The Devil Went (Back) To Heaven: Ci Ha Lasciato Anche Charlie Daniels. Ed Un Augurio A Ringo Starr.

charlie daniels

In una fase di profonda crisi sociale (parlo degli USA), che però sta portando alcune persone su posizioni deliranti come il considerare razzista chiunque rivendichi le sue radici sudiste o far cambiare il nome a gruppi di seconda o terza fascia, vorrei celebrare la figura di Charlie Daniels, storico musicista scomparso ieri all’età di 83 per un ictus emorragico, un personaggio che in vita non aveva mai nascosto il suo orgoglio di “southern man”, né le sue tendenze conservatrici (posizioni che non escludono assolutamente il fatto di essere contro ogni tipo di razzismo, anche se molti soloni e buonisti un tanto al chilo pensano che ciò sia impossibile), e non aveva paura di usare la parola “Dixie” nelle sue canzoni.

Nato Charles Edward Daniels a Wilmington in North Carolina, il nostro è stato negli anni settanta con la sua Charlie Daniels Band uno dei massimi esponenti del movimento southern rock, anche se rispetto a gruppi come Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd la componente country era molto più marcata, grazie al fatto che Charlie era un provetto violinista che talvolta operava anche per conto terzi (per esempio era diventato nei seventies uno presenza quasi fissa negli album della Marshall Tucker Band).

Man mano che passavano gli anni la sua musica (sia da solo che con la CDB, ma non ci sono mai state grandi differenze nel suono in un caso rispetto all’altro) era diventata sempre più country, ma lo spirito graffiante del rock’n’roll non lo aveva mai abbandonato, e ciò si notava specialmente nelle potenti esibizioni dal vivo. Attivo dagli anni sessanta, Daniels comincia principalmente come sessionman a Nashville (inizialmente come bassista, solo in seguito si sposta alla chitarra e come ho già detto al violino), suonando anche con Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e Leonard Cohen. Il suo esordio discografico omonimo avviene nel 1970, ma è con il quinto album Fire On The Mountain del 1974 che Charlie pubblica uno dei lavori cardine del southern rock di quel periodo, un lavoro splendido che contiene tre dei suoi brani più popolari: Caballo Diablo, Long Haired Country Boy e The South’s Gonna Do It.

Da lì in poi il suono diventa sempre più country (e le vendite iniziano ad aumentare), con dischi comunque di ottimo valore come Saddle Tramp, High Lonesome e soprattutto il pluripremiato Million Mile Reflections del 1979 che contiene la celebre The Devil Went Down To Georgia, unico singolo di Daniels a raggiungere il primo posto in classifica. Se gli album sono più country che rock, le esibizioni live pongono maggiormente l’accento su potenza ed elettricità, con il nostro che dà il via dalla metà dei seventies alle Volunteer Jam, una sorta di appuntamento annuale in cui i migliori gruppi del sud (e non solo) si trovano sullo stesso palco per lanciarsi appunto in jam infuocate, un rendez-vous che però negli anni verrà parecchio diradato. Negli anni ottanta Daniels continua a pubblicare album di buona qualità trovando anche ottimi riscontri di vendite (specialmente con Windows del 1982 e Simple Man del 1989), mentre dai novanta inizia a perdere qualche colpo con lavori che denotano un certo patriottismo da baci Perugina come lo stucchevole America, I Believe In You ma anche con buone cose come Renegade del 1991 (che contiene una bellissima versione country-rock di Layla di Eric Clapton) e By The Light Of The Moon, notevole e coinvolgente collezione di cowboy songs.

Nei duemila Charlie ribadisce la sua fede repubbicana (ma nei settanta aveva appoggiato la candidatura di Jimmy Carter) difendendo la politica estera di Geroge W. Bush e registrando addirittura un album dal vivo in Iraq davanti alle truppe americane; non mancano però le zampate, come il bel disco di duetti Deuces del 2007 e, negli ultimi anni, un eccellente tributo alle canzoni di Dylan (Off The Grid, 2014), bissato nel 2016 da un altro ottimo disco di canzoni western, questa volta dal suono più acustico (Night Hawk). Due anni fa è uscito il bellissimo tributo dal vivo a Charlie in occasione della pubblicazione della ventesima Volunteer Jam, un notevole doppio CD con ospiti del calibro di Blackberry Smoke, Lynyrd Skynyrd, Devon Allman con Duane Betts, Billy Gibbons oltre naturalmente al padrone di casa.

Riposa in pace, vecchio Charlie, ed insegna agli angeli come si suona il violino.

Marco Verdi

ringo starr 80

P.S: vorrei controbilanciare una brutta notizia con una lieta, facendo gli auguri a Ringo Starr per il suoi 80 anni, portati peraltro splendidamente. Non sto certo qui a spiegarvi di chi sto parlando (tutti sanno chi è ed in che gruppo ha militato), ma vorrei celebrarlo con due canzoni: la prima adattissima per via del titolo anche se non è lui a cantare (ma a suonare la batteria sì!), mentre la seconda è uno dei suoi classici assoluti e forse la mia preferita del suo repertorio solista, un brano il cui testo rivela che Ringo aveva capito fin da subito che il suo percorso artistico post-Beatles non sarebbe stata una passeggiata.

Un Bel Dischetto, Forse Fin Troppo Corto! Jon Dee Graham – Knoxville Skyline

Un Bel Dischetto, Forse Fin Troppo Corto! Jon Dee Graham – Knoxville Skyline

Jon Dee Graham – Knoxville Skyline – JonDeeCo EP/CD

Jon Dee Graham, ex Shunks e True Believers, è uno dei tantissimi outsiders americani, un vero e proprio musicista di culto. Texano di Austin, ottimo chitarrista, ha suonato su dischi di gente come Ry Cooder, John Doe, Calvin Russell, Kelly Willis, The Gourds, Ray Wylie Hubbard e James McMurtry, oltre che con il vecchio compagno nei Believers Alejandro Escovedo, e come solista ha una carriera ormai ventennale, anche se non ha mai non solo sfondato, ma neppure raggiunto uno status di semi-celebrità. La sua musica, genuinamente roots con marcati elementi rock e blues, è sempre stata troppo autentica per poter avere il benché minimo appeal commerciale, ma Jon Dee se ne è sempre fregato e ha sempre tirato dritto, fino a rimanere senza contratto (in passato ha inciso anche per la New West) ed a doversi autodistribuire. Il suo ultimo album, Garage Sale, risale a quattro anni fa, ed il fatto che Jon ormai trovi difficile persino scrivere canzoni con continuità, oltre che inciderle e pubblicarle, è dimostrato dal fatto che questo nuovissimo Knoxville Skyline contiene solo cinque brani, per un totale di appena venti minuti.

Un EP quindi, più che un album vero e proprio, un supporto molto in voga negli anni sessanta ma che oggi non realizza quasi più nessuno: eppure Graham aveva queste canzoni, e ha giustamente sentito l’urgenza di condividerle con chi in questi anni non lo ha mai abbandonato, è andato in uno studio proprio nella cittadina del Tennessee citata nel titolo con l’assistenza alla produzione di John Harvey, e nel giro di pochi giorni e con una band ridotta all’osso (Tim Lee alla chitarra e voce, Susan Bauer Lee al basso e voce, Chris Bratta alla batteria, Michael Ramos all’organo e Mary Podio alla voce) ha messo a punto questo ottimo dischetto di pura Texas roots music, nel suo tipico stile rauco e sfiorato dal blues, con le chitarre sempre in primo piano e la sua voce alla Tom Waits, un mini CD pienamente riuscito in quanto contiene cinque canzoni di livello più che buono, che però alla fine lascia un po’ di amaro in bocca a causa della sua durata esigua.

(Things Might Turn Out) Right, che apre il disco, è un pezzo sinuoso e bluesato, cantato con la consueta voce “catramosa” dal nostro, una bella slide ed un’andatura piacevole ed accattivante (qualcuno potrebbe definirla una canzone sexy); Dan Stuart’s Blues, dedicata affettuosamente all’ex leader dei Green On Red (un grande gruppo purtroppo oggi dimenticato anche dalle case discografiche), è lenta, notturna e desertica, con Jon che più che cantare parla su un tappeto musicale molto rilassato, ed il pezzo, grazie anche al particolare timbro di voce del texano, è indubbiamente affascinante. Un bel riff chitarristico apre Shoeshine Charlie, un brano roccato e diretto, ben sostenuto da un ottimo motivo, un gran bel pezzo rock in poche parole, forse il migliore del dischetto (ed anche il suono grezzo e poco smussato in questo caso lo vedo come un punto a favore), mentre Ballad Of Barbara And Steve è elettroacustica e più pacata, ma sempre fluida, distesa e con un bel refrain: se non fosse per la voce di Graham potrebbe avere similitudini con il Neil Young più bucolico. L’EP si chiude, ahimè troppo presto, con la lenta Careless Prayer, intensa, polverosa e dal tono vissuto: spero che questo Knoxville Skyline sia solo l’antipasto per qualcosa di più corposo che possa seguire a breve, e che non si debbano aspettare altri quattro anni per avere la miseria di cinque canzoni.

Marco Verdi

Quelli “Veri” Erano Un’Altra Cosa, Ma Ci Si Può Accontentare! John Kay & Steppenwolf – Roslyn NY 1980

john kay & steppenwolf roslyn ny 1980

John Kay & Steppenwolf  – Roslyn NY 1980 – Vox Rox CD

Gli anni migliori degli Steppenwolf sono quelli celebrati dallo splendido doppio della Real Gone Musis The ABC Dunhill SinglesCollection, ovvero il periodo che va dal 1968 al 1972 http://discoclub.myblog.it/2015/12/09/cinque-anni-grande-musica-steppenwolf-the-abcdunhill-singles-collection/ . La band, canadese di origine, ma profondamente americana, anzi californiana, nel suono, ha lasciato una traccia consistente nella musica di quel periodo, con quel sound che univa rock classico, per quanto duro, ma con derive anche psichedeliche, alla passione del proprio leader John Kay per il blues. Poi Kay registrò due album solisti e anche se il nucleo originale della band si ritrovò insieme negli anni che vanno dal 1974 al 1976, la spinta iniziale si era spenta. Nell’interregno che arriva fino all’80 circolavano varie band con il nome Steppenwolf messe in circolazione da manager truffaldini (così diceva John Kay all’epoca, anche nella presentazione di questo concerto), ma bisogna attendere fino a quel anno per vedere Kay riappropriarsi del nome della sua creatura, anche se come John Kay & Steppenwolf. Dei “Lupi della Steppa” originali non c’è più nessuno, i nuovi rispondono ai nomi dei fratelli Michael e Steve Palmer, rispettivamente chitarrista e batterista, che avevano militato nei “notissimi” Tall Water (?1?), con l’aggiunta di Chad Peery al basso e Danny Ironstone alle tastiere a riformare il classico quintetto, con Kay, voce solista e chitarra. La band non inciderà un nuovo album di studio fino al 1982, quando venne pubblicato Wolftracks, ma si esibirono molto spesso dal vivo, pubblicando anche un Live In London, che per le bizzarrie del mercato discografico venne pubblicato solo in Australia all’epoca.

john kay & steppenwolf live in london

Dallo stesso tour viene anche questo concerto al My Father’s Place di Roslyn, NY, immortalato dall’emittente radiofonica WLIR e ora pubblicato dalla Vox Rox, intestato nella copertina a John Kay, scritto molto in piccolo, & Steppenwolf, a caratteri cubitali. Come dicono le cronache odierne, in teoria, il gruppo è ancora in attività, e quindi potremmo aspettarci qualche disco nuovo, magari, ipotizzo, da quei geni della Cleopatra; ma occupiamoci di questo concerto che, grazie alla voce poderosa di Kay e alla scelta effettuatata su un repertorio sterminato, ci permette di ascoltare un band di culto in anni in cui non era ancora “bollita”, tutt’altro, ma a tratti mancava quel quid.. L’apertura è affidata al classico I’m Movin’ On di Hank Snow, che ci introduce subito al classico rock “riffato” della band, con John Kay sempre in possesso di un gran voce, profonda e risonante, ma anche in grado di “urlare” il suo rock, ben coadiuvato da chitarre e tastiere, una ritmica solida e la capacità di creare un groove coinvolgente. Il suono della registrazione è buono, e come Kay mette in evidenza “questi sono gli originali e non i buffoni che hanno girato con il nome del gruppo”.

Down In New Orleans, brano poco conosciuto tratto dal terzo album solista di Kay All In Good Time, è un piccolo gioielllino, che appare persino in alcune liste che riportano le migliori canzoni sulla città della Louisiana. Hey Lawdy Mama, che non è il pezzo blues, ma un brano della band, appariva già nello Steppenwolf Live del 1970, ottimo rock nel loro stile classico con tanto di assolo d’epoca di synth. The Best Is Barely Good Enough viene sempre da All In Good Time, buona, ma niente per cui stracciarsi le vesti e pure You è un brano nuovo che uscirà solo un paio di anni dopo in Wolftracks, ma Snowblind Friend, la conoscono tutti, è uno dei pezzi da 90 del gruppo, scritta da Hoyt Axton, uscì nel 1970 su Steppenwolf 7, sempre bellissima. Hot Night In A Cold Town è proprio il brano di Mellencamp quando si chiamava ancora John Cougar, abbastanza “poppeggiante” e non memorabile. E dopo la presentazione della band anche Underworld Figure scritta dai fratelli Palmer pare una mezza ciofeca, molto anni ’80, mentre con Sookie Sookie si comincia a ragionare, ma poi Ain’t Nothing Like It Used To Be (come è vero il titolo), che uscirà quattro anni dopo su Paradox, ed era già sull’album solo del 1978 non è il massimo. Magic Carpet Ride aggiusta le cose, come pure il trittico finale di Born To Be Wild, The Pusher e Monster, sempre gagliarde ed immortali, anche se i “Veri” Steppenwolf erano un’altra cosa ci si può accontentare, con quella voce solo lui le poteva cantare.

Bruno Conti  

Un Gustoso Antipasto In Attesa (A Maggio) Della Portata Principale! Bob Sinatra, Scusate, Dylan – Melancholy Mood

bob dylan melnchololy mood

Bob Dylan – Melancholy Mood – Sony Japan EP/CD

Bob Dylan ormai ci ha preso gusto: dopo il bellissimo Shadows In The Night dello scorso anno, in cui il Vate rileggeva a modo suo alcuni standard della musica americana (tutti con il comune denominatore di essere stati interpretati anche da Frank Sinatra), il 20 Maggio darà seguito all’operazione, probabilmente confortato anche dal successo di critica e pubblico avuto dal predecessore, con Fallen Angels, altro album composto esclusivamente da evergreen e di cui riporto qua di seguito la tracklist.

1. Young At Heart
2. Maybe You’ll Be There
3. Polka Dots And Moonbeams
4. All The Way
5. Skylark
6. Nevertheless
7. All Or Nothing At All
8. A Little Street In Singapore
9. It Had To Be You
10. Melancholy Mood
11. That Old Black Magic
12. Come Rain Or Come Shine

Come vedete un’altra bella serie di classici, ancora con Sinatra come elemento conduttore (anche se questa volta c’è l’eccezione: Skylark vanta, tra le altre, una versione da parte di Bing Crosby, ma non è mai stata incisa da Ol’ Blue Eyes): al momento non è dato sapere se i brani provengano dalle stesse sessions che hanno generato Shadows In The Night o ci sia anche qualcosa registrato ex novo, dato che all’inizio di quest’anno Dylan è stato visto aggirarsi negli studi Capitol di Los Angeles.

FallenAngel

Come succoso antipasto, la Sony ha messo fuori questo mini CD (una volta si chiamavano EP) di quattro brani, con Melancholy Mood come pezzo di punta, un dischetto che si trova su internet anche a prezzi abbordabili (ma attenzione alle spese di importazione dal Giappone), e che verrà pubblicato anche in vinile (ma in edizione limitata) in occasione del Record Store Day la settimana prossima.

Da queste quattro canzoni possiamo intuire che anche Fallen Angels sarà uno dei dischi dell’anno: come dicevo, Dylan ci ha preso gusto nell’interpretare il songbook americano (dal vivo fa circa una decina di questi pezzi ogni sera), e la band dopo anni di rodaggio sarebbe capace di seguirlo alla grande su qualsiasi territorio; anzi, da un primo ascolto di queste quattro canzoni (prodotte al solito da Bob stesso con il consueto pseudonimo di Jack Frost) sembra che il nostro sia ancora più “dentro” l’operazione che sul disco precedente…e se è davvero così Fallen Angels sarà una goduria.

Ma vediamo questi quattro “assaggi” nel dettaglio.

Melancholy Mood – brano scritto da Walter Schumann e Vick Knight, era sul lato B del primo 45 giri in assoluto inciso da Sinatra (From The Bottom Of My Heart, 1939): la versione dylaniana ha uno splendido inizio, con un bellissimo ricamo di chitarra (Charlie Sexton) e la batteria spazzolata, un intro strumentale piuttosto prolungato e di grande raffinatezza; quando entra la voce del leader (che se possibile canta ancora meglio che nell’album precedente) sono già entrato completamente nel mood (malinconico, of course) del disco.

All Or Nothing At All – anche questo pezzo (di Jack Lawrence ed Arthur Altamn) appartiene al repertorio “preistorico” del grande Frank, essendo uscita nel 1940: tra le altre cover successive ricordo Chet Baker, John Coltrane, Sarah Vaughan e Diana Krall. Altro intro di chitarra, ma stavolta Bob canta da subito, ed il gruppo lo segue con la professionalità e la discrezione tipiche delle backing bands degli anni quaranta; Dylan, poi, da consumato crooner, non ha paura a cantare anche note più alte del solito.

Come Rain Or Come Shine – un pezzo famosissimo, scritto da Johnny Mercer con Harold Arlen, incisa da Sinatra insieme a mille altri grandi (Dinah Shore, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Ray Charles, James Brown, Liza Minnelli, Dr. John, Don Henley ed Eric Clapton con B.B. King). La versione di Bob inizia piano, con la voce sospesa ed accompagnamento in punta di dita, poche note di chitarra, spazzole, contrabbasso suonato con l’archetto e steel (e Dylan canta benissimo). Classe pura.

That Old Black Magic – gli stessi due autori del brano precedente, un altro pezzo storico che vanta interpretazioni da parte di Glenn Miller (il primo ad inciderla), ancora la Fitzgerald, Sammy Davis Jr., Bing Crosby, naturalmente Sinatra, oltre a Van Morrison, Tom Jones e Rod Stewart. Qui il ritmo è più spedito (ma con la band sempre nelle retrovie), con Dylan che si diverte a swingare con gusto, come se non avesse mai fatto altro.

bob dylan fallen angels

Quindi un (bellissimo) mini CD che serve giusto a stuzzicare l’appetito, e tra poco più di un mese potremo godere del disco completo.

Marco Verdi

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

hayes carll lovers and leavers

Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi

Come Direbbero I Romani: E Mo’ Basta! Ci Ha Lasciato Anche Paul Kantner!

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Il Gennaio più nero della storia del rock si sta finalmente per chiudere, e dopo le premature scomparse di David Bowie e Glenn Frey (ma anche di Otis Clay e Dale Griffin), è ora purtroppo la volta di Paul Kantner, leader e fondatore di uno dei gruppi americani principali della seconda metà degli anni sessanta, ovvero i Jefferson Airplane, forse la band che più di tutte le altre è stata il simbolo della controcultura hippy e della Summer Of Love.

Paul (scomparso all’età di 74 anni per una setticemia dovuta ad un attacco cardiaco) fondò gli Airplane nel 1965 insieme a Marty Balin, ed in breve tempo (nella formazione classica con Jorma Kaukonen, Jack Casady, Spencer Dryden e la splendida vocalist Grace Slick) diede vita ad uno dei gruppi che, insieme ai Grateful Dead, meglio rappresentavano la scena musicale di San Francisco, grazie anche alla partecipazione a festival come Monterey e Woodstock, ma soprattutto con canzoni del calibro di Somebody To Love, White Rabbit, Crown Of Creation, Volunteers ed album diventati pietre miliari del periodo come Surrealistic Pillow, After Bathing At Baxter’s e Volunteers; la loro musica, un misto di rock, blues e psichedelia, unita a testi di attualità dalla forte impronta politica (e polemica), diventò presto la colonna sonora degli hippies e dei movimenti di sinistra statunitensi (anche se indubbiamente oggi certe tematiche e certe sonorità suonano un po’ più datate di altre appartenenti allo stesso periodo), con il nostro visto quasi alla stregua di un “santone acido”, parallelamente a Jerry Garcia.

Dopo uno storico e bellissimo album solista e corale del 1970 (Blows Against The Empire, un perfetto manifesto del Laurel Canyon Sound https://www.youtube.com/watch?v=ZaHNAVgVkDY , con membri degli Airplane, dei Dead, dei Quicksilver Messenger Service e degli Electric Flag, oltre a Graham Nash e David Crosby, quasi un prologo del magnifico album solo di quest’ultimo, If I Could Only Remember My Name) ed un paio di dischi, quasi altrettanto belli come Sunfighter e  Baron Von Tollbooth  in duo con la Slick, a lui sentimentalmente legata in quel periodo, Kantner sciolse gli Airplane e formò i Jefferson Starship, evoluzione della band precedente ma con un occhio più attento alle classifiche (e con un messaggio politico via via sempre più flebile). Quando però il gruppo negli anni ottanta arriverà a sfiorare il ridicolo, Kantner li lascerà obbligandoli anche a togliere il “Jefferson” dal nome.

Nel 1989, a sorpresa, un nuovo disco omonimo dei Jefferson Airplane con la formazione classica, un album assolutamente non disprezzabile e che andrebbe rivalutato; Kantner riprenderà poi in mano la sigla Jefferson Starship fino ai giorni nostri, con risultati alterni ma anche ottimi come nel caso di Jefferson’s Tree Of Liberty del 2008.

Resta il ricordo di un artista tutto di un pezzo, che ha sempre combattuto le sue battaglie con estrema coerenza e buona fede, anche se a volte poteva sembrare un sognatore un po’ fuori dal suo tempo: vorrei ricordarlo con una delle mie canzoni preferite degli anni settanta (in assoluto), un brano tratto da un album abbastanza dimenticato intitolato Baron Von Toolbooth And The Chrome Nun ed accreditato a Kantner con Grace Slick e David Freiberg e dedicato alla figlia di Paul e Grace.

So Long Paul, sia che tu ci guardi dal tuo Airplane o dalla tua Starship.

Marco Verdi

Un’Oretta Di Pure Delizie Sonore (Anche Di Più Nella Versione Deluxe)! Tedeschi Trucks Band – Let Me Get By

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Tedeschi Trucks Band – Let Me Get By – Fantasy/Universal CD o Deluxe 2CD 29-01-2016

Anche se in alcuni siti e riviste è stato già recensito, la data ufficiale di uscita del nuovo disco della Tedeschi Trucks Band Let Me Get By è il 29 gennaio (e il 5 febbraio, in Europa, per la versione Deluxe doppia), quindi ne parliamo nell’immediatezza della pubblicazione che sarà in questo fine settimana. Si tratta solo del terzo disco di studio della band, oltre al bellissimo doppio Live: Everybody’s Talkin’ del 2012: potrebbe essere quello della consacrazione, anche se pure i precedenti Revelator Made Up Mind avevano avute ottime critiche ed erano entrati nelle Top 20 delle classifiche di vendita americane, ma questo nuovo album sembra avere quel quid in più. Derek Trucks non fa più parte dell’Allman Brothers Band, che si è sciolta, e quindi ha più tempo per il gruppo di famiglia, che è la diretta prosecuzione della Derek Trucks Band che aveva operato dal 1997 al 2010, e utilizza anche un paio di musicisti che avevano fatto parte del primo gruppo. Susan Tedeschi, la moglie di Derek, con una eccellente carriera solista alle spalle, è la vocalist del gruppo, ma anche Mike Mattison nel nuovo album, oltre ad essere presente come co-autore di parecchi brani, è utilizzato come voce solista in un paio di canzoni.

Canzoni che sono proprio quelle che sembrano fare la differenza rispetto ai dischi passati (che peraltro al sottoscritto erano piaciuti parecchio, infatti non a caso Made Up Mind era entrato nella mia lista dei migliori del 2013 http://discoclub.myblog.it/2013/08/23/grande-chitarrista-grande-cantante-altri-nove-ottimi-musicis/): infatti il nuovo album sembra ancora più organico e le canzoni, che al solito spaziano nei vari generi cari alla band, dal rock al blues, dal soul al gospel, aggiungiamo R&B, funky e jazz e otteniamo tutto lo spettro sonoro che è possibile ascoltare in questo Let Me Get By, perfettamente amalgamato, ma allo stesso tempo lasciando percepire tutte le componenti che confluiscono nel sound finale https://www.youtube.com/watch?v=VgKNleCaTcs . Si diceva delle canzoni che sembrano più organiche, ancora meglio costruite che in passato, con spazio per melodia e grooves, la solita quota di improvvisazione dedicata a Derek Trucks, meno accentuata che in passato e che sicuramente verrà ampliata nelle esibizioni live, per cui occupiamoci proprio delle canzoni, con una track by track completa dell’album.

Prima di tutto vediamo il secondo disco della Deluxe Edition, che in questo caso è quella da aversi, sia per la confezione, come per i contenuti e anche per il prezzo contenuto, se mi passate il gioco di parole, meno di quanto vengano fatte pagare abitualmente le edizioni speciali singole con una o due bonus (sto ancora imprecando per il prezzo assurdo del nuovo Elton John in uscita il 5 febbraio, che costerà 5 o 6 euro in più, per 2 brani extra). Nel caso di Let Me Get By nel secondo CD abbiamo ben otto tracce aggiunte: 3 versioni demo alternative di brani contenuti nell’album, un inedito Satie Groove, una cover di Oh! You Pretty Things, la canzone di David Bowie e tre pezzi dal vivo registrati al Beacon Theatre di New York Laugh About It, I Pity The Fool Keep On Growing, quasi 45 minuti di musica).

Passiamo ai brani del disco:

Anyhow, firmata dal trio Trucks/Tedeschi/Mattison si avvale della presenza di Doyle Bramhall II, alla chitarra e alle armonie vocali, e si apre con la vocalità soffusa di Susan e con la slide di Derek per poi trasformarsi in una bellissima canzone, calda ed avvolgente, tipica del songbook della bionda signora Tedeschi, sempre più brava come cantante, a tratti sensuale in altri languida, in altri ancora travolgente, con un perfetto phrasing che si integra con le armonie vocali di Mattison Mark Rivers, il contrappunto dei tre fiatisti, Kebbi Williams, Maurice Brown Saunders Sermons, gli svolazzi del piano e dell’organo di Kofi Burbridge, fino alla conclusione strumentale dove la chitarra slide di Trucks disegna un assolo dei suoi, grazie anche al poderoso supporto della sezione ritmica di Tim Lefevbre, bassista di pregio che continua una teoria di grandi musicisti che si sono succeduti negli anni nel suo ruolo, e la doppia batteria di J.J. Johnson Tyler Greenville, così abbiamo nominato tutti i musicisti di questa grande band che giustamente viene considerato uno dei migliori ensemble in assoluto attualmente in circolazione nel mondo.

Laugh About It, scritta coralmente dai principali componenti, tra blues e soul di Memphis, è un altro esempio della maestria dei nostri, sezione fiati avvolgente, armonie vocali deliziose, chitarra e tastiere che a tratti si distinguono, la voce ancora stupenda e poi gran finale strumentale con Trucks che lavora di fino su un arrangiamento complesso e ricco di groove, già provato dal vivo, come dimostra il bonus disc.

Don’t Know What It Means è decisamente più funky, tra clavinet e wah-wah si viaggia su ritmi decisamente più sincopati, nel giusto equilibrio degli assetti, con Derek Trucks che fa quello che Duane Allman faceva in molte tracce classiche di soul primi anni ’70, pennellate di classe su un telaio solido e finale super funky con la band in gran spolvero.

Right On Time, scritta da Trucks Mattison, che la canta in coppia con la Tedeschi, è più cadenzata, a tratti jazzata e di scuola new Orleans, grazie anche alla tromba con sordina di Sermons e al pianino insinuante di Burbridge, che contribuisce ad una atmosfera quasi vaudeville grazie anche alla Resonator Guitar di Trucks; forse un episodio minore, gradevole ma non memorabile.

Let Me Get By, ancora un frutto collettivo della band, grazie alla vocalità calda di Susan a tratti ricorda alcune cose di Bonnie Raitt, alla cui voce la Tedeschi assomiglia in modo impressionante, ma mantiene gli spunti funky-rock grazie ad un assolo di organo Hammond di Burbridge che si situa tra Jimmy Smith Brian Auger, poi il resto lo fanno le chitarre di Trucks, taglienti ed espressive come di consueto, soprattutto in modalità slide.

Just As Strange, scritta dai coniugi Trucks insieme a Doyle Bramhall, è un duetto tra Susan e sé stessa, che si sdoppia nei due canali dello stereo, con un suono più elettroacustico, senza fiati, e con una quota blues più marcata, anche se la band rolla sempre di gusto.

Crying Over You, cantata da Mike Mattison, è soul music anni ’70, tra Philly Sound e le ultime propaggini pre-disco di Stax e Motown, oltre ai fiati c’è anche una sezione archi e Mattison canta con voce melliflua e suadente sui coretti dei background vocalist e con i soliti inserti solisti di Trucks e Burbridge, molto coinvolgente e con un gran finale strumentale dove la band innesta ancora la quinta e ci diverte con le sue improvvisazioni, soprattutto un Derek Trucks veramente incontenibile alla chitarra. Brano che poi diventa Swamp Raga for Holzapfel, Lefebvre, Flute and Harmonium, un breve intermezzo pastorale tra John Fahey e musica orientale, con il nostro alla 12 corde acustica e Kofi Burbridge al flauto.

Hear Me è la classica ballata che ti aspetti in un disco così, dolce e suadente è la voce di Susan Tedeschi, per un brano tra soul e pop, mi ha ricordato alcune delle cose migliori dello Stevie Wonder più ispirato dei primi anni ’70, con la chitarra slide di nuovo Allmaniana di Trucks a punteggiare le deliziosi evoluzioni vocali della consorte, bellissima canzone,

I Want More con un piglio decisamente più rock, grazie al drive di batteria e fiati, potrebbe ricordare certe cose del “soul bianco” della grande Janis, e le chitarre, che qui sono tre, Tedeschi, Trucks Doyle Bramhall, co-autore con Mattison del pezzo, viaggiano alla grande, sembra anche un pezzo alla Delaney & Bonnie o del Clapton amante delle soul revue, altra gran canzone con coda strumentale travolgente.

Si chiude con In Every Heart, altra lunga ballata, oltre i sei minuti, con una intro di fiati che ricorda certe cose simil New Orleans della Band, per poi diventare una magnifica deep soul ballad dal profondo Sud dei loro studi Swamp Raga di Jacksonville, Florida, dove è stato registrato il disco. Inutile dire che Susan Tedeschi la canta divinamente e Derek accarezza la sua slide per un doppio struggente, e ricco di tecnica, assolo nella parte centrale e finale.

Gran disco!

Bruno Conti

Una Riscoperta Quantomeno Opportuna! Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 & One Of The Lonely Ones

roy orbison mgm years front

Roy Orbison – The MGM Years 1965-1973 – Universal 13CD (14LP) Box Set 

Roy Orbison – One Of The Lonely Ones – Universal CD

Quando si parla di Roy Orbison, una delle più grandi voci rock di sempre, si tende a considerare principalmente la fase iniziale della sua carriera, quando cioè incidendo per la Monument pubblicò tutti i suoi maggiori successi, da Oh, Pretty Woman a Only The Lonely passando per Running Scared, Crying e In Dreams (solo per citare alcune tra le più note), oppure gli ultimi anni prima dell’improvviso decesso, quando era finalmente riuscito a riassaporare il piacere della popolarità, o perché no i suoi esordi presso la Sun Records, ma spesso ci si dimentica che, tra la seconda metà degli anni sessanta ed i primi anni settanta Roy si era accasato presso la MGM ed aveva continuato ad incidere con grande regolarità. Anni difficili per The Big O, sia professionalmente (i tempi e le mode stavano cambiando con rapidità, e c’era poco spazio nelle classifiche per le canzoni romantiche del nostro) sia dal punto di vista della vita privata, in quanto nel giro di poco tempo Roy perse in tragiche circostanze sia la prima moglie Claudette che due dei suoi tre figli (rispettivamente in un incidente stradale ed in un incendio casalingo). Ma Orbison non si diede per vinto, e si rifugiò nella musica più che mai, anche se con esiti commerciali incerti: la qualità delle sue incisioni si manteneva comunque su livelli medio-alti, come testimonia questo prezioso box che riunisce tutti i dischi incisi in quel periodo, aggiungendo una compilation di b-sides e brani apparsi solo su singolo, a cura dei tre figli superstiti di Roy (Wesley, Roy Jr. ed Alex), che si occupano degli archivi del padre dopo la scomparsa nel 2011 di Barbara, seconda moglie ed anche manager del cantante texano. Oltre al box The MGM Years (molto ben fatto e con un esauriente libretto di 65 pagine, anche se non a buon mercato – ma i vari CD sono stati ristampati anche singolarmente) i Roy’s Boys, così si fanno chiamare i tre figli, hanno pubblicato separatamente una vera chicca, cioè un intero disco inciso da Roy nel 1969 e mai messo in commercio, intitolato One Of The Lonely Ones, un album inciso di getto in risposta ai tragici eventi della sua vita. Ma andiamo con ordine.

roy orbison mgm years

 

The MGM Years: come già detto sono presenti gli undici album pubblicati da Roy in quel periodo (There Is Only One Roy Orbison, The Orbison Way, The Classic Roy Orbison, Sings Don Gibson, Cry Softly Lonely One, Roy Orbison’s Many Moods, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Roy Orbison Sings (titoli molto fantasiosi), Memphis e Milestones), rimasterizzati ad arte e presentati in pratiche confezioni simil-LP, una colonna sonora mai realizzata su CD (The Fastest Guitar Alive) ed il già citato B-Sides And Singles. Come già accennato, i dischetti presenti nel box (tutti molto corti e senza bonus tracks, si va da un minimo di 24 minuti ad un massimo di poco più di mezz’ora, a parte la compilation di singoli) sono decisamente godibili, senza particolari differenze di suono e stile tra uno e l’altro: la classe di Roy non la scopriamo certo oggi, ed in più in quegli anni aveva raggiunto una tale potenza e maturità vocale da consentirgli di affrontare con disinvoltura qualsiasi tipo di canzone, un po’ come Elvis negli anni settanta. Roy alterna le sue tipiche canzoni ricche di melodia (molte scritte con i partner abituali Bill Dees e Joe Melson) con altri pezzi più rock’n’roll, un uso degli archi misurato e non pesante e soprattutto la sua formidabile voce a rendere degne di nota anche le canzoni più normali. Qualche titolo sparso (ma potrei citarne il quadruplo): la nota Claudette, dedicata alla moglie quando era ancora in vita https://www.youtube.com/watch?v=tUZBijp0En0 , l’emozionante Crawling Back, Ride Away, la fluida Ain’t No Big Thing, la scintillante Go Away, la trascinante City Life, la drammatica Amy, l’insolita Southbound Jericho Parkway, una mini-suite di sette minuti con elementi psichedelici, non proprio il pane quotidiano per Roy.

Oppure interi album di alto livello, come Cry Softly Lonely One (che ha punte di eccellenza nella romantica She, la fulgida Communication Breakdown https://www.youtube.com/watch?v=5CHygiovJD8 , la classica title track, puro Orbison al massimo della sua espressività vocale, o il gioiellino pop Only Alive), o i tre album di cover (gli omaggi a due leggende della musica country come Don Gibson e Hank Williams, due dischi coi fiocchi, o Memphis, composto interamente di brani rock e country contemporanei). Per non parlare di The Big O, forse il migliore in assoluto tra tutti, un disco roccato e diretto, con un suono elettrico che ricorda le prime incisioni con la Sun, dove spiccano Break My Mind, con un ritornello corale irresistibile, il rifacimento di Down The Line (periodo Sun), dove Roy assomiglia più a Jerry Lee Lewis che a sé stesso https://www.youtube.com/watch?v=_TxtofIPdFg , la magnifica Loving Touch e la gioiosa Penny Arcade.

E poi ci sono le cover sparse, e Roy con la voce che si ritrovava riusciva a far sua qualsiasi canzone: Unchained Melody (da pelle d’oca), Help Me, Rhonda (Beach Boys), I Fought The Law (sempre bellissima), Sweet Caroline (Neil Diamond), Only You (Platters), Land Of 1000 Dances, Words (Bee Gees) solo per citarne alcune https://www.youtube.com/watch?v=RFIKES6yC1Y . Buon ultimo, The Fastest Guitar Alive, colonna sonora di uno strano western interpretato da Roy stesso, in cui il protagonista girava con una chitarra che all’occorrenza si tramutava in fucile: un dischetto curioso, non il migliore di quelli presenti, ma che contiene almeno due perle come la spedita Rollin’ On e la discreta Best Friend, ma anche cose un po’ ingenue come la stereotipata Pistolero, che sentita oggi fa un po’ sorridere.

roy orbison one of the lonely ones

One Of The Lonely Ones: un disco abbastanza in linea con gli standard del periodo, che vede il nostro in ottima forma nonostante i dolorosi fatti privati, anche se con un comprensibile aumento degli elementi malinconici. Dopo un’emozionante rilettura del classico di Rodgers & Hammerstein You’ll Never Walk Alone (un successo per Gerry & The Pacemakers e da sempre inno dei tifosi del Liverpool), con il tipico crescendo di Roy https://www.youtube.com/watch?v=DN9Na5KzRhw , abbiamo una bella serie di ballate ricche di pathos, canzoni mai sentite che finalmente ci vengono svelate, come la tesa Say No More, la deliziosa Laurie (uno come Chris Isaak godrà come un riccio ad ascoltare questi pezzi), la fluida title track, la soul-oriented Little Girl (che voce) o il valzerone countreggiante After Tonight, mentre The Defector è “solo” un buon riempitivo. Ma Roy non tralascia il rock, come la vibrante Child Woman, Woman Child, dal ritmo sostenuto e con diversi punti in comune con Oh, Pretty Woman (poteva diventare un classico) o la mossa Give Up, un rock’n’roll con interessanti cambi di tempo e similitudini con il suono di Buddy Holly. Infine, tre cover, due delle quali di Mickey Newbury (una rilettura pop, ma di gran classe, di Leaving Makes The Rain Come Down e Sweet Memories, che Roy fa sua al 100%) ed una toccante I Will Always ancora di Don Gibson. Peccato per la copertina, una delle più brutte mai viste.

Dopo la fine del contratto con la MGM Roy piomberà nel dimenticatoio per tutto il resto degli anni settanta e la prima metà degli ottanta (solo tre dischi: I’m Still In Love With You, discreto, Regeneration e Laminar Flow, trascurabili), per poi tornare clamorosamente in auge dal 1987 in poi, prima con la compilation di successi reincisi ex novo In Dreams, ma soprattutto con il fantastico A Black And White Night, uno dei migliori live degli anni ottanta (e non solo) https://www.youtube.com/watch?v=_PLq0_7k1jk  e con l’album Volume One ad opera dei Traveling Wilburys. Poi la morte per infarto, improvvisa, nel Novembre del 1988, che non gli ha permesso di vivere il grande successo del suo vero e proprio comeback record Mystery Girl e del singolo You Got It. Ma questa è un’altra storia: intanto godiamoci questi 14 dischetti, ricordandoci che, per parafrasare il titolo del primo CD del box, “di Roy Orbison ce n’è soltanto uno”.

Marco Verdi

P.S: se proprio non volete accaparrarvi il box al completo (in CD, quello in LP ha un costo ridicolmente alto), mi permetto di consigliare i seguenti titoli: The Orbison Way, Crw Softly Lonely One, Hank Williams The Orbison Way, The Big O, Memphis e Milestones. Oltre, ovviamente, a One Of The Lonely Ones.

Live “Natalizi” Che Passione! – The Who, Roger Waters, Queen, Rolling Stones

who live hyde park

The Who – Live In Hyde Park – Eagle Rock/Universal 2CD – 2CD/DVD – DVD – BluRay – 3LP/DVD – Deluxe 2CD/DVD/BluRay/Book

Roger Waters – The Wall – Legacy/Sony 2CD – 3LP – DVD – BluRay – 2BluRay Special Edition – Super Deluxe 2CD/4LP/3BluRay/Book

Queen – A Night At The Odeon – Virgin/EMI CD – 2LP – CD/BluRay – DVD – BluRay – Super Deluxe CD/DVD/BluRay/12” Single/Book

Rolling Stones – From The Vault: Live At The Tokyo Dome 1990

                           From The Vault: Live At Roundhay Park Leeds 1982 – Eagle Rock/Universal – 2CD/DVD – 3LP/DVD (Tokyo 4LP/DVD) – DVD – BluRay

Dopo aver illustrato l’ultimo live album (in tutti i sensi) di Eric Clapton, eccomi a fare un riepilogo di altre interessanti uscite inerenti a dischi incisi in concerto, tutti perfetti per l’imminente campagna natalizia: anche Manolenta avrebbe dovuto rientrare in questo elenco, ma ascoltandolo ho reputato che meritasse un post a parte…ecco comunque in breve (spero) un commento per ciascuno di questi live, come al solito disponibili in una infinità di formati diversi.

The Who – Live In Hyde Parkanche il gruppo di Pete Townshend e Roger Daltrey in teoria meriterebbe un post tutto suo, ma il mercato discografico non è certo sfornito di album dal vivo della band inglese, e la maggior parte sono usciti negli ultimi trent’anni, cioè da quando, per usare un eufemismo, i loro lavori in studio si sono sempre più diradati (e non è che le scalette negli anni siano mai variate di molto). Questo Live In Hyde Park è comunque importante in quanto documenta il concerto celebrativo dei loro cinquant’anni di carriera, tenutosi lo scorso mese di Agosto nel noto parco londinese di fronte a ben 65.000 persone. Quello che si fa apprezzare di questo doppio CD, oltre alla bravura della band di supporto (nella quale emergono senz’altro la granitica sezione ritmica formata da Pino Palladino e Zak Starkey, figlio di Ringo ed anche molto meglio come batterista, ed il fratello di Pete, Simon Townshend, alla chitarra ritmica), sono la perfezione del suono, davvero scintillante, e la forma dei due padroni di casa: Pete è la solita macchina da riff (sarà anche sordo, ma caspita se suona), e l’ugola di Roger, data in fase calante, reca ancora copiose tracce dell’antica potenza. I classici ci sono quasi tutti, a partire dall’uno-due iniziale da k.o. formato da I Can’t Explain e The Seeker, ma anche la sempre splendida The Kids Are Alright, le magnifiche Behind Blue Eyes, Pinball Wizard e I Can See For Miles, oltre a scelte meno scontate come Bargain e Join Together, usata a mo’ di singalong. C’è anche qualche assenza (Substitute, I’m A Boy, Happy Jack), ma quello che è presente è ottimo ed abbondante, E poi ci sono poche band al mondo che possono permettersi un bis con Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again. Altamente consigliato.

roger water the wall roger waters the wall open

Roger Waters – The Wall – finalmente ecco la testimonianza ufficiale dello spettacolo portato in giro dall’ex leader dei Pink Floyd negli ultimi anni. Anche qui l’audio è ottimo (non ho ancora visto la parte video, ma credo che se dovete scegliere vi conviene lasciar perdere il doppio CD, io l’ho visto dal vivo a Milano ed è uno degli spettacoli visivamente più entusiasmanti mai visti), e la band non sbaglia un colpo; inutile indicare le canzoni, le conoscete già tutti a memoria: il concerto è basato, più che sul disco originale, sulla versione che già nel 1980 i Floyd portavano in giro, quindi con le parti strumentali “tecniche” che servono a permettere il completamento del muro e la roccata e trascinante What Shall We Do Now? posta in coda ad Empty Spaces.

C’è anche una canzone nuova, The Ballad Of Jean Charles De Menezes, una ballata dal taglio epico che all’inizio riprende il tema di Another Brick In The Wall Part II. Come ho già detto, prendete la parte video (c’è anche la solita Super Deluxe costosissima – che esce l’anno prossimo – ma stavolta passo perché è davvero una presa per i fondelli, andate sul sito di Roger e capirete il perché).

queen a night at the odeon

Queen – A Night At The Odeon – pubblicazione finalmente ufficiale di un famoso concerto della band fronteggiata da Freddie Mercury e più volte bootlegato, registrato all’Hammersmith Odeon di Londra la vigilia di Natale del 1975, durante la tournée di A Night At The Opera. In quel periodo i Queen non avevano ancora impresso la svolta pop alla loro carriera, e dal vivo erano una vera macchina da guerra, con Mercury che già era quel favoloso animale da palcoscenico che tutti conosciamo (e che voce), Brian May un chitarrista sopraffino e versatile, Roger Taylor un martello e John Deacon un metronomo impeccabile.

Questo disco offre uno spaccato dello spettacolo dal vivo del quartetto, un concerto formidabile di puro hard rock con il meglio dai loro primi tre dischi (infatti A Night At The Opera è rappresentato solamente dalla ben nota Bohemian Rhapsody, tra l’altro posta quasi ad inizio concerto e divisa in due senza la parte operistica); comincia già a trovare spazio qualche episodio più “leggero” (Killer Queen, che comunque mi è sempre piaciuta assai, la scanzonata Bring Back That Leroy Brown), ma il resto è puro rock’n’roll ad alto tasso elettrico, dal trittico d’apertura Now I’m Here – Ogre Battle – White Queen, passando per la dura Brighton Rock, e senza dimenticare le trascinanti Keep Yourself Alive e soprattutto la maestosa Seven Seas Of Rhye. Nel ’75 i nostri non avevano ancora nel repertorio né We Will Rock YouWe Are The Champions, ed il concerto si chiude con la bluesata, e per loro abbastanza atipica, See What A Fool I’ve Been, all’epoca pubblicata solo sul lato B di un singolo.

rolling stones tokyo dome

Rolling Stones – Live At The Tokyo Dome 1990 – altro live appartenente alla serie From the Vaults, vede le Pietre impegnate nel tour di Steel Wheels, il disco del 1989 che li vedeva tornare in discreta forma dopo una decade difficile. Un buon concerto, ma secondo me meno esplosivo del solito: sarà la prolungata assenza dalle scene (era il primo tour dopo sette anni), ma l’impressione è che il quintetto (erano le ultime volte con Bill Wyman) suoni quasi con il freno a mano tirato, impressione confermata anche dal live uscito all’epoca, Flashpoint.

Comunque la professionalità è fuori discussione, e l’ascolto è comunque piacevole, con diversi episodi dal nuovo disco di allora (e Almost Hear You Sigh è una grande canzone, puro Stones sound) e con l’intensità che cresce man mano che si va avanti, con una rara e psichedelica 2000 Light Years From Home che si fonde con una fantastica Sympathy For The Devil, in una delle più belle versioni che ho sentito. Molto buona anche Ruby Tuesday, una delle loro ballate più note ma che dal vivo non viene suonata spesso.

rolling stones live in leeds

Rolling Stones – Live At Roundhay Park Leeds 1982 – uscito a meno di un mese dal live a Tokyo, questo è invece uno dei migliori episodi finora della serie, forse il migliore insieme a quello del 1971 al Marquee: secondo me è superiore anche a quello dell’Hampton Coliseum uscito lo scorso anno e facente riferimento allo stesso tour. Anche se le due scalette, a parte Angie suonata a Leeds, sono quasi sovrapponibili (e questo è stato motivo di critica tra i fans), qua mi sembra che le Pietre suonino con maggior furore e con uno spirito rock’n’roll ai massimi livelli, forse anche perché più rodati (è infatti l’ultimo concerto di quel tour biennale).

Un concerto decisamente rock, con le ballate ridotte al minimo, e splendide versioni di Under My Thumb, Let’s Spend The Night Together, una Black Limousine bluesata e sporca al punto giusto, una toccante Time Is On My Side (impreziosita dai controcanti sbilenchi ma pieni di fascino di Keith Richards) e la sempre bellissima Beast Of Burden, una delle canzoni degli Stones che preferisco da sempre.

Marco Verdi

Un Disco Acustico “Elettrizzante”! Duke Robillard – The Acoustic Blues & Roots Of

duke robillard acoustic blues

Duke Robillard – The Acoustic Blues & Roots Of – Dixiefrog/Stony Plain/Ird 

Duke Robillard, senza che ce lo stiamo a ricordare tutte le volte, ma giusto per rimarcare il fatto, è uno dei principali chitarristi blues americani, in pista da una cinquantina di anni, anche se l’esordio discografico con i Roomful Of Blues risale “solo” al 1978 e quello da solista al 1984. Da allora, abbastanza regolarmente, pubblica all’incirca un album all’anno, perlopiù Blues, ma ha anche provato strade più jazzate, swing, senza dimenticare tutte le altre sue passioni musicali, che come ci ricorda lui stesso nelle note di questo nuovo album sono molteplici: ragtime, Appalachian music, country, honky tonk, folk, soul, R&B, rock and roll, musica di New Orleans, tutti elementi che è possibile rilevare nei suoi album passati e ora anche in questo The Acoustic Blues & Roots Of, che come ci ricorda il titolo, per la prima volta esplora un suono più acustico e più raccolto. Però, essendo Robillard quello che è, non siamo di fronte al classico disco solo chitarra acustica e voce. Questi elementi sono ovviamente presenti e preminenti: sin dallo strumentale per sola chitarra acustica https://www.youtube.com/watch?v=xPUpSNVykUo , una versione della celebre My Old Kentucky Home di Stephen Foster, Robillard assume uno spirito (quasi) filologico alla Ry Cooder, quello che caratterizzava i dischi del grande Ryland negli anni ’70.

Big Bill Blues è proprio un blues anni ’20 di Big Bill Broonzy, con l’acustica di Duke affiancata dal piano di Matt McCabe, dal contrabbasso di Marty Ballou e dalla batteria di Mark Teixeira. Nella successiva I Miss My Baby In My Arms, che sembra sempre un brano di quell’epoca gloriosa, ma è un brano originale di Robillard, si aggiunge per una maggiore originalità anche il clarinetto di Billy Novick, ed il risultato è delizioso, molto old fashioned https://www.youtube.com/watch?v=1rllvlPBDqA . In Jimmie’s Texas Blues dalla sua variopinta collezione di strumenti estrae anche una vecchia chitarra dei primi del ‘900 e un dobro slide per interpretare un classico del grande Jimmie Rodgers, e per l’occasione si lancia anche in quello che assicura sarà l’unico tentativo di Yodel della sua carriera. Backyard Paradise, di nuovo con Novick al clarinetto vira verso un ragtime volutamente languido, mentre Evangeline, a parte i suoi, è l’unico brano che non ha almeno una cinquantina di anni, si tratta proprio del classico scritto da Robbie Robertson, famoso anche per la interpretazione di Emmylou Harris in Last Waltz, e quale migliore occasione per Duke, che si cimenta nuovamente a dobro e chitarra, con l’aggiunta di mandolino, basso e concertina, per (ri)proporci i talenti vocali della sua pupilla Sunny Crownover, molto efficace e calata nella parte della cantante country. Per Left Handed si torna al blues puro e al gruppo unplugged di Robillard si aggiunge l’armonica di Jerry Portnoy https://www.youtube.com/watch?v=ewoir8InkNA  e nella successiva I’d Rather Drink Muddy Water, altro blues anni ’30, il nostro suona tutti gli strumenti, con l’eccezione del contrabbasso con l’archetto che si produce in un assolo particolare.

duke robillard acoustic blues back

I’m Gonna Buy Me A Dog, di nuovo con Portnoy, viene da una registrazione Live effettuata per un DVD e nel sottotitolo ironico recita (To Take The Place Of You) https://www.youtube.com/watch?v=S4u10KpoZAc .Nashville Blues dei fratelli Delmore ci introduce ai talenti di Mary Flower, ottima interprete della lap steel e vocalist di pregio in un duetto delicato https://www.youtube.com/watch?v=mIKym2h1Ozc , Saint Louis Blues è proprio il celeberrimo brano di W.C. Handy che hanno fatto tutti, da Louis Armstrong in giù, quindi il buon Duke ha pensato, perché anche non io? Fa molto jazz, ma non guasta per nulla. Come la successiva What Is It That Tastes Like Gravy, un brano di Tampa Red, che profuma di blues pre-war e come le successive Someday Baby e Take A Little Walk With Me, era apparsa come bonus track nella versione europea dell’album Blues Mood, insieme ad altre quattro già citate, per un totale di sette tracce. In mezzo c’è Let’s Turn Back The Years, un brano di Hank Williams, che con il suo arrangiamento per mandolino, dobro ed acustica alza decisamente la quota country del’album  https://www.youtube.com/watch?v=Rs8fEc7GFXw . Che si avvia alla conclusione, con una divertente Santa Claus Baby, già apparsa in un CD natalizio, e cantata dalla bravissima Maria Muldaur, seguita da un omaggio al suono di Charlie Christian con una Profoundly Blues che è l’occasione per un duetto con il grande jazzista Jay McShann al piano e per concludere una brevissima Ukulele Swing, che ci conferma che Duke Robillard è un grande virtuoso a qualsiasi strumento a corda gli capiti tra le mani. Come sapete lo preferisco elettrico, ma questo dischetto è veramente piacevolissimo!

Bruno Conti