Un Bellissimo Tributo Ad Uno Dei Più Grandi Chitarristi Del Blues-Rock Britannico. Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac

Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac

Mick Fleetwood & Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Years Of Fleetwood Mac – BMG Rights Management 2CD + Blu-ray

Chi mi legge abitualmente sul Blog (e sul Buscadero) sa della mia predilezione assoluta per Peter Green, che considero uno dei dieci più grandi e geniali chitarristi della storia del rock e del blues (anzi forse, ma è un parere personale, nella Top 5, subito dopo Jimi Hendrix e la triade Clapton-Beck-Page, e nel 1970, il suo anno migliore, come mi è capitato di scrivere più volte, di nuovo, forse era stato il migliore in assoluto): se volete verificare usate la funzione “Cerca” nel Blog e troverete parecchi Post dedicati ai Fleetwood Mac e a Peter Green, l’ultimo scritto alla sua morte il 25 luglio del 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/07/25/se-ne-e-andato-silenziosamente-nella-notte-peter-green-uno-dei-piu-grandi-chitarristi-del-rock-fondatore-dei-fleetwood-mac/ , e lì troverete ovviamente anche la sua storia, che non ripeto qui per brevità.

Ma nel febbraio del 2020, il giorno 25, proprio pochi giorni prima dello scoppio della pandemia, si è tenuto al Palladium di Londra un concerto celebrativo della sua musica, organizzato dal suo grande amico e compagno di avventura Mick Fleetwood, con la partecipazione di una sorta di parterre de roi (e qualche carneade) di amici ed ammiratori del grande musicista londinese, riuniti per celebrarne l’arte e la musica: il concerto, come poi è stato, dopo vari annunci e rinvii, doveva diventare anche un progetto discografico. All’inizio solo un costoso cofanetto con vinili, CD e Blu-ray, poi per fortuna anche un doppio CD con annesso Blu-ray, che è quello di cui andiamo ad occuparci.

La house band sul palco è eccellente, oltre a Fleetwood alla batteria, ci sono Dave Bronze al basso, Andy Fairweather-Low alla chitarra, un habitué di questi tributi, e Ricky Peterson alle tastiere, aumentati da Zak Starkey (il figlio di Ringo), sempre alla batteria, Rick Vito e Jonny Lang alle chitarre e voci aggiunte. Ma non mancano chitarristi, cantanti e musicisti vari tra gli ospiti chiamati per la serata: diciamo che il cast non è perfetto, ci sono alcuni musicisti poco pertinenti alla sua musica, ma presenti in quanto ammiratori e qualcuno forse un po’ bollito o fuori ruolo, ma il tutto si ascolta con grande piacere e ci sono vari momenti di grande fascino e pathos. Dopo l’introduzione di Fleetwood si parte con una solida Rolling Man affidata al bravo Rick Vito, che ha fatto parte anche lui in passato dei Fleetwood Mac, ben spalleggiato da Jonny Lang, per il classico sound a doppia solista tipico della band, poi tocca a Lang, per una eccellente e tirata Homework. In Doctor Brown sale sul palco Billy Gibbons, che poi rimarrà per tre brani complessivi, con il suono che si fa più sanguigno, anche se la voce è quella che è, seguita dal super classico All Your Love, uno dei classici del Bluesbreakers, e quindi è quasi inevitabile la presenza di John Mayall, ancora in buona voce, mentre le chitarre lavorano di fino.

Dopo l’inizio molto blues si passa alla selvaggia Rattlenake Shake, con Steven Tyler degli Aerosmith, anche alla armonica, e il chitarristi che cominciano a darci dentro di gusto, ma anche Mick Fleetwood rolla alla grande, peccato che il brano duri solo cinque minuti scarsi, di fronte ai tour de force di venti minuti e oltre dell’epoca d’oro di Greeny. A questo punto arriva sul palco un’altra componente storica dei Mac, ovvero Christine McVie, tuttora nella line-up della band, che canta con gran classe Stop Messin’ Around con Tyler ancora all’armonica e una felpata e sentita Looking For Somebody. Di Nuovo Lang per Sandy Mary e Rick Vito, anche alla slide, per una bellissima Love That Burns, mentre il prossimo ospite, forse un po’ imbucato, è Noel Gallagher degli Oasis, che rimane per ben tre brani, e alla fine se la cava in questa parte acustica del concerto, con The World Keep On Turning e Like Crying, poi affiancato da Vito, di nuovo alla slide in No Place To Go.

Il secondo CD si apre con Pete Townshend sul palco che racconta la genesi del brano Station Man scritto da Danny Kirwan per Kiln House, quando Green non era più presente in formazione, ma con un riff che ha chiaramente influenzato quello di Won’t Get Fooled Again degli Who, grande versione tra l’altro. E per uno degli altri classici di PG, ovvero l’elegante Man On The World, ecco arrivare sul palco Neil Finn dei Crowded House (ma di recente anche lui nei Fleetwood Mac).

Tornano poi sul palco Gibbons e Tyler per una poderosa ripresa di Oh Well Part 1, un brano, un riff, un classico, e a seguire nella sognante Part 2 un ispirato David Gilmour che rende omaggio alla tecnica sopraffina di Green, Poi arrivano altri classici a raffica, prima una soave Need Your Love So Bad interpretata con grande feeling da Jonny Lang, e poi una santaniana Black Magic Woman con un ottimo Rick Vito e la band che finalmente si lascia andare in una lunga versione di oltre sette minuti con assoli a ripetizione. Prima del gran finale c’è una sezione dello spettacolo dedicata a Jeremy Spencer, maestro del bottleneck e grande appassionato di Elmore James (ma anche con una grande macchia nel suo passato per le ripetute accuse di pedofilia, confermate in varie cause, ricevute durante il periodo dei Children Of God) che esegue una intima e raffinata The Sky Is Crying, seguita da una galoppante I Can’t Hold Out con Bill Wyman al basso.

Nei bis sale sul palcoscenico anche la chitarra Les Paul del 1959 di Peter Green, nelle mani del suo attuale proprietario, il chitarrista dei Metallica Kirk Hammett, che insieme a Billy Gibbons ci regala una gagliarda e selvaggia The Green Manalishi (With The Two Prong Crown) che viene considerato uno dei primi casi di proto/heavy metal, ma averne di metal così! Il più grande successo dei Fleewood Mac dell’era Green fu lo strumentale Albatross, del quale David Gilmour, seduto alla sua pedal steel, ci regala una versione sublime. Il gran finale, con tutto il cast sul palco, è dedicato ad una debordante Shake Your Money Maker.

E speriamo che questo grande genio della musica che fu Peter Green riposi finalmente riconosciuto da tutti e in pace.

Bruno Conti

Anche Se Non Lo Trovate Nei Negozi, Vale La Pena Procurarselo! Uncut – Dylan Revisited

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VV.AA. – Dylan Revisited – Uncut/Bandlab UK CD

Tra meno di un mese, il 24 maggio, il grande Bob Dylan compirà 80 anni, e gran parte delle testate musicali nel mondo sono già da tempo in fibrillazione per festeggiare a modo loro l’evento. L’unico che sta brillando per il suo assoluto silenzio è proprio il diretto interessato, ma direi una bugia se mi dichiarassi sorpreso dal momento stiamo parlando di un personaggio che ha sempre detestato le autocelebrazioni (il famoso concerto-tributo del 1992 al Madison Square Garden era stato voluto dalla Columbia, e le immagini facevano capire benissimo che Bob avrebbe preferito di gran lunga essere da un’altra parte). Siccome anche la Sony non ha finora annunciato nulla a livello discografico, e non è detto che ci sia qualcosa in programma, vorrei parlarvi di un CD molto particolare oltre che bello, che non si trova nei negozi ma che non è neppure così difficile procurarsi. E’ tradizione delle riviste musicali inglesi, specialmente Classic Rock, Mojo ed Uncut, gratificare i suoi lettori con CD gratuiti allegati alle varie mensilità, perlopiù compilation di materiale già edito riguardanti solitamente uno specifico argomento.

Nel suo ultimo numero però Uncut ha fatto le cose in grande, regalando un dischetto intitolato Dylan Revisited che non è il solito tributo low-cost costruito con performances già note, ma una compilation di incisioni nuove di zecca realizzate apposta per la rivista, con la chicca di un inedito assoluto dello stesso Dylan! Una succosa opportunità di portarsi a casa un dischetto esclusivo, tra l’altro con una spesa minima: infatti l’uscita è acquistabile direttamente sul sito di Uncut, e per soli 12 euro (non pagate neanche la spedizione) riceverete a casa un numero molto interessante della rivista, oppure lo trovate nelle edicole e librerie piuù fornite. Un omaggio a Dylan a 360 gradi attraverso i ricordi di musicisti e produttori che lo hanno conosciuto, con più di un aneddoto divertente. E poi ovviamente c’è Dylan Revisited, in cui il Premio Nobel viene omaggiato da 14 belle riletture da parte di musicisti perlopiù emergenti, anche se non mancano i nomi di prima fascia, ma con tutte cover rispettose degli originali e nessuno sconfinamento in sonorità bislacche. Il CD si apre con il già citato inedito dylaniano: Too Late è una ballata acustica con una leggera percussione alle spalle tratta dalle sessions di Infidels (e che dovrebbe anticipare il sedicesimo volume delle Bootleg Series, dedicato proprio alle prolifiche sedute dell’album del 1983, in uscita pare entro l’anno, forse a luglio, visto che è in uscita anche un estratto in vinile per il Record Store Day), un brano che poi si sarebbe evoluto nella già nota Foot Of Pride. Una bella canzone eseguita in modo rilassato da Bob, che non somiglia molto a ciò che sarebbe diventata né come testo né come melodia (forse ricorda di più George Jackson, il raro singolo del 1971): dopo l’ascolto ho ancora più voglia del nuovo episodio delle Bootleg Series.

E partiamo con il tributo vero e proprio, che inizia col botto: Richard Thompson è un fuoriclasse assoluto, e This Wheel’s On Fire viene proposta con un bell’arrangiamento elettroacustico con l’ex Fairport che suona tutti gli strumenti, nel suo tipico stile tra folk e rock; Courtney Marie Andrews è ancora giovane ma già esperta, e ci delizia con un’interpretazione voce e chitarra della splendida To Ramona, forse un po’ scolastica ma meglio così che stravolta, mentre i Flaming Lips rivestono di una leggera patina pop-psichedelica l’eterea Lay Lady Lay, che mantiene però la sua struttura acustica. I canadesi Weather Station propongono Precious Angel, dal periodo “religioso” di Bob, in una rilettura molto diversa, pianistica e lenta, con la voce solista femminile di Tamara Lindeman quasi sussurrata che accentua il tono di preghiera del brano; rimaniamo in Canada con i grandi Cowboy Junkies, che fanno una scelta non scontata prendendo dal recentissimo Rough And Rowdy Ways la bella I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You, che fanno diventare uno splendido valzer dal sapore folk con la voce inconfondibile di Margo Timmins che come al solito si rivela l’arma in più del quartetto: sembrano tornati di botto i Junkies di inizio carriera, una cover magnifica, meglio anche dell’originale.

L’ex Sonic Youth Thurston Moore non si perde in sonorità strane e rilegge Buckets Of Rain per voce e chitarra, da perfetto folksinger, la cantante e chitarrista originaria del Mali Fatoumata Diawara offre una versione tutta ritmo e colori di Blowin’ In The Wind (registrata a…Como!), molto diversa dall’originale ma piacevole, mentre invece la giovane irlandese Brigid Mae Power nel riproporre la bella One More Cup Of Coffee ricalca abbastanza le atmosfere di Desire, violino a parte. Knockin’ On Heaven’s Door è materia pericolosa, ma la indie band Low (che ha in comune con Dylan la città d’origine, Duluth) se la cava benissimo con una interpretazione convincente, lenta e ricca di pathos, facendola diventare una rock ballad notturna e misteriosa. Il duo folk formato da Joan Shelley e Nathan Salsburg rifà Dark Eyes in maniera rigorosa, Patterson Hood e Jay Gonzalez dei Drive-By Truckers sono bravi e lo dimostrano con una Blind Willie McTell sofferta, bluesata e desertica (ma l’originale dylaniano è insuperabile), e lo stesso fa l’ex Be Good Tanyas Frazey Ford con un’ottima The Times They Are A-Changin’ in veste folk-rock ballad elettrica, con chitarre ed organo al posto giusto.

Finale con Jason Lytle, frontman dei Grandaddy, che ci regala una buona versione rilassata di Most Of The Time, con chitarra acustica e piano a scontornare la melodia, e con Weyes Blood (nome d’arte di Nathalie Laura Mering) che affronta in maniera classica la lunga ed impegnativa Sad Eyed Lady Of The Lowlands, riuscendo a fornire una prova decisamente efficace. Un tributo perfettamente riuscito questo Dylan Revisited, serio e ben fatto, che meriterebbe una distribuzione ben più capillare che come allegato ad una rivista mensile.

Marco Verdi

Ecco Il Primo Capitolo Della Serie Lu’s Jukebox. Lucinda Williams Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty

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Lucinda Williams – Runnin’ Down A Dream – A Tribute To Tom Petty – Highway 20 Records/Thirty Tigers

Come moltissimi altri musicisti, nel periodo della pandemia anche Lucinda Williams si è ingegnata per trovare nuovi progetti musicali che potessero alleviare il lungo periodo del confinamento casalingo: lei lo ha fatto creando la serie Lu’s Jukebox che si articolerà in una serie di sei Live In Studio incentrati su omaggi/tributi sia ad alcuni grandi musicisti, quanto a generi musicali molto diversificati fra loro. Il tutto in rete ha già preso l’abbrivio dall’ottobre dello scorso anno con una serie di trasmissioni streaming in alta definizione e a pagamento, per devolvere i fondi ricavati a musicisti ed addetti ai lavori in difficoltà finanziaria, destinati poi a diventare dei CD con una serie di uscite cadenzate durante il 2021. Il primo sarà quello dedicato a Tom Petty, di cui tra un attimo, l’ultimo sarà quello sui Rolling Stones: ad accompagnare Lucinda, oltre al produttore Ray Kennedy, che insieme alla Williams e al marito Tom Overby, ha coordinato il tutto dai Room And Board Recording Studios di Nashville, ci sono una serie di musicisti che ultimamente accompagnano la musicista di Lake Charles: Stuart Mathis alla Chitarra Solista, Joshua Grange, Chitarra e Tastiere ,Stephen Mackey al Basso e Fred Eltringham alla Batteria.

La nostra amica aveva ottimi rapporti con Petty tanto che era stata l’opening act nella tre serate all’Hollywood Bowl, culminate con la data del 25 settembre 2017, l’ultimo concerto di Tom prima della prematura scomparsa avvenuta il 2 ottobre dello stesso anno: sono già passati tre anni e mezzo, ma il biondo musicista manca sempre di più a tutti, anche se le sue canzoni continuano a vivere con una serie di eventi che si sono succeduti da allora. L’ultima a voler approcciare il suo songbook è stata appunto Lucinda Williams, che per questo Runnin’ Down A Dream A Tribute To Tom Petty ha scelto dodici brani della sua sterminata produzione, aggiungendo una canzone scritta appositamente per l’occasione. Come sa chi legge abitualmente questo Blog il sottoscritto apprezza molto la musica della nostra amica https://discoclub.myblog.it/2020/04/24/sferzate-blues-e-ballate-elettriche-urticanti-dalla-citta-degli-angeli-lucinda-williams-good-souls-better-angels/ , ma mi rendo conto che per vari motivi, soprattutto la voce, molti non la amano e rispetto la loro scelta: però non mi esimo dal dire che anche questa volta mi sembra che l’obiettivo di fare un buon disco sia stato centrato. Forse, anzi sicuramente, non un capolavoro, ma un sentito omaggio ad uno dei migliori talenti espressi dalla musica americana negli ultimi 40 e passa anni.

L’approccio ovviamente è diverso, manca il tipico jingle-jangle del rocker della Florida, a favore di un sound più bluesato e compatto tipico della Williams, ma non “sconosciuto” al sound degli Heartbreakers. Si apre con Rebels, brano tipicamente “sudista” che evidenzia le affinità tra i due: bella rilettura, molto laidback e vicina a quella dell’originale, meno carica rispetto a certe canzoni di Lucinda, ma sempre con la giusta tensione chitarristica, affidata all’interscambio tra Mathis e Grange, si prosegue con la title track, una delle canzoni nate dalla collaborazione con Jeff Lynne, più grintosa e tirata, decisamente vicina al groove dell’originale, con le chitarre che riffano di brutto nello spirito rock’n’roll pettyano, con assolo ruvido al seguito. Gainesville e Louisiana Rain sono altri due brani che evidenziano le comuni radici, non solo musicali, ma anche di vita, dei due, la seconda con il piano elettrico di Grange ad evidenziare l’atmosfera sospesa ma esuberante della canzone che ben si adatta alla interpretazione della Wiiliams.

I Won’t Back Down è uno dei capolavori assoluti di Tom, un pezzo trascinante ed esuberante, che ti resta subito in testa e che non viene stravolto in questa versione con Mathis alla slide che (quasi) riproduce lo stile inconfondibile di Mike Campbell; anche A Face In The Crowd viene dall’accoppiata Petty/Lynne ed è uno dei brani che meglio si adatta anche allo stile vocale di Lucinda, come pure Wildflowers, che in fondo è una ballata, ben si attaglia alla vocalità pigra e rilassata della signora, con il piano elettrico in bella evidenza e un arrangiamento avvolgente e confortevole. You Wreck Me non raggiunge la devastante potenza di sparo degli Heartbreakers, anche se i musicisti forse ce l’avrebbero nelle loro corde e anche la scelta della non notissima Room At The Top, brano estratto da Echo, magari non è felicissima, ma evidentemente ognuno ha le sue preferenze, e questa canzone triste e malinconica, sulla fine del primo matrimonio di Tom, si adatta nella sua scarna interpretazione al mood della Wiiliams che ben si allinea anche allo stile ciondolante, figlio del Sud, scelto per You Don’t Know How It Feels, da dove vengono, sin dal titolo e come ubicazione, anche sia Down South che una accorata Southern Accents che Lucinda Williams aveva già nel suo repertorio Live.

La affettuosa dedica finale di Stolen Moments, brano peraltro molto bello, è sia per Tom quanto per la moglie Dana e chiude degnamente un album complessivamente soddisfacente, ma, manco a dirlo, le canzoni originali rimangono insuperabili, comunque grazie a Lucinda per averci provato.

Bruno Conti

Non Delude Neppure Questa Volta, Con Un Disco Acustico Disponibile Solo Per Il Download E In Vinile Colorato Limitato – Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids

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Anders Osborne – Orpheus And The Mermaids – 5th Ward Records Download/Streaming e Vinile Limitato Colorato

Credo che per tutti coloro che amano la buona musica, oltre che un piacere, sia quasi un dovere conoscere quella di Anders Osborne. Nativo di Uddevalla, Svezia, è ormai da moltissimo tempo cittadino di New Orleans, Louisiana, dove arriva dopo una infanzia ed una adolescenza passate ad ascoltare blues, jazz, e i grandi cantautori, da Dylan a Joni Mitchell, Ray Charles e Lowell George, Neil Young e Jackson Browne, ma anche il cowboy di Belfast, Van Morrison): quando arriva negli States, fine anni ‘80, inizio anni ‘90, dopo il giusto periodo di gavetta, tra tour e le prime pubblicazioni con la Rabadash, una etichetta locale di New Orleans, ha la fortuna di trovare un contratto discografico per la Okeh, e pubblica nel 1995 l’eccellente Which Way To Here, che ottiene un discreto riscontro di vendite, con l’utilizzo dei suoi brani anche in colonne sonore di film importanti, e ottimi giudizi dalla critica.

Da allora inizia la solita trafila degli artisti di culto: prima una serie di dischi per la Shanachie, poi uno per la M.C. Records e il successivo contratto per la Alligator, dove pubblica complessivamente quattro dischi che sfiorano il livello del capolavoro, l’ultimo Peace, con la bimba in copertina che mostra il dito medio. Ma siamo arrivati alla grande crisi dell’industria discografica e quindi bisogna passare al fai da te: album creati in proprio e distribuiti tramite la sua Back On Dumaine Records, sempre molto belli, magari un filo inferiori ai precedenti, sempre difficili da trovare, per quanto pubblicati anche in CD https://discoclub.myblog.it/2016/06/01/nuove-avventure-underground-lo-svedese-new-orleans-anders-osborne-spacedust-and-oceans-views/ , incluso Freedom And Stars, la collaborazione come NMO insieme ai fratelli Dickinson https://discoclub.myblog.it/2015/02/23/disco-bellissimo-peccato-esista-nmo-anders-osborne-north-mississippi-allstars-freedom-and-dreams/ .

L’ultimo capitolo, il suo 17°, questo Orpheus And The Mermaids, è un ulteriore passaggio: esce solo per il downlaod oppure in vinile colorato costosissimo. Ma la musica rimane sempre di una bellezza inalterata, Osborne è forse meno incazzoso verso il mondo di un tempo (forse il fatto di avere ritrovato la sobrietà, grazie ad una famiglia con due figli, aiuta) ma è comunque in grado di sfornare brani di grande qualità che citano spesso i suoi punti di riferimento ricordati all’inizio: l’iniziale Jacksonville To Wichita, con l’armonica aggiunta ad una acustica arpeggiata, sta al crocevia tra Dylan, Young e Morrison, un brano malinconico e tremendamente bello, con citazioni di Townes Van Zandt nel testo e una serenità invidiabile. La successiva Light Up The Sun ha una struttura sonora più complessa, ma si basa sempre sulla calda voce di Anders e sulla sua chitarra, di cui è un virtuoso anche in modalità acustica, ogni tanto la voce viene raddoppiata, ma l’impianto complessivo è minimale, non per questo meno affascinante, in queste reminiscenze sulla vita che passa nella propria famiglia e sui suoi demoni tenuti a bada https://www.youtube.com/watch?v=vIw3kZJQbvo . Last Days In The Keys è una affettuosa e commossa dedica a Neal Casal scomparso suicida due anni fa, anche attraverso le storie di altri amici e persone che ci hanno lasciato attraverso questo atto estremo e disperato, che non perdona i momenti di sconforto e debolezza, sempre con la chitarra acustica e l’armonica che sottolineano questo racconto in modo crudo ma partecipe.

Forced To ha una struttura più bluesy, sempre con quel tocco da cantautore raffinato che me lo fa avvicinare ad un altro Beautiful Loser come il bravissimo Grayson Capps https://discoclub.myblog.it/2020/09/01/una-sorta-di-antologia-rivisitata-per-celebrare-un-grande-cantautore-grayson-capps-south-front-street-a-retrospective-1977-2019/ , senza dimenticare il primo “Bobby Dylan” https://www.youtube.com/watch?v=A81xq-1pukI  . Pass On By, accompagnata da un bellissimo video dedicato a New Orleans, pubblicato il giorno di Natale, e che vi consiglio di cercare, nella quale Osborne si destreggia tra accordature “normali” e uso del bottleneck per una canzone che ricorda un altro dei suoi preferiti, quel Jackson Browne di cui attendiamo a breve il nuovo album (ora si parla di luglio). Welcome To The Earth, voce riverberata e chitarra incalzante è un altro ottimo esempio di questo folk ricercato che sembra essere la chiave del nuovo album, Dreamin’, ca va sans dire, è più sognante, con una armonica che rimanda a Elliott Murphy e il tessuto musicale a Paul Simon, comunque bellissima https://www.youtube.com/watch?v=mfrK267VNG0 , mentre Earthly Things, di nuovo con la voce raddoppiata, emana ancora una aura di grande serenità attraverso un complesso lavoro di due chitarre acustiche e la conclusiva Rainbows ci riporta di nuovo al primo Neil Young, per l’uso della armonica, sempre con accenni dell’amato Jackson. *NDB Se volete provare ad acquistarlo lo trovate qui https://anders-osborne.myshopify.com/collections/orpheus-and-the-mermaids ma costa un bel 35 dollari più la spedizione dagli USA.

Bruno Conti

Questa Volta Solo Una “Mezza Fregatura”, Forse! Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76

lynyrd skynyrd live at knebworth 76

Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76 – Eagle Rock/Universal – CD+DVD – CD+Blu-Ray – 2LP+DVD

Questa uscita rientra nella categoria “fregature” di cui ultimamente vi stiamo parlando sul Blog sia Marco che il sottoscritto: per l’occasione ho aggiunto anche “mezza” e attenuato con un forse. Adesso vi spiego perché. Stiamo parlando del famoso concerto tenuto dai Lynyrd Skynyrd il 21 agosto 1976 in quel di Knebworth, ridente località non lontana da Londra (quando è estate e non piove e quindi ci sono tonnellate di “palta” in cui sprofondare, lo dico con cognizione di causa perché mi è capitato). Però quello del concerto fu un giorno in cui anche in Inghilterra c’erano temperature estive per il consistente pubblico presente (stimato tra le 150 e le 200.000 persone, per un Festival a cui partecipavano anche gli Utopia di Todd Rundgren, i 10cc e gli headliners erano i Rolling Stones): come testimoniano le immagini del film che presentano molta gente poco vestita, meno che sul palco, dove l’unico seminudo, in braghette bianche, era il batterista Artimus Pyle, e alcuni degli altri Skynyrd avevano anche maniche lunghe, giubbetti e indumenti che forse indicavano che l’english weather traditore era sempre dietro l’angolo.

lynyrd skynyrd freebid the movie

Ma lasciando perdere le questioni meteorologiche e concentrandoci su Live At Knebworth ‘76 torniamo alla questione fregatura, che parte da lontano: infatti già nel lontano 1996, prima dell’avvento del DVD, esce un Freebird The Movie, sia in VHS che in CD, poi negli anni a seguire pubblicato anche in DVD e CD+DVD, sempre incentrato sul concerto di Knebworth, presente in versione (quasi) integrale ma dal quale curiosamente mancava proprio Freebird la canzone del titolo, sostituita da una versione, peraltro quasi altrettanto bella, registrata a Oakland in California nell’estate del 1977, che trovate facilmente su YouTube.

Come bonus vennero aggiunti anche due brani da Asbury Park del 1977 e un pezzo in studio. In più, nella versione video che durava (anzi dura, perché si trova ancora, anche a prezzi piuttosto bassi) 3 ore e 18 minuti e comprendeva anche un altro film “The Concert Tour”. Tornando al fattore fregatura, come vedete ad inizio post esistono varie versioni del disco, oppure per usare una terminologia che ora viene utilizzata spesso, del combo: ma solo in quella CD+Blu-Ray, nella parte video si trova il film-documentario del 2018 If I leave Here Tomorrow: A Film About Lynyrd Skynyrd, che narra in modo approfondito le vicende della band e, udite udite, è anche sottotitolato in italiano, ma nel DVD non c’è, il perché è un mistero.

Se vi “accontentate” del resto però il contenuto è superbo: i sette + le Honkettes sono in forma strepitosa, in un anno, il 1976, che vide anche la pubblicazione di Gimme Back My Bullets e del doppio dal vivo One More From The Road, registrato in tre concerti tenuti al Fox Theater di Atlanta proprio a luglio di quell’anno, circa un mese prima della data inglese. Quando nel tardo pomeriggio del 21 agosto 1976 Ronnie Van Zant, Gary Rossington, Allen Collins, Steve Gaines, Leon Wilkeson, Artimus Pyle, Billy Powell e le Honkettes salgono sul palco si capisce subito che sarà una occasione speciale: Wilkeson indossa un copricapo da Bobby inglese,che non lascerà per tutto il concerto, mentre gli altri Lynyrd sono vestiti da tipici musicisti“Sudisti”, rappresentanti in Terra D’Albione di quel southern rock, di cui, insieme agli Allman Brothers, furono i massimi rappresentanti. Undici brani, circa un’ora e dieci minuti di musica fantastica, qualità audio e video eccellente, qualità della performance da 5 stellette: si parte con l’omaggio alla loro casa discografica, Workin’ For MCA, una versione roboante a tutto riff, con urlo belluino di Ronnie in apertura, poi le chitarre iniziano a mulinare, Van Zant fischietta di tanto in tanto e Rossington, Collins e Gaines, strapazzano le soliste, da lì in avanti non ce n’è per nessuno, penso che le conosciate tutti ma ve le cito comunque. In sequenza il boogie I Ain’t The One, una ruggente e galoppante Saturday Night Special, con il solito muro di chitarre, Searchin’, l’unica tratta dal recente Gimme Back My Bullets, Whiskey Rock-A-Roller scritta da Van Zant insieme al vecchio chitarrista Ed King e al pianista Billy Powell, che inizia a farsi sentire.

E ancora Travellin’ Man una tipica southern song scritta per One More For The Road con le ragazze a sostenere Ronnie, Gimme Three Steps uno dei travolgenti classici dal primo album con ritornello da cantare con il pubblico, Call Me The Breeze in teoria sarebbe (anzi lo è) di JJ Cale, ma tutti l’hanno sempre associata ai Lynyrd Skynyrd, specie in questa versione accelerata a tutto boogie con Powell che lascia correre le mani sulla tastiera del piano. Non manca T For Texas, detta anche Blue Yodel no 1, un vecchissimo classico country di Jimmie Rodgers che non manca di divertire e coinvolgere il pubblico in una versione vorticosa, prima di passare ai pezzi da 90, la risposta a Neil Young, ovvero Sweet Home Alabama, più che una canzone un rito collettivo con Jojo Billingsley, Leslie Hawkins e la compianta Cassie Gaines (che sarebbe scomparsa solo poco più di un anno dopo nell’incidente aereo dell’ottobre 1977 insieme al fratello Steve e a Ronnie Van Zant) che rispondono rima su rima al classico ritornello.

E a chiudere il tutto una versione monstre di oltre 13 minuti di Freebird, brano che secondo (quasi) tutti se batte con Stairway To Heaven come canzone ideale per concludere, e non solo, un concerto. Il pubblico è in delirio nel finale senza fine, noi pure, peccato per le piccole magagnette, ma comunque una “ristampa” tutto sommato da avere. Ragazzi (e ragazze, perché tra il pubblico ce ne erano moltissime) se suonavano!

Bruno Conti

Altra Anticipazione: Dagli Archivi Personali. Gary Moore – How Blue Can You Get. Esce Sempre Il 30 Aprile

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Gary Moore – How Blue Can You Get – Mascot Provogue – 30-04-2021

Ormai sono passati 10 anni dalla morte di Gary Moore, ma non sembra accennare a rallentare la pubblicazione di album postumi dedicati alla figura del compianto musicista irlandese: un paio di Live, un altro paio di antologie con materiale inedito, ma dalle informazioni che filtrano dalla casa discografica e soprattutto dalla famiglia, negli archivi personali del chitarrista pare ci sia ancora moltissimo materiale interessante e di qualità. In questi tempi di pandemia le case discografiche stanno saccheggiando gli archivi dei musicisti, vivi e morti, alla ricerca appunto di musica inedita che possa rimpinguare la scarsa disponibilità di nuovo materiale disponibile. Questa affannosa ricerca però ogni tanto ci regala a sorpresa dei piccoli gioiellini: anche se la sorpresa spesso è rovinata dalle lunghe attese che intercorrono tra l’annuncio dell’uscita e il tempo effettivo della stessa, con continui rinvii delle date, apparizioni anticipate, spesso di mesi, delle controparti in download e streaming rispetto alle edizioni fisiche, quando escono.

Prendiamo questo How Blue Can You Get, che dovrebbe uscire il 30 aprile, quindi siamo a parlarne in anticipo, sperando che il tutto venga confermato: comunque il materiale per l’ascolto non è mancato, per cui vi parlo almeno dei contenuti. Intanto non è dato sapere, con certezza e precisione quando questo materiale sia stato registrato: si tratta di un misto di brani inediti per Moore, e di versioni alternative di canzoni già apparse in altri album della sua discografia. Si è data la preferenza, anche visto il titolo del CD, a materiale di orientamento blues, ovviamente rivisto nella sua ottica personale, che però negli ultimi anni della sua vita si era fatta anche abbastanza “rigorosa”. Sono solo otto brani, quattro originali, e quattro riletture di classici delle 12 battute, tutti abbastanza lunghi, uno per ciascuno di Elmore James, Sonny Thompson, Memphis Slim e BB King. Nella cartella stampa si evidenzia il perfezionismo che il nostro aveva nel suo approccio allo studio, con diverse versioni provate e riprovate, e questo spiega la pletora di materiale che circola, ma non ci aiuta nel sapere su chi suona nel disco e quando sia stato registrato, ammesso che sia cosa nota, per cui visto che vi devo “illuminare” sui contenuti, vado almeno con la musica, che è peraltro ottima: si parte alla grande con una torrida versione di I’m Tore Down, il classico di Freddie King, un brano che faceva parte del suo repertorio dal vivo, con la chitarra che scorre fluida e con quello splendido timbro che aveva la sua Gibson, ispirato e concentrato come nelle sue migliori performances.

Formidabile anche Steppin’ Out, il classico strumentale di Memphis Slim, che tutti ricordiamo nelle innumerevoli versioni di Eric Clapton, che Moore quasi pareggia con una grinta e un impegno impeccabili, il lavoro della chitarra è veramente superbo, un inno al virtuosismo, è anche il trio, basso, batteria e organo che lo accompagna, è notevole; In My Dreams, è “inedita”, una delle sue classiche ballate, malinconiche ed intense, per quanto molto simile a tante altre scritte dall’irlandese, che infonde nella musica, con le corde della chitarra spesso tese fino allo spasimo, il suo stile inconfondibile. Splendida anche la versione inedita del classico di B.B. King How Blue Can You Get che dà il titolo all’album, sofferta e ricca di pathos, come raramente è dato sentire, con voce e chitarra al massimo delle loro possibilità. L’altro inedito scritto da Moore è uno strano brano come Looking At Your Picture, non classificabile con precisione, un po’ blues, un po’ prog, sempre con buon lavoro alla 6 corde, benché forse un po’ irrisolto nell’insieme, mentre nella versione alternativa dello slow Love Can Make A Fool Of You, non ci sono incertezze, solo grande musica, con un altro magistrale assolo dei suoi. E in Done Somebody Wrong di Elmore James Moore instilla il suo amore per il blues, in modo limpido e “rigoroso”, prima di congedarsi con Living With The Blues, altro lancinante e superbo blues lento, che lo proietta nella stratosfera della sua ispirazione con un altro assolo fenomenale. Se esiste altro materiale di questo livello attendiamo con impazienza nuovi capitoli della saga infinita di Gary Moore.

Bruno Conti

Un Box Monumentale, Splendido E Costosissimo, Ma Con Alcune Magagne Non Da Poco. John Mayall – The First Generation 1965-1974

john mayall first generation front

John Mayall – The First Generation 1965-1974 – Madfish/Snapper 35CD Box Set

Verso la fine del 2020 era uscito l’annuncio che la Madfish, etichetta inglese specializzata in cofanetti retrospettivi di gran lusso (ricordo di recente quelli dedicati a Gentle Giant e Wishbone Ash), avrebbe pubblicato all’inizio di quest’anno The First Generation 1965-1974, enorme box di 35 CD che riepiloga i primi dieci anni di carriera (cioè i migliori) del grande John Mayall. Non credo sia il caso di descrivere ancora una volta l’importanza di Mayall nella storia della musica: definito a ragione “The Godfather of British Blues”, oltre ad essere un notevole musicista a 360 gradi (cantante, armonicista, pianista, chitarrista ritmico e songwriter) e ad aver pubblicato più di un album passato giustamente alla storia, è stato anche capace di scovare talenti ospitandoli a suonare sui suoi dischi spesso prima che questi diventassero famosi. I casi più eclatanti sono quelli di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor ben prima che si facessero un nome rispettivamente con Cream, Fleetwood Mac e Rolling Stones, ma negli anni John ha suonato anche con John McVie (anche lui da lì a poco fondatore dei Fleetwood Mac), Larry Taylor e Harvey Mandel poi nei Canned Heat, il noto batterista Aynsley Dunbar, il chitarrista Jon Mark ed il sassofonista Johnny Almond (che nei seventies avranno un buon successo come duo a nome Mark/Almond) ed anche in breve con Jack Bruce e Mick Fleetwood: per una disamina più dettagliata della discografia ufficiale di John vi rimando però all’ottima retrospettiva di Bruno pubblicata su questo blog nel 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ e  https://discoclub.myblog.it/2019/05/21/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-ii/ .

john mayall first generation box

Sinceramente sono stato combattuto per alcune settimane se acquistare o no questo box, più che altro per il prezzo di 275 sterline (più spedizione ed impostazione) dato che io di Mayall possedevo i lavori più recenti e solo un paio di cose risalenti alla “golden age”. Devo dire però che il sacrificio economico non è stato vano (tra l’altro il box, stampato in 5000 copie, è ancora disponibile su uno dei due canali ufficiali, ma occhio ai vari siti dove viene rivenduto quasi al doppio), in quanto The First Generation 1965-1974 è un manufatto formidabile, un cofanetto importante anche nelle dimensioni, con un bellissimo libro rilegato di 168 pagine pieno di foto, scritti e note, alcuni pezzi di memorabilia e, come ciliegina, una foto autografata dallo stesso Mayall. I CD della sua discografia ufficiale sono stati tutti rimasterizzati e presentati in confezioni simil-LP, in molti casi con bonus tracks aggiunte (non inedite, ma le stesse già presenti in precedenti ristampe), un paio di CD singoli che riportano altrettanti 45 giri di inizio carriera (I’m Your Witchdoctor/Telephone Blues e Lonely Years/Bernard Jenkins) ed il raro EP All My Life registrato con Paul Butterfield, che se non erro è la prima volta che esce su CD come entità a sé stante.

A parte la retrospettiva di Bruno di cui sopra, lasciatemi aggiungere che qui per un neofita c’è da godere assai, in quanto tra i vari album ci sono almeno due capolavori assoluti (il famoso Blues Breakers con Clapton, e A Hard Road con Green) e tanti altri dischi da non meno di quattro stellette (Crusade, Bare Wires, Blues From Laurel Canyon, gli strepitosi live The Turning Point e Jazz Blues Fusion), oltre ai classici “personal favorites” (The Blues Alone, Empty Rooms, Back To The Roots). In questa recensione vorrei soffermarmi principalmente sul materiale inedito del box, che consiste in uno strepitoso doppio CD intitolato BBC Recordings ed in una serie di concerti mai pubblicati prima che occupa i sette dischetti finali. BBC Recordings è, come accennato poc’anzi, un mezzo capolavoro, che chi non ha comprato il box perché già possedeva tutta la discografia ufficiale di Mayall meriterebbe di vedere pubblicato a parte (ma con la Madfish so già che non sarà così).

Si tratta di sessions inedite registrate presso gli studi della mitica emittente britannica dal 1965 al 1968 e messe in onda in programmi popolarissimi come Saturday Club e Top Gear, dove ritroviamo insieme a Mayall parecchi dei nomi citati ad inizio recensione: Clapton, Green, Taylor, Bruce e McVie, oltre ai noti batteristi Colin Allen e Keef Hartley. Due ore complessive di musica, registrata perlopiù in mono, con un suono che varia dal discreto al buono anche se qualche incisione sotto la media c’è. Nel primo CD ci sono ben 13 brani con Clapton alla solista, tra i quali spiccano la vivace Crawling Up A Hill, con un breve ma ficcante assolo di Manolenta, la sinuosa Crocodile Walk, la coinvolgente Bye Bye Bird, con una prestazione maiuscola di Mayall all’armonica, una Hideaway di Freddie King ricca di swing e con Eric che arrota da par suo, il magnifico slow blues Tears In My Eyes, che vede Clapton in modalità “God” https://www.youtube.com/watch?v=kHeJ1lHh2jo , la classica All Your Love di Otis Rush e la pimpante Key To Love. In mezzo abbiamo cinque pezzi con alla chitarra il poco noto Geoff Krivit ma con Jack Bruce al basso: da segnalare l’arrochita Cheatin’ Womanhttps://www.youtube.com/watch?v=qefVuAMu2Eo  una strepitosa Parchman Farm di Mose Allison, con il basso di Bruce come strumento solista, e la jazzata Nowhere To Turn.

Il primo dischetto si chiude così come si apre il secondo, e cioè con Peter Green come axeman (sette brani totali): imperdibili il saltellante country-blues Sitting In The Rain, l’ottimo strumentale Curly (in due diverse versioni), scritto da Green stesso e con le sue dita grandi protagoniste e le splendide Ridin’ On The L And N (Lionel Hampton) e Dust My Blues (Elmore James), entrambe con Greeny alla slide. Le restanti canzoni vedono Mick Taylor alla solista ed in molti casi una sezione fiati a dare più corpo al suono, e qui il meglio lo abbiamo con la suadente e sensuale Worried Love, il potente rock-blues strumentale Snowy Wood, la lenta e raffinata Another Man’s Land, con il sax di Chris Mercer a duettare con la slide di Mick, il blues-jazz Knockers Step Forward, che vede il futuro Rolling Stone rilasciare un assolo sensazionale e la roboante Long Gone Midnight, con la chitarra in modalità wah-wah.

Infine veniamo alle dolenti note del box (le magagne del titolo), che riguardano gli ultimi sette dischetti riportanti altrettanti concerti dal vivo, o parti di essi (nel dettaglio: Bromley Technical College 1967, Live 1967, registrato in varie locations, 7th National Jazz & Blues Festival 1967, Gothenburg 1968, Berlin 1969, Bremen 1969 e Fillmore West 1970). Tutti show reputati di altissimo profilo…peccato che si faccia una fatica boia ad ascoltarli! Sì perché, in nome del caro vecchio “valore storico”, il box ci propina una serie di CD registrati letteralmente coi piedi (per non dire di peggio), un suono da bootleg di bassissima qualità che rende praticamente impossibile quando non fastidioso l’ascolto, e siccome non stiamo parlando di album di dubbia legalità tratti da concerti radiofonici ma di un cofanetto che viene fatto strapagare, mi sento anche un po’ preso per il culo (possibile che negli archivi non ci fosse qualcosa di inciso meglio?).

In tutta onestà devo dire che questo discorso si applica sicuramente per i primi cinque CD (quello di Gothenburg all’inizio mi aveva dato qualche speranza, peccato però che la voce non si senta quasi per niente), mentre quelli di Brema e Fillmore West sono incisi in maniera più che accettabile, e quindi sono gli unici che sono riuscito ad ascoltare senza farmi venire la voglia di gettare il CD dalla finestra, apprezzando una stratosferica Parchman Farm di 14 minuti dallo show tedesco e, da quello di San Francisco, i 21 minuti totali della lenta e cadenzata What’s The Matter With You e del puro blues Travelling Man. Un cofanetto che, a parte la macchia indelebile di gran parte dei contenuti inediti che anche se restavano tali era meglio, contiene una bella fetta di storia del blues, anche se il tutto viene fatto pagare a carissimo prezzo.

Marco Verdi

Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Prima Parte: Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions)

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Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions) – Warner CD

Ci sono pochi dubbi, almeno per quanto mi riguarda, che la migliore ristampa del 2020 sia stata Wildflowers & All The Rest, uno splendido cofanetto che riepilogava le sessions di quello che per molti è il capolavoro di Tom Petty (Wildflowers appunto, anche se personalmente preferisco di poco Full Moon Fever), aggiungendo all’album originale del 1994 un intero CD di inediti – inizialmente il lavoro avrebbe dovuto essere doppio – uno di “home recordings” ed un altro dal vivo con le canzoni del disco suonate nel corso degli anni. Sul sito di Tom era poi disponibile una edizione Super Deluxe limitata con una confezione potenziata e soprattutto un quinto dischetto intitolato Finding Wildflowers, che proponeva sedici ulteriori pezzi tra takes alternate e qualche inedito: peccato però che per averla bisognava sborsare una differenza di oltre cento dollari rispetto alla versione quadrupla normale.

Ma siccome nell’industria discografica non c’è limite al peggio, il 16 aprile Finding Wildflowers uscirà come CD a parte, una beffa atroce per chi, come il sottoscritto, lo ha dovuto strapagare solo pochi mesi fa ed ora lo vede tranquillamente a disposizione di tutti. Una mossa moralmente censurabile della quale incolpo certamente la Warner, ma anche gli eredi di Tom che hanno dovuto per forza dare l’assenso. Sono sicuro che se il biondo rocker della Florida fosse ancora tra noi si sarebbe fieramente opposto a questa porcata (non trovo altro termine), e non sarebbe stata neanche la prima volta: famosa per esempio fu la battaglia, tra l’altro vinta, che Petty condusse contro la MCA che nel 1981 voleva aumentare di un dollaro (!) il prezzo del suo allora nuovo LP Hard Promises (ed anche il suo album del 2002 The Last DJ è una sorta di concept contro le major). Considerazioni morali a parte, il contenuto musicale di Finding Wildflowers è come sempre eccelso, e vista l’imminente uscita ho deciso di tornarci sopra in breve.

Non tutto è inedito: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below (ma con Mike Campbell alla chitarra elettrica) ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (che paga l’influenza delle allora recenti produzioni di Jeff Lynne) entrambe uscite come B-sides, e poi Girl On LSD, un divertente ed ironico rockabilly sempre uscito come lato B. Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo), una bellissima A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country e con Ringo Starr ai tamburi.

Cabin Down Below è presente anche in una take alternata elettrica, ancora più grezza di quella finita sul disco originale (e con gli Hearbreakers al completo, compreso Stan Lynch in una delle sue ultime apparizioni prima di lasciare la band; It’s Good To Be King è molto rallentata ma rimane una grande canzone, mentre Honey Bee musicalmente non è molto diversa da quella nota ma presenta differenze nel testo ed una strofa in più. C’è spazio anche per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto e che pare non fosse mai stato realmente considerato per l’inclusione in Wildflowers. Tra una quindicina di giorni circa vi parlerò di un altro episodio catalogabile sotto la categoria “Imbrogli & Fregature”, e questa volta riguarderà una nota band inglese che in passato ha avuto problemi con maiali e muri.

Marco Verdi

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volumi 5-6: Something In The Air/At The Kit Kat Klub

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David Bowie – Something In The Air – Parlophone/Warner CD – 2LP

David Bowie – At The Kit Kat Klub – Parlophone/Warner CD – 2LP

Eccomi a parlare degli ultimi due volumi che vanno a completare Brilliant Live Adventures, cofanetto dedicato a sei concerti dal vivo di David Bowie nella seconda metà degli anni 90, una pubblicazione che ha attirato a sé una marea di critiche fin dal principio, a causa della scelta quantomeno discutibile di far pagare a parte i box vuoti, sia che fossero per i CD o gli LP, e non magari offrirli in omaggio almeno a chi prenotava in anticipo l’intera serie, opzione peraltro non disponibile. Niente però in confronto alle lamentele anche feroci in conseguenza proprio delle ultime due uscite di cui mi accingo a parlare: se infatti i primi quattro volumi erano sì in tiratura limitata ma sufficiente ad accontentare (quasi) tutti i numerosi fans del compianto musicista britannico, sia il quinto che il sesto episodio sono andati esauriti in mezz’ora circa ciascuno, con la maggior parte dei possibili acquirenti rimasta con un palmo di naso anche perché uno dei due siti esclusivi per la vendita è andato praticamente subito in crash. Un’operazione quasi fallimentare dal punto di vista gestionale (qualcuno l’ha addirittura definita la peggiore della storia), che ha costretto la Parlophone a stendere una lettera aperta di scuse ai fans con la vaga promessa di un prossimo riassortimento di stock per quanto riguarda gli ultimi due volumi.

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Ed inoltre, bisogna dirlo, non è che si stia parlando di chissà quali rarità imperdibili, ma di concerti che in gran parte erano già stati resi disponibili come download. Tornando comunque alla parte musicale, ecco nel dettaglio i famigerati ultimi due episodi della serie (ebbene sì, faccio parte dei “fortunati” che sono riusciti ad accaparrarseli), entrambi riguardanti il mini-tour del 1999 (solo otto date tra Europa e Stati Uniti, tra cui anche una all’Alcatraz di Milano) seguita alla pubblicazione dell’album Hours, un lavoro di buon livello nel quale Bowie tornava alla forma canzone classica dopo le sperimentazioni modernistiche di Outside e Earthling. Il quinto volume si intitola Something In The Air e documenta lo show di Parigi del 14 ottobre all’Elysée Montmartre, quindici brani in tutto (il concerto è completo) con David accompagnato da una solida band che suona molto più rock e meno “techno” di quella dei tour precedenti: rispetto ai primi quattro CD del box gli unici membri rimasti sono il tastierista Mike Garson e la bassista e cantante Gail Ann Dorsey, con l’aggiunta di Page Hamilton e Mark Plati alle chitarre, Sterling Campbell alla batteria ed i cori di Emm Gryner e Holly Palmer.

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Vista la scorpacciata negli altri CD di pezzi tratti da Outside e Earthling questa volta si è scelto di soprassedere, e la setlist vede un Bowie in forma e di ottimo umore spaziare lungo tutta la sua carriera essendo anche meno “avaro” di hits: intanto la serata si apre con una lucida rilettura per sola voce e piano della splendida Life On Mars?, una delle più belle ballate di sempre del  nostro https://www.youtube.com/watch?v=nRnbuDvk7zM , e poi trovano spazio anche brani popolarissimi e coinvolgenti come China Girl, Changes e la roccata Rebel Rebel, che chiude lo show. Chiaramente i pezzi di Hours hanno molto spazio, con cinque selezioni: Thursday’s Child, gradevole pop ballad vagamente tinta di soul, Something In The Air, cadenzata ed avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=HRhjVNGqmIg , la bella Survive, un lento elettroacustico di presa immediata e con un ottimo guitar solo finale, Seven, delicata e toccante (tra le più belle della serata), che si contrappone alla dura e chitarristica The Pretty Things Are Going To Hell. Ma come in ogni concerto bowiano che si rispetti, il Duca Bianco va a pescare diversi “deep cuts”, cioè episodi meno conosciuti del suo vasto catalogo, come Word On A Wing, suadente slow dal tono quasi confidenziale, l’intrigante rock ballad Always Crashing In The Same Car, l’applaudita Drive-In Saturday, splendidamente sixties-oriented https://www.youtube.com/watch?v=qqQ__Jr77WE , e la rockeggiante ed obliqua Repetition. Dulcis in fundo, non mancano un paio di sorprese: dal primo album dei Tin Machine I Can’t Read, affascinante e ricca di pathos, e addirittura il ripescaggio dell’oscura Can’t Help Thinking About Me, un raro singolo pubblicato dal nostro per la Pye Records nel 1966, delizioso power pop elettrico con coretti, chitarre in evidenza e ritornello orecchiabile.

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Live At The Kit Kat Klub (il sesto ed ultimo CD) è invece inerente al concerto del 19 novembre in un piccolo locale di New York di fronte ad una platea di invitati, un’altra valida e godibile performance che però per dieci dodicesimi contiene brani già presenti nello show parigino  https://www.youtube.com/watch?v=vfpM1BbxPdY (un altro problema di questo cofanetto: la ripetitività), con le uniche due differenze che consistono nella potente Stay (da Station To Station), contraddistinta da un ossessivo riff chitarristico dal sapore quasi funky, e, da Earthling, l’ipnotica e non imperdibile I’m Afraid Of Americans.

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Il prossimo autunno la “Bowie Inc.” dovrebbe riprendere con le pubblicazioni dei cofanetti riepilogativi della carriera (fermi a Loving The Alien del 2018, che si occupava degli anni 80 di David), una serie di manufatti che finora si è attirata molte meno critiche del box Brilliant Live Adventures, a parte quella non trascurabile della poca presenza di brani rari o inediti.

Marco Verdi

L’Erba (Tagliata) Del Vicino E’ Sempre Più…Blu! Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2

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Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2 – High Top Mountain/Thirty Tigers CD

A pochi mesi dal primo volume https://discoclub.myblog.it/2021/01/08/meno-male-che-i-dischi-belli-li-sa-ancora-fare-sturgill-simpson-cuttin-grass-vol-1/  (ma per il download era già disponibile da fine 2020) esce il secondo episodio del progetto Cuttin’ Grass, due album nei quali l’ormai noto singer-songwriter Sturgill Simpson reinterpreta una serie di brani del suo songbook in chiave bluegrass. E quando dico bluegrass intendo il termine nella sua accezione più pura e tradizionale, senza la benché minima traccia di contaminazione rock o di altro genere: Sturgill ha scelto canzoni dal suo passato anche remoto (ma non recente: il pessimo Sound & Fury è ignorato anche in questo secondo volume) e le ha totalmente reinventate secondo i canoni della mountain music di settanta e passa anni fa, con una strumentazione totalmente acustica e con la batteria usata col contagocce.

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Cuttin’ Grass Vol. 2 è quindi il logico prosieguo della prima parte, con gli stessi musicisti (Stuart Duncan al violino, Mark Howard e Tim O’Brien alle chitarre, Mike Bub al basso, Sierra Hull al mandolino, Scott Vestal al banjo e Miles Miller alle percussioni, e tutti quanti alle armonie vocali) ma diversa location di registrazione: se infatti il primo episodio era stato inciso ai piccoli Butcher Shoppe Studios di Nashville, per il seguito la combriccola si è spostata ai Cowboy Arms Studios, che erano di proprietà del grande Cowboy Jack Clement e di recente sono stati trasferiti ad un nuovo indirizzo ma sempre a Nashville. L’album, assolutamente gradevole e suonato benissimo così come il precedente, vede Simpson omaggiare soltanto due album della sua discografia, arrotondando il tutto come vedremo a breve con un inedito assoluto e due “quasi”: il disco a cui attinge maggiormente con sei pezzi su dodici è A Sailor’s Guide To Earth del 2016, con canzoni che se originariamente riflettevano il mood soul-pop-errebi di quel lavoro, qui si trasformano in perfette bluegrass songs, tra pezzi suonati a velocità supersonica con assoli a raffica (Call To Armshttps://www.youtube.com/watch?v=P7VYILfhh3w , brani cadenzati tra country e folk (Brace For Impact, la deliziosa Sea Stories, e la vibrante Keep It Between The Lines, dalla struttura melodica contemporanea) e limpide e cristalline ballate dal sapore bucolico (Oh Sarah, dal ritmo comunque sostenuto, e Welcome To Earth (Polliwog), lenta e struggente ma con una notevole accelerata dalla metà in avanti).

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Dal suo primo album, High Top Mountain, Sturgill riprende tre canzoni: le bellissime Hero e You Can Have The Crown https://www.youtube.com/watch?v=gRk4-sIaL7Y , che mantengono la struttura country originale anche se in veste “unplugged”, e Some Days, energica nel ritmo e dal motivo diretto ed immediato. Ci sono anche due pezzi risalenti al periodo dei Sunday Valley, la prima band del nostro che però non ha lasciato testimonianze su disco: Jesus Boogie, che a dispetto del titolo inizia come uno slow decisamente suggestivo, salvo poi crescere nel ritmo dopo un minuto grazie al banjo che dà il via alle danze, e la fulgida country ballad Tennessee https://www.youtube.com/watch?v=bo8DDMFC-9Q . Dulcis in fundo, Simpson propone l’inedita Hobo Cartoon, pezzo scritto insieme nientemeno che a Merle Haggard ma rimasto nei cassetti fino ad oggi, una splendida ed intensa ballata western che ha in ogni nota della toccante melodia i cromosomi del grande Hag https://www.youtube.com/watch?v=85c9-9UBazo . Un ottimo modo per concludere un secondo volume allo stesso livello del primo, e che ci fa sperare ancora di più che Sound & Fury sia stato soltanto un brutto incidente di percorso.

Marco Verdi