Il Gabbiano Jonathan Vola Sempre Alto! Jonathan Wilson – Rare Birds

jonathan wilson rare birds

Jonathan Wilson – Rare Birds – Bella Union Records

La prima volta che vidi sul palco Jonathan Wilson non sapevo neppure chi fosse. Mi trovavo con alcuni amici a San Sebastian per assistere ad un concerto di Jackson Browne , che, per l’occasione, doveva suonare insieme alla giovane band californiana dei Dawes, talentuosi esordienti il cui secondo disco, Nothing Is Wrong, era stato prodotto proprio da Jonathan Wilson. Il calendario datava 24 luglio ma sembrava ottobre inoltrato, la magnifica spiaggia su cui torreggiava il grande palco del festival Jazzaldia era zuppa per la pioggia che era caduta quasi incessantemente tutto il giorno, accompagnata dal vento freddo proveniente dall’oceano. A riscaldarci furono prima gli stessi Dawes, con un’esibizione sanguigna e coinvolgente, poi, a mezzanotte e mezza passata (ma per gli spagnoli è ancora presto…), il buon Jackson con i suoi classici immortali, supportato egregiamente dal gruppo dei fratelli Goldsmith e dal loro produttore. Alto e magro, capello lungo e barba incolta, Wilson sembrava una di quelle tipiche icone californiane degli anni settanta. Mostrò subito la stoffa del leader, come ottimo chitarrista e corista, e Browne gli cedette la scena per fargli eseguire Gentle Spirit, la lunga e affascinante ballad che dà il titolo all’ album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco https://discoclub.myblog.it/2011/08/08/un-jonathan-tira-l-altro-da-laurel-canyon-e-dintorni-jonatha/ .

Esattamente due anni dopo la scena si è ripetuta al Carroponte, spazio concertistico alle porte di Milano, con la sostanziale differenza che stavolta Jonathan era l’unico protagonista della serata con la sua band. Io, gli amici e ciascuno dei presenti ci siamo goduti un’esibizione esaltante di rock imbevuto di psichedelia e divagazioni folk di chiara matrice californiana. I brani, spesso dilatati da pregevoli parti strumentali in cui giganteggiava la chitarra del leader, ben coadiuvato dai suoi compagni, davano l’idea di un musicista maturo, abile riesumatore di suoni del passato assemblati con gusto ed intelligenza. Questa impressione fu pienamente confermata dall’uscita del successivo album Fanfare, nell’ottobre del 2013, che fece incetta di critiche positive un po’ ovunque, generando al contempo un equivoco che perdura ancora oggi, ovvero il considerare Jonathan Wilson come una sorta di erede del suono californiano degli anni d’oro di quella comunità di musicisti che si era formata nei dintorni di Los Angeles nell’area di Laurel Canyon (dove tuttora Jonathan possiede uno studio di registrazione, rinomato per le sue preziose apparecchiature analogiche). La varietà delle fonti d’ispirazione da cui Wilson attinge è molto più ampia e complessa, riguarda tanto il contesto americano quanto quello britannico, come testimonia la sua produzione e collaborazione con una colonna del folk rock inglese come Roy Harper, oppure la recente partecipazione all’ultimo album di Roger Waters e al successivo tour che è appena andato in scena nei palasport italiani, dove Jonathan si esibisce come seconda chitarra, cantando le parti che erano di David Gilmour.

Rare Birds , il nuovo album pubblicato all’inizio di marzo, lo evidenzia ancora di più, nelle tredici lunghe tracce che il suo autore ha definito cosmiche, originate da uno stato d’animo spesso non positivo, il tentativo di superare una situazione di abbandono e di solitudine. Wilson mescola sapientemente sonorità vintage usando l’elettronica accanto a strumenti tradizionali, creando un connubio quasi sempre riuscito e piacevole. L’iniziale Trafalgar Square si apre come una citazione della pinkfloydiana Breathe, con le voci registrate e la languida steel guitar sullo sfondo, poi una sventagliata di mandola apre la strada ad un’elettrica dal suono sporco e la canzone prende corpo in modo efficace. Ancora meglio Me, che parte sonnacchiosa e si sviluppa in modo avvolgente fino all’esplosione finale che vede protagonista una chitarra distorta e urticante. Over The Midnight, coi suoi furbi campionamenti stile anni ottanta, ha una struttura melodica che inevitabilmente conquista e invita a premere sull’acceleratore durante le guide notturne. There’s A Light ci rituffa in California, con una bella lap steel a condurre le danze e una melodia ancora accattivante, con le belle armonie vocali delle Lucius. Il pianoforte domina la nostalgica Sunset Blvd, fino alla conclusiva stratificazione di suoni che rimanda a certe composizioni del suo quasi omonimo, l’inglese Steven Wilson. La title track offre acide sventagliate di chitarra che è facile accostare al maestro Neil Young, nulla di nuovo, ma certamente gradevole. 49 Hairflips scava ancora nel melodramma di un amore finito, il piano si fonde in un magma di tastiere dall’effetto evocativo e malinconico.

In Miriam Montague convivono i Kinks e l’Electric Light Orchestra in una specie di mini suite non particolarmente esaltante. Meglio il mantra ipnotico Loving You che, grazie ai vocalizzi del guru della new age Laraaji ci conduce in territori insoliti ed evocativi. Ancora atmosfere notturne dominano la successiva Living With Myself che gioca sul contrasto tra le strofe crepuscolari ed un ritornello solare. Il synth sullo sfondo sembra rubato a quello che Roy Bittan suonava in Downbound Train o in I’m On Fire  Boss, e che dire allora della rullata di batteria campionata su cui si basa tutta la ritmica della successiva Hard To Get Over? Andate a riascoltare l’intro di Don’t Come Around Here No More di Tom Petty (e Dave Stewart) e non potrete ignorarne la somiglianza. Dall’episodio meno riuscito del disco ad uno dei più positivi, il country scanzonato e un po’ ruffiano di Hi Ho To Righteous, in cui convivono lap steel e disturbi rumoristici quasi a voler parodiare inni del passato come Teach Your Children. Notevole anche qui il finale in crescendo che ci conduce alla rarefatta e conclusiva Mulholland Queen, una intensa e disperata confessione che si sviluppa sulle note del piano e dell’orchestra in sottofondo. Fra echi e rimandi non si può dire che Rare Birds sia un disco innovativo e neppure un capolavoro (e certo non merita le critiche negative che qualcuno, pochi, a torto gli hanno appioppato), eppure ascoltarlo fa lo stesso effetto che guidare su una strada panoramica: ad ogni curva ti puoi imbattere in uno scorcio bello ed emozionante.

Marco Frosi

Il Gabbiano Jonathan Vola Sempre Alto! Jonathan Wilson – Rare Birdsultima modifica: 2018-04-26T10:20:45+02:00da bruno_conti
Reposta per primo quest’articolo