Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Seconda Parte: Pink Floyd – Live At Knebworth 1990. Esce Il 30 Aprile.

pink floyd live at knebworth

Pink Floyd – Live At Knebworth 1990 – Parlophone/Warner CD 30-04-2021

Eccomi qua oggi a parlare di un’altra operazione discografica quantomeno discutibile dopo quella che riguardava Tom Petty e la pubblicazione di Finding Wildflowers separatamente dal cofanetto Wildflowers & All The Rest, nel quale era stato incluso lo scorso ottobre come CD esclusivo (e fatto pagare profumatamente): sto parlando di Live At Knebworth 1990, “nuovo” album dal vivo dei Pink Floyd che era già uscito due anni fa sul mastodontico box The Later Years. Con questo live (disponibile dal 30 aprile solo in versione audio, a differenza del cofanetto dove era presente anche in video) continua l’opera di “spacchettamento” di The Later Years, dal momento che lo scorso anno era già uscita a parte la versione restaurata audio/video del famoso doppio dal vivo del 1988 Delicate Sound Of Thunder https://discoclub.myblog.it/2019/12/24/cofanetti-autunno-inverno-15-unopera-lussuosa-costosa-ed-esauriente-anche-se-leggermente-incompleta-pink-floyd-the-later-years-1987-2019-parte-ii/ : giudico però questa operazione un filino meno grave di quella di Petty, in quanto chi possiede il box dei Floyd del 2019 può ancora godere di parecchio materiale esclusivo. Live At Knebworth 1990 a mio parere rappresenta però un’occasione persa da parte del gruppo inglese: infatti tra le varie mancanze di The Later Years, una delle più evidenti era quella del famoso concerto di Venezia del 1989 in versione audio, e se la scelta oggi fosse caduta su di esso invece della solita ripetizione se lo sarebbero accaparrato anche i possessori del costoso box.

Se però non siete tra di essi, questo CD è un acquisto praticamente obbligato soprattutto se siete estimatori del gruppo all’epoca formato da David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright: si tratta infatti (ma lo saprete già) del famoso show che i nostri tennero il 30 giugno 1990 nel gigantesco Knebworth Park (a poco più di un’ora a nord di Londra), uno spettacolo di beneficienza che vide alternarsi sul palco nomi del calibro di Paul McCartney, Dire Straits, Genesis, Eric Clapton, Elton John e Robert Plant, e con i Floyd nel ruolo di headliners a chiudere la serata (NDM: caso volle che pochi giorni dopo il loro ex compagno Roger Waters fece parlare di sé ancora di più con il mega-evento The Wall Live In Berlin). Nel 1990 il tour mondiale di Gilmour e soci era già finito da circa un anno, e quindi per lo show di Knebworth dovettero rimettere insieme una band: si rivolsero dunque a membri già “collaudati” (Guy Pratt al basso e voce, John Carin alle tastiere, Tim Renwick alla chitarra, Gary Wallis alle percussioni e Durga McBroom ai cori) ed altri reclutati solo per quellata serata (Vicky Brown e sua figlia Sam alle voci, insieme alla rediviva Clare Torry che era presente anche su The Dark Side Of The Moon (quella che gorgheggia davvero in The Great Gig In The Sky, e non Doris Troy come ha scritto qualcuno erroneamente), oltre agli special guests Candy Dulfer al sax ed il noto compositore/arrangiatore Michael Kamen alle tastiere).

Il concerto, sette canzoni discretamente lunghe per poco meno di un’ora di durata, vede il gruppo in forma spettacolare, e, complice anche l’incisione perfetta, riesce ad intrattenere alla grande l’ascoltatore nonostante una setlist che riserva poche sorprese. I nostri infatti vanno prevedibilmente sul sicuro, iniziando con le prime cinque parti della sempre formidabile Shine On You Crazy Diamond, in cui Gilmour fa sentire subito di essere in serata. Vista la presenza della Torry non poteva mancare The Great Gig In The Sky, e la bionda cantante dimostra di avere ancora una gran voce nonostante i 17 anni passati dall’incisione originale; Wish You Were Here è sempre stata una ballata splendida e toccante, ma qui sembra che i Floyd la eseguano ancora meglio che nel tour precedente. Sorrow è un tributo che i tre pagano all’allora recente A Momentary Lapse Of Reason, ma in quel disco c’era di meglio (penso a On The Turning Away), mentre Money, che è già trascinante di suo, in quellaa serata smentisce quelli che sostengono che i Floyd fossero sempre uguali a loro stessi: infatti dopo una prima parte consueta i nostri si lanciano in una lunga e coinvolgente improvvisazione, durante la quale si concedono perfino un intermezzo reggae e la Dulfer fa la sua parte confermandosi brava oltre che bella (d’altronde ha suonato anche con Van Morrison, uno “abbastanza” esigente).

Il finale è pirotecnico, con la magnifica Comfortably Numb, che soffre un po’ dell’assenza della parte vocale di Waters ma si rifà con l’epico assolo finale di Gilmour, e con una delle Run Like Hell più belle e travolgenti mai sentite. Ripeto: se non avete il box The Later Years, questo Live At Knebworth 1990 è un CD da non lasciarsi sfuggire.

Marco Verdi

Una Piacevolissima Passeggiata Lungo Le Coste Della California. Nick Waterhouse – Promenade Blue

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Nick Waterhouse – Promenade Blue – Innovative Leisure CD

Nick Waterhouse è un singer-songwriter californiano di Santa Ana attivo più o meno dal 2010, al quale però mi sono avvicinato solo nel 2019 grazie al suo quarto album, l’omonimo Nick Waterhouse, un piacevole e riuscito dischetto che mescolava sonorità vintage passando dal soul al rockabilly al pop al rhythm’n’blues con grande disinvoltura. Promenade Blue, il suo nuovissimo lavoro, è ancora meglio: Nick è uno di quei musicisti idealmente fermi ancora agli anni 60, e le sue canzoni riflettono in toto tale influenza. Cantante valido ed espressivo ed autore di vaglia, Waterhouse in Promenade Blue accentua ulteriormente il discorso intrapreso con il suo penultimo album, proponendo undici deliziose canzoni in bilico tra blue-eyed soul, errebi e pop con un pizzico di rock’n’roll ed una spruzzata di jazz e swing, un tipo di musica che a modo suo risulta californiana al 100%. Anzi, io mi immagino di ascoltare il disco su una terrazza che si affaccia sul mare della California del sud al tramonto, con in mano un bel cocktail variopinto (in mancanza di ciò, lavorate di fantasia come ho fatto io).

Registrato a Memphis e co-prodotto da Nick insieme a Paul Butler (dietro la consolle nei lavori di Michael Kiwanuka), Promenade Blue vede sfilare una lunga schiera di musicisti proprio come si usava fare nei sixties (tutti nomi peraltro abbastanza sconosciuti), con sezione ritmica, chitarre, piano, organo, marimba e la presenza sia di una sezione fiati che una di archi. Una sorta di muro del suono di ispirazione spectoriana, come nell’iniziale Place Names, incantevole pop song dove tutto profuma di anni 60, dalla melodia romantica alle backing vocalist femminili fino al sapiente uso degli archi. La saltellante The Spanish Look sembra, non scherzo, una outtake dei Coasters appena riscoperta, un piccolo gioiello tra errebi e doo-wop con un tocco jazzato che rimanda alla stagione d’oro dei vocal groups; Vincentine è puro soul, con Nick che mostra di avere una duttilità vocale non indifferente e la band lo segue che è una meraviglia, con i fiati a comandare il suono. Con Medicine siamo dalle parti di Ben E. King, un pezzo con il basso in primo piano, una chitarrina con riverbero d’ordinanza, cori maschili e sax come ciliegina: davvero, se non sapessi cosa sto ascoltando penserei di avere per le mani qualche vecchio padellone targato Motown o Atlantic.

Very Blue cambia registro, in quanto è una maestosa pop song alla Roy Orbison, con lo stesso tipo di pathos delle incisioni di “The Big O” anche se l’estensione vocale è ovviamente diversa, mentre con Silver Bracelet torniamo in territori black con un’altra perfetta soul song dalla melodia d’altri tempi che vede sassofono e piano sugli scudi. Proméne Bleu è l’unico strumentale del CD, un raffinatissimo pezzo lounge-jazz da nightclub con la chitarra elettrica protagonista ed il sax che arriva per chiudere la canzone; con Fugitive Lover e Minor Time si torna dalle parti dei gruppi vocali di colore con un brano coinvolgente dalla ritmica accesa nel primo caso ed una sorta di gospel cadenzato nel secondo, con la presenza quasi esclusiva di voci e percussione. Finale con la pimpante B. Santa Ana, 1986 (il pezzo più “moderno”, quasi un rock’n’roll con organo alla Doors) e con la gustosa To Tell, in cui il nostro manifesta di avere anche Dion & The Belmonts tra le sue influenze.

Marco Verdi

Forse Non E’ Un Box Indispensabile, Ma Il Contenuto Musicale E’ Bellissimo! Fleetwood Mac – Live

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Fleetwood Mac – Live – Warner 3CD/2LP/45rpm Box Set

Pensavo che i cofanetti Super Deluxe dedicati agli album dei Fleewood Mac nella loro “golden age” (1975-1987) fossero terminati dopo il recupero dell’omonimo Fleetwood Mac del 1975, che aveva seguito i vari Rumours, Tusk, Mirage e Tango In The Night: reputavo dunque che la Warner avesse deciso di fare a meno di riproporre il loro doppio dal vivo del 1980, intitolato semplicemente Live (o Fleetwood Mac Live come dice qualcuno), dal momento che tra il materiale bonus pubblicato nei vari box c’era sempre almeno un CD inedito dal vivo a parte Tango In The Night (ma semplicemente a causa del fatto che Lindsey Buckingham aveva lasciato la band prima dell’inizio del tour). Invece non è stato così, e quindi eccomi a parlare del nuovo box dedicato proprio al famoso doppio live del gruppo anglo-americano, un album che, anche se uscito nel 1980, faceva parte della gloriosa stagione dei grandi dischi dal vivo degli anni 70: il box si presenta esattamente con lo stesso concept dei precedenti, con la solita formula antipatica che accoppia i CD al vinile (in questo caso due vinili), una ripetizione inutile che serve solo a far lievitare oltremodo il prezzo (*NDB specie se avete già il doppio CD, che si trova ancora in giro a meno di 15 euro).

Il disco originale, che presentava canzoni tratte da varie date del Tusk Tour del 1979-80 (ma pure qualcosa dalla tournée di Rumours del 1977 ed anche un pezzo del 1975), occupa i primi due dischetti, mentre il terzo CD offre altre 15 performance totalmente inedite nuovamente prese da concerti americani ed europei del 1977, 1979, 1980 e perfino tre titoli dal Mirage Tour del 1982. Sul contenuto musicale niente da dire: i Mac sono stati spesso bistrattati dalla critica a causa del loro successo planetario e per il fatto di fare un pop-rock di stampo californiano decisamente commerciale, ma c’è pop e pop, e quello di Buckingham e soci era quanto di meglio si potesse trovare in giro all’epoca. Ed erano una grande band anche dal vivo, come confermano le tracce di questo box. Il disco originale, rimasterizzato alla grande, presenta una bella serie di hits e classici come Monday Morning, Say You Love Me, Dreams, Sara, Never Going Back Again, Landslide (all’epoca un pezzo poco noto di Stevie Nicks, ma negli anni è diventata un evergreen), Rhiannon, Go Your Own Way e la signature song di Christine McVie Don’t Stop, ormai quasi un inno. C’è anche una manciata di canzoni meno note ma non per questo meno belle (Over & Over, l’irresistibile Not That Funny, Over My Head) ed un notevole ripescaggio del periodo blues del gruppo con una notevole Oh Well di Peter Green: Buckingham non è Greeny, ma è comunque un chitarrista della Madonna e lo dimostra anche in I’m So Afraid, da sempre il “suo” momento nei concerti dei Mac, una buona rock song che diventa straordinaria grazie al lungo e strepitoso assolo finale di Lindsey.

Live conteneva anche un pezzo dal raro LP Buckingham Nicks (Don’t Let Me Down Again, quasi un southern boogie) e tre brani nuovi suonati nel backstage a beneficio della crew: la squisita Fireflies, pop-rock gioioso e solare della Nicks che non avrebbe sfigurato nel suo esordio solista Bella Donna pubblicato l’anno seguente, la delicata e suadente ballata della McVie One More Night ed un bell’omaggio ai Beach Boys con la poco nota The Farmer’s Daughter (tratta da Surfin’ USA, secondo album della band dei fratelli Wilson, 1963), eseguita con una splendida armonia a tre voci. Il terzo CD, quello inedito, intelligentemente non contiene brani ripetuti rispetto ai primi due, ma sono comunque presenti trascinanti versioni di pezzi famosi (Second Hand News, The Chain, Think About Me, Gold Dust Woman, Hold Me, Tusk, You Make Loving Fun) e di altri meno celebrati come l’incalzante What Makes You Think You’re The One, la raffinata Brown Eyes, puro pop a-la-McVie, il rock’n’roll in salsa pop Angel, la coinvolgente Sisters Of The Moon (che voce la Nicks), la pianistica e toccante Songbird e la rara Blue Letter, bella e coinvolgente. Ed inoltre una maestosa rilettura di un altro classico degli anni blues, The Green Manalishi, con un’altra prestazione maiuscola di Buckingham. Dulcis in fundo, il box contiene anche un 45 giri in vinile con le demo versions inedite di Fireflies e One More Night, reperibili solo su questo singolo.

A questo punto l’unico album di questa lineup dei Fleetwood Mac a non aver ancora beneficiato del trattamento deluxe è l’altro live del 1997 The Dance (dato che da Say You Will del 2003 mancava la McVie), ma sinceramente non so se la cosa rientri nei piani futuri del gruppo.

Marco Verdi

Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Prima Parte: Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions)

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Tom Petty – Finding Wildflowers (Alternate Versions) – Warner CD

Ci sono pochi dubbi, almeno per quanto mi riguarda, che la migliore ristampa del 2020 sia stata Wildflowers & All The Rest, uno splendido cofanetto che riepilogava le sessions di quello che per molti è il capolavoro di Tom Petty (Wildflowers appunto, anche se personalmente preferisco di poco Full Moon Fever), aggiungendo all’album originale del 1994 un intero CD di inediti – inizialmente il lavoro avrebbe dovuto essere doppio – uno di “home recordings” ed un altro dal vivo con le canzoni del disco suonate nel corso degli anni. Sul sito di Tom era poi disponibile una edizione Super Deluxe limitata con una confezione potenziata e soprattutto un quinto dischetto intitolato Finding Wildflowers, che proponeva sedici ulteriori pezzi tra takes alternate e qualche inedito: peccato però che per averla bisognava sborsare una differenza di oltre cento dollari rispetto alla versione quadrupla normale.

Ma siccome nell’industria discografica non c’è limite al peggio, il 16 aprile Finding Wildflowers uscirà come CD a parte, una beffa atroce per chi, come il sottoscritto, lo ha dovuto strapagare solo pochi mesi fa ed ora lo vede tranquillamente a disposizione di tutti. Una mossa moralmente censurabile della quale incolpo certamente la Warner, ma anche gli eredi di Tom che hanno dovuto per forza dare l’assenso. Sono sicuro che se il biondo rocker della Florida fosse ancora tra noi si sarebbe fieramente opposto a questa porcata (non trovo altro termine), e non sarebbe stata neanche la prima volta: famosa per esempio fu la battaglia, tra l’altro vinta, che Petty condusse contro la MCA che nel 1981 voleva aumentare di un dollaro (!) il prezzo del suo allora nuovo LP Hard Promises (ed anche il suo album del 2002 The Last DJ è una sorta di concept contro le major). Considerazioni morali a parte, il contenuto musicale di Finding Wildflowers è come sempre eccelso, e vista l’imminente uscita ho deciso di tornarci sopra in breve.

Non tutto è inedito: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below (ma con Mike Campbell alla chitarra elettrica) ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (che paga l’influenza delle allora recenti produzioni di Jeff Lynne) entrambe uscite come B-sides, e poi Girl On LSD, un divertente ed ironico rockabilly sempre uscito come lato B. Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo), una bellissima A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country e con Ringo Starr ai tamburi.

Cabin Down Below è presente anche in una take alternata elettrica, ancora più grezza di quella finita sul disco originale (e con gli Hearbreakers al completo, compreso Stan Lynch in una delle sue ultime apparizioni prima di lasciare la band; It’s Good To Be King è molto rallentata ma rimane una grande canzone, mentre Honey Bee musicalmente non è molto diversa da quella nota ma presenta differenze nel testo ed una strofa in più. C’è spazio anche per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto e che pare non fosse mai stato realmente considerato per l’inclusione in Wildflowers. Tra una quindicina di giorni circa vi parlerò di un altro episodio catalogabile sotto la categoria “Imbrogli & Fregature”, e questa volta riguarderà una nota band inglese che in passato ha avuto problemi con maiali e muri.

Marco Verdi

Il Periodo Più Celebrato Del Gruppo Fusion Per Antonomasia. Weather Report – The Columbia Albums 1976-1982

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Weather Report – The Columbia Albums 1976-1982 – Music On CD/Sony 6CD Box Set

Miles Davis è stato probabilmente il più grande musicista jazz di tutti i tempi, ma oltre ad essere un genio il trombettista di Alton aveva anche un’altra dote: quella di circondarsi di accompagnatori di altissimo livello, che in molti casi avrebbero intrapreso una illuminata carriera per loro conto, come per esempio John McLaughlin, Chick Corea e Herbie Hancock. Nel biennio 1969-70 Davis pubblicò In A Silent Way e Bitches Brew, due album rivoluzionari in cui il leader fondeva per la prima volta elementi rock in un tessuto jazz creando un suono mai sentito prima: nella band che lo accompagnava avevano una grande importanza (anche come compositori) un tastierista austriaco di nome Joe Zawinul ed un sassofonista del New Jersey, tale Wayne Shorter, che sfruttando un’amicizia che li legava già da un decennio, decisero di formare una sorta di “spinoff band” insieme al bassista Miroslav Vitous. Nacquero così i Weather Report, che in pochi anni divennero la più popolare band del neonato genere “fusion”, cioè una miscela di jazz, rock, musica etnica, funky, avant-garde e, nel loro caso, anche elementi pop negli anni di maggior successo. La bravura di Zawinul e Shorter (gli unici membri sempre presenti nelle varie incarnazioni del gruppo dal 1971 al 1986) è stata proprio quella di rendere popolare ed alla portata di un vasto pubblico un genere musicale da sempre ritenuto elitario, mantenendosi in perfetto equilibrio tra arte e commercio in modo da accontentare sia gli appassionati sia coloro che di jazz forse compravano due-tre dischi all’anno.

Ora Sony via Music On CD rimette in circolazione ad un prezzo più che vantaggioso (intorno ai trenta euro) un box sestuplo già pubblicato nel 2011 e da tempo fuori catalogo: The Columbia Albums 1976-1982 (NDM: la mia copia in copertina riporta erroneamente la scritta “album” invece di “albums”…senza volerlo possiedo una rarità?) comprende i lavori pubblicati dal gruppo, cinque in studio ed un live, durante il periodo di maggior successo, ed insieme al cofanetto quadruplo Forecast: Tomorrow uscito nel 2006 è sicuramente il modo migliore per approcciarsi al mondo delle “Previsioni del Tempo”. Il sottotitolo di questo boxettino in formato clamshell (che riporta anche una dozzina di bonus tracks dal vivo sparse in quattro dei sei dischetti, due delle quali inedite) potrebbe essere “The Jaco Years”, dal momento che un elemento fondamentale nella lineup di quegli anni era Jaco Pastorius, talentuosissimo bassista che rivoluzionò l’approccio allo strumento: esperto della tecnica “fretless”, Pastorius era infatti capace di fraseggi di basso assolutamente geniali ed innovativi, ed il suo strumento si trovava spesso a fungere da solista (in quegli stessi anni il suo fondamentale contributo era riscontrabile anche nei dischi di Joni Mitchell): purtroppo la sua carriera, ma soprattutto la sua vita, vennero troncate nel 1986 a soli 36 anni per le conseguenze di una stupida rissa in un locale di Fort Lauderdale.

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Ma esaminiamo nel dettaglio i dischetti contenuti nel box dedicato a questo “dream team” del jazz-rock, nel quale gli unici musicisti che cambiano sono i batteristi (Alex Acuna, Chester Thompson, Narada Michael Walden, Tony Williams e, dal ’78 all’82, il grande Peter Erskine) ed i percussionisti (ancora Acuna, Manolo Bandrena e Robert Thomas Jr.), con l’alternarsi a seconda degli anni della formazione a quattro a quella a quintetto. Black Market del 1976 è insieme al seguente l’album più famoso dei nostri, un disco dove peraltro Pastorius compare solo in due brani dato che negli altri è ancora presente il vecchio bassista Alphonso Johnson. Il disco è assolutamente godibile dalla prima all’ultima canzone, con punte di eccellenza nella vivace e solare title track, piena di intriganti soluzioni melodiche e ritmiche https://www.youtube.com/watch?v=U7_vNpVXubA , la splendida ed avvolgente Cannon Ball, la potente Gibraltar, con Zawinul che fa i numeri alle tastiere https://www.youtube.com/watch?v=8TcQSLYyQnE , e la ritmata e funkeggiante Barbary Coast, con il basso di Jaco in grande evidenza. Heavy Weather (1977) è l’album più famoso e più venduto dei Weather Report, grazie soprattutto alla popolarità della pimpante ed orecchiabile Birdland, uno dei rari brani della band ad essere uscito anche come singolo https://www.youtube.com/watch?v=Ae0nwSv6cTU . Ma non sono da meno l’elegantissima e suadente A Remark You Made https://www.youtube.com/watch?v=boNCY0Ai44M , il funky scattante della breve Teen Town, la notevole Palladium, jazz-rock di gran classe, e la strepitosa Havona, roboante pezzo con eccellenti performance strumentali di tutti i membri del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=boNCY0Ai44M .

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Anche Mr. Gone (1978) è un buon lavoro, anche se lievemente più “leggero” dei suoi due predecessori. Qui l’influenza di Pastorius è evidente (ascoltate i suoi virtuosismi nella peraltro piuttosto statica Punk Jazz), e gli episodi migliori sono The Pursuit Of The Woman With The Feathered Hat, ipnotica, con una melodia circolare che si apre gradualmente ed elementi di musica etnica https://www.youtube.com/watch?v=eE38JtY75bo , il piacevole pop-jazz Young And Fine, con il sax tenore di Shorter protagonista, la rarefatta e misteriosa The Elders e l’insinuante e cadenzata title track, dominata dallo straordinario lavoro di basso da parte di Jaco https://www.youtube.com/watch?v=s-btnDSY5R0 . Per contro, la danzereccia River People non rende giustizia alla bravura dei nostri. 8:30 è un album dal vivo pubblicato nel 1979 che rivela in maniera eccelsa che la dimensione live si addiceva alla perfezione alla musica del gruppo, con performance trascinanti, dilatate e con grande spazio per le improvvisazioni strumentali in cui i nostri erano maestri.

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Abbiamo quindi versioni “definitive” di vari classici della band come Black Market, Teen Town, A Remark You Made, Birdland https://www.youtube.com/watch?v=x9B-dSkvqB4  ed il travolgente medley Badia/Boogie Woogie Waltz https://www.youtube.com/watch?v=TZAr_lub6GQ , oltre ad una breve ma applaudita rilettura dell’evergreen di Miles Davis, ma scritto di Zawinul, In A Silent Way. I quattro pezzi finali sono brani registrati in studio, tra i quali spiccano la spigliata e diretta Brown Street   ed il puro jazz di Sightseeing https://www.youtube.com/watch?v=8zec9ABOE5k . Night Passage del 1980 è meglio di Mr. Gone, ed affiorano qua e là influenze africane ed orientali. La scorrevole ed immediata title track https://www.youtube.com/watch?v=_vxhUebW_-U , la notturna e raffinata Dream Clock, la mossa ed “africaneggiante” Port Of Entry, con Jaco formidabile https://www.youtube.com/watch?v=uGtWSlmilRc , ed una bella cover ricca di swing di Rockin’ In Rhythm di Duke Ellington sono i pezzi salienti. E veniamo a Weather Report, che nel 1982 metterà fine all’avventura di Pastorius all’interno della band (lascerà per perseguire una carriera solista che, come abbiamo visto, avrà breve durata). Il suono si fa più radiofonico ed anni 80, seppur non disprezzabile: la mini-suite in tre parti N.Y.C. fa la parte del leone https://www.youtube.com/watch?v=gDCHFgeoiY4 , ma non sono male anche la frenetica Volcano For Hire ed il lounge-jazz di classe Current Affairs https://www.youtube.com/watch?v=zS6-r_E0pgY Un box quindi imperdibile se avete mancato la prima uscita di qualche anno fa: con una cifra abbordabile vi porterete a casa un pezzo di storia della musica fusion.

Marco Verdi

Qui Di Americano Non C’è Solo L’Anima. Aaron Watson – American Soul

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Aaron Watson – American Soul – Big Label CD

Il caso del countryman texano Aaron Watson andrebbe studiato, in quanto abbastanza incomprensibile dal punto di vista commerciale. Stiamo infatti parlando di un artista attivo da più di vent’anni (ha esordito nel 1999) che non ha mai inciso per una major ma sempre per label indipendenti, con risultati di vendite inizialmente poco significativi come tutti i casi di musicisti che fanno del vero country senza godere di una promozione adeguata e di una distribuzione capillare; poi, all’improvviso, l’album Real Good Time del 2012 si è spinto fino ad entrare nella Top Ten country, ed il successore The Underdog è arrivato addirittura in prima posizione. Da quel momento, ogni suo lavoro non ha mancato l’aggancio con posti di alta classifica, ma mentre un fatto del genere è abbastanza comune per artisti che approdano alle major e si piegano alle logiche commerciali cambiando in peggio il loro sound, nel caso di Watson stiamo parlando di uno che ha continuato a restare indipendente senza modificare di una virgola il tipo di musica proposta.

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Aaron fa del vero country elettrico e moderno, con le chitarre sempre in primo piano ed un bel senso del ritmo, un approccio sonoro che si mantiene tale anche nelle ballate: in più, è dotato di una buona penna e si circonda di sessionmen che suonano strumenti veri senza affidarsi a diavolerie tecnologiche. Il suo nuovo album American Soul conferma il trend, un riuscito disco di puro country che si lascia ascoltare con piacere dalla prima all’ultima canzone, dura il giusto (poco più di mezz’ora), è ben scritto e ben prodotto (da Watson stesso insieme a Phil O’Donnell), e presenta una serie di musicisti si cimentano con strumenti veri: tante chitarre, steel, violino, basso, batteria e pianoforte, con nomi noti come il fiddler Stuart Duncan e lo steel guitarist Milo Deering (Shawn Colvin, Don Henley, LeAnn Rimes). Il CD parte col piede giusto grazie al rockin’ country di Silverado Saturday Night, un concentrato di ritmo e chitarre dal bel refrain immediato, un brano adatto sia alle radio di settore ma anche perfetto per gli estimatori del vero country https://www.youtube.com/watch?v=7ilDymePPSw . Boots ha il passo lento ma l’accompagnamento è sempre elettrico ed il tasso zuccherino è tenuto ampiamente a bada, Whisper My Name inizia anch’essa come una ballata ma il ritmo non si fa attendere molto, la melodia è piacevole e tutto l’insieme funziona (non per niente è il primo singolo).

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Best Friend è uno slow toccante e suonato in maniera impeccabile con violino e pianoforte a fare la loro parte, mentre Long Live Cowboys è rock’n’roll with a country touch, gradevole e texana al punto giusto, così come Stay che è solo un filo più “piaciona” ma ha ritmo e coinvolge. La title track è un’altra country ballad strumentata a dovere e senza mollezze di sorta, con l’ennesimo motivo che piace al primo ascolto https://www.youtube.com/watch?v=IT2swMXI7vU , ed ancora meglio è Out Of My Misery, brano cadenzato tra i più orecchiabili di tutto il disco. Chiusura in crescendo con la rockeggiante Touchdown Town, ancora con le chitarre in evidenza https://www.youtube.com/watch?v=CHl3Vd3JKso , e con Dog Tags, suggestiva ballatona elettrica che non manca di toccare le giuste corde. Con American Soul Aaron Watson si conferma musicista coerente e credibile, due qualità che, fortunatamente, ogni tanto pagano ancora.

Marco Verdi

Un Nuovo Cofanetto “A Puntate” Per David Bowie. Volumi 5-6: Something In The Air/At The Kit Kat Klub

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David Bowie – Something In The Air – Parlophone/Warner CD – 2LP

David Bowie – At The Kit Kat Klub – Parlophone/Warner CD – 2LP

Eccomi a parlare degli ultimi due volumi che vanno a completare Brilliant Live Adventures, cofanetto dedicato a sei concerti dal vivo di David Bowie nella seconda metà degli anni 90, una pubblicazione che ha attirato a sé una marea di critiche fin dal principio, a causa della scelta quantomeno discutibile di far pagare a parte i box vuoti, sia che fossero per i CD o gli LP, e non magari offrirli in omaggio almeno a chi prenotava in anticipo l’intera serie, opzione peraltro non disponibile. Niente però in confronto alle lamentele anche feroci in conseguenza proprio delle ultime due uscite di cui mi accingo a parlare: se infatti i primi quattro volumi erano sì in tiratura limitata ma sufficiente ad accontentare (quasi) tutti i numerosi fans del compianto musicista britannico, sia il quinto che il sesto episodio sono andati esauriti in mezz’ora circa ciascuno, con la maggior parte dei possibili acquirenti rimasta con un palmo di naso anche perché uno dei due siti esclusivi per la vendita è andato praticamente subito in crash. Un’operazione quasi fallimentare dal punto di vista gestionale (qualcuno l’ha addirittura definita la peggiore della storia), che ha costretto la Parlophone a stendere una lettera aperta di scuse ai fans con la vaga promessa di un prossimo riassortimento di stock per quanto riguarda gli ultimi due volumi.

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Ed inoltre, bisogna dirlo, non è che si stia parlando di chissà quali rarità imperdibili, ma di concerti che in gran parte erano già stati resi disponibili come download. Tornando comunque alla parte musicale, ecco nel dettaglio i famigerati ultimi due episodi della serie (ebbene sì, faccio parte dei “fortunati” che sono riusciti ad accaparrarseli), entrambi riguardanti il mini-tour del 1999 (solo otto date tra Europa e Stati Uniti, tra cui anche una all’Alcatraz di Milano) seguita alla pubblicazione dell’album Hours, un lavoro di buon livello nel quale Bowie tornava alla forma canzone classica dopo le sperimentazioni modernistiche di Outside e Earthling. Il quinto volume si intitola Something In The Air e documenta lo show di Parigi del 14 ottobre all’Elysée Montmartre, quindici brani in tutto (il concerto è completo) con David accompagnato da una solida band che suona molto più rock e meno “techno” di quella dei tour precedenti: rispetto ai primi quattro CD del box gli unici membri rimasti sono il tastierista Mike Garson e la bassista e cantante Gail Ann Dorsey, con l’aggiunta di Page Hamilton e Mark Plati alle chitarre, Sterling Campbell alla batteria ed i cori di Emm Gryner e Holly Palmer.

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Vista la scorpacciata negli altri CD di pezzi tratti da Outside e Earthling questa volta si è scelto di soprassedere, e la setlist vede un Bowie in forma e di ottimo umore spaziare lungo tutta la sua carriera essendo anche meno “avaro” di hits: intanto la serata si apre con una lucida rilettura per sola voce e piano della splendida Life On Mars?, una delle più belle ballate di sempre del  nostro https://www.youtube.com/watch?v=nRnbuDvk7zM , e poi trovano spazio anche brani popolarissimi e coinvolgenti come China Girl, Changes e la roccata Rebel Rebel, che chiude lo show. Chiaramente i pezzi di Hours hanno molto spazio, con cinque selezioni: Thursday’s Child, gradevole pop ballad vagamente tinta di soul, Something In The Air, cadenzata ed avvolgente https://www.youtube.com/watch?v=HRhjVNGqmIg , la bella Survive, un lento elettroacustico di presa immediata e con un ottimo guitar solo finale, Seven, delicata e toccante (tra le più belle della serata), che si contrappone alla dura e chitarristica The Pretty Things Are Going To Hell. Ma come in ogni concerto bowiano che si rispetti, il Duca Bianco va a pescare diversi “deep cuts”, cioè episodi meno conosciuti del suo vasto catalogo, come Word On A Wing, suadente slow dal tono quasi confidenziale, l’intrigante rock ballad Always Crashing In The Same Car, l’applaudita Drive-In Saturday, splendidamente sixties-oriented https://www.youtube.com/watch?v=qqQ__Jr77WE , e la rockeggiante ed obliqua Repetition. Dulcis in fundo, non mancano un paio di sorprese: dal primo album dei Tin Machine I Can’t Read, affascinante e ricca di pathos, e addirittura il ripescaggio dell’oscura Can’t Help Thinking About Me, un raro singolo pubblicato dal nostro per la Pye Records nel 1966, delizioso power pop elettrico con coretti, chitarre in evidenza e ritornello orecchiabile.

david bowie at the kit kat klub cd

Live At The Kit Kat Klub (il sesto ed ultimo CD) è invece inerente al concerto del 19 novembre in un piccolo locale di New York di fronte ad una platea di invitati, un’altra valida e godibile performance che però per dieci dodicesimi contiene brani già presenti nello show parigino  https://www.youtube.com/watch?v=vfpM1BbxPdY (un altro problema di questo cofanetto: la ripetitività), con le uniche due differenze che consistono nella potente Stay (da Station To Station), contraddistinta da un ossessivo riff chitarristico dal sapore quasi funky, e, da Earthling, l’ipnotica e non imperdibile I’m Afraid Of Americans.

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Il prossimo autunno la “Bowie Inc.” dovrebbe riprendere con le pubblicazioni dei cofanetti riepilogativi della carriera (fermi a Loving The Alien del 2018, che si occupava degli anni 80 di David), una serie di manufatti che finora si è attirata molte meno critiche del box Brilliant Live Adventures, a parte quella non trascurabile della poca presenza di brani rari o inediti.

Marco Verdi

L’Erba (Tagliata) Del Vicino E’ Sempre Più…Blu! Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2

sturgill simpson cuttin' grass vol. 2

Sturgill Simpson – Cuttin’ Grass Vol. 2 – High Top Mountain/Thirty Tigers CD

A pochi mesi dal primo volume https://discoclub.myblog.it/2021/01/08/meno-male-che-i-dischi-belli-li-sa-ancora-fare-sturgill-simpson-cuttin-grass-vol-1/  (ma per il download era già disponibile da fine 2020) esce il secondo episodio del progetto Cuttin’ Grass, due album nei quali l’ormai noto singer-songwriter Sturgill Simpson reinterpreta una serie di brani del suo songbook in chiave bluegrass. E quando dico bluegrass intendo il termine nella sua accezione più pura e tradizionale, senza la benché minima traccia di contaminazione rock o di altro genere: Sturgill ha scelto canzoni dal suo passato anche remoto (ma non recente: il pessimo Sound & Fury è ignorato anche in questo secondo volume) e le ha totalmente reinventate secondo i canoni della mountain music di settanta e passa anni fa, con una strumentazione totalmente acustica e con la batteria usata col contagocce.

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Cuttin’ Grass Vol. 2 è quindi il logico prosieguo della prima parte, con gli stessi musicisti (Stuart Duncan al violino, Mark Howard e Tim O’Brien alle chitarre, Mike Bub al basso, Sierra Hull al mandolino, Scott Vestal al banjo e Miles Miller alle percussioni, e tutti quanti alle armonie vocali) ma diversa location di registrazione: se infatti il primo episodio era stato inciso ai piccoli Butcher Shoppe Studios di Nashville, per il seguito la combriccola si è spostata ai Cowboy Arms Studios, che erano di proprietà del grande Cowboy Jack Clement e di recente sono stati trasferiti ad un nuovo indirizzo ma sempre a Nashville. L’album, assolutamente gradevole e suonato benissimo così come il precedente, vede Simpson omaggiare soltanto due album della sua discografia, arrotondando il tutto come vedremo a breve con un inedito assoluto e due “quasi”: il disco a cui attinge maggiormente con sei pezzi su dodici è A Sailor’s Guide To Earth del 2016, con canzoni che se originariamente riflettevano il mood soul-pop-errebi di quel lavoro, qui si trasformano in perfette bluegrass songs, tra pezzi suonati a velocità supersonica con assoli a raffica (Call To Armshttps://www.youtube.com/watch?v=P7VYILfhh3w , brani cadenzati tra country e folk (Brace For Impact, la deliziosa Sea Stories, e la vibrante Keep It Between The Lines, dalla struttura melodica contemporanea) e limpide e cristalline ballate dal sapore bucolico (Oh Sarah, dal ritmo comunque sostenuto, e Welcome To Earth (Polliwog), lenta e struggente ma con una notevole accelerata dalla metà in avanti).

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Dal suo primo album, High Top Mountain, Sturgill riprende tre canzoni: le bellissime Hero e You Can Have The Crown https://www.youtube.com/watch?v=gRk4-sIaL7Y , che mantengono la struttura country originale anche se in veste “unplugged”, e Some Days, energica nel ritmo e dal motivo diretto ed immediato. Ci sono anche due pezzi risalenti al periodo dei Sunday Valley, la prima band del nostro che però non ha lasciato testimonianze su disco: Jesus Boogie, che a dispetto del titolo inizia come uno slow decisamente suggestivo, salvo poi crescere nel ritmo dopo un minuto grazie al banjo che dà il via alle danze, e la fulgida country ballad Tennessee https://www.youtube.com/watch?v=bo8DDMFC-9Q . Dulcis in fundo, Simpson propone l’inedita Hobo Cartoon, pezzo scritto insieme nientemeno che a Merle Haggard ma rimasto nei cassetti fino ad oggi, una splendida ed intensa ballata western che ha in ogni nota della toccante melodia i cromosomi del grande Hag https://www.youtube.com/watch?v=85c9-9UBazo . Un ottimo modo per concludere un secondo volume allo stesso livello del primo, e che ci fa sperare ancora di più che Sound & Fury sia stato soltanto un brutto incidente di percorso.

Marco Verdi

Tutti Bravi Ma…La Voce Dov’è? Dale Watson – Presents: The Memphians

dale watson presents the memphians

Dale Watson – Presents: The Memphians – BFD CD

Dale Watson, prolifico countryman nativo dell’Alabama ma texano d’adozione, è fermo discograficamente a Call Me Lucky del 2019, ma non è che nel frattempo se ne sia stato con le mani in mano. Al contrario, ha apportato alla sua vita un paio di cambiamenti piuttosto importanti: si è trasferito da Austin a Memphis (dove ha aperto anche un ristorante, Hernando’s Hideaway, ed uno studio di registrazione) e si è sposato con la singer-songwriter Celine Lee. Ma il passaggio a Memphis ha portato in Dale anche un mutamento dal punto di vista musicale, in quanto il suo nuovo lavoro The Memphians è in tutto e per tutto un tributo alla sua nuova città ed alle origini del rock’n’roll, un album in cui il nostro mostra influenze alternative a quelle dei suoi “honky-tonk heroes”: Elvis Presley, Carl Perkins, i dischi della Sun Records e, essendo Dale anche un valido chitarrista, gente come Scotty Moore, Hank Marvin, Duane Eddy e lo stesso Perkins. The Memphians è quindi un disco molto meno country del solito, ma che presenta un range sonoro che va dal rock’n’roll allo swing, dal rockabilly alla ballata anni 50 e che, soprattutto, non ci fa sentire la bella voce baritonale di Watson in quanto è un lavoro al 100% strumentale.

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A dire il vero quando ho letto questa notizia ho storto un po’ il naso, nello stesso modo in cui l’avevo storto nel 1999 (facendo le debite proporzioni tra i due artisti) quando Willie Nelson aveva pubblicato lo strumentale Night And Day: ad ascolto ultimato però devo ammettere che The Memphians risulta essere un dischetto godibile e ben fatto, che regala all’ascoltatore mezz’oretta indubbiamente piacevole, anche se io al Dale Watson cantante non rinuncerei mai. C’è anche un po’ di Italia, in quanto il secondo chitarrista (e co-autore con Watson di quattro pezzi, mentre gli altri sono del solo Dale) è il catanese trapiantato a Memphis Mario Monterosso, affiancato dalla sezione ritmica di Carl Caspersen al basso e Danny Banks alla batteria, e soprattutto dal bravissimo pianista T. Jarrod Bonta, collaboratore di lungo corso del leader, e dall’ottimo sassofonista Jim Spake. L’iniziale Agent Elvis è un chiaro omaggio a Duane Eddy, un pezzo cadenzato con chitarrone twang in evidenza ed il sax che si prende il suo spazio mentre in sottofondo la band accompagna con discrezione guidata dal pianoforte spazzolato da Bonta https://www.youtube.com/watch?v=5YMhC-Clr0k . Dalynn Grace, languida ballata d’altri tempi che fa venire in mente gli episodi più melodici di Elvis (ma la voce, come ho già detto, non c’è), con una chitarra vagamente hawaiana ed un ritmo da bossa nova https://www.youtube.com/watch?v=xX4jZ04UL38 , si contrappone alla spedita Alone Ranger, brano di stampo quasi western che riprende il sound degli Shadows, con sax ed organo che si ritagliano entrambi una parte da solisti https://www.youtube.com/watch?v=Xy81bQmz16s .

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Standin’ In Line è una gradevolissima canzone ritmata e ricca di swing, tra country e rockabilly con una spruzzata di jazz, Serene Lee riporta il CD su languide atmosfere da ballo della mattonella (mi aspetto di sentire arrivare Chris Isaak da un momento all’altro), Deep Eddy è un altro suggestivo pezzo che profuma di Shadows lontano un miglio, con un approccio raffinato ed una delle migliori performance chitarristiche del disco. Hernando’s Swang è ispirata al locale aperto da Dale a Memphis, ed è un coinvolgente brano a tutto swing con i soliti eccellenti spunti di piano e sax https://www.youtube.com/watch?v=JR3X_JYyXSM , Mi Scusi (avete letto bene) è puro rock’n’roll dal ritmo decisamente sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=pKWrs3G_DpE , mentre 2020 riavvicina il nostro al country con una veloce canzone influenzata da Chet Atkins, e la conclusiva Remembering Gary vede Dale lasciarci con uno slow suadente e dall’aria nostalgica. Dopo anni di ottimo honky-tonk texano ci sta che Dale Watson possa cambiare genere, ma la scelta di non usare la voce ha reso The Memphians niente più di un piacevole divertissement.

Marco Verdi

Torna Il Grande Produttore-Musicista Con Un Disco Finalmente “Per Tutti”. Daniel Lanois – Heavy Sun

daniel lanois heavy sun

Daniel Lanois – Heavy Sun – eOne CD

Non penso di dovervi ricordare in questa sede chi sia Daniel Lanois, grande produttore canadese del Quebec, uno di quelli che quando presta i suoi servizi per gli artisti da cui è ingaggiato (si chiamino essi U2, Peter Gabriel, Robbie Robertson, Bob Dylan, Emmylou Harris, Willie Nelson o Neil Young), oltre alla sua esperienza ed alle sue capacità in sala di registrazione porta anche un suono. Sì, perché Daniel è uno dei pochi producers che, come Phil Spector o, facendo le debite proporzioni, Jeff Lynne, ha un suo sound ben distinto e distinguibile: se però nel caso di Spector si parla di sonorità stratificate e magniloquenti, Lanois ci ha invece abituati ad atmosfere rarefatte e quasi misteriose, con ritmiche ondeggianti e riverberi di chitarra, il tutto a creare un patchwork che talvolta raggiunge anche toni cupi ed onirici. Dal 1989 il canadese ha poi affiancato a quella di produttore la carriera di musicista per conto proprio, ed anche qui le soddisfazioni non sono mancate: il suo esordio Acadie era un album splendido, un disco di roots-rock cantautorale in cui il nostro mostrava notevoli capacità anche come autore di canzoni (e pure come cantante se la cavicchiava), ma pure il seguente For The Beauty Of Wynona del 1993 era un lavoro notevole. Da lì in poi i suoi album hanno cominciato a diventare più elitari, con collezioni di pezzi in molti casi solo strumentali che avrebbero potuto essere la colonna sonora di un film immaginario (ma spesso erano delle soundtracks vere e proprie), con poche eccezioni come lo splendido Shine del 2003, in cui Lanois esplorava le possibilità sonore della steel guitar (da quel momento in poi una vera passione per lui), ed i discreti Rockets, Belladonna e Here Is What Is.

daniel lanois heavy sun 2

daniel lanois heavy sun 1

Ora, a cinque anni da Goodbye To Language (ma in mezzo c’è stato anche l’ostico disco in collaborazione con il musicista dance-jungle-techno Venetian Snares), Daniel torna con Heavy Sun, un album che, dopo un attento ascolto, non esito a mettere tra i più riusciti e fruibili del produttore-musicista. Lanois infatti è tornato a fare musica con la M maiuscola, ben coadiuvato da un terzetto formato dal noto chitarrista californiano Rocco DeLuca (da anni partner artistico di Daniel), dal bassista Jim Wilson e dall’organista e cantante Johnny Shepherd, con la partecipazione di Chris Thomas ancora al basso e del noto batterista jazz Brian Blade, oltre al coro gospel Zion Baptist Church, diretto da Shepherd e fondato da Brady Blade Sr., che però ha una grande importanza nell’economia del disco. Ma la vera sorpresa di Heavy Sun è che si tratta, come la presenza del già citato coro lascia supporre, di un disco di moderno soul-gospel, con una serie di canzoni di ottima qualità scritte in collaborazione dai quattro musicisti principali e con toni talvolta gioiosi e solari in contrasto con le atmosfere notturne alle quali Lanois ci aveva abituato (pare come reazione alla cupa situazione mondiale conseguente alla pandemia). Il centro del progetto è l’organo di Shepherd e la sua voce (infatti Lanois non canta), ma anche Daniel mostra di trovarsi pienamente a suo agio con certe sonorità, come d’altronde era successo nel 1989 allorquando produsse lo splendido Yellow Moon dei Neville Brothers.

foto floria sigismondi

foto floria sigismondi

L’iniziale Dance On apre benissimo il disco: note suggestive di organo, poi entra la voce di Shepherd (grande ugola tra parentesi) ed inizia un coinvolgente botta e risposta con il coro, con le chitarre che si fanno sentire col contagocce ma solo quando serve https://www.youtube.com/watch?v=kouZADMLFNU . Power è più strumentata, il sound è moderno e classico nello stesso tempo, con la chitarra riverberata tipica, organo e sezione ritmica che avvolgono la parte vocale che qui è di competenza esclusiva del coro, ed un intervento di Shepherd in leggero falsetto https://www.youtube.com/watch?v=qbkkcxFIMFg ; Every Nation è introdotta da una chitarra twang e da una ritmica fluttuante e dal sapore quasi reggae, ed il brano è una suadente soul song annerita alla quale la chitarra di DeLuca fornisce l’elemento rock. Tutto estremamente gradevole. Way Down è una bella e toccante ballata resa calda dall’organo e con la voce di Lanois che doppia ottimamente quella di Shepherd, il tutto in un’atmosfera d’altri tempi  https://www.youtube.com/watch?v=ncbCqVMoXWo , Please Don’t Try è un altro pezzo di bravura per voce ed organo, ma con l’immancabile coro a colorare il refrain, mentre Tree Of Tule è un pezzo mosso e pianistico nuovamente cantato a più voci e con una solarità di fondo che lo rende immediatamente fruibile https://www.youtube.com/watch?v=zIYHF2eV8ac .

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Tumbling Stone vede ancora la sola presenza di organo, voce solista e coro, ma la melodia dal sapore gospel tradizionale ed il pathos esecutivo ne fanno uno dei brani di punta del CD; Angels Watching è splendida, un gospel-reggae-rock suonato in punta di dita e cantato meravigliosamente, con il tocco di Lanois riconoscibile in ogni nota https://www.youtube.com/watch?v=eHqI0O-77Dg , ed anche l’orecchiabile (Under The) Heavy Sun, primo singolo dell’album, porta luce e positività in un disco che è un’inattesa sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=OrXDf-3ZpWg . Finale con Mother’s Eyes e Out Of Sight, ennesimi affascinanti brani in cui l’organo è l’unico strumento presente: Daniel Lanois è quindi tornato a fare musica non solo per sé stesso (e questa è già di per sé un’ottima notizia), regalandoci il suo lavoro migliore dai tempi di Shine.

Marco Verdi