Quando Si Hanno A Disposizione Canzoni Così, Perché Scriverne Di Nuove? Dervish – The Great Irish Songbook

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Dervish – The Great Irish Songbook – Rounder/Concord

Il titolo di questo post va letto come una provocazione, in quanto c’è sempre bisogno di nuove canzoni (soprattutto quando sono belle), ma è chiaro che se si decide di rivolgersi allo sterminato songbook di ballate popolari irlandesi non è difficile fare un disco degno di nota, bastano i musicisti giusti, il talento ed il feeling (hai detto niente…), qualità delle quali il gruppo di cui mi occupo oggi è ben provvisto. Originari di Sligo, una contea a nord della repubblica d’Irlanda, i Dervish sono quasi arrivati anche loro alla scadenza dei trent’anni di attività: anzi, se iniziamo a contare dal disco omonimo intestato a The Boys Of Sligo, cioè il nucleo storico attorno al quale si sono poi aggiunti altri membri, gli anni sono proprio trenta (mentre il vero e proprio esordio a nome Dervish, Harmony Hill, risale al 1993). Anniversario o no, i Dervish sono ormai una delle più popolari e longeve band dell’isola color smeraldo, e direi anche una delle migliori e più coerenti, in quanto hanno sempre portato avanti la difesa delle tradizioni, sia proponendo brani antichi sia scrivendone di nuovi ma con gli stilemi delle ballate di secoli addietro.

E la strumentazione da loro usata riflette questa filosofia, uno spiegamento di chitarre, bouzouki, whistle, mandolini, bodhran, fisarmoniche, flauti, violini, banjo e chi più ne ha più ne metta, un suono di chiaro stampo tradizionale, però con un approccio moderno, forte ed appassionato. A ben sei anni dal loro ultimo lavoro, The Thrush In The Storm, i Dervish tornano tra noi con un album nuovo di zecca (il primo targato Rounder) dal titolo inequivocabile di The Great Irish Songbook, nel quale i nostri omaggiano in maniera superba alcune tra le più belle canzoni della loro terra d’origine, qualcuna molto famosa qualcuna meno, e lo fanno con l’aiuto di una lunga serie di ospiti importanti, in molti casi americani. Grande musica, canzoni splendide suonate in maniera sopraffina dal gruppo, un sestetto guidato dalla cantante Cathy Jordan, completato da Liam Kelly, Shane Mitchell, Tom Morrow, Michael Holmes, Brian McDonagh e con l’importante aiuto esterno di Seamie O’Dowd, quasi un membro aggiunto, dal produttore Graham Henderson che si occupa anche di pianoforte e harmonium e di altri sessionmen sparsi qua e là. Oltre naturalmente ai già citati ospiti (che vedremo man mano), i quali danno maggior lustro ad un  disco che però sarebbe stato bello anche senza di loro: tredici brani, un’ora abbondante di musica.

The Rambling Irishman inizia con una chitarra acustica cristallina e la bella ed espressiva voce della Jordan, per un brano dal motivo profondamente tradizionale, una ballata sul tema dell’emigrazione dalla natia Irlanda eseguita con vigore e partecipazione. Gli ospiti iniziano con There’s Whiskey In The Jar (uno dei pezzi più famosi della raccolta, l’hanno fatta in mille, persino Thin Lizzy e Metallica), e stiamo parlando degli SteelDrivers, bluegrass band americana in cui milita la nota violinista Tammy Rogers ed il cui ex cantante è Chris Stapleton: inutile dire che il suono è ricco e corposo (due band più altri strumentisti, sono in tredici a suonare) ed il brano, già splendido di suo, ne esce alla grandissima, con la voce di Kevin Damrell a sciorinare la celebre melodia. La rocker Imelda May, irlandese anche lei, si cimenta con la slow ballad Molly Malone (presentata come l’inno non ufficiale di Dublino), un brano toccante ed intenso, impreziosito da un accompagnamento leggero, in punta di dita, teso a mettere in risalto il bel timbro vocale di Imelda. The Galway Shawl è invece affidata nientemeno che a Steve Earle, ed il connubio è vincente in quanto Steve è perfetto per questo genere di brani folk dal sapore antico: sembra di sentire una ballatona dei Pogues dei tempi d’oro, anche per le similitudini tra le voci “imperfette” di Earle e Shane McGowan https://www.youtube.com/watch?v=UAEGVTrLT-s . Andrea Corr, ex voce dei Corrs, si cimenta con la famosissima She Moved Through The Fair (forse il brano popolare irlandese più “coverizzato”, dai Fairport Convention a Mike Oldfield passando per Van Morrison, Bert Jansch, Marianne Faithfull e molti altri) che è materia pericolosa, ma Andrea nonostante l’aspetto giovanile è esperta ed affronta lo struggente e cupo brano con sicurezza e pathos, grazie anche ad un accompagnamento per sottrazione, volto a lasciare la voce quasi da sola https://www.youtube.com/watch?v=e_SUD30X6KQ .

Non sapevo che il noto attore irlandese Brendan Gleeson si cimentasse anche col canto, ma la sua interpretazione della saltellante The Rocky Road To Dublin (della quale ricordo una versione magnifica dei Chieftains insieme ai Rolling Stones) fa sembrare che il nostro non abbia mai fatto altro, mentre la cantautrice Kate Rusby ci regala una deliziosa Down By The Sally Gardens, altro lento di grande intensità e con una melodia pura e limpida (e spunta anche una chitarra elettrica, suonata però con molta misura). La nota On Raglan Road (anch’essa rifatta in passato da Morrison) vede al canto un appassionato Vince Gill ed uno splendido background strumentale al quale partecipa anche il grande Donal Lunny con il suo bouzouki; nella commovente Donal Og non ci sono ospiti e quindi la luce dei riflettori va ancora alla Jordan, che se la cava benissimo come al solito, anche perché la canzone è uno splendore ed il resto dei Dervish fornisce un tappeto sonoro di tutto rispetto a base di piano, violino e fisarmonica. The Fields Of Athenry è affidata a Jamey Johnson, molto bravo come d’abitudine ed anche credibile nella parte dell’irlandese, così come Rhiannon Giddens che migliora sempre di più, e anche nella drammatica ed intensa The May Morning Dew riesce a brillare con una interpretazione da applausi. Finale con la struggente The West Coast Of Clare, che non è un traditional in quanto è un pezzo del 1973 dei Planxty (scritto da Andy Irvine), e che vede come protagonista David Gray alla voce e piano, e la banjoista e cantante Abigail Washburn con la nota The Parting Glass (in pratica il bicchiere della staffa), altra ballata di pura bellezza che chiude un album che ogni amante della vera musica irlandese dovrebbe fare suo senza esitazioni.

Marco Verdi

Quando Si Hanno A Disposizione Canzoni Così, Perché Scriverne Di Nuove? Dervish – The Great Irish Songbookultima modifica: 2019-04-26T09:38:17+02:00da bruno_conti
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