La Prova Del Terzo Disco Per Il “Piccolo Dirigibile”, Brillantemente Superata! Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate

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Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate – Republic/Universal CD

In realtà quello di cui mi accingo a parlare sarebbe il secondo album dei Greta Van Fleet dopo il celebrato (e discusso) Anthem Of The Peaceful Army del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/28/una-nuova-speranza-forse-piu-lattacco-dei-cloni-greta-van-fleet-anthem-of-the-peaceful-army/ , ma il quartetto di Frankenmuth, Michigan aveva esordito nel ’17 con From The Fires, EP di otto canzoni che però con i suoi 32 minuti durava più di tanti album. I GVF (i tre fratelli Josh, voce, Jake, chitarra, e Sam Kiszka, basso e tastiere, e l’amico Danny Wagner alla batteria) con i due lavori precedenti hanno diviso pubblico e critica come poche altre band, almeno in tempi recenti: chi li celebrava come una ventata di aria fresca nel panorama rock visto che i loro colleghi coetanei (i ragazzi sono poco più che ventenni) sono perlopiù artisti rap, hip-hop, trip-hop e boiate varie, chi li stroncava perché li considerava un vero e proprio clone dei Led Zeppelin. Forse la verità stava nel mezzo: il paragone con il Dirigibile ci stava benissimo (ed i nostri un po’ ci marciavano) sia per lo stile musicale proposto, un solido rock-blues molto anni 70, sia per il timbro vocale di Josh incredibilmente simile a quello di Robert Plant, ma nello stesso tempo il fatto di avere una ventata di aria fresca e giovane nel mondo del rock è una cosa indubbiamente positiva. Il problema quando sei associato a doppio filo ad una determinata band è però quello di smarcarti dallo scomodo paragone, e quindi tutti aspettavamo al varco i quattro con il nuovo album The Battle At Garden’s Gate.

Come al solito le critiche sono state alterne, nel senso che i loro detrattori hanno continuato ad accusarli di essere derivativi, mentre altri hanno intravisto nelle varie canzoni più di un tentativo di proporre qualcosa di nuovo, anche se sempre nell’ambito di un suono rock classico. Siccome io sono un po’ come San Tommaso, ho voluto toccare con mano (anzi, con orecchio), e devo dire che The Battle At Garden’s Gate è un deciso upgrade rispetto al seppur buon disco precedente, sia in termini di suono che di songwriting che di performance, e gran parte del merito va certamente al produttore Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, ma anche il Paul McCartney di Egypt Station). Certo, parecchi residui dell’influenza del gruppo di Page & Plant ci sono ancora, meno evidenti ma comunque presenti in più di un pezzo, ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico, in linea con i testi che evocano temi esoterici e mondi paralleli (basta vedere la copertina e le immagini interne). Le canzoni sono solide e godibili dalla prima all’ultima, al punto che i 63 minuti complessivi trascorrono abbastanza facilmente, cosa non affatto scontata. Heat Above inizia con un organo inquietante, poi arriva la batteria lanciatissima ed entra il resto della band per una power ballad abbastanza diversa dallo stile del disco precedente (a parte la voce “plantiana”, ma quella non si può cambiare): arrangiamento elettroacustico ma potente con un quartetto d’archi sullo sfondo, chitarre ed organo ad evocare ampi spazi aperti e melodia molto fluida.

Un buon inizio. My Way, Soon è il primo singolo che gira già da qualche mese, un brano decisamente più rock a partire dal riff elettrico iniziale, anche se il motivo ed il cantato rilassato portano un po’ di sensibilità pop che non pensavo fosse nelle corde dei ragazzi (e qui la voce è più simile a quella di Geddy Lee dei Rush), a differenza di Broken Bells che è una suggestiva ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) non può che ricordare Stairway To Heaven, ma poi il gruppo prende una direzione sua anche se Josh torna in modalità Plant: il brano comunque risulta molto bello, ricco di pathos e di ottimo livello compositivo. La dura Built By Nations è forse la più in linea con l’album di tre anni fa (e quindi la più zeppeliniana), un rock-blues solido e roccioso ma anche coinvolgente e suonato benissimo; un bell’intro di chitarra ed un’entrata decisamente “pesante” della sezione ritmica fanno di Age Of Machine una hard rock ballad coi fiocchi, dal suono al 100% anni 70 e solo vaghe reminiscenze di un gruppo che sapete qual è, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock cari ai Rush (una band a mio parere sottovalutata) e Stardust Chords è “semplicemente” una gran bella rock song, senza particolari influenze.

La potente Light My Love, con la chitarra ed un bel pianoforte in evidenza, è una lucida ballata dal leggero sapore californiano, zona Laurel Canyon (tra le più riuscite del CD), Caravel è dura, chitarristica e fa emergere il lato più puramente rock dei nostri, The Barbarians ha elementi psichedelici ed una chitarra wah-wah che rende tutto godurioso e ci fa tornare ai tempi in cui David Crosby non si ricordava il suo nome, solo con qualche tonnellata di decibel in più. Finale con Trip The Light Fantastic, che ricorda gli Zeppelin “leggeri” di In Through The Out Door e con la maestosa The Weight Of Dreams, più di otto minuti di sano rock anni 70 tra chitarre, archi e melodie ad ampio respiro, con il miglior assolo del disco. Saranno anche derivativi (in questo album un po’ meno), ma a me i Greta Van Fleet piacciono.

Marco Verdi

Altra Anticipazione: Dagli Archivi Personali. Gary Moore – How Blue Can You Get. Esce Sempre Il 30 Aprile

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Gary Moore – How Blue Can You Get – Mascot Provogue – 30-04-2021

Ormai sono passati 10 anni dalla morte di Gary Moore, ma non sembra accennare a rallentare la pubblicazione di album postumi dedicati alla figura del compianto musicista irlandese: un paio di Live, un altro paio di antologie con materiale inedito, ma dalle informazioni che filtrano dalla casa discografica e soprattutto dalla famiglia, negli archivi personali del chitarrista pare ci sia ancora moltissimo materiale interessante e di qualità. In questi tempi di pandemia le case discografiche stanno saccheggiando gli archivi dei musicisti, vivi e morti, alla ricerca appunto di musica inedita che possa rimpinguare la scarsa disponibilità di nuovo materiale disponibile. Questa affannosa ricerca però ogni tanto ci regala a sorpresa dei piccoli gioiellini: anche se la sorpresa spesso è rovinata dalle lunghe attese che intercorrono tra l’annuncio dell’uscita e il tempo effettivo della stessa, con continui rinvii delle date, apparizioni anticipate, spesso di mesi, delle controparti in download e streaming rispetto alle edizioni fisiche, quando escono.

Prendiamo questo How Blue Can You Get, che dovrebbe uscire il 30 aprile, quindi siamo a parlarne in anticipo, sperando che il tutto venga confermato: comunque il materiale per l’ascolto non è mancato, per cui vi parlo almeno dei contenuti. Intanto non è dato sapere, con certezza e precisione quando questo materiale sia stato registrato: si tratta di un misto di brani inediti per Moore, e di versioni alternative di canzoni già apparse in altri album della sua discografia. Si è data la preferenza, anche visto il titolo del CD, a materiale di orientamento blues, ovviamente rivisto nella sua ottica personale, che però negli ultimi anni della sua vita si era fatta anche abbastanza “rigorosa”. Sono solo otto brani, quattro originali, e quattro riletture di classici delle 12 battute, tutti abbastanza lunghi, uno per ciascuno di Elmore James, Sonny Thompson, Memphis Slim e BB King. Nella cartella stampa si evidenzia il perfezionismo che il nostro aveva nel suo approccio allo studio, con diverse versioni provate e riprovate, e questo spiega la pletora di materiale che circola, ma non ci aiuta nel sapere su chi suona nel disco e quando sia stato registrato, ammesso che sia cosa nota, per cui visto che vi devo “illuminare” sui contenuti, vado almeno con la musica, che è peraltro ottima: si parte alla grande con una torrida versione di I’m Tore Down, il classico di Freddie King, un brano che faceva parte del suo repertorio dal vivo, con la chitarra che scorre fluida e con quello splendido timbro che aveva la sua Gibson, ispirato e concentrato come nelle sue migliori performances.

Formidabile anche Steppin’ Out, il classico strumentale di Memphis Slim, che tutti ricordiamo nelle innumerevoli versioni di Eric Clapton, che Moore quasi pareggia con una grinta e un impegno impeccabili, il lavoro della chitarra è veramente superbo, un inno al virtuosismo, è anche il trio, basso, batteria e organo che lo accompagna, è notevole; In My Dreams, è “inedita”, una delle sue classiche ballate, malinconiche ed intense, per quanto molto simile a tante altre scritte dall’irlandese, che infonde nella musica, con le corde della chitarra spesso tese fino allo spasimo, il suo stile inconfondibile. Splendida anche la versione inedita del classico di B.B. King How Blue Can You Get che dà il titolo all’album, sofferta e ricca di pathos, come raramente è dato sentire, con voce e chitarra al massimo delle loro possibilità. L’altro inedito scritto da Moore è uno strano brano come Looking At Your Picture, non classificabile con precisione, un po’ blues, un po’ prog, sempre con buon lavoro alla 6 corde, benché forse un po’ irrisolto nell’insieme, mentre nella versione alternativa dello slow Love Can Make A Fool Of You, non ci sono incertezze, solo grande musica, con un altro magistrale assolo dei suoi. E in Done Somebody Wrong di Elmore James Moore instilla il suo amore per il blues, in modo limpido e “rigoroso”, prima di congedarsi con Living With The Blues, altro lancinante e superbo blues lento, che lo proietta nella stratosfera della sua ispirazione con un altro assolo fenomenale. Se esiste altro materiale di questo livello attendiamo con impazienza nuovi capitoli della saga infinita di Gary Moore.

Bruno Conti

Un Box Monumentale, Splendido E Costosissimo, Ma Con Alcune Magagne Non Da Poco. John Mayall – The First Generation 1965-1974

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John Mayall – The First Generation 1965-1974 – Madfish/Snapper 35CD Box Set

Verso la fine del 2020 era uscito l’annuncio che la Madfish, etichetta inglese specializzata in cofanetti retrospettivi di gran lusso (ricordo di recente quelli dedicati a Gentle Giant e Wishbone Ash), avrebbe pubblicato all’inizio di quest’anno The First Generation 1965-1974, enorme box di 35 CD che riepiloga i primi dieci anni di carriera (cioè i migliori) del grande John Mayall. Non credo sia il caso di descrivere ancora una volta l’importanza di Mayall nella storia della musica: definito a ragione “The Godfather of British Blues”, oltre ad essere un notevole musicista a 360 gradi (cantante, armonicista, pianista, chitarrista ritmico e songwriter) e ad aver pubblicato più di un album passato giustamente alla storia, è stato anche capace di scovare talenti ospitandoli a suonare sui suoi dischi spesso prima che questi diventassero famosi. I casi più eclatanti sono quelli di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor ben prima che si facessero un nome rispettivamente con Cream, Fleetwood Mac e Rolling Stones, ma negli anni John ha suonato anche con John McVie (anche lui da lì a poco fondatore dei Fleetwood Mac), Larry Taylor e Harvey Mandel poi nei Canned Heat, il noto batterista Aynsley Dunbar, il chitarrista Jon Mark ed il sassofonista Johnny Almond (che nei seventies avranno un buon successo come duo a nome Mark/Almond) ed anche in breve con Jack Bruce e Mick Fleetwood: per una disamina più dettagliata della discografia ufficiale di John vi rimando però all’ottima retrospettiva di Bruno pubblicata su questo blog nel 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ e  https://discoclub.myblog.it/2019/05/21/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-ii/ .

john mayall first generation box

Sinceramente sono stato combattuto per alcune settimane se acquistare o no questo box, più che altro per il prezzo di 275 sterline (più spedizione ed impostazione) dato che io di Mayall possedevo i lavori più recenti e solo un paio di cose risalenti alla “golden age”. Devo dire però che il sacrificio economico non è stato vano (tra l’altro il box, stampato in 5000 copie, è ancora disponibile su uno dei due canali ufficiali, ma occhio ai vari siti dove viene rivenduto quasi al doppio), in quanto The First Generation 1965-1974 è un manufatto formidabile, un cofanetto importante anche nelle dimensioni, con un bellissimo libro rilegato di 168 pagine pieno di foto, scritti e note, alcuni pezzi di memorabilia e, come ciliegina, una foto autografata dallo stesso Mayall. I CD della sua discografia ufficiale sono stati tutti rimasterizzati e presentati in confezioni simil-LP, in molti casi con bonus tracks aggiunte (non inedite, ma le stesse già presenti in precedenti ristampe), un paio di CD singoli che riportano altrettanti 45 giri di inizio carriera (I’m Your Witchdoctor/Telephone Blues e Lonely Years/Bernard Jenkins) ed il raro EP All My Life registrato con Paul Butterfield, che se non erro è la prima volta che esce su CD come entità a sé stante.

A parte la retrospettiva di Bruno di cui sopra, lasciatemi aggiungere che qui per un neofita c’è da godere assai, in quanto tra i vari album ci sono almeno due capolavori assoluti (il famoso Blues Breakers con Clapton, e A Hard Road con Green) e tanti altri dischi da non meno di quattro stellette (Crusade, Bare Wires, Blues From Laurel Canyon, gli strepitosi live The Turning Point e Jazz Blues Fusion), oltre ai classici “personal favorites” (The Blues Alone, Empty Rooms, Back To The Roots). In questa recensione vorrei soffermarmi principalmente sul materiale inedito del box, che consiste in uno strepitoso doppio CD intitolato BBC Recordings ed in una serie di concerti mai pubblicati prima che occupa i sette dischetti finali. BBC Recordings è, come accennato poc’anzi, un mezzo capolavoro, che chi non ha comprato il box perché già possedeva tutta la discografia ufficiale di Mayall meriterebbe di vedere pubblicato a parte (ma con la Madfish so già che non sarà così).

Si tratta di sessions inedite registrate presso gli studi della mitica emittente britannica dal 1965 al 1968 e messe in onda in programmi popolarissimi come Saturday Club e Top Gear, dove ritroviamo insieme a Mayall parecchi dei nomi citati ad inizio recensione: Clapton, Green, Taylor, Bruce e McVie, oltre ai noti batteristi Colin Allen e Keef Hartley. Due ore complessive di musica, registrata perlopiù in mono, con un suono che varia dal discreto al buono anche se qualche incisione sotto la media c’è. Nel primo CD ci sono ben 13 brani con Clapton alla solista, tra i quali spiccano la vivace Crawling Up A Hill, con un breve ma ficcante assolo di Manolenta, la sinuosa Crocodile Walk, la coinvolgente Bye Bye Bird, con una prestazione maiuscola di Mayall all’armonica, una Hideaway di Freddie King ricca di swing e con Eric che arrota da par suo, il magnifico slow blues Tears In My Eyes, che vede Clapton in modalità “God” https://www.youtube.com/watch?v=kHeJ1lHh2jo , la classica All Your Love di Otis Rush e la pimpante Key To Love. In mezzo abbiamo cinque pezzi con alla chitarra il poco noto Geoff Krivit ma con Jack Bruce al basso: da segnalare l’arrochita Cheatin’ Womanhttps://www.youtube.com/watch?v=qefVuAMu2Eo  una strepitosa Parchman Farm di Mose Allison, con il basso di Bruce come strumento solista, e la jazzata Nowhere To Turn.

Il primo dischetto si chiude così come si apre il secondo, e cioè con Peter Green come axeman (sette brani totali): imperdibili il saltellante country-blues Sitting In The Rain, l’ottimo strumentale Curly (in due diverse versioni), scritto da Green stesso e con le sue dita grandi protagoniste e le splendide Ridin’ On The L And N (Lionel Hampton) e Dust My Blues (Elmore James), entrambe con Greeny alla slide. Le restanti canzoni vedono Mick Taylor alla solista ed in molti casi una sezione fiati a dare più corpo al suono, e qui il meglio lo abbiamo con la suadente e sensuale Worried Love, il potente rock-blues strumentale Snowy Wood, la lenta e raffinata Another Man’s Land, con il sax di Chris Mercer a duettare con la slide di Mick, il blues-jazz Knockers Step Forward, che vede il futuro Rolling Stone rilasciare un assolo sensazionale e la roboante Long Gone Midnight, con la chitarra in modalità wah-wah.

Infine veniamo alle dolenti note del box (le magagne del titolo), che riguardano gli ultimi sette dischetti riportanti altrettanti concerti dal vivo, o parti di essi (nel dettaglio: Bromley Technical College 1967, Live 1967, registrato in varie locations, 7th National Jazz & Blues Festival 1967, Gothenburg 1968, Berlin 1969, Bremen 1969 e Fillmore West 1970). Tutti show reputati di altissimo profilo…peccato che si faccia una fatica boia ad ascoltarli! Sì perché, in nome del caro vecchio “valore storico”, il box ci propina una serie di CD registrati letteralmente coi piedi (per non dire di peggio), un suono da bootleg di bassissima qualità che rende praticamente impossibile quando non fastidioso l’ascolto, e siccome non stiamo parlando di album di dubbia legalità tratti da concerti radiofonici ma di un cofanetto che viene fatto strapagare, mi sento anche un po’ preso per il culo (possibile che negli archivi non ci fosse qualcosa di inciso meglio?).

In tutta onestà devo dire che questo discorso si applica sicuramente per i primi cinque CD (quello di Gothenburg all’inizio mi aveva dato qualche speranza, peccato però che la voce non si senta quasi per niente), mentre quelli di Brema e Fillmore West sono incisi in maniera più che accettabile, e quindi sono gli unici che sono riuscito ad ascoltare senza farmi venire la voglia di gettare il CD dalla finestra, apprezzando una stratosferica Parchman Farm di 14 minuti dallo show tedesco e, da quello di San Francisco, i 21 minuti totali della lenta e cadenzata What’s The Matter With You e del puro blues Travelling Man. Un cofanetto che, a parte la macchia indelebile di gran parte dei contenuti inediti che anche se restavano tali era meglio, contiene una bella fetta di storia del blues, anche se il tutto viene fatto pagare a carissimo prezzo.

Marco Verdi

Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Seconda Parte: Pink Floyd – Live At Knebworth 1990. Esce Il 30 Aprile.

pink floyd live at knebworth

Pink Floyd – Live At Knebworth 1990 – Parlophone/Warner CD 30-04-2021

Eccomi qua oggi a parlare di un’altra operazione discografica quantomeno discutibile dopo quella che riguardava Tom Petty e la pubblicazione di Finding Wildflowers separatamente dal cofanetto Wildflowers & All The Rest, nel quale era stato incluso lo scorso ottobre come CD esclusivo (e fatto pagare profumatamente): sto parlando di Live At Knebworth 1990, “nuovo” album dal vivo dei Pink Floyd che era già uscito due anni fa sul mastodontico box The Later Years. Con questo live (disponibile dal 30 aprile solo in versione audio, a differenza del cofanetto dove era presente anche in video) continua l’opera di “spacchettamento” di The Later Years, dal momento che lo scorso anno era già uscita a parte la versione restaurata audio/video del famoso doppio dal vivo del 1988 Delicate Sound Of Thunder https://discoclub.myblog.it/2019/12/24/cofanetti-autunno-inverno-15-unopera-lussuosa-costosa-ed-esauriente-anche-se-leggermente-incompleta-pink-floyd-the-later-years-1987-2019-parte-ii/ : giudico però questa operazione un filino meno grave di quella di Petty, in quanto chi possiede il box dei Floyd del 2019 può ancora godere di parecchio materiale esclusivo. Live At Knebworth 1990 a mio parere rappresenta però un’occasione persa da parte del gruppo inglese: infatti tra le varie mancanze di The Later Years, una delle più evidenti era quella del famoso concerto di Venezia del 1989 in versione audio, e se la scelta oggi fosse caduta su di esso invece della solita ripetizione se lo sarebbero accaparrato anche i possessori del costoso box.

Se però non siete tra di essi, questo CD è un acquisto praticamente obbligato soprattutto se siete estimatori del gruppo all’epoca formato da David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright: si tratta infatti (ma lo saprete già) del famoso show che i nostri tennero il 30 giugno 1990 nel gigantesco Knebworth Park (a poco più di un’ora a nord di Londra), uno spettacolo di beneficienza che vide alternarsi sul palco nomi del calibro di Paul McCartney, Dire Straits, Genesis, Eric Clapton, Elton John e Robert Plant, e con i Floyd nel ruolo di headliners a chiudere la serata (NDM: caso volle che pochi giorni dopo il loro ex compagno Roger Waters fece parlare di sé ancora di più con il mega-evento The Wall Live In Berlin). Nel 1990 il tour mondiale di Gilmour e soci era già finito da circa un anno, e quindi per lo show di Knebworth dovettero rimettere insieme una band: si rivolsero dunque a membri già “collaudati” (Guy Pratt al basso e voce, John Carin alle tastiere, Tim Renwick alla chitarra, Gary Wallis alle percussioni e Durga McBroom ai cori) ed altri reclutati solo per quellata serata (Vicky Brown e sua figlia Sam alle voci, insieme alla rediviva Clare Torry che era presente anche su The Dark Side Of The Moon (quella che gorgheggia davvero in The Great Gig In The Sky, e non Doris Troy come ha scritto qualcuno erroneamente), oltre agli special guests Candy Dulfer al sax ed il noto compositore/arrangiatore Michael Kamen alle tastiere).

Il concerto, sette canzoni discretamente lunghe per poco meno di un’ora di durata, vede il gruppo in forma spettacolare, e, complice anche l’incisione perfetta, riesce ad intrattenere alla grande l’ascoltatore nonostante una setlist che riserva poche sorprese. I nostri infatti vanno prevedibilmente sul sicuro, iniziando con le prime cinque parti della sempre formidabile Shine On You Crazy Diamond, in cui Gilmour fa sentire subito di essere in serata. Vista la presenza della Torry non poteva mancare The Great Gig In The Sky, e la bionda cantante dimostra di avere ancora una gran voce nonostante i 17 anni passati dall’incisione originale; Wish You Were Here è sempre stata una ballata splendida e toccante, ma qui sembra che i Floyd la eseguano ancora meglio che nel tour precedente. Sorrow è un tributo che i tre pagano all’allora recente A Momentary Lapse Of Reason, ma in quel disco c’era di meglio (penso a On The Turning Away), mentre Money, che è già trascinante di suo, in quellaa serata smentisce quelli che sostengono che i Floyd fossero sempre uguali a loro stessi: infatti dopo una prima parte consueta i nostri si lanciano in una lunga e coinvolgente improvvisazione, durante la quale si concedono perfino un intermezzo reggae e la Dulfer fa la sua parte confermandosi brava oltre che bella (d’altronde ha suonato anche con Van Morrison, uno “abbastanza” esigente).

Il finale è pirotecnico, con la magnifica Comfortably Numb, che soffre un po’ dell’assenza della parte vocale di Waters ma si rifà con l’epico assolo finale di Gilmour, e con una delle Run Like Hell più belle e travolgenti mai sentite. Ripeto: se non avete il box The Later Years, questo Live At Knebworth 1990 è un CD da non lasciarsi sfuggire.

Marco Verdi

Anticipazioni: Una Ottima Edizione Super Deluxe Per Un Disco Storico. The Who – Sell Out. Esce il 23 Aprile

who sell out box

The Who – Sell Out  – Super Deluxe 5 CD/ 2 CD Polydor/IMS/Universal – 23-04-2021

Uscito in origine nel dicembre del 1967 (quindi nessun anniversario particolare), Sell Out fu pubblicato in CD una prima volta nel 1995 con 10 bonus tracks, ed una seconda volta in doppia Deluxe Edition nel 2009, con ben 29 tracce bonus. Si tratta del terzo album di studio degli Who, a volte non troppo considerato rispetto ai successivi Tommy, Who’s Next e Quadrophenia, ma significativo e propedeutico per il passaggio dal pop-mod rock del primo periodo al rock tout court dei dischi che sarebbero venuti in seguito. Prima di parlare del cofanetto lasciatemi infervorare un attimo su questa moda/mania delle versioni Super Deluxe: arma infallibile per scucire agli appassionati e ai fans, anche più volte nel corso degli anni, imbarazzanti quantità di denaro, spesso per riascoltare più e più volte le stesse canzoni in versioni molto spesso quasi identiche a quelle apparse sui dischi originali, quasi sempre in peggio, accompagnate da quello che si è soliti definire memorabilia. Ovvero poster dell’epoca, spillette, certificati fasulli, foto, gigantografie di Ave Ninchi nuda a cavallo, fustini del detersivo in omaggio, voucher per poter partecipare alla estrazione del Gronchi Rosa, DVD e Blu-Ray, spesso in versione solo audio, senza immagini, destinati agli audiofili, ma assai di frequente anche vinili aggiunti (che si potrebbero pubblicare tranquillamente a parte, come i supporti appena citati).

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Ogni tanto, ma raramente, c’è anche un bel librone rilegato e una quantità congrua di materiale inedito: ed è il caso di questa Super DeLuxe Edition di Sell Out che ha le sue magagne, ovvero versioni a go-go dell’album in Mono e Stereo nei primi due CD, ma anche 46 brani inediti dei 112 compresi nel box. Oltre al bel libro rilegato di 80 pagine appena citato, ricco di note, curato dallo stesso Pete Townshend, troviamo i memorabilia di cui sopra, per l’occasione veramente ricchi: il manifesto originale dell’album di Adrian George, il poster del concerto alla City Hall di Newcastle, il programma di 8 pagine dello show al Saville Theatre, la business card del Bag O’Nails Club di Kingly Street a Soho, una foto del gruppo riservata al fan club degli Who, il volantino per i concerti del Bath Pavilion, uno sticker di Wonderful Radio London, la tessera personale dello Speakeasy Club appartenuta a Keith Moon e una newsletter del Who Fan Club. Poi la casa discografica non ha resistito alla quota vinile, questa volta contenuta, con due singoli 7”, i vecchi 45 giri, di I Can See For Miles e Magic Bus. Ci sarà anche la classica versione “per poveri” in 2 CD, contenente i primi due dischetti del cofanetto, quelli con le versioni mono e stereo, con 52 pezzi complessivi, e svariate versioni in vinile.

Se volete avere il materiale inedito però dovete acquistare il cofanetto: vediamo cosa contiene, in sintesi ma in modo approfondito (lo so è un po’ un ossimoro), visto che ne parliamo in anteprima prima dell’uscita che sarà il 23 aprile prossimo. Nell’album originale, che immagino tutti conoscano, in apertura troviamo la bellissima Armenia City In The Sky, preceduto da uno dei tanti commercials inseriti per ricreare l’atmosfera delle emittenti radiofoniche pirate dell’epoca https://www.youtube.com/watch?v=NN4TTG_9vuc , una delle rare canzoni non scritta dal solo Townshend (a parte qualche saltuario brano di John Entwistle, qui ce ne sono tre), ma con l’aiuto del suo amico e protetto Speedy Keen, quello dei Thunderclap Newman, non so se ricordate la bellissima Something In The Air? Armenia è cantata a due voci da Roger Daltrey e Keen, mentre l’altro brano memorabile è I Can See For Miles, pubblicata come singolo, con Keith Moon che comincia a punire la sua batteria con grande goduria. L’altro brano che uscì come singolo, ma solo in Olanda, è la deliziosa Mary Anne With The Shaky Hands, cantata a due voci da Pete e Roger in modalità psych-pop https://www.youtube.com/watch?v=y0GbhIO0F0Q , Odorono non fu presa molto bene dalla omonima compagnia che produceva deodoranti, ma Townshend che la cantava non ci fece molto caso https://www.youtube.com/watch?v=a_0KV3mGQ2M , Rael Pt.1 & 2 introduce il personaggio che tornerà periodicamente fino a Quadrophenia. Questo è quanto più o meno succede in mono e stereo nei primi 2 CD.

Tra le bonus il travolgente singolo in modalità power pop Pictures Of Lily, le bellissime cover di The Last Time e Under My Thumb degli amici/rivali Stones  , una vibrante Jaguar, cantata a due voci da Pete e John, nel CD 2, quello stereo c’è una versione esplosiva di Summertime Blues e una Sodding About dove Townshend applica alcune delle sonorità che Jimi Hendrix aveva portato al pop inglese per trasformarlo in rock https://www.youtube.com/watch?v=jfI1H-SXAHA , poi riproposte anche in Hall Of The Mountain King, sentire come suonano Entwistle e Moon, due macchine da guerra a rincorrere le evoluzioni chitarristiche di Townshend https://www.youtube.com/watch?v=N5gK0Ll9FQs . C’è molta altra roba interessante nella versione doppia: se invece siete “più ricchi” e vi orientate al cofanetto, il CD 3 contiene le studio sessions 1967/1968, 28 brani tra outtakes, versioni all’impronta, chiacchiere e pirlate varie in studio e chicche assortite, per esempio, per citarne alcune, versioni differenti di Dogs, Shakin’ All Over, Magic Bus, ma c’è veramente molto da sentire. Il CD 4, intitolato The 1968 Sessions – The Road To Tommy è sempre interessante, ma potevano sforzarsi un po’ di più, visto che contiene 14 pezzi per 40 minuti circa di musica, comunque ottime la “scintillante” Glow Girl, già presente in altre versioni anche nei dischetti precedenti, con elementi appunto di Tommy, Faith In Something Bigger, Dr. Jekyll And Mr. Hyde, la scanzonata e tirata Call Me Lightning, forse la migliore versione delle tante che appaiono nel box di Dogs. Ci sono anche due ulteriori versioni di Magic Bus, quella del singolo, e una più lunga, in mono, oltre ad una pimpante Fortune Teller.

Ovviamente come è d’uso in queste versioni Super DeLuxe i cosiddetti brani “inediti” sono spesso all’incirca sempre gli stessi, tanti, ovvero 46, ma ripetuti più volte in alternate takes dove le differenze sono minime, ma visto che sono indirizzati ai cosiddetti fans “completisti” è quello che ci si aspetta. Nel quinto CD Pete Townshend Original Demos, forse il più interessante, ci sono altre 14 tracce, e non sono solo i soliti demo voce e chitarra acustica od elettrica, ma alcuni vengono integrati con organo, basso e batteria, per esempio la piacevole ed inedita Kids! Do You Want Kids, l’alternate version di Glow Girl, molto interessante perché ovviamente in questo come negli altri brani la voce è quella di Pete Townshend. Inside Outside USA sembra quasi un brano dei Beach Boys, anche Jaguar con le robuste pennate dell’acustica di Pete è uno dei demo meglio costruiti, in Little Billy Townshend utilizza anche un inconsueto banjo, mentre Odorono è uno dei demo più rudimentali, come pure Pictures Of Lily poco rifinita, e anche l’alternate di Relax diciamo che non è memorabile, più interessante la poco nota e sognante Melancholia, in un remix del 2018, e a chiudere due eccellenti versioni di Mary Anne With The Shaky Hands in veste acustica ma “lavorata” e una strana psych I Can See For The Miles.

Questo è quanto: vale il centone abbondante (ma anche meno) che viene richiesto? Forse in questo caso la risposta è affermativa, dipende anche dal vostro portafoglio.

Bruno Conti

Una Piacevolissima Passeggiata Lungo Le Coste Della California. Nick Waterhouse – Promenade Blue

nick waterhouse promenade blue

Nick Waterhouse – Promenade Blue – Innovative Leisure CD

Nick Waterhouse è un singer-songwriter californiano di Santa Ana attivo più o meno dal 2010, al quale però mi sono avvicinato solo nel 2019 grazie al suo quarto album, l’omonimo Nick Waterhouse, un piacevole e riuscito dischetto che mescolava sonorità vintage passando dal soul al rockabilly al pop al rhythm’n’blues con grande disinvoltura. Promenade Blue, il suo nuovissimo lavoro, è ancora meglio: Nick è uno di quei musicisti idealmente fermi ancora agli anni 60, e le sue canzoni riflettono in toto tale influenza. Cantante valido ed espressivo ed autore di vaglia, Waterhouse in Promenade Blue accentua ulteriormente il discorso intrapreso con il suo penultimo album, proponendo undici deliziose canzoni in bilico tra blue-eyed soul, errebi e pop con un pizzico di rock’n’roll ed una spruzzata di jazz e swing, un tipo di musica che a modo suo risulta californiana al 100%. Anzi, io mi immagino di ascoltare il disco su una terrazza che si affaccia sul mare della California del sud al tramonto, con in mano un bel cocktail variopinto (in mancanza di ciò, lavorate di fantasia come ho fatto io).

Registrato a Memphis e co-prodotto da Nick insieme a Paul Butler (dietro la consolle nei lavori di Michael Kiwanuka), Promenade Blue vede sfilare una lunga schiera di musicisti proprio come si usava fare nei sixties (tutti nomi peraltro abbastanza sconosciuti), con sezione ritmica, chitarre, piano, organo, marimba e la presenza sia di una sezione fiati che una di archi. Una sorta di muro del suono di ispirazione spectoriana, come nell’iniziale Place Names, incantevole pop song dove tutto profuma di anni 60, dalla melodia romantica alle backing vocalist femminili fino al sapiente uso degli archi. La saltellante The Spanish Look sembra, non scherzo, una outtake dei Coasters appena riscoperta, un piccolo gioiello tra errebi e doo-wop con un tocco jazzato che rimanda alla stagione d’oro dei vocal groups; Vincentine è puro soul, con Nick che mostra di avere una duttilità vocale non indifferente e la band lo segue che è una meraviglia, con i fiati a comandare il suono. Con Medicine siamo dalle parti di Ben E. King, un pezzo con il basso in primo piano, una chitarrina con riverbero d’ordinanza, cori maschili e sax come ciliegina: davvero, se non sapessi cosa sto ascoltando penserei di avere per le mani qualche vecchio padellone targato Motown o Atlantic.

Very Blue cambia registro, in quanto è una maestosa pop song alla Roy Orbison, con lo stesso tipo di pathos delle incisioni di “The Big O” anche se l’estensione vocale è ovviamente diversa, mentre con Silver Bracelet torniamo in territori black con un’altra perfetta soul song dalla melodia d’altri tempi che vede sassofono e piano sugli scudi. Proméne Bleu è l’unico strumentale del CD, un raffinatissimo pezzo lounge-jazz da nightclub con la chitarra elettrica protagonista ed il sax che arriva per chiudere la canzone; con Fugitive Lover e Minor Time si torna dalle parti dei gruppi vocali di colore con un brano coinvolgente dalla ritmica accesa nel primo caso ed una sorta di gospel cadenzato nel secondo, con la presenza quasi esclusiva di voci e percussione. Finale con la pimpante B. Santa Ana, 1986 (il pezzo più “moderno”, quasi un rock’n’roll con organo alla Doors) e con la gustosa To Tell, in cui il nostro manifesta di avere anche Dion & The Belmonts tra le sue influenze.

Marco Verdi

Anticipazioni: Il Ritorno di Uno Dei Geni Della Musica Americana. Steve Cropper – Fire It Up. Esce Il 23 Aprile

steve cropper fire it up

Steve Cropper – Fire It Up – Mascot Provogue 

Steve Cropper lo presenta come il suo secondo album solista dopo With A Little From My Friends, uscito nel 1969. Non è l’esatta realtà dei fatti, prima e dopo c’è stato moltissimo altro: prima ci sono stati i Mar-Keys, nati nel 1958 a Memphis, e che poi con la scissione di Steve e Donald “Duck” Dunn diventano Booker T. & The Mg’s, entrambi i gruppi fondamentali nella storia della soul music e della Stax in particolare. Steve Cropper ha scritto molto materiale strumentale, ma ha anche firmato alcune delle pagine indimenticabili del soul per Otis Redding, Wilson Pickett, Eddie Floyd, Sam & Dave e ha suonato in un numero colossale di dischi usciti con il marchio Stax/Volt. Dagli inizi ‘70 intensifica la sua attività di produttore anche al di fuori della Stax, con Jeff Beck, José Feliciano, John Prine (per citarne alcuni), oltre a suonare la chitarra in una miriade di dischi: poi nel 1978 inizia anche l’avventura con i Blues Brothers. In seguito pubblica tra ‘80 e ‘82 due album solisti che ricorda malvolentieri, mentre nel 1969 era uscito anche Jammed Together, una collaborazione con Pop Staples e Albert King, poi un lungo silenzio fino al 2008 quando viene pubblicato il primo di due album collaborativi con Felix Cavaliere dei Rascals, che ricordiamo, perché in quelle sessions vengono messe le basi per alcune idee e canzoni, accantonate ma salvate, per essere completate e riutilizzate, proprio per Fire It Up, insieme al produttore Jon Tiven, “vicino di casa” di Steve a Nashville, e con il quale è continuamente in contatto per interscambi di idee musicali.

Questa quindi è la genesi del nuovo album: non so dirvi molto altro, ci sono due chitarristi, un tastierista, e un cantante, che francamente non avevo mai sentito nominare prima, tale Roger C. Reale, peraltro in possesso di una bella voce, amico di Tiven ma anche di Steve. Il tutto perché ho scritto la recensione molto prima e l’album è in uscita per il 23 aprile. Però le canzoni le ho ascoltate e quindi vi illustro i contenuti, non senza prima ricordare che nel 2011 è uscito anche un disco All-Stars Dedicated, basato sulla musica dei 5 Royales https://discoclub.myblog.it/2011/08/04/il-migliore-del-colonnello-steve-cropper-dedicated/ , e nel 2017 la eccellente reunion e celebrazione della Blues Brothers Band The Last Shade Of Blue Before Black https://discoclub.myblog.it/2017/11/15/il-tempo-passa-per-tutti-ma-non-per-loro-the-original-blues-brothers-band-the-last-shade-of-blue-before-black/ . Il nuovo disco vede la presenza di un solo brano strumentale Bush Hog, che però è ricorrente. Parte 1 e 2, più in chiusura il pezzo completo, e ascoltandolo non si direbbe che che Cropper sia un brillante diversamente giovane che a ottobre compirà 80 anni, il tocco di chitarra è sempre inconfondibile, un chitarrista ritmico creatore di riff, come lui ama definirsi, ma in grado di suonare anche da solista, tanto da essere considerato un maestro da gente come Brian May, Jeff Beck, Eric Clapton.

Sembra di ascoltare un pezzo dei Mar-Keys o di Booker T. & The Mg’s, le mani che volano sul manico della chitarra, un ritmo incalzante con fiati e organo di supporto, un timbro della solista limpido e geniale, ribadisco, uno degli inventori degli strumentali di marca R&B, ma anche con un rimando al riff di Soul Man, come nella grintosa e deliziosa title track, dove si autocita, mentre Reale canta con voce vissuta, e fiati, organo e una armonica imperversano sullo sfondo. E non manca una deep soul ballad in mid-tempo come One Good Turn, con assolo breve, ma limpido e cristallino, o il funky ribaldo e reiterato di I’m Not Havin’ It, con Reale sempre ottimo anche nei pezzi più mossi, vedi Out Of Love, cadenzata come richiede la materia e la solista di Cropper sempre in spolvero; la trascinante Far Away sta alla intersezione tra R&B e R&R e ci sono anche delle coriste che aizzano Reale, mentre la chitarra di Steve punteggia l’arrangiamento corale. Say Don’t You Know Me sembra uno di quei brani danzabili dell’epoca d’oro del R&B, ruvido ma dal ritmo irresistibile, mentre She’s So Fine sarebbe piaciuta moltissimo a Sam & Dave e Two Wrongs al grande Otis, Reale non è ovviamente a quei livelli, ma ci mette comunque impegno e grinta, come dimostra anche la successiva Hearbreak Street, e poi si riabilita nella conclusiva The Go-Getter Is Gone, scritta a due mani con Cropper, che viene spronato a pescare nel meglio del suo repertorio in questo robusto R&B dove maltratta anche la sua chitarra con libidine.

in fondo è pur sempre “The Colonel” della truppa, lui guida e gli altri lo seguono, in questo solido sforzo complessivo che lo mostra di nuovo vitale e all’altezza della sua fama.

Bruno Conti

Forse Non E’ Un Box Indispensabile, Ma Il Contenuto Musicale E’ Bellissimo! Fleetwood Mac – Live

fleetwood mac live box

Fleetwood Mac – Live – Warner 3CD/2LP/45rpm Box Set

Pensavo che i cofanetti Super Deluxe dedicati agli album dei Fleewood Mac nella loro “golden age” (1975-1987) fossero terminati dopo il recupero dell’omonimo Fleetwood Mac del 1975, che aveva seguito i vari Rumours, Tusk, Mirage e Tango In The Night: reputavo dunque che la Warner avesse deciso di fare a meno di riproporre il loro doppio dal vivo del 1980, intitolato semplicemente Live (o Fleetwood Mac Live come dice qualcuno), dal momento che tra il materiale bonus pubblicato nei vari box c’era sempre almeno un CD inedito dal vivo a parte Tango In The Night (ma semplicemente a causa del fatto che Lindsey Buckingham aveva lasciato la band prima dell’inizio del tour). Invece non è stato così, e quindi eccomi a parlare del nuovo box dedicato proprio al famoso doppio live del gruppo anglo-americano, un album che, anche se uscito nel 1980, faceva parte della gloriosa stagione dei grandi dischi dal vivo degli anni 70: il box si presenta esattamente con lo stesso concept dei precedenti, con la solita formula antipatica che accoppia i CD al vinile (in questo caso due vinili), una ripetizione inutile che serve solo a far lievitare oltremodo il prezzo (*NDB specie se avete già il doppio CD, che si trova ancora in giro a meno di 15 euro).

Il disco originale, che presentava canzoni tratte da varie date del Tusk Tour del 1979-80 (ma pure qualcosa dalla tournée di Rumours del 1977 ed anche un pezzo del 1975), occupa i primi due dischetti, mentre il terzo CD offre altre 15 performance totalmente inedite nuovamente prese da concerti americani ed europei del 1977, 1979, 1980 e perfino tre titoli dal Mirage Tour del 1982. Sul contenuto musicale niente da dire: i Mac sono stati spesso bistrattati dalla critica a causa del loro successo planetario e per il fatto di fare un pop-rock di stampo californiano decisamente commerciale, ma c’è pop e pop, e quello di Buckingham e soci era quanto di meglio si potesse trovare in giro all’epoca. Ed erano una grande band anche dal vivo, come confermano le tracce di questo box. Il disco originale, rimasterizzato alla grande, presenta una bella serie di hits e classici come Monday Morning, Say You Love Me, Dreams, Sara, Never Going Back Again, Landslide (all’epoca un pezzo poco noto di Stevie Nicks, ma negli anni è diventata un evergreen), Rhiannon, Go Your Own Way e la signature song di Christine McVie Don’t Stop, ormai quasi un inno. C’è anche una manciata di canzoni meno note ma non per questo meno belle (Over & Over, l’irresistibile Not That Funny, Over My Head) ed un notevole ripescaggio del periodo blues del gruppo con una notevole Oh Well di Peter Green: Buckingham non è Greeny, ma è comunque un chitarrista della Madonna e lo dimostra anche in I’m So Afraid, da sempre il “suo” momento nei concerti dei Mac, una buona rock song che diventa straordinaria grazie al lungo e strepitoso assolo finale di Lindsey.

Live conteneva anche un pezzo dal raro LP Buckingham Nicks (Don’t Let Me Down Again, quasi un southern boogie) e tre brani nuovi suonati nel backstage a beneficio della crew: la squisita Fireflies, pop-rock gioioso e solare della Nicks che non avrebbe sfigurato nel suo esordio solista Bella Donna pubblicato l’anno seguente, la delicata e suadente ballata della McVie One More Night ed un bell’omaggio ai Beach Boys con la poco nota The Farmer’s Daughter (tratta da Surfin’ USA, secondo album della band dei fratelli Wilson, 1963), eseguita con una splendida armonia a tre voci. Il terzo CD, quello inedito, intelligentemente non contiene brani ripetuti rispetto ai primi due, ma sono comunque presenti trascinanti versioni di pezzi famosi (Second Hand News, The Chain, Think About Me, Gold Dust Woman, Hold Me, Tusk, You Make Loving Fun) e di altri meno celebrati come l’incalzante What Makes You Think You’re The One, la raffinata Brown Eyes, puro pop a-la-McVie, il rock’n’roll in salsa pop Angel, la coinvolgente Sisters Of The Moon (che voce la Nicks), la pianistica e toccante Songbird e la rara Blue Letter, bella e coinvolgente. Ed inoltre una maestosa rilettura di un altro classico degli anni blues, The Green Manalishi, con un’altra prestazione maiuscola di Buckingham. Dulcis in fundo, il box contiene anche un 45 giri in vinile con le demo versions inedite di Fireflies e One More Night, reperibili solo su questo singolo.

A questo punto l’unico album di questa lineup dei Fleetwood Mac a non aver ancora beneficiato del trattamento deluxe è l’altro live del 1997 The Dance (dato che da Say You Will del 2003 mancava la McVie), ma sinceramente non so se la cosa rientri nei piani futuri del gruppo.

Marco Verdi

Chitarrista E Cantante: Un Veterano Che Il Blues Lo Conosce A Menadito. Chris Cain – Raisin’ Cain

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Chris Cain – Raisin’ Cain – Alligator Records/IRD

Per certi versi era quasi inevitabile che le strade di Chris Cain e della Alligator Records si sarebbero prima o poi incrociate, visto che l’etichetta di Chicago è sempre alla ricerca di nuovi nomi da inserire nel proprio roster di artisti, e già in passato il musicista californiano aveva inviato la propria musica al management Alligator ma non se ne era fatto nulla. Tanto che comunque dai tempi del suo esordio del 1987 Late City Night Blues, pubblicato nel 1987 dalla Blue Rock’it, l’etichetta del fratello di Robben Ford, Pat, poi Chris ha fatto in tempo a pubblicare altri 14 album, alcuni per la Blind Pig, poi altri per l’etichetta della famiglia Ford, e anche uno a livello indipendente, qualcuno l’ho anche recensito per il Buscadero ai tempi. Cain è un discepolo di B.B. King, nel 2001 ha pubblicato un CD dedicato all’omone di Indianola Cain Does King, ma tra le sue influenze ci sono anche Albert King, Albert Collins, con i quali ha diviso anche i palchi, passando per Ray Charles e Mike Bloomfield, che la mamma di origini greche gli faceva ascoltare fin dagli inizi (alcuni crescendo hanno questi genitori illuminati), mentre il padre afro-americano gli inculcava anche la passione per certo jazz. I risultati sono da sempre presenti nella musica del nostro, che se la cava all’occorrenza anche alle tastiere e pure al sax: con elementi appunto jazz e R&B che confluiscono nel blues spesso fiatistico del musicista di San Jose, vicino al filone delle 12 battute della Bay Area.

Proprio ai Greaseland Studios della città appena citata è stato registrato questo Raisin’ Cain, prodotto dall’ottimo Kid Andersen, che suona in alcuni pezzi, mentre nella metà dei 12 brani, tutti a firma Cain, appare anche una sezione fiati che aggiunge swing ai brani più mossi, senza dimenticare gli slow che da sempre sono uno dei suoi cavalli di battaglia, in grado di convogliare la sua notevole tecnica chitarristica e il pathos che richiedono, ma anche sostenuti dalla bella voce baritonale, ispirata da gente come Witherspoon e Big Joe Turner, come pure da Curtis Salgado, potente e calda, raramente infervorata, con elementi dei King citati, come è possibile riscontrare subito nell’apertura affidata ad Hush Money, dove i fiati swingano alla grande, mentre la Gibson di Chris rilascia lunghe e fluide linee soliste e anche le tastiere affidate a Greg Rahn sono elemento essenziale del sound, soprattutto il piano elettrico, mentre nel poderoso shuffle della grintosa You Won’t Have A Problem When I’m Gone la chitarra è sempre in spolvero con la sua tecnica sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=Ws9wRhaJpEE . Too Many Problems con il basso funky di Steve Evans in evidenza e i fiati all’unisono, unisce nuovamente con gli stili anni ‘70 dei due King, Albert e B.B., mentre il piano elettrico aggiunge elementi che ricordano i primi Crusaders e la chitarra disegna linee raffinate, ma è nelle ballate malinconiche e intense come Down On The Ground che il nostro eccelle, niente fiati, ma piano e organo a sottolineare un assolo di gran classe.

I Believe I Got Off Cheap, sempre con vocione pronto alla bisogna, fiati di nuovo in sella e la solista devastante di Cain a dettare i tempi mentre se la gode, è ancora eccellente https://www.youtube.com/watch?v=JREOmSVyv5o , come pure la successiva I Can’t Find A Good Reason, più vicina al R&B o la vibrante Found A Way To Make Me Say Goodbye di nuovo vicina allo stile più jazzy del B.B. King primi anni’70, con il solito piano elettrico di supporto alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=Qsq4z5iUF1s . La ballatona mid-tempo I Don’t Know Exactlly What’s Wrong With My Baby è sempre sofisticata e notturna, meno impetuosa e più rilassata, con solista e piano elettrico ancora al lavoro; in Out Of My Head ritornano di nuovo i fiati per un vibrante shuffle californiano che rimanda al Witherspoon più jazzato e poi tocca ancora al B.B. King light funky-jazz di As Long As You Get What You Want, con la voce di Lisa Andersen di supporto, brano che però non convince del tutto, al di là del solito mirabile lavoro della solista, che viene accantonata per lo strano esperimento della conclusiva Space Force, dove impazza l’ARP Synth suonato dallo stesso Cain, con un funkettino alquanto superfluo che abbassa il livello complessivo del disco, quindi buono ma senza lode.

Bruno Conti

Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Prima Parte: Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions)

tom petty finding wildflowers

Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions) – Warner CD

Ci sono pochi dubbi, almeno per quanto mi riguarda, che la migliore ristampa del 2020 sia stata Wildflowers & All The Rest, uno splendido cofanetto che riepilogava le sessions di quello che per molti è il capolavoro di Tom Petty (Wildflowers appunto, anche se personalmente preferisco di poco Full Moon Fever), aggiungendo all’album originale del 1994 un intero CD di inediti – inizialmente il lavoro avrebbe dovuto essere doppio – uno di “home recordings” ed un altro dal vivo con le canzoni del disco suonate nel corso degli anni. Sul sito di Tom era poi disponibile una edizione Super Deluxe limitata con una confezione potenziata e soprattutto un quinto dischetto intitolato Finding Wildflowers, che proponeva sedici ulteriori pezzi tra takes alternate e qualche inedito: peccato però che per averla bisognava sborsare una differenza di oltre cento dollari rispetto alla versione quadrupla normale.

Ma siccome nell’industria discografica non c’è limite al peggio, il 16 aprile Finding Wildflowers uscirà come CD a parte, una beffa atroce per chi, come il sottoscritto, lo ha dovuto strapagare solo pochi mesi fa ed ora lo vede tranquillamente a disposizione di tutti. Una mossa moralmente censurabile della quale incolpo certamente la Warner, ma anche gli eredi di Tom che hanno dovuto per forza dare l’assenso. Sono sicuro che se il biondo rocker della Florida fosse ancora tra noi si sarebbe fieramente opposto a questa porcata (non trovo altro termine), e non sarebbe stata neanche la prima volta: famosa per esempio fu la battaglia, tra l’altro vinta, che Petty condusse contro la MCA che nel 1981 voleva aumentare di un dollaro (!) il prezzo del suo allora nuovo LP Hard Promises (ed anche il suo album del 2002 The Last DJ è una sorta di concept contro le major). Considerazioni morali a parte, il contenuto musicale di Finding Wildflowers è come sempre eccelso, e vista l’imminente uscita ho deciso di tornarci sopra in breve.

Non tutto è inedito: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below (ma con Mike Campbell alla chitarra elettrica) ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (che paga l’influenza delle allora recenti produzioni di Jeff Lynne) entrambe uscite come B-sides, e poi Girl On LSD, un divertente ed ironico rockabilly sempre uscito come lato B. Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo), una bellissima A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country e con Ringo Starr ai tamburi.

Cabin Down Below è presente anche in una take alternata elettrica, ancora più grezza di quella finita sul disco originale (e con gli Hearbreakers al completo, compreso Stan Lynch in una delle sue ultime apparizioni prima di lasciare la band; It’s Good To Be King è molto rallentata ma rimane una grande canzone, mentre Honey Bee musicalmente non è molto diversa da quella nota ma presenta differenze nel testo ed una strofa in più. C’è spazio anche per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto e che pare non fosse mai stato realmente considerato per l’inclusione in Wildflowers. Tra una quindicina di giorni circa vi parlerò di un altro episodio catalogabile sotto la categoria “Imbrogli & Fregature”, e questa volta riguarderà una nota band inglese che in passato ha avuto problemi con maiali e muri.

Marco Verdi