angelique Kidjo in Zanzibar, Ziggy Marley in Black Man, Brown Man. In più c’è la presenza della Phantom Blues Band come gruppo di accompagnamento, Toumani Diabaté con il quale nel 1999 aveva realizzato un disco Kulanjan, che forse non abbiamo ricordato, e anche la figlia Deva Mahal, che era apparsa nei dischi di canzoni per bambini: ci sono anche Leo Nocentelli, Ivan Neville, Henry Butler, una corposa sezione fiati e il disco ha un suono splendido.

Nel 2009 partecipa come ospite attivo, in ben 9 brani, al disco American Horizon dei Los Cenzontles ***1/2. Poi Taj rallenta decisamente l’attività nella decade successiva: ma occorre citare almeno il delizioso album natalizio Talkin’ Christmas With The Blind Boys Of Alabama – 2014 Sony Masterworks ***1/2 dove le armonizzazioni si sprecano, un altro CD dal vivo, questa volta doppio, con la Hula Blues Band Live From Kauai – 2015 ***1/2 e diversi dischetti di materiale Live registrati nel 1966, 1974 e1978, sotto forma di broadcast radiofonici.

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Infine decide di unire le forza con Keb’ Mo’ per regalarci lo splendido TajMo – 2017 Concord **** che l’anno successivo vince nuovamente il Grammy per Best Contemporary Blues Album: tra le canzoni una inconsueta cover di Squeeze Box degli Who, Waiting On the World To Change di John Mayer e l’immancabile Diving Duck Blues di Sleepy John Estes, mentre tra gli ospiti ricordiamo Billy Branch all’armonica e Lizz Wright alla voce. Per la verità l’ultima apparizione è stata come ospite nell’ottimo disco della BB King Blues Band – The Soul Of The King – 2019 Ruf Records ***1/2 recensito dal sottoscritto su queste pagine.

Per una volta tanto abbiamo voluto dedicargli questa retrospettiva mentre questo grande e geniale artista è ancora vivo e vegeto: lunga vita quindi a Taj Mahal che il 17 maggio del 2022 compirà 80 anni, e che sia un auspicio. Stile musicale: file under Grande Musica!

Bruno Conti

Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte I

NEWPORT, RI - JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

NEWPORT, RI – JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

Henry Saint Claire Fredericks Jr in arte Taj Mahal, è veramente uno dei tesori assoluti (come il monumento da cui prende il nome) del Blues e delle sue derivazioni: contemporaneamente filologo ed innovatore, cantante appassionato alla Otis Redding e polistrumentista in grado di spaziare soprattutto tra chitarra, piano, banjo, e armonica, ma ne suona molti altri, con uno stile che incorpora, oltre alle classiche 12 battute, anche soul, R&B, rock, reggae, gospel, jazz, country, world music, con una predilezione per quella caraibica, voi le pensate e lui le suona, spesso fuse insieme in un tutt’uno magmatico che ne fa un musicista quasi unico. Con una discografia formidabile che cercherò di sviscerare in questo articolo/monografia sulla sua opera omnia.

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Nativo di Harlem, Manhattan, New York City, New York, per citare le esatte coordinate del luogo di partenza, Taj Mahal è poi cresciuto a Springfield, Massachusetts (non quella dei Simpsons, che è in Ohio o in Oregon, a seconda di come si sveglia il suo creatore), con babbo afro-caraibico, arrangiatore jazz e mamma componente di un coro gospel locale, quindi la musica certo non mancava in famiglia, subito in grado di distinguere tra la musica popolare e quella più raffinata che girava in casa, dove il jazz imperava, tanto che pare che Ella Fitzgerald avesse definito il padre “The Genius”. Padre che purtroppo morì ad inizio anni ‘50, quando Henry Jr., nato nel 1942 in piena guerra, aveva solo 11 anni: in un incidente sul posto di lavoro, perché la pagnotta, salvo rare eccezioni, non si guadagnava solo con la musica, ma attraverso altre professioni, nel caso di babbo Fredericks Sr,, una impresa di costruzioni. Dopo poco la mamma di Taj Mahal si risposò con un altro uomo, che possedeva una chitarra, e tramite un vicino di casa, che era il nipote di Arthur “Big Boy” Crudup (spesso la realtà supera la fantasia), ottenne le prime lezioni con lo strumento, e per il momento sfogava i suoi istinti vocali in un gruppo doo-wop alle scuole superiori, combattuto con l’altra sua grande passione che era quella di farsi una fattoria, tanto che molti anni dopo ha partecipato ad alcune edizioni del Farm Aid.

Quando arriva alla Università del Massachusetts ha già scelto il suo nome d’arte, ispirato dal Mahatma Gandhi e dalle culture orientali. Nel 1964 arriva a Santa Monica in California e l’anno successivo forma i Rising Sons con un giovanissimo (17 anni) Ry Cooder alla chitarra, Jesse Lee Kincaid anche lui alla chitarra, Gary Marker al basso e il futuro Spirit Ed Cassidy alla batteria, anche se dal 1965 arriva e quindi suona nel disco Kevin Kelley. A questo punto direi di iniziare a “sfogliare” l’imponente discografia del nostro amico, che mi sono (ri)ascoltata con grande piacere per scrivere l’articolo, ricca di album e di innumerevoli collaborazioni.

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Rising Sons Featuring Taj Mahal and Ry Cooder – 1992 Columbia Legacy ****All’epoca, pur avendo la band registrato materiale sufficiente per pubblicare un intero album, venne pubblicato, nel 1966, solo un singolo con 2 brani Candy Man b/w “The Devil’s Got My Woman che rimase allora assolutamente sconosciuto, anche se molti critici e giornalisti, nonché frequentatori della scena musicale, dicono che per certi versi anticipò molto delle scelte musicali di gruppi di quegli anni, dai Byrds ai Moby Grape, passando per Buffalo Springfield, Grateful Dead e Allman Brothers. Tutte cose che scoprimmo solo in seguito quando venne pubblicato il CD negli anni ‘90, con ben 22 tracce: prodotto da Terry Melcher il disco ha un suono splendido ed anticipatore, per quanto “ruspante”, sentito ancora oggi, pochi brani originali, quattro, scritti da Kincaid, una sfilza di classici del blues, e due brani d’autore, come un oscuro Dylan Walkin’ Down The Line e una splendida Take A Giant Step, scritta da Goffin/King, che poi diverrà una delle signature songs di Taj Mahal.

Ma tutto il disco è eccellente: da una vorticosa Statesboro Blues cantata con voce roca e stentorea da Taj a If The River Was Whiskey con Ry che comincia ad andare di slide, passando per l’ondeggiante Candy Man cantata coralmente, l’intima 2:10 Train arrangiata da Cooder con Mahal all’armonica, la vibrante Let The Good Times Roll, una 44 Blues che anticipa di anni i Little Feat, la dylaniana 11th Street Ovrecrossing, una corale raffinata Corrina, Corrina e così via. A questo punto il nostro, forte del suo contratto con la Columbia, inizia a pubblicare una serie formidabile di dischi solisti.

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Il Periodo Migliore, The Columbia Years 1968-1976

I primi due/tre dischi poi sono dei (quasi) capolavori , non gli ho dato 5 stellette solo per decenza, visto che ultimamente si sparano a destra e a manca anche per dischi che non le meritano, mi sono limitato “solo” a 4 ½ per ciascuno.

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Taj Mahal – 1968 Columbia ****1/2 Il disco omonimo, registrato nel 1967 e pubblicato l’anno successivo, è veramente formidabile, un disco di blues (rock) poderoso, che anticipa il suono degli Allman, con la doppia chitarra di Ry Cooder, però relegato spesso alla ritmica e al mandolino, e da quella ugualmente “letale” di Jesse Ed Davis, James Thomas e Gary Gilmore si alternano al basso, Sanford Konikoff e Chuck Blackwell alla batteria, mentre all’occorrenza Taj Mahal si ingegna con profitto anche a slide ed armonica, oltre a cantare come un uomo posseduto dalle 12 battute. Produce David Rubinson, il socio di Bill Graham, che poi lavorerà con Santana, Moby Grape, Elvin Bishop, Chambers Brothers.

Otto brani per 33 minuti circa, però non un secondo sprecato: Leaving Trunk di Sleepy John Estes apre l’album alla grande, con Taj subito infervorato e impegnato anche all’armonica, Statesboro Blues è ancora più potente di quella dei Rising Sons e anticipa la versione degli Allman, con il Nativo Americano Jesse Ed Davis alla slide, che poi nella successiva Checking Up On My Baby non ha nulla da invidiare al Mike Bloomfield della Butterfield Blues Band, con Taj Mahal ottimo di nuovo all’armonica e come cantante all’epoca aveva pochi uguali. Notevoli anche Everybody’s Got To Change Sometime di nuovo di Estes e il brano originale di Mahal Ez Rider che ha anche forti connotazioni R&B, grazie al groove del basso di Thomas, mentre Davis è sempre fantastico alla chitarra.

Trascinante la versione di Dust My Brown, dove Jess Ed oltre che ad una ficcante slide è impegnato anche al piano, con Taj che risponde colpo su colpo alla voce e all’armonica, prima di andare a pescare una terza cover del mai troppo lodato Sleepy John Estes con la gagliarda Diving Duck Blues e chiudere con una sublime versione del traditional The Celebrated Walkin’ Blues dove Ryland Cooder al mandolino e Taj Mahal alla slide e all’armonica, in quasi nove minuti distillano pura magia sonora, con una interpretazione vocale sempre magistrale. Lo stesso anno esce il nuovo album: Cooder non c’è più, al piano si aggiunge Al Kooper, Rubinson è sempre il produttore, mentre Davis cura anche gli arrangiamenti dei fiati per un disco che in un paio di brani aggiunge anche forti elementi soul.

A mio parere personale è addirittura superiore o almeno pari al precedente, con una versione colossale di You Don’t Miss Your Water la ballata di William Bell dove il nostro rivaleggia con Otis Redding in quanto a feeling e pathos, musica dell’anima meravigliosa.

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Comunque tutto

The Natch’l Blues – 1968 Columbia ****1/2 è di nuovo un disco superbo, imperdibile come il precedente. Almeno questi due sarebbero da avere a tutti i costi. Sette canzoni scritte dal nostro amico, di cui un paio di tradizionali riarrangiati, e due brani soul: oltre alla ricordata You Don’t Miss Your Water, c’è anche una cover della scatenata A Lot Of Love di Homer Banks, altro pezzo che rivaleggia con i migliori di Otis Redding, una sferzata di pura energia.

Il resto è di nuovo Blues elettrico di superba fattura: Good Morning Miss Brown con Mahal alla National steel bodied guitar e Kooper al piano, 12 battute scandite alla perfezione, Corinna arrangiata insieme a Davis è una ballata blues squisita cantata sempre con quella voce unica e preziosa, mentre I Ain’t Gonna Let Nobody Steal My Jellyroll è un blues elettroacustico di eccellente fattura, seguito da Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, intenso lentone elettrico con con ottimo assolo di Jesse Ed Davis.

Done Changed My Way Of Living è un lungo e vibrante Chicago Blues di nuovo eseguito in modo superlativo, e cantato anche meglio, con Mahal che si lancia anche in uno scat con la chitarra di Davis; She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride è uno dei brani più celebri scritti da Taj, lieve e deliziosa, con una andatura ondeggiante e maliziosa, costruita sull’armonica, mentre The Cuckoo è un intenso blues a doppia chitarra, con il basso di Gary Gilmore e la batteria di Earl Palmer, che sono la nuova sezione ritmica, in bella evidenza e con finale in crescendo. Detto dei due pezzi soul, nella edizione in CD del 2000 ci sono due bonus notevoli, come New Stranger Love, uno slow lancinante con eccellente lavoro della solista di Davis e ennesima grande interpretazione vocale, e la scattante Things Are Gonna Work Out Fine, uno scintillante strumentale con grande interplay tra armonica e chitarra. Nel 1968, il suo anno d’oro, partecipa anche al Rock And Roll Circus degli Stones,

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mentre l’anno successivo esce un altro dei suoi capolavori di inizio carriera, ovvero

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Giant Step/De Ole Folks at Home 2 LP Columbia 1969 ****1/2, un doppio, anche se poi in CD sarà singolo, visto che dura 70 minuti scarsi, ma nella versione Legacy del Box è in due CD, con un disco elettrico Giant Step, sempre prodotto da Rubinson, e l’altro acustico in solitaria, De Hole Folks At Home.

Nel primo disco nuovamente il classico quartetto (senza Al Kooper) e con Chris Blackwell che torna alla batteria, dove la percentuale si rovescia, tre brani di Taj e sei cover, tra cui alcune fantastiche: dopo la deliziosa fischiettata di Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ troviamo la splendida Take A Giant Step una ballata scritta da Carole King entrata nel repertorio di TM e da sempre a lui legata, con un lavoro squisito di Jesse Ed Davis. Good Morning, School Girl è l’antesignana di quella che diventerà Good Morning, Little Schoolgirl di Sonny Boy Williamson, come si sa nel blues si prende e si dà, per l’occasione il nostro sfodera un approccio più suadente, mentre You’re Gonna Need Somebody On You Own di Blind Willie Johnson è potente e scattante, con la versione di Six Days On The Road che dimostra che Mahal e soci sapevano trattare alla grande anche gli inni del country, sempre mantenendo quel tocco soul alla Redding, una sorta di antenato del country got soul.

Bacon Fat attribuita a Robertson/Hudson è in effetti un brano del vecchio repertorio con gli Hawks pre-Band, ma era nota per l’interpretazione di André Williams, un blues and soul in souplesse con TM sempre sublime. E anche le due canzoni scritte da Taj sono bellissime: Give Your Woman What She Wants, un blues sanguigno dove sfodera di nuovo il suo timbro alla Otis e Farther Down On The Road una ballad mid-tempo che è puro Americana sound, prima che venisse inventato e rimarrà uno dei suoi cavalli di battaglia.

Devo dire che riascoltandolo ho aggiunto mezza stelletta al disco, veramente magnifico, e in più nel secondo disco De Ole Folks At Home TM tocca le corde del blues più puro e non adulterato, quello a cappella vissuto di Linin’ Track di Leadbelly, il Country Blues #1 (il titolo dice tutto), dove accarezza la sua national con bottleneck in questo superbo strumentale, l’arcana Wild Oax Moan, Light Rain Blues, per voce e blues, Candy Man del Rev. Gary Davis con la stessa formula sonora, una solenne Stagger Lee, un divertente strumentale solo per armonica Cajun Tune, dovrei citarle tutte: facciamo così, ve lo comprate e andate ad ascoltarlo.

Dopo una pausa di due anni torna con

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Happy Just To Be Like I Am 1971 Columbia **** Dopo tre capolavori non è che il nostro amico potesse continuare a sfornare dischi di quel livello per sempre, quindi si assesta su degli album “solo” molto belli. Ancora due prodotti da Rubinson, questo e il successivo Live, con Jesse Edwin Davis, solo in due brani in Happy…,

il traditional Oh Susanna con un flautino (detto fife) suonato dallo stesso Mahal, in un pezzo comunque ancora vibrante e groovy come nei tre dischi passati, con fiati a go-go, e ottima anche la blues-rock song trascinante che è Chevrolet.

Stealin’ potrebbe tranquillamente passare per un pezzo della Band (vista la presenza del loro produttore John Simon al piano) o dei Little Feat, con TM che rende funky anche il mandolino/banjo con il suo stile inimitabile. Eighteen Hammers è un blues solo con chitarra acustica e “campanacci”, geniale come al solito, la title track con basso tuba e fiati a pompare di brutto è un altro errebì esultante di quelli tosti suoi, che non fanno rimpiangere Redding,

Stealin’, c’è da dire, blues “funkato” con uso di mandolino solista, ancora Simon al piano e fiati a profusione anticipa lo stile del vecchio pard Ry Cooder, poi impiegato a fine anni ‘70. Anche Tomorrow May Not Be Your Day va euforicamente a tutta tuba e fife, e ci indica quale avrebbe potuto essere la futura svolta sonora di Otis se non ci avesse lasciato così prematuramente. West Indian Revelation con steel drums e le congas di Rocky Dijon, giro Stones, aggiunte, vira verso ritmi caraibici sempre visti attraverso la squisita sensibilità musicale del nostro, che canta sempre in modo orgoglioso delle sue radici, per poi rispolverare la sua National con bottleneck nel suggestivo e quasi misticheggiante strumentale Black Spirit Boogie. Lo stesso anno esce anche un disco dal vivo.

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The Real Thing – 1971 Columbia **** Live alla Carnegie Hall, si parte con Fishin’ Blues, solo Taj in solitaria, ma poi entra una band di dimensioni rispettabili, dieci uomini sul palco, con fiati a profusione che possono riproporre il suo repertorio in modo rigoglioso e superbo (anche con qualche chicca):

Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ che era una fischiettata di due minuti scarsi su Giant Step, diventa uno straordinario e complessi brano di nove minuti, dove tutti i musicisti si prendono i loro spazi, dalla sezione fiati, tutti anche alla tuba, a John Hall alla chitarra e John Simon al piano, con il nostro che imperversa da quel fantastico performer che era, segue il funky-blues Sweet Mama Janisse, le 12 battute classiche di Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, e il pubblico approva ripetutamente. Nel finale arriva un dittico fantasmagorico con la sequenza John Ain’t It Hard, un blues dove TM ipnotizza i presenti ed una esuberante She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride, per chiudere con la tellurica e programmatica You Ain’t No Street Walker Mama,Honey But I Do Love the Way You Strut Your Stuff, che non dura neppure 19 minuti, e che sarà mai?

Fantastico, può bastare?

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Recycling the Blues & Other Related Stuff – 1972 Columbia ***1/2 è mezzo in studio e mezzo dal vivo, con il nostro da solo sul palco, ma uno in grado di suonare kalimba, banjo, steel-bodied guitar, contrabbasso non è mai da solo, e coglie l’occasione per proporre canzoni inconsuete, forse a parte Corinna. Anche nella parte in studio TM è da solo, se non ci fossero le scintillanti Pointer Sisters alle armonie vocali in versioni incredibili di Sweet Home Chicago e Texas Woman Blues.

Se tutti fossero in grado di “riciclare” in questo modo avremmo risolto il problema dei rifiuti nel mondo. Il ritmo delle uscite non rallenta ed esce subito anche

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Sounder – 1972 Columbia *** Prodotto da Teo Macero, quello di Miles Davis, si tratta di una colonna sonora, disco interessante ma interlocutorio, se ne può fare a meno.

Invece notevole il disco successivo

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Oooh So Good And Blues – 1973 Columbia ***1/2 ancora con la formula dell’one man band, rinforzato dalle leggiadre voci delle Pointer Sisters, che gorgheggiano da par loro in due brani originali Little Red Hen e Teacup’s Jazzy Blues Tune, con il titolo esplicativo e in una rilettura eccellente di Frankie And Albert dell’amato Mississippi John Hurt. Ottime anche Dust My Brown di Elmore James e Built For Comfort di Willie Dixon, dall’album in duo con Memphis Slim.

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Mo’ Roots – 1974 Columbia ***1/2 Ebbene sì, lo ammetto, e l’ho scritto varie volte, non sono un grande fan del reggae, con qualche piccola eccezione, e questo disco di TM rientra nella categoria, anche perché con la voce soave che si ritrova potrebbe cantare anche l’elenco telefonico (se esistesse ancora): comunque ottime Johnny Too Bad, la deliziosa Cajun Waltz dove si incontrano Louisiana e Giamaica, il tutto cantato in francese, con Carole Fredericks, la sorella di Taj e Claudia Lennear ad impreziosire il pezzo con le loro armonie, e anche la mossa Why Did You Have To Desert Me?, dove il nostro amico poliglotta canta anche in spagnolo.

A questo punto si ufficializza la svolta Afro-Caraibica, che non è quella che prediligo, lo ammetto, ed esce

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Music Keeps Me Together – 1975 Columbia *** il tastierista Earl Lindo del giro Bob Marley, Perry, Burning Spear è preminente, oltre a scrivere la title-track, lo stile è rilassato e piacevole, con incursioni nel jazz e funky, una strana versione reggae di Brown Eyed Handsome Man di Chuck Berry, le riprese di Further Down On The Road e la raffinata West Indian Revelation nella nuova veste sonora, le tre stellette sono di stima.

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Satisfied ‘N Tickled Too – 1976 Columbia *** E’ l’ultimo album ad uscire per la Columbia, anche questo, sempre a mio parere, non particolarmente memorabile. Salverei la title track, anche se Mississippi John Hurt fatto a tempo di reggae non mi fa impazzire, ma la canzone ha un suo fascino grazie all’uso della sua voce inconfondibile, anche New E-Z Rider Blues che sembra un brano di Marvin Gaye, funky il giusto e la lunga ballata soul Baby Love non sono male, anche se fin troppo leggerine, il delizioso scat di Ain’t Nobody’s Business è invece molto piacevole. Comunque si trova più funky che reggae nell’album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Solo Del Sano Vecchio Blues E Rock’n’Roll. Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times – Family Owned Records/Thirty Tigers

Dovrebbe essere l’undicesimo disco per il trio dell’indiana, portatori sani di vintage R&R, blues e rockabilly: Josh Peyton e soci, detti anche The Reverend Peyton’s Big Damn Band, ovvero The Reverend Peyton, che canta e suona vari tipi di chitarra, preferibilmente creati negli anni della Depressione, fine anni ‘20, anni ‘30, benché spesso costruiti comunque anche nella nostra epoca, “Washboard” Breezy Peyton, la moglie, che è facile intuire cosa suoni, e Max Senteney, alle prese con un drum kit veramente minimale. Dopo il disco precedente https://discoclub.myblog.it/2018/11/17/toh-guarda-chi-si-rivede-se-siete-giovani-vecchi-reverend-peytons-big-damn-band-poor-until-payday/l o scorso anno per loro è stato difficile, al di là che non hanno potuto suonare le consuete 250/300 date all’anno, hanno avuto vari problemi, di salute ed economici: Breezy è stata affetta da una forma di Covid non diagnosticata, non asintomatica, visto che non stava per nulla bene, al padre di Josh è stato trovato un cancro, comunque per usare una terminologia anni ‘50 che tanto amano, entrambi l’hanno “sfangata”, e vista l’inattività ne hanno approfittato per comporre, e poi registrare una serie di nuovi brani (finanziati anche dai fans, visto che senza concerti soldi non ne entrano), ispirati dalla vita durante la pandemia, che hanno chiamato Dance Songs For Hard Times.

A produrre è stato chiamato Vance Powell, già collaboratore di Jack White e Chis Stapleton, che li ha aiutati a ricreare il classico suono analogico e vintage dei loro dischi, per l’occasione il Reverendo, oltre alle consuete chitarre acustiche, ha utilizzato anche chitarre elettriche, ispirate dal Chicago Blues di Howlin’ Wolf e Muddy Waters, quindi più a nord delle 12 battute classiche ed abituali di Charley Patton, Bukka White e altre icone del blues del delta, anche quello dei juke joints e della Fat Possum.

Undici canzoni in tutto che partendo da Ways And Means un gagliardo blues and roll, dove le chitarre ruggiscono, le batterie “battono”, la voce è minacciosa il giusto, ma Breezy alleggerisce con i suoi coretti, con Josh che va di slide, il tutto condito da un divertente video registrato in una lavanderia, che fa molto anni ‘50. Rattle Can è un altro frenetico festival del bottleneck, più primevo ma sempre rabbioso nel suo dipanarsi tra blues e rockabilly, Dirty Hustlin’ è quasi una “strana” ballata porta però nel solito stile sgangherato della band, con il vocione volutamente sgraziato del nostro, una specie di Captain Beefheart meno estremo.

 I’ll Pick You Up è una sorta di boogie raccolto, se mai un giorno gli ZZ Top decidessero di fare un disco unplugged, Too Cool To Dance, sempre molto fifties, tra rockabilly e blues, Stray Cats con steroidi o Chuck Berry in crisi di ispirazione, in ogni caso piacevole, No Tellin’ When, con Josh in solitaria, vira verso il blues primigenio delle origini, con svisate di slide a piacere, mentre Sad Songs potrebbe ricordare, magari non la voce sopra le righe, certe cavalcate elettriche del compianto John Campbell, specie quando Peyton comincia ad andare di bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qm60sSzH3bE , con l’autobiografica (?) Crime To Be Poor, un brano cadenzato, dove il Reverendo per l’occasione sfodera pure l’armonica per un altro dei suoi deliranti “attentati” alle 12 battute, sempre con slide acustica preminente nel suono. L’urlata ‘Til We Die deve più di qualcosa a Elmore james e a tutti i suoi discepoli che da anni animano con i loro “colli di bottiglia” le vie del blues più genuino e anche Nothing’s Easy But You And Me trasuda vecchi ardori blues con grinta ed amore per le vecchie sonorità dei padri fondatori delle 12 battute, prima del congedo affidato alla combattiva Come Down Angels. Se amate il genere e la band sapete cosa aspettarvi, quindi niente sorprese, per gli altri solo del sano vecchio blues e Rock’n’Roll.

Bruno Conti

Si Sa Che Le Piante Grasse Hanno Vita Lunga! Cactus – Tightrope

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Cactus – Tightrope – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Non so in quanti si ricordino dei Cactus, gruppo di Long Island formato nel 1969 dall’ex sezione ritmica dei Vanilla Fudge, ovvero il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice (*NDB Io si! https://discoclub.myblog.it/2016/10/28/ci-riprovano-lennesima-volta-cactus-black-dawn/ ) . Fautrice di un hard rock con copiose iniezioni di blues (che li aveva fatti definire da qualche critico troppo entusiasta “i Led Zeppelin americani”), la band ebbe il suo momento di gloria dal 1969 al 1972, con la pubblicazione di quattro album che diedero loro una discreta popolarità; poi Bogert e Appice si unirono al grande Jeff Beck per registrare il seminale Beck, Bogert & Appice ed il gruppo si dissolse. Una prima reunion si ebbe nel 1976 per mano del cantante originale Rusty Day, ma la nuova formazione non consegnò alcunché ai posteri: per avere un nuovo album dei nostri bisognerà attendere il 2006 quando i redivivi Bogert e Appice (insieme anche al chitarrista originale Jim McCarthy, ex Detroit Wheels) pubblicheranno Cactus V, un lavoro peraltro abbastanza ignorato, cosa che peraltro capiterà anche a Black Dawn, uscito nel 2016.

Ora a sorpresa la band dello stato di New York ritorna con Tightrope, il loro settimo lavoro in studio: Appice è ormai rimasto l’ultimo tra i membri originali (Bogert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno, ma non faceva più parte del gruppo già da anni) e si è circondato di onesti mestieranti come il chitarrista Paul Warren (per anni con Rod Stewart), il bassista Jimmy Caputo, l’armonicista Randy Pratt ed il cantante Jimmy Kunes, con McCarthy che si limita ad una comparsata in un paio di canzoni. Devo dire in tutta sincerità che non mi aspettavo nulla di buono da questo nuovo lavoro della band, sia perché Appice è uno che per soldi suonerebbe anche nella sigla di Peppa Pig, sia per il fatto che il gruppo in sé è formato da comprimari, ed anche perché la Cleopatra (etichetta di Los Angeles che distribuisce il CD) spesso non è garanzia di qualità. Invece in parte mi devo ricredere: Tightrope non è certamente un capolavoro, ma neppure una ciofeca, ed in poco più di un’ora (forse anche venti minuti in meno sarebbero bastati) riesce ad intrattenere con una bella dose di rock-blues di matrice hard, un suono decisamente robusto che negli anni 70 andava per la maggiore.

Appice sarà quello che sarà, ma quando si siede ai tamburi picchia ancora come un fabbro, Kunes è un cantante sufficientemente potente ed espressivo e le parti chitarristiche non sono disprezzabili, anche se qua e là i suoni sono un po’ tagliati con l’accetta. Si parte in maniera potente con la title track, rock-blues roccioso con reminiscenze zeppeliniane sia nel sound che nel cantato: forse il songwriting non è proprio di prima scelta ma lo scopo viene comunque raggiunto grazie ad una buona tecnica ed una discreta dose di feeling. Papa Was A Rolling Stone è proprio la vecchia hit dei Temptations, anche se qui il pezzo viene completamente stravolto diventando una rock song sanguigna alla quale l’armonica dona un sapore blues; All Shook Up invece non è quella di Elvis ma una canzone nuova, un rock’n’roll con chitarre al vento e steroidi a mille, mentre Poison In Paradise è una riuscita ballatona elettrica dai forti umori blues, notturna, cadenzata e sinuosa.

Con Third Time Gone si torna a pestare duro, ma il suono di fondo ha forti connessioni southern, a differenza delle solide Shake That Thing e Primitive Touch che rimandano ancora all’ex gruppo di Page & Plant, pur non raggiungendo gli stessi livelli di eccellenza (e ci mancherebbe). Preaching Woman Man Blues è appunto un buon blues saltellante, adatto per la voce arrochita di Kunes ed abbastanza coinvolgente grazie anche all’ottima prestazione di tutta la band; Elevation, puro hard rock ancora dalle tinte blues, porta al pezzo centrale del CD, ovvero la lunga Suite 1 And 2: Everlong, All The Madmen, rock ballad soffusa e quasi psichedelica che rimanda decisamente al sound di fine sixties, con la chitarra di Warren che nel finale si erge a protagonista assoluta. La vivace Headed For A Fall, puro blues dal ritmo acceso, ed il rock anni 70 di Wear It Out chiudono un disco che, pur non essendo affatto imprescindibile, è molto meglio di quanto avessi previsto.

Marco Verdi

Un Bellissimo Tributo Ad Uno Dei Più Grandi Chitarristi Del Blues-Rock Britannico. Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac

Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac

Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac – BMG Rights Management 2CD + Blu-ray

Chi mi legge abitualmente sul Blog (e sul Buscadero) sa della mia predilezione assoluta per Peter Green, che considero uno dei dieci più grandi e geniali chitarristi della storia del rock e del blues (anzi forse, ma è un parere personale, nella Top 5, subito dopo Jimi Hendrix e la triade Clapton-Beck-Page, e nel 1970, il suo anno migliore, come mi è capitato di scrivere più volte, di nuovo, forse era stato il migliore in assoluto): se volete verificare usate la funzione “Cerca” nel Blog e troverete parecchi Post dedicati ai Fleetwood Mac e a Peter Green, l’ultimo scritto alla sua morte il 25 luglio del 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/07/25/se-ne-e-andato-silenziosamente-nella-notte-peter-green-uno-dei-piu-grandi-chitarristi-del-rock-fondatore-dei-fleetwood-mac/ , e lì troverete ovviamente anche la sua storia, che non ripeto qui per brevità.

Ma nel febbraio del 2020, il giorno 25, proprio pochi giorni prima dello scoppio della pandemia, si è tenuto al Palladium di Londra un concerto celebrativo della sua musica, organizzato dal suo grande amico e compagno di avventura Mick Fleetwood, con la partecipazione di una sorta di parterre de roi (e qualche carneade) di amici ed ammiratori del grande musicista londinese, riuniti per celebrarne l’arte e la musica: il concerto, come poi è stato, dopo vari annunci e rinvii, doveva diventare anche un progetto discografico. All’inizio solo un costoso cofanetto con vinili, CD e Blu-ray, poi per fortuna anche un doppio CD con annesso Blu-ray, che è quello di cui andiamo ad occuparci.

La house band sul palco è eccellente, oltre a Fleetwood alla batteria, ci sono Dave Bronze al basso, Andy Fairweather-Low alla chitarra, un habitué di questi tributi, e Ricky Peterson alle tastiere, aumentati da Zak Starkey (il figlio di Ringo), sempre alla batteria, Rick Vito e Jonny Lang alle chitarre e voci aggiunte. Ma non mancano chitarristi, cantanti e musicisti vari tra gli ospiti chiamati per la serata: diciamo che il cast non è perfetto, ci sono alcuni musicisti poco pertinenti alla sua musica, ma presenti in quanto ammiratori e qualcuno forse un po’ bollito o fuori ruolo, ma il tutto si ascolta con grande piacere e ci sono vari momenti di grande fascino e pathos. Dopo l’introduzione di Fleetwood si parte con una solida Rolling Man affidata al bravo Rick Vito, che ha fatto parte anche lui in passato dei Fleetwood Mac, ben spalleggiato da Jonny Lang, per il classico sound a doppia solista tipico della band, poi tocca a Lang, per una eccellente e tirata Homework. In Doctor Brown sale sul palco Billy Gibbons, che poi rimarrà per tre brani complessivi, con il suono che si fa più sanguigno, anche se la voce è quella che è, seguita dal super classico All Your Love, uno dei classici del Bluesbreakers, e quindi è quasi inevitabile la presenza di John Mayall, ancora in buona voce, mentre le chitarre lavorano di fino.

Dopo l’inizio molto blues si passa alla selvaggia Rattlenake Shake, con Steven Tyler degli Aerosmith, anche alla armonica, e il chitarristi che cominciano a darci dentro di gusto, ma anche Mick Fleetwood rolla alla grande, peccato che il brano duri solo cinque minuti scarsi, di fronte ai tour de force di venti minuti e oltre dell’epoca d’oro di Greeny. A questo punto arriva sul palco un’altra componente storica dei Mac, ovvero Christine McVie, tuttora nella line-up della band, che canta con gran classe Stop Messin’ Around con Tyler ancora all’armonica e una felpata e sentita Looking For Somebody. Di Nuovo Lang per Sandy Mary e Rick Vito, anche alla slide, per una bellissima Love That Burns, mentre il prossimo ospite, forse un po’ imbucato, è Noel Gallagher degli Oasis, che rimane per ben tre brani, e alla fine se la cava in questa parte acustica del concerto, con The World Keep On Turning e Like Crying, poi affiancato da Vito, di nuovo alla slide in No Place To Go.

Il secondo CD si apre con Pete Townshend sul palco che racconta la genesi del brano Station Man scritto da Danny Kirwan per Kiln House, quando Green non era più presente in formazione, ma con un riff che ha chiaramente influenzato quello di Won’t Get Fooled Again degli Who, grande versione tra l’altro. E per uno degli altri classici di PG, ovvero l’elegante Man On The World, ecco arrivare sul palco Neil Finn dei Crowded House (ma di recente anche lui nei Fleetwood Mac).

Tornano poi sul palco Gibbons e Tyler per una poderosa ripresa di Oh Well Part 1, un brano, un riff, un classico, e a seguire nella sognante Part 2 un ispirato David Gilmour che rende omaggio alla tecnica sopraffina di Green, Poi arrivano altri classici a raffica, prima una soave Need Your Love So Bad interpretata con grande feeling da Jonny Lang, e poi una santaniana Black Magic Woman con un ottimo Rick Vito e la band che finalmente si lascia andare in una lunga versione di oltre sette minuti con assoli a ripetizione. Prima del gran finale c’è una sezione dello spettacolo dedicata a Jeremy Spencer, maestro del bottleneck e grande appassionato di Elmore James (ma anche con una grande macchia nel suo passato per le ripetute accuse di pedofilia, confermate in varie cause, ricevute durante il periodo dei Children Of God) che esegue una intima e raffinata The Sky Is Crying, seguita da una galoppante I Can’t Hold Out con Bill Wyman al basso.

Nei bis sale sul palcoscenico anche la chitarra Les Paul del 1959 di Peter Green, nelle mani del suo attuale proprietario, il chitarrista dei Metallica Kirk Hammett, che insieme a Billy Gibbons ci regala una gagliarda e selvaggia The Green Manalishi (With The Two Prong Crown) che viene considerato uno dei primi casi di proto/heavy metal, ma averne di metal così! Il più grande successo dei Fleewood Mac dell’era Green fu lo strumentale Albatross, del quale David Gilmour, seduto alla sua pedal steel, ci regala una versione sublime. Il gran finale, con tutto il cast sul palco, è dedicato ad una debordante Shake Your Money Maker.

E speriamo che questo grande genio della musica che fu Peter Green riposi finalmente riconosciuto da tutti e in pace.

Bruno Conti

Una Bella Festa Musicale All’Insegna Del Miglior Country-Rock Californiano. Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour/Deliverin’ Again

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Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour /Deliverin’ Again– DSDK 2CD o DVD

Quando si pensa al country-rock californiano in voga a cavallo tra gli anni 60 ed i 70, la mente va subito agli Eagles (anche se il loro esordio avverrà solo nel 1972) e poi ai Byrds (gli ultimi anni), ai Flying Burrito Brothers e per molti anche a CSN&Y, nonostante nel famoso supergruppo la componente country non fosse molto presente. In pochi invece si ricordano dei Poco (scusate il bisticcio di parole), gruppo formato nel 1968 per iniziativa degli ex Buffalo Springfield Richie Furay e Jim Messina (quest’ultimo era entrato negli Springfield un attimo prima del loro scioglimento) ed autori di alcuni ottimi album specie nel primo periodo fino al 1976 (ma vi parlerà prossimamente del gruppo in maniera più dettagliata Bruno, con una retrospettiva ad hoc). Oggi i Poco sono ancora in vita con una formazione completamente rimaneggiata (l’unico membro presente in tutte le varie lineup, Rusty Young, è passato a miglior vita da neanche un mese, ma comunque si era già ritirato da qualche anno), e quindi l’unico ex componente a tenere alto il vessillo del gruppo è rimasto proprio Furay, che ha appena pubblicato un bellissimo doppio CD dal vivo, 50th Anniversary Return To The Troubadour, che celebra la stagione d’oro della band da lui fondata, e della quale fino al 1973 è stato uno dei principali autori e voci soliste.

A dire il vero in questo live, che documenta una serata speciale al Troubadour di Los Angeles nel 2018, non è ben chiaro cosa venga festeggiato, in quanto i 50 anni del titolo partono in effetti dal ’68, con i nostri che all’inizio si facevano chiamare Pogo ed al Troubadour avevano tenuto i loro primi concerti, ma poi nel secondo CD viene riproposto canzone per canzone il live Deliverin’, uscito in effetti a gennaio del 1971 ma che col Troubadour non c’entra una mazza essendo stato registrato nel 1970 a Boston e New York. Facezie a parte, 50th Anniversary Live At The Troubadour è un album davvero bellissimo, in cui un Richie in ottima forma ci fa rivivere una stagione unica e irripetibile della nostra musica, con una prima parte di concerto, intitolata Still Deliverin’, che offre una panoramica del meglio della sua carriera, mentre nel secondo dischetto (Deliverin’ Again), come ho già detto troviamo l’omaggio al live del ’70. Furay è ancora in possesso di una voce bella e giovanile, e viene accompagnato da una band solidissima che vede sua figlia Jesse Furay Lynch alle armonie vocali, Scott Sellen alle chitarre e banjo, Jack Jeckot alle tastiere, armonica e chitarra, Aaron Sellen al basso, Alan Lemke alla batteria, Dave Pearlman alla steel guitar e dobro e, nella seconda parte, un ospite speciale a sorpresa che vedremo a breve.

Si parte col botto con il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, scritta da Neil Young ma cantata da Richie anche in origine, preceduta da una lunga intro strumentale in crescendo e col ritmo subito alto: grande melodia e refrain, chitarre in palla e coretti che profumano di California. Dal repertorio degli Springfield in questa prima parte Furay suona anche Go And Say Goodbye (di Stephen Stills, ma l’avevano incisa anche i Poco), gustoso country-rock con banjo e chitarre in gran spolvero ed un eccellente ritornello corale, e quattro pezzi dei Poco, a partire dalla splendida Let’s Dance Tonight (dall’album Crazy Eyes, l’ultimo con Richie), rock song di livello assoluto con un motivo solare ed irresistibile, eseguita in modo grintoso e con ottimi intrecci vocali tra padre e figlia (e Furay dimostra di avere ancora l’ugola di un trentenne). Due brani provengono dall’omonimo secondo album della band, la slow ballad Don’t Let It Pass By, distesa, rilassata e con un bell’assolo di armonica, ed una strepitosa rilettura di quasi nove minuti della sontuosa rock ballad Anyway Bye Bye, piena di stop and go, cambi di ritmo, melodia superba, chitarra di Sellen in tiro ed anche un intermezzo pianistico quasi jazzato.

Stranamente Furay sceglie anche una canzone recente dei Poco, e che quindi non gli appartiene: Hard Country proviene dall’ultimo studio album del gruppo All Fired Up (2013), ed è una incantevole ed ariosa country ballad splendidamente eseguita e lasciata alla voce squillante di Jesse, una piccola ed inattesa gemma. Infine Richie propone quattro pezzi dal suo repertorio solista (purtroppo nessuno dal bellissimo The Heartbeat Of Love del 2006), che reggono molto bene il paragone con i pezzi classici, e di cui tre provengono dal suo lavoro più recente Hand In Hand, 2015: la pulsante e coinvolgente We Were The Dreamers, dedicata proprio ai suoi anni nei Poco e con un’altra melodia da applausi, la limpida e toccante ballata Wind Of Change, altri sei minuti di grande musica tra organo, chitarre ed armonie vocali da brivido, e l’incalzante Someday, puro country-rock che dimostra la sicura influenza che il nostro ha avuto sugli Eagles; per finire con il travolgente bluegrass elettrico Wake Up My Soul (una delle bonus track di studio inserite nel disco dal vivo Alive del 2016), ennesimo pezzo delizioso sotto ogni punto di vista, con il banjo ancora sugli scudi.

E veniamo alla seconda parte ed alla riproposizione di Deliverin’, che conteneva ben cinque canzoni inedite, una da Poco, quattro dall’esordio Pickin’ Up The Pieces e due dei Buffalo Springfield. Si inizia con un uno-due decisamente potente e rockeggiante formato da I Guess You Made It e C’mon, entrambe con il solito aroma country di base; a questo punto sale sul palco il già citato ospite, ovvero un applauditissimo Timothy B. Schmit, che dopo l’esordio del 1969 aveva sostituito nei Poco il bassista Randy Meisner (cosa che si ripeterà negli Eagles): il lungocrinito Tim impreziosisce con la sua voce angelica Hear That Music, da lui anche scritta, un altro country-rock assolutamente trascinante. E’ poi la volta della languida country ballad Kind Woman con la steel in grande evidenza, una delle più belle canzoni di Richie, scritta all’epoca degli Springfield per la sua futura moglie (con la quale è ancora insieme dopo 51 anni), seguita da tre pezzi suonati in medley esattamente come sul live del 1970: lo squisito country-grass Hard Luck e le note A Child’s Claim To Fame e Pickin’ Up The Pieces, due canzoni una più bella dell’altra. L’orecchiabile ed avvincente You Better Think Twice è un omaggio del nostro al suo autore Jim Messina, ed è seguita dal ruspante rockin’ country A Man Like Me; finale con un altro strepitoso medley di ben undici minuti che mette in fila Just In Case It Happens, Yes Indeed, lo strumentale Grand Junction e Consequently So Long, in un tripudio di ritmo, chitarre, steel e cori da pelle d’oca. Ma c’è spazio anche per un bis (ancora con Schmit sul palco a duettare con Richie), una fulgida versione della title track dell’album A Good Feelin’ To Know (1972, uno dei più belli dei Poco), che chiude definitivamente un concerto magnifico ed un live che sarà sicuramente tra i migliori dischi dal vivo del 2021.

Marco Verdi

Un Disco Diverso…Figlio Del Lockdown E Delle Sue Dolorose Conseguenze! Todd Snider – First Agnostic Church Of Hope And Wonder

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Todd Snider – First Agnostic Church Of Hope And Wonder – Aimless Records

Tutti gli appassionati conoscono Todd Snider come uno dei migliori cantautori del genere Americana emersi negli ormai lontani anni novanta. Nato a Portland, Oregon, girovagò in giovane età tra Houston, Texas, e Santa Rosa, California, di nuovo nel Lone Star State ad Austin, dove assistendo ad un concerto di Jerry Jeff Walker decise che avrebbe fatto quel tipo di carriera, e infine a Memphis, Tennessee, dove fu notato da Keith Sykes, cantautore e produttore che lo presentò all’amico Jimmy Buffett, grazie al quale ottenne il primo contratto discografico con la major MCA. Esordio fulminante nel ’94 con l’ottimo Songs For The Daily Planet, seguito a breve dagli altrettanto positivi Step Right Up e Viva Satellite, in cui oltre alla brillante combinazione di folk, rock e alternative country mise subito in mostra notevoli doti di paroliere, con uno stile ironico e sferzante che non risparmia nessun aspetto dell’establishment a stelle e strisce. Altro incontro determinante fu quello con John Prine, con cui Todd maturò una solida e fruttuosa amicizia, incidendo nella prima decade dei duemila un’altra bella serie di album per l’etichetta personale di Prine, la Oh Boy Records.

Altri ne seguirono, tutti più o meno apprezzati dalla critica specializzata e dal suo fedele zoccolo duro di fans, presente anche in Europa, fino ai giorni nostri ed al fatidico 2020, l’annus horribilis del Covid e del lockdown. Nel giro di poco tempo, Snider perde tre dei suoi migliori amici, mentori e collaboratori, Jerry Jeff Walker (a cui aveva dedicato un ottimo tribute album nel 2012, Time As We Know It), John Prine e Neal Casal, con cui nell’ultimo decennio aveva fondato una band chiamata Hard Working Americans con due dischi all’attivo. Queste gravi perdite devono averlo segnato parecchio e potrebbero essere una chiave di lettura per comprendere la strana svolta stilistica del nuovo lavoro, il cui titolo è già tutto un programma, First Agnostic Church Of Hope And Wonder. Significativa mi sembra questa sua recente dichiarazione: …Dopo il mio precedente album Agnostic Hymns mi sentivo a corto di idee e non sapevo quale direzione prendere …sono arrivato a questo disco sperando di avere qualcosa di nuovo da dire…volevo fare quello che chiamano funk…avevo ascoltato molto i Parliament e James Brown e molta musica reggae…E’ imbarazzante ammetterlo ma ho cercato di pensare a questo suono per tutta la vita!…

E i primi ad essere imbarazzati siamo noi, non appena partono le prime note del brano di apertura, Turn Me Loose (I’ll Never Be The Same), un insistito groove ritmico su cui si sovrappongono la chitarra acustica e l’armonica in un climax funky-blues che rimanda a Sly Stone. La successiva The Get Together è ancora più straniante, sembra il risultato di una session ad alto tasso alcolico, con i pochi strumenti che sembrano andare per conto loro e la voce allucinata del protagonista che pare reduce da un incubo. Non andiamo meglio né con la monotona ed incolore Never Let A Day Go Bye e neppure con l’urticante funky di That Great Pacific Garbage Patch. Date pure un’occhiata anche ai video che accompagnano questa uscita, in cui si non si può fare a meno di notare lo stato dimesso e sofferente del nostro protagonista nella stanza semi buia dello studio di registrazione di Nashville dove queste canzoni sono state incise. Per fortuna tracce della vecchia ispirazione riemergono nel delicato ricordo di John Prine eseguito con piano ed armonica nella malinconica Handsome John e ancor più nell’altra ballad Sail On, My Friend, dedicata alla memoria di un altro amico, Jeff Austin, leader della formazione bluegrass Yonder Mountain String Band, deceduto prematuramente nel 2019.

Battle Hymn Of The Album potrebbe essere un moderno canto destinato ai detenuti nei campi di lavoro forzato, col suo botta e risposta tra voce solista e coro, mentre di Stoner Yodel Number One salverei solo il contenuto sarcastico del testo. Imbarazzante pure Agnostic Preacher’s Lament, che parte come una finta prova di orchestra e si sviluppa sul solito riff iponotico di percussioni e la voce recitante del protagonista. Finalmente nel pezzo conclusivo, The Resignation vs.The Comeback Special, quantomeno si apprezza un discreto lavoro strumentale dei due collaboratori di Todd, il percussionista Robbie Crowell e il polistrumentista Tchad Blake. Può darsi che qualche critico a la page d’oltre oceano decida di tessere le lodi di questa svolta tra Beck e i Funkadelic che Todd Snider ha deciso di intraprendere, io però preferisco aspettare che la grande depressione passi senza fare altri danni e che ce lo restituisca con lavori degni del suo meritevole passato.

Marco Frosi