Ripassi Per Le Vacanze 5: Succedeva Circa Un Anno Fa! Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014

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Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014 – Jazz Village/Harmonia Mundi CD+DVD

Lucky Peterson è un buon musicista, altrettanto a suo agio all’organo come alla chitarra, che peraltro predilige; ha una produzione copiosa, spesso di album dal vivo, magari nel formato CD+DVD, come questo Live In Marciac, registrato lo scorso anno, e pure il multiplo Live At 55 Arts Club Berlin del 2012 lo era http://discoclub.myblog.it/2012/12/23/bravo-fortunato-e-tiene-famiglia-ma-the-lucky-peterson-band/ . In mezzo un album di studio come The Son Of A Bluesman, pubblicato sempre dalla stessa Jazz Village, un CD dedicato alla figura del padre James https://www.youtube.com/watch?v=Rc4Qg5XiuVA , anche lui Bluesman, negli anni ’60 proprietario di un locale a Buffalo, dove Willie Dixon, che vi passava spesso, prese sotto la sua ala protettrice il bambino “Judge Kenneth”, che forse sarebbe diventato “Lucky” Peterson anche per questo. Come molti bambini prodigio (con le eccezioni di Stevie Wonder, Steve Winwood e Michael Jackson, che però sappiamo la fine che hanno fatto a livello qualitativo) Peterson è rimasto sempre nel “gruppone” dei musicisti di culto, forse anche per la sua indecisione nello scegliere decisamente uno stile tra il soul e il blues (con abbondanti dosi di funky, rock e jazz), che però potrebbe essere pure uno dei suoi pregi. Anche il nuovo capitolo, molto buono, registrato a Marciac, (nel continente europeo dove è decisamente più popolare che in patria) conferma i pregi e, in questo caso, i (pochi) difetti del musicista nero: fluidità e facilità di tocco sia alle tastiere che alla chitarra, con la “strana” presenza nella formazione di un secondo tastierista, Marvin Hollie, e del fido Shawn Kellerman alla seconda chitarra, particolare inconsueto per uno così bravo ad entrambi gli strumenti, e pure vocalist dalla voce ora potente, ora felpata.

Per l’occasione non c’è la moglie Tamara (mi dispiace dire, meglio), ma nell’ultimo brano, come ospite, appare Joe Satriani (!?). Se devo essere sincero ho una decisa preferenza per il Peterson blues-rocker, ma anche quello che si dedica con fervore al funky e al soul non è male: e quindi il concerto parte con Boogie Thang, un vecchio brano di Matt “Guitar” Murphy (quello dei Blues Brothers, avete presente, il “marito” di Aretha Franklin nel film), dal poderoso drive chitarristico, dove Peterson, ottimamente coadiuvato dalla sua band, mette subito in chiaro di essere un chitarrista di quelli tosti e un cantante istrionico di grande potenza, in grado di infiammare subito il pubblico, con quasi undici minuti tra rock e blues che di solito si conservano per la fine del concerto. Ma evidentemente il nostro Lucky vuole il pubblico bello caldo e le sue scorribande alla solista sono difficili da ignorare (e anche Kellerman ci mette del suo): sto recensendo il concerto dal CD e quindi non ho avuto modo di vedere “ufficialmente” se non alcuni spezzoni del video (ma in rete ce n’è uno completo, come vedete sotto), in ogni caso l’energia si percepisce comunque, quando il gruppo prende il groove di Funky Broadway del “vecchio” Wicked” Wilson Pickett, il soul e il R&B vengono sparati a mille e poi reiterati in una eccellente (e nuovamente assai lunga) I Can See Clearly Now, il brano di Johnny Nash,  coinvolgente come pochi in una versione presa a tutta velocità, in un tripudio di chitarre, organo e la voce poderosa di Peterson.

Nuovamente soul, di quello nato nel profondo Sud per la It Ain’t Safe di George Jackson, con Marvin Hollie che giustifica la sua presenza alle tastiere con un ottimo lavoro e Lucky che incanta il pubblico con la sua notevole presenza scenica; anche quando i tempi rallentano per una eccellente versione di Trouble, il brano di Ray LaMontagne (canzone molto amata da Peterson che la aveva inserito anche nel precedente live) e che nelle mani, e nella voce, del nostro, diventa una deep soul ballad degna di quelle di Otis Redding. I brani originali, e forse questo è il piccolo difetto non citato prima, faticano a reggere con le ottime cover, ma Look Out Of Love, è un ottimo blues-rock, tirato e ad alta densità chitarristica, come pure Make My Move On You, dove Peterson inchioda un assolo spettacolare che poi sfocia in un breve ma sentito Tribute To Stevie Ray Vaughan; Nana Jarnell è uno slow blues strumentale hendrixiano notevole e I’m Still Here è puro Chicago Blues prima alla Buddy Guy e poi con continue variazioni tematiche, dove Peterson e Kellerman si sfidano alle soliste, prima di passare a una veloce capatina nel classico Goin’ Down Slow con Lucky all’organo, prima di una ulteriore furiosa ricaduta nel funky-soul-rock di Judy’s Got Your Girl and Gone, sempre con continui cambi di tempo che poi confluiscono in Boogie Woogie Blues Party, come da titolo una festa di ritmi scatenati. Se ne vanno, ma ritornano subito, con Joe Satriani, per un tuffo nei riff incontenibili di Johnny B. Goode, presi a velocità supersonica, esagerati, ma per una volta come è giusto che sia, persino Satriani sembra godere come un riccio, come pure tutto il pubblico!

La confezione doppia è disponibile dal 1° giugno.

Bruno Conti   

Ripassi Per Le Vacanze 4. Da “Partner” Di Norah Jones Al Red Rocks Di Denver ! Amos Lee – Live At Red Rocks

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Amos Lee – Live At Red Rocks With The Colorado Symphony – Ato Records

Ryan Anthony Massaro, in arte Amos Lee, è un nome che sta crescendo disco dopo disco, e questo viene ulteriormente certificate dal fatto che nell’Agosto del 2014 ha radunato nella mitica location dell’Anfiteatro di Denver una folla oceanica, per registrare un album dal vivo, accompagnato dai 100 musicisti della orchestra sinfonica Colorado Symphony. Amos Lee è un cantautore americano, prodotto di quella Philadelphia che ha sempre vantato una delle più alte percentuali di popolazione afroamericana, salito alla ribalta del grande pubblico nel 2004 per le sue collaborazioni con la cantante jazz-pop Norah Jones, aprendo i tour di artisti come la citata Jones, Elvis Costello, Bob Dylan, trovando in una sua canzone Colors (in duetto con Norah e usata nelle serie televisive Dr.House e Grey’s Anatomy) la chiave di volta della sua carriera. L’esordio discografico avviene con l’omonimo Amos Lee (05), a cui fanno seguito il folk-soul cristallino di Supply And Demand (06), il delizioso rhythm’n’ blues di Last Days At The Lodge (08), l’ottimo e composito Mission Bell (11) con la produzione di Joey Burns e la partecipazione dei Calexico che l’accompagnano nel disco, con la presenza di ospiti del calibro di Willie Nelson, Iron & Wine, e Lucinda Williams, per proseguire con un disco maturo e dalla bella scrittura come Mountains Of Sorrow Rivers Of Song (13), fino ad arrivare a questo disco dal vivo, dove ripercorre in quattordici tracce il suo intero percorso artistico, pescando dai suoi lavori in studio, includendo ovviamente i  brani di maggior successo, rivisitati appositamente con i fiati, gli archi e le percussioni della Colorado Symphony Orchestra.

L’apertura lo vede subito presentarsi con “singoli” di successo come Windows Are Rolled Down e Jesus (li trovate in Mission Bell), interpretati con la sua distintiva voce “soulful” e una coralità à la Staples Singers, a cui fanno seguito gli archi pizzicati di Keep It Loose, Keep It Tight, le armonie latine di El Camino, le deliziose traiettorie vocali di Violin e la “famosa” Colors, introdotta da magistrali tocchi di pianoforte che accompagnano la voce in falsetto di Lee, mentre la ritmata Tricksters, Hucksters, And Scamps è una divertente “galoppata” con gli svolazzi dell’Orchestra. Si continua con il mid-tempo di una rarefatta Flowers, per poi rispolverare un lento rhythm’n’blues come Won’t Let Me Go, sostenuto da una spolverata di archi romantici e da una chitarra “sensuale”, i fiati di una divertente Sweet Pea, cantata da Amos in stile “New Orleans”, per poi passare alla spavalderia musicale di Street Corner Preacher, e l’imperioso intermezzo di Game Of Thrones Theme con un arrangiamento orchestrale vagamente alla Led Zeppelin, prima dello stordimento finale con la sontuosa ballata Black River (una delle canzoni migliori del suo repertorio, cercatela nell’album d’esordio), qui cantata in coppia con la sua nuova bassista Annie Clements, andando a chiudere il tutto nuovamente con le armonie “soul” di una Arms Of A Woman dove emerge tutta la forza dell’Orchestra al seguito. Applausi!

Questo Live At Red Rocks With The Colorado Symphony è certamente un punto di arrivo, ma anche di ripartenza, per Amos Lee, un artista con un suo stile personale, in possesso di una voce molto espressiva e dalla tonalità limpida, che si rifà dichiaratamente a cantautori folk-soul tipo i grandi Bill Withers e Donny Hathaway, a testimonianza di un talento capace di coniugare melodia e capacità di scrittura e che lo ha portato giustamente a esibirsi sotto le stelle nella cornice spettacolare dell’Anfiteatro di Denver, una delle “location” più belle al mondo.

NDT: Le canzoni sono talmente belle che le porto in vacanza con me, e non vedo l’ora di ascoltarle di nuovo. Alla prossima e per il momento fine dei ripassi per le vacanze da parte del sottoscritto!

Tino Montanari

Cantautrice E Rocker Di Spessore. Romi Mayes – Devil On Both Shoulders

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Romi Mayes – Devil On Both Shoulders – Factor Records/Romi Mayes Music

Romi Mayes viene da Winnipeg, Canada (dove è molto popolare, anche a livello critico) e dopo un esordio poco considerato e ancor meno ascoltato, The Living Room Sessions Vol.1 (05) ( *NDB Per la verità, tra il 1997 e il 2004, ne erano usciti altri tre, ormai irreperibili!), sotto la produzione di Gurf Morlix incide un ottimo album di folk-roots Sweet Somethin’ Steady (08), con chiari riferimenti a Lucinda Williams (e non poteva essere altrimenti), trovando l’attenzione degli addetti ai lavori e una forte dimensione di cantautrice di “culto”, confermata poi con il seguente Achin In Yer Bones (09), un lavoro duro e sofferto (sempre prodotto da Morlix), con una miscela di brani blues, rock e country, che vengono certificati dal successivo Lucky Tonight (11), registrato in presa diretta dal vivo  http://discoclub.myblog.it/2011/06/30/ci-vuole-coraggio-romy-mayes-lucky-tonight/  con un gruppo elettrico guidato dal chitarrista Jay Nowicki (membro anche della rockin’ blues band The Perpetrators) dove Romi inizia un nuovo percorso, e dopo un silenzio abbastanza lungo eccola tornare con una band elettrica al completo per questo nuovo disco Devil On Both Shoulders, affidandosi alla produzione di Grant Siemens (degli Hurtin’ Albertans, che ammetto di non conoscere).

La Mayes ha riunito nei Private Ear Studios del suo paese natio una band tosta, con componenti di “glorie locali” tra i quali il citato Grant Siemens alle chitarre, Damon Mitchell alla batteria, Bernie Thiessen al basso, Marc Arnould alla tastiere, e con il contributo alle armonie vocali delle brave Alexa Dirks e Joanne Rodriguez, dando seguito al questo nuovo percorso con un lavoro assolutamente intrigante.

E lo si nota subito dall’iniziale title-track Devil On Both Shoulders, un moderno blues chitarristico, una canzone da cantare nelle notti d’estate lungo il delta del Mississippi, seguita dalle svisate sempre bluesy di una grintosa Monkey Of A Man, lo spettacolare impatto di Let You Down (figlia bastarda degli Stones) con i graffianti “riff” della Telecaster di Grant Siemens https://www.youtube.com/watch?v=co2iDJwEVtA , che fa da preludio ad una ballata che sembra sbucare dai solchi di un disco di Lucinda Williams, una Gonna Miss Me con la splendida voce di Romi in evidenza; troviamo ancora un tagliente blues come Bee Sting, dove il buon Grant si supera con un lavoro di chitarra degno del miglior Ry Cooder https://www.youtube.com/watch?v=JqhwaX0S8Mc. Con Soul Stealer Romi propone una variazione al tema, una sorta di “garage-blues” tutto scossoni e rasoiate di chitarra, mentre con Make Your Move si torna alla ballata confidenziale, prima di approdare ad una Low Light Lady con un ritmo che non sentivo dai tempi eroici della Tina Turner di quarant’anni fa e oltre https://www.youtube.com/watch?v=qDLJBB05BmE , quelli con Ike (anche se Beth Hart ultimamente…), mentre con Wonder How si torna al blues grezzo con violente sventagliate di roots-rock, andando a chiudere il cerchio con la meravigliosa ballad pianistica Walk Away (fin d’ora una delle canzoni dell’anno), cantata con grazia e la voce appena incrinata di Romi (forse troppe sigarette bruciate) https://www.youtube.com/watch?v=1vtJTz8Ar3Y , un brano che a chi scrive ricorda una cantante di cui purtroppo ho perso le tracce, tale Chi Coltrane.

Questa signorina, nella sua pur breve, ma non troppo, carriera, ha condiviso il palco con artisti del calibro di Levon Helm, Derek Trucks, Ricky Sgaggs, Jim Cuddy, Guy Clark, Sue Foley, Fred Eaglesmith, Joe Ely, Blackie & The Rodeo Kings, e molti altri, e questo Devil On Both Shoulders (per i pochi che conoscono la Mayes), nel seguire il suo percorso, è il classico disco che mi aspettavo, duro, sofferto, bluesy, ma anche dall’anima tenera, con alcune canzoni indimenticabili. Chiunque abbia a cuore i percorsi della buona musica, farebbe bene a tenere in considerazione Romi Mayes, il suo talento e la sua voce parlano per lei. Vivamente consigliato!

Tino Montanari

Il “Solito Giovane Vecchio” Bluesman Texano! Larry Lampkin

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Larry Lampkin – The Blues Is Real – Kaint Kwit Records

Mentirei se vi dicessi che Larry Lampkin è sempre stato nel mio cuore di appassionato di Blues (in effetti questo The Blues Is Real è il suo secondo disco, dopo l’esordio When I Get Home, uscito nel 2011), però questo artista nero Texano, di Fort Worth, con la tipica faccia da “giovane vecchio” che hanno molti bluesmen, ha un suo perché. Autore, si scrive tutte le canzoni, chitarrista e cantante di buon spessore, il suo genere spazia tra il classico suono Texas Blues, che è nel suo DNA, ma con la giusta quota di Chicago e Delta sound che non può mancare, innervato anche da innesti di rock, funky e soul https://www.youtube.com/watch?v=rMesOLXBXqI . Quindi quel classico suono elettrico e moderno che non rende pallosa la sua visione della tradizione delle dodici battute: una voce vissuta, una chitarra pungente e il buon apporto di una sezione ritmica efficiente senza essere geniale, con il plus delle tastiere di Rich E Rich (uno scioglingua?), poi ci pensa la chitarra di Lampkin, sempre fluida e diversificata, come dimostra, sin dall’apertura, con la title-track.

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Se vogliamo trovare un difetto, il suono, a livello tecnico, è fin troppo crudo, molto basico, tra “ruspante” e lo-fi, ma la classe c’è, sentire lo slow blues Got To Get Away, con le sue linee chitarristiche semplici ma efficaci https://www.youtube.com/watch?v=j2AzvSZk4us , o le atmosfere sognanti e raffinate di Let Me In, che sta da qualche parte tra Peter Green e Ronnie Earl, ma con un sound più nero, la grinta funky di Maintenance Man, vagamente alla Albert King, anche se la presenza di un produttore sarebbe urgentemente richiesta. World Blues è sempre caratterizzato da questa chitarra cruda e lancinante, ma anche pervasa da una tecnica acquisita in lunghi anni di tour con gente come Buddy Guy, John Mayall e Lucky Peterson. Grinta e passione che fuoriescono anche da Crown Royal, e da un’altra piccola perla come She’s So Good To Me, con le sue atmosfere sognanti e riflessive, ben delineate dalla solista di Lampkin e dal piano dell’ospite Jermaine Marshall. The Way She Makes It introduce quegli elementi soul e errebì ricordati all’inizio, mentre Sad Eyes è quasi una ballata deep soul blues sudista , con una chitarra acustica inserita ad impreziosire il suono, sembra quasi un brano di stampo southern alla Allman Brothers, interessante. Conclude, in puro Chicago Blues Style Working Man, altro limpido esemplare di blues elettrico, come d’altronde The Blues Is Real manifesta fin dal suo titolo. Se vi piacciono Buddy Guy e Gary Clark jr., ma con tracce meno rock, potreste farci un pensierino!

Bruno Conti

Da Musicista A Musicista: Questa Volta Jimmy Ragazzon “Incontra” Marcello Milanese – Leave The Time That Finds

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MARCELLO MILANESE – Leaves The Time That Finds (Kitchen Session Vol. 2) – Ultra Sound Records – 2014

Scena Prima:

Brusìo (indistinto, in sottofondo – rumore di bicchieri)

“eh già, Jimmy è amico di Marcello, stessa casa discografica, bevono la Guinness, hanno suonato insieme…ne parlerà per forza bene di sto cd…è la solita storia…”

Scena Seconda:

Notte fonda (silenzio – solo lo sfrigolio della legna nel caminetto)

l’autore seduto davanti ad un vetusto pc – pinta di Guinness posata sulla scrivania, a portata di mano – lampada da tavolo che illumina fievolmente la scena – l’autore inizia a pigiare sulla tastiera, dopo aver agitato il dito medio della mano sinistra verso la notte…

Ci vuole coraggio, tanto coraggio e passione di questi tempi, per fare un album di blues & ballate da solo, praticamente autoprodotto, senza il minimo inutile fronzolo o qualche trovata  furbesca, che strizzi l’occhio alla commercialità.

E Marcello Milanese di coraggio ne ha sempre avuto, misto ad una buona dose di incoscienza, dato che con cadenza quasi annuale, registra e pubblica album, che sono il frutto di un particolare momento, di canzoni scritte di getto e di riletture di brani a lui cari. Il tutto molto rough certo, ma sincero e diretto come il Blues dovrebbe essere quasi sempre. Ci sono periodi in cui non puoi staccare le mani dallo strumento, in cui sei totalmente estraniato da tutto il resto che ti circonda. Suoni, prendi qualche appunto, modifichi un testo, annusi il legno della chitarra, registri sul telefono o sul Geloso a cassette per non scordarti un passaggio, rifai una strofa,  insomma componi musica. Perché la cosa più importante, più urgente e necessaria, è dire quello che senti in quel momento, esprimerti e buttare fuori tutto con i testi e con la musica.

Credo che questo Leaves The Time That Finds sia il frutto di quanto detto, sarcastico fin dal titolo, ma pieno di  umori notturni, riflessioni, sentimento, belle canzoni ed ovviamente anche di puro divertimento.

Costituito principalmente da brani originali e qualche cover non banale, inizia subito con un blues tirato e catramoso come Rumble In The Jungle Town, firmato da Marcello, tra le cose migliori dell’album. Da segnalare poi due belle e personali versioni di Damage Is Done di Zack Wylde lenta e pensosa e con il solo di Marshall Miller (unico ospite dell’album) e della tradizionale Dirty Old Town, come una pagina spersa del Irish Times che galleggia sull’acqua nel delta del Grande Fiume. Long Gone è tra le mie preferite, strumentale ed evocativa, seguita da un brano di Walter Trout che andrebbe ascoltato, tradotto ed insegnato nelle scuole, per la sua triste ma importante attualità. La chiusura è riservata a 2 pezzi di Marcello, tra cui spicca la splendida Hard Times.

Un difetto? A mio parere la rilettura di Jesus On The Mainline, bella ma un poco scontata.

Quindi, come dicevo all’inizio, coraggio, passione ed amore per il Blues e la musica in generale, sono le doti di Marcello Milanese che, in attesa dell’album in studio del trio Milanese Re & Bertolotti, ci consegna un altro piccolo e grezzo pezzo della sua anima…e non è poco.

Jimmy Ragazzon

*NDB Nel Blog avevo recensito un paio di anni fa l’ottimo disco dei Chemako http://discoclub.myblog.it/2012/03/14/americani-di-lombardia-chemako/

Il “Ritorno” Di Little Mike And The Tornadoes – All The Right Moves

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Little Mike And The Tornadoes – All The Right Moves – Elrob Records

I vecchi dischi di Little Mike And The Tornadoes me li ricordo (forse ne ho recensito anche qualcuno ai tempi, tra tante recensioni ogni tanto la memoria mi difetta, ma parliamo di più di 20 anni fa). Come per altri gruppi, i primi sono quasi sempre i migliori: il primo in particolare, Heart Attack, uscito nel 1990 per la Blind Pig, era un solido disco di Chicago Blues https://www.youtube.com/watch?v=tc8k9dwAyr8 (anche se il nostro amico è originario di New York e ora vive in Florida), con alcuni ospiti di pregio, Pinetop Perkins e Hubert Sumlin, due maestri del genere a cui Mike Markowitz (che sarebbe Little Mike all’anagrafe) aveva prodotto un disco per ciascuno sul finire degli anni ’80, e tra i bianchi, Paul Butterfield, uno degli “ispiratori” di Little Mike, in quella che potrebbe essere stata una delle ultime registrazioni, presente in quattro brani e Ronnie Earl, già allora grande stilista della chitarra, più un altro nero di Chicago come Big Daddy Kinsey. La formazione era quella originale, con l’ottimo Tony O. Melio alla solista, Brad Vickers al basso e Rob Piazza (con la B) alla batteria. Per questo nuovo album Little Mike ha richiamato i vecchi amici per una nuova avventura, anticipata da un album, Forgive Me, sempre pubblicato dalla propria etichetta, che però conteneva vecchie registrazioni inedite di una decade fa. Diciamo che dopo la fine degli anni ’90 Markowitz aveva abbandonato la musica e si era trasferito in Florida con la famiglia, ma si sa che alle vecchie passioni non si comanda e quindi eccolo di nuovo in pista con i suoi Tornadoes. Per mettere subito in chiaro le cose, diciamo che questa reunion non era proprio imprescindibile, il gruppo è buono, ma come ce ne sono in giro a decine, per usare un paragone calcistico, potremmo definirli una squadra da centro classifica, il loro momento d’oro lo hanno avuto con il disco citato prima e con il secondo, sempre su Blind Pig, Payday, con altra formazione e Warren Haynes tra gli ospiti https://www.youtube.com/watch?v=9c-Ha7uh3ww .

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Non per questo il disco è disprezzabile, tutt’altro, si tratta di gagliardo blues elettrico sempre fortemente ispirato dal suono delle band che operavano a Chicago tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, Little Mike è un notevole armonicista, Hohner, come ci ricorda la foto di copertina, ma è Tony O., quando gli viene lasciata la briglia sciolta, il purosangue del gruppo, con soli ficcanti e ricchi di feeling, un bel lavoro di raccordo con la ritmica e con il pianista ospite, un altro veterano di nome Jim McKaba https://www.youtube.com/watch?v=mLIa693SIPs . Che sia l’inconfondibile scansione ritmica della super classica Hard Hard Way, con Tony O. e Little Mike a scambiarsi assolo ai rispettivi strumenti, o i ritmi più funky di una vivace So Many Problems, Markowitz si presenta anche come ottimo cantante e Melio strapazza di gusto la sua chitarra, con Little Mike che quando serve si cimenta anche all’organo. Quando poi il gruppo si lancia in un lungo slow blues come Since My Mother Been Ill, con McKaba inappuntabile al piano e la canzone che “soffre” il giusto, come vuole il miglior Blues https://www.youtube.com/watch?v=JBlAURRj7xk , sembra quasi di ascoltare i vecchi Fleetwood Mac di Peter Green in trasferta a Chicago e in session con Otis Spann o Pinetop Perkins.

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(I Got) Drunk Last Night è un altro classico blues che racconta di whiskey e donne, immancabili argomenti in questa musica e a tempo di uno shuffle ciondolante la band si diverte. Sam’s Stomp è un breve esercizio strumentale dell’arte di Markowitz al suo strumento, il cosidetto sax del Mississippi, Little On the Side si lancia su ritmi latini ma è un po’ manieristica, poderoso viceversa l’interscambio chitarra/armonica nella title track che ricorda certo British Blues scintillante https://www.youtube.com/watch?v=qLcmCbFcMWE . Eccellente anche The Blues Is Killing Me con la pungente chitarra di Tony O. sempre in bella evidenza.e You Wonder Why, pure questa in territori cari al vecchio Muddy. All The Time vira di nuovo verso un funky-blues sempre “vecchia scuola” comunque, I Won’t Be Your Fool tra swing e boogie ci permette di gustare ancora l’armonica di Little Mike. Stuck Out On This Highway è un altro di quei “lentoni” ricchi di atmosfera che scaldano il cuore degli appassionati di Blues e anche Close To My Baby si sarebbe potuta ascoltare nei club di Chicago negli anni d’oro del blues urbano https://www.youtube.com/watch?v=jRoB3_9QHsE . Niente di nuovo quindi, però tutto sommato suonato e cantato con grande passione e grinta, per appassionati delle 12 battute!

Bruno Conti

Sì, No, Forse! Phil Gates – Live At The Hermosa Saloon

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Phil Gates – Live At The Hermosa Saloon – Self released

Per mettere subito i puntini sulle “I”, come direbbe qualcuno di nostra conoscenza, Phil Gates è un tipo “abbronzato”, fa del Blues, con un piglio contemporaneo non privo di un certo rispetto della tradizione (nato a Chicago ma residente a Los Angeles, unisce le due culture musicali); questo Live At The Hermosa Saloon, registrato in uno dei tanti piccoli locali che costellano L.A (e finanziato dai fans con il sistema del Kickstarter Campaign Fundraising), è una sorta di summa dal vivo del meglio dei suoi cinque album di studio (compresa una colonna sonora), pubblicato nell’estate dello scorso anno https://www.youtube.com/watch?v=chT0k-FA1Kk . La prima cosa che mi ha colpito è la voce (ma quella che usa per parlare, nella introduzione dei brani, che ricorda vagamente il timbro di Jimi Hendrix, solo quello), mentre musicalmente viene presentato come “Buddy Guy incontra John Mayer” e anche se forse è una forzatura promozionale ci può stare (più il secondo).

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Il suono, forgiato in anni di collaborazioni a dischi di musicisti del giro soul e funky attuale, inevitabilmente ha assunto un po’ di quelle caratteristiche, quindi niente selvaggio blues urbano di Chicago o dell’area del Delta, quanto piuttosto un contemporary blues, anche un filino “leccato”, di tanto in tanto, bel suono di chitarra, un organo, nelle mani di Morris Beeks, che dà un tocco leggermente jazzy e una sezione ritmica fin troppo precisa, anche se indubbiamente efficace, quindi, per continuare il parallelo hendrixiano più Band Of Gypsys che Experience (con i dovuti distinguo, come si dice in politichese, ma là eravamo su un altro pianeta https://www.youtube.com/watch?v=ipli5mQR3rc ). I duetti chitarra-organo, che partono nell’iniziale Addicted To The Blues, vengono ripresi in Used Me Up, dove la chitarra, in modalità slide, ha una maggiore grinta, si diversificano nel soul/R&B di Old School e nel funky di Away I Go, passano per le cover di Messin’ The Kid, un classico ripreso da migliaia di bluesmen, in tutte le salse e con la piacevolissima Summer in the City, proprio quella di John Sebastian e dei suoi Lovin’ Spoonful, trasformata in uno slow blues, sulla falsariga di quello che si faceva in SuperSession, dove organo e chitarra si scambiavano licks con piacevole abbandono https://www.youtube.com/watch?v=584fJ66urEI .

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Ogni tanto Phil Gates si ricorda dei paragoni con Buddy Guy e alza la quota blues, come nella grintosa End Of Time, anche se il suono after hours dell’organo, peraltro piacevolissimo, spezza un po’ i ritmi. Evening Train ricorda qualcosa dei suoi trascorsi in quel di Chicago. Take It Out si tinge di nuovo di quel sound R&B o neo soul alquanto blando, pure se la chitarra viaggia sempre spedita, ben sostenuta dall’organo. Per sentire un bel blues, di quelli tosti, bisogna arrivare quasi in finale di concerto, quando il crescendo della notevole I’m Lost mostra quello che avrebbe potuto essere, quasi nove minuti di ottima musica dove Gates finalmente estrae dalla sua solista un torrente di note, giustificando la sua meritata (?) reputazione di guitar slinger. Poi si ricade in un funky vagamente alla George Benson, nella conclusiva Get Around To Me, rispettabile ma assolutamente fuori contesto (o forse no, era il precedente brano quello “strano”?). Avrà anche vinto molti premi nei vari concorsi blues che si tengono ovunque negli States, ma non mi sembra questo fulmine di guerra, molto bravo tecnicamente, come ce ne sono tanti in giro per gli States (forse esagero), se vi bastano gli assolo quelli sono notevoli, per il resto, come dice il titolo del post: sì, no, forse, ma anche un bel mah!

Bruno Conti   

Uno Dei Capostipiti Degli “Italiani Per Caso”, Ma Anglo-Americani Nel Cuore! Max Meazza And Pueblo – In Cold Blood

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Max Meazza & Pueblo – In Cold Blood – Desolation Angels Records/IRD

Come lascia intuire il titolo del Post Max Meazza è uno dei molti italiani innamorati della musica americana (nato per caso in Italia e non, che so, nei pressi del Laurel Canyon o a Los Angeles), ma il suo è un caso ancora “piu grave” perché Max apprezza moltissimo anche la musica inglese, a partire dagli amati Cream, Free (e poi Bad Company, Paul Rodgers da solo), Ten Years After, per il lato blues-rock, ma anche personaggi come Nick Drake e John Martyn (una delle sue etichette si chiamava Solid Air https://www.youtube.com/watch?v=ToNi9jdx5Ig ) per la canzone d’autore britannica, senza dimenticare la West Coast di cui è stato uno dei cultori ed anticipatori nelle musica italiana: i Pueblo (oltre a Max Meazza, Claudio Bazzari e Fabio Spruzzola) pubblicavano il loro primo album all’incirca 40 anni fa, per questo parlavo di capostipite https://www.youtube.com/watch?v=LMhj6deFGio . Uno dei primi gruppi italiani (ma cantavano rigorosamente sempre in inglese, come sempre nella carriera di Max) che fondeva il suono West Coast di Eagles, America, CSN&Y, James Taylor, Joni Mitchell, con certo rock “morbido” e non, californiano, Jackson Browne, i Doobie Brothers, il miglior country-rock, il blue-eyed soul di gente come Michael McDonald, Loggins & Messina, Boz Scaggs, Bill LaBounty, Marc Jordan, Robbie Dupree.

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Senza stare a fare tutta la storia della discografia di Meazza (anche se in effetti avevo promesso che l’avrei fatto, (vero Max!), giurando sul Manuale delle Giovani Marmotte, ma non essendo nè giovane né marmotta, poi, per vari motivi, non l’ho fatto, ma giuro di nuovo, su Dylan e Hendrix questa volta, altre passioni di entrambi, che prima o poi lo farò), nel corso degli anni nella musica del cantautore milanese (non lo avevo detto?) si sono inseriti anche elementi jazz, grazie alle collaborazioni, tra i tanti, con Paolo Fresu, Gigi Cifarelli e Tiziana Ghiglioni. Questo nuovo In Cold Blood, sempre pubblicato in proprio e distribuito anche in America tramite il circuito CD Baby, quello degli artisti indipendenti, forse perché attribuito anche ai Pueblo (ma i due “storici” questa volta non ci sono, Bazzari aveva fatto una rimpatriata per il precedente Race Against Destiny del 2009), ha un suono più rock e grintoso, molte chitarre elettriche, la “cura” del suono da parte del batterista Enrico Ferraresi, nel cui studio sono avvenute le registrazioni, la pre-produzione di Lucio Bardi, che questa volta non suona nel disco e la produzione vera e propria affidata a Andy Hall e lo stesso Max Meazza.

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Dieci brani originali, un paio di ospiti come Tony O’Malley (giro Arrival/Kokomo) e Frank Collins (sempre Kokomo e sessionman di lusso) che appaiono nel brano Black And White Generation, dedicato allo scomparso giornalista e “musicofilo) Ernesto De Pascale e già distribuito per il download, forse la canzone più bella del disco https://www.youtube.com/watch?v=UC-wodwB2oI , o quella che piace di più al sottoscritto, un bel pezzo rock arioso e raffinato, con qualche aggancio con il sound dei primi Dire Straits, quelli innamorati del suono americano che domina il brano, con le chitarre elettriche di Nick DeMontis, le tastiere di Carlo Riboni e quelle degli ospiti già citati, oltre alle loro armonie vocali, una sezione ritmica agile e molto incalzante, tutto molto bello, all’altezza della migliore produzione americana classic-rock. A chi scrive, ovviamente, piacciono molto anche gli ultimi due brani, quelli più vicini allo spirito di John Martyn (altro pallino in comune), la lunga Mama’s Right, voce “strascicata”, chitarre acustiche incombenti, una atmosfera sospesa dove si librano i fendenti della solista di Andrea Sinico, un altro dei chitarristi presenti nel CD, un pezzo di folk futuribile come era nelle corde del grande cantautore di Glasgow, anche nel testo incazzato e pessimista e Good Man Down, quasi ai limiti di un certo jazz-rock che Martyn amava esplorare nella sua musica e anche Max ha sempre avuto nelle sue corde; a proposito di corde la solista in questo caso è affidata a Nick Fassi, il terzo ed ultimo chitarrista impiegato nel disco.

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Chitarre che sono le protagoniste assolute dei  brani più rock dell’album, come la riffatissima e rauca (anche nell’uso della voce) Bad Rain che apre l’album nello spirito di quei Bad Company da cui penso prenda il nome l’etichetta di Meazza, Desolation Angels. Jimmy Valentine Blues, lo dice il nome, è un blues elettrico molto raffinato, con un giro di basso molto marcato, sui si posano le evoluzioni della slide e della solista di DeMontis, mentre Bluesman, con una bella acustica slide in evidenza, ha un rapporto più intimo e raccolto con le classiche dodici battute https://www.youtube.com/watch?v=NX4CxK7gRVI . Burning Fire è un altro pezzo rock, sempre piuttosto 70’s nel suo svolgimento vicino agli stilemi del rock-blues americano, fino all’uso del classico pedale wah-wah che è sempre sintomatico del genere. La title-track, In Cold Blood, per certi versi mi ricorda le atmosfere di alcuni brani del repertorio anni ’80 di Max, quelli recensivo per il Buscadero dei tempi, utilizzando delle vecchie cassette quasi marce, dove il suono era più intuito in alcune occasioni: qui emerge ancora l’influenza di John Martyn, ma quello più elettrico e jazzato di quel periodo. Mancano Bottle Of J&B, un altro rock-blues vagamente Claptoniano e Live Fast Die Young un ulteriore pezzo dall’andatura galoppante, ancora con wah-wah in primo piano e il notevole lavoro di Ferraresi alla batteria!

max meazza cadillac

Vi giuro che la qualità è molto migliore di  buona parte di quello che circola nel mercato americano (ma anche inglese) e viene spacciato come musica futuribile, meglio dell’onesta, magari non originalissima ed innovativa, buona musica, da parte di un musicista che preferisce andare diritto per la sua strada e continuare a portare avanti le sue passioni, saliamo in macchina con lui e facciamoci un bel giretto ( sparsi nell’articolo ci sono dei link video, così, se non conoscete, vi potete fare un’idea della musica)!

Bruno Conti

Tra I Primi “Italiani Per Caso”, Sempre Più “Americani”, Per Scelta E Sempre Più Bravi! Mandolin’ Brothers – Far Out

Mandolin Brothers 2014

Mandolin’ Brothers – Far Out – Ultra Sound Records/IRD e download digitale

“Scusate il ritardo”, come disse qualcuno, ma prima era troppo presto per farla, poi travolto dagli eventi e da una salute negli ultimi tempi non fantastica (niente di grave), mi ritrovo ad arrivare quasi buon ultimo a fare la recensione per questo Far Out dei Mandolin’ Brothers, che anche se fatta con ritardo non inficia certo la qualità del disco, rimane sempre un grande album e, in ogni caso, questo sabato, il 25 gennaio, ci sarà pure il concerto di presentazione ufficiale in quel di Pavia a Spazio Musica, praticamente esaurito mi dice il buon Jimmy (anche se perplesso per il ritardo di chi scrive, nella foto qui sotto, riciclata da altri vecchi Post) https://www.youtube.com/watch?v=KWU-l6ZmJwY .

jimmy ragazzon pensa

Il titolo della recensione fa riferimento ad un modo di dire che ho coniato per quelle band, italiche di natali, ma “americane” nel cuore e nella musica, che agiscono in Italia, ed in particolare nella zona di Pavia e dintorni, dove evidentemente si respira l’aria (virtuale) del Texas o del Tennessee, per citare due stati molto musicali degli USA, ma non ci sono, purtroppo, le stesse temperature. Fortunatamente le brume e le nebbie delle bassa Padana non hanno “nascosto” l’ispirazione di Jimmy Ragazzon e soci, che per l’occasione sfornano un disco tutto scritto da loro: come direbbe Mourinho, Zero Covers! E che disco! Almeno il produttore è americano, Jono Manson, anche se quasi naturalizzato italiano, mentre gli ospiti vengono da entrambe le rive del Po. Qualcuno da molto lontano, tipo Cindy Cashdollar e John Popper, oltre al citato Jono, altri vengono da appena girato l’angolo, Edward Abbiati e altri che vi citerò nei vari brani, perché, visto il ritardo, cosa ti ho pensato? Almeno una bella recensione track-by-track, come si usa(va) per gli album “importanti, nelle riviste musicali serie!

cindy cashdollarjohn popper

Come dite? Non è una rivista, va beh che pignoli, un Blog musicale, che una volta era anche un negozio, comunque partiamo! Anche se non paga più come una volta, hanno fatto tredici (brani), spero per loro che rendano abbastanza, in termini di vendite. Una ultima cosa prima di esaminare i brani: ma “Far Out” sta per Fantastico, Distante o “Fuori”? La traduzione dal dizionario è corretta per tutti e tre, ma temo che bisogni essere, per fortuna, un po’ fuori, per fare un disco così nel 2014, e in Italia, bravi ragazzi (anche questo è un complimento, ragazzi, una volta, forse agli inizi, 30 e passa anni fa!). E per citare un altro che veniva più o meno da quelle parti, il Giuanin Brera, il disco ha fatto, o così sembra a chi scrive, un salto sesquipedale di qualità rispetto agli album del passato, che pure non erano certo brutti.

jono manson

I Little Feat, ci piacciono ( a noi e a loro) e “New Paveans”, Louisiana, una strana località tra la bassa e la Crescent City, pure: unendo le due cose otteniamo la traccia di apertura, una Freak Out Trains che profuma anche di Sud degli Stati Uniti in generale, pianino barrelhouse, qualche inflessione dylaniana nel cantato e in un breve intervento di armonica , pedal e lap steel a dare pure una “idea” di western swing, e tutto in un solo pezzo, bella partenza.

Jimmy Ragazzon in Samedan, Photo by Peter Aebi

Per Come On Linda scomodiamo il vecchio Steve Earle di Copperhead Road, quello roots e stradaiolo degli inizi, ma anche rocker intemerato, una ballata di quelle con chitarre, chitarre e ancora chitarre, a manetta, ma anche armonica, organo e un bel duetto tra il signor Jimmy Ragazzon (che firma il pezzo con Marco Rovino, uno dei due chitarristi e titolare del mandolino della ragione sociale del gruppo) e Jono Manson, che si scambiano versi e cantano all’unisono nel coro https://www.youtube.com/watch?v=Ryz0a6ziU-4 . Le citazioni di nomi e possibili riferimenti non sono ovviamente “diminutive”, ma servono per inquadrare la musica, che essendo profondamente americana ed internazionale, per una volta non si può confrontare con De André, Fossati, Battisti o altri italiani, anche bravi, ma ha termini di paragone, assolutamente positivi, con quello che arriva da oltreoceano, per una volta tanto.

Riccardo Maccabruni, Vallemaggia 2010

Someone Else è di Riccardo Maccabruni, che se la scrive, se la canta e se la suona, con tante tastiere, piano e organo, che neanche Ian McLagan dei tempi d’oro dei Faces (a proposito tornano insieme il prossimo anno), ma anche la slide di Paolo Canevari in bella evidenza, una sezione ritmica pimpante (Joe Barreca al basso e Daniele Negro alla batteria) e ben definita nei suoni della produzione di Manson. Un bel rock dal sud (di Londra) da dove venivano i Faces, che però due o tre cose sul R&R le sapevano (vero Black Crowes?).

Paolo Canevari&Marco Rovino, Vallemaggia 2010

Circus è il brano dove appare la brava Cindy Cashdollar alla Weissenborn guitar (l’unico pezzo, evidentemente non avevano i soldi per far durare il soggiorno di più), un ballatone d’atmosfera, forse il più vicino alle sonorità di Still Got Dreams, con uso di fisarmonica (Maccabruni), le solite chitarre a strati, acustiche ed elettriche, un dobro o una national (?). Vi ho mai detto quanto canta bene Jimmy? No. Allora ve lo dico.

Joe Barreca al Nidaba Theatre, Milano,  Photo by Ramona Rotta

Nightmare In Alamo, ovviamente come titolo fa più scena che incubo a Belgioioso! E già quello è un bel partire, se poi il brano è un western rock di quelli cattivi con una storia tra l’epico e il noir, con delle chitarre “malignamente” insinuanti e un organo (hammond?) o almeno che ha un suono che solo l’hammond dovrebbe avere. Il crescendo è fantastico, dal vivo potrebbero farla durare all’infinito, un assolo dietro l’altro, quei quindici minuti, ma già questa versione di studio ha un suo perché. Quello di regalarci della grande musica.

Daniele Negro in Samedan, photo by Peter Aebi

Ask The Devil, firmata Rovino/Ragazzon è uno di quei blues che fa parte del loro DNA da illo tempore, Blues sì ma con tante sonorità rock, sottolineate dall’andatura ciondolante della batteria di Stefano Bortolotti, in prestito per questo brano, che si situa appunto in qualche “incrocio” tra blues e rock e un pizzico di gospel nei coretti finali con una voce femminile (Camilla Sernagiotto).

Sorry If è un altro rock and roll, di quelli duri e puri, cattivi, a grande velocità, con l’armonica inconfondibile di John Popper dei Blues Traveler, che viaggia come un rapido tra Bologna e Roma, o in qualche località percorsa dalle American Railroads, fate voi. Siccome c’erano poche chitarre anche Jono Manson aggiunge la sua elettrica per l’occasione. Se non fosse firmata Rovino/Maccabruni potrebbe essere qualche outtakes dai primi album dei Blues Traveler, quando tiravano come delle schegge!

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Bad Liver Blues, perché le dodici battute piacciono sempre, è la storia di qualcuno che ha esagerato (ci sono sempre) e il fegato non l’ha presa bene. Il brano sta il grande Muddy e qualche oscuro vinile di Buddy Guy con Junior Wells, Charlie Musselwhite o James Cotton, quei bluesmen che piacciono a Jimmolo, che soffia nell’armonica quasi con goduria.

Short Long Story se non esistesse avrebbero dovuto inventarla, parte come una sorta di ballata con un chitarrone twangy e diventa un country-rock di quelli classici e ritorno, tra picchi e vallate sonore che i Mandolin’ avevano già frequentato nell’EP Moon Road. Anche questa dovrebbe fare sfracelli dal vivo.

E Lotus Eaters è un’altra faccia di questo country-rock molto anni ’70, quando formazioni come Amazing Rhythm Aces, ma anche gli stessi Little Feat o i migliori Commander Cody, per non parlare di Eagles, Poco, Flying Burrito Brothers, Ozark Mountain Daredevils e tantissimi altri, aggiungete a piacere, provvedevano a spargere il verbo di questo stile che prendeva il meglio dalla country music tradizionale e dal rock californiano.

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Black Oil se non l’hanno scritta Levon Helm o Robbie Robertson, e dai credits che riportano Rovino/Ragazzon non dovrebbe essere, non è quell’inedito miracolosamente sopravvissuto allo scorrere del tempo estratto dagli archivi della Band. Ma idealmente, al tempo stesso, lo è, con gli intrecci vocali di Jimmy, Marco e Riccardo, la voce aggiunta di Edward Abbiati, mandolini, fisarmoniche e quella aria da “grazie di tutto, Levon”, in poco più di due minuti procede a dimostrare come si fa a scrivere una gran bella canzone e visto che anche il testo ha una sua ragione, nel libretto assai esauriente del CD, oltre al testo originale c’è anche la traduzione italiana.

My Last Day nuovamente scritta e cantata da Riccardo Maccabruni dimostra ulteriormente che i Mandolin’ Brothers continuano ad esplorare le possibilità di una formazione dove ci sono ben sei musicisti di talento e anche se spesso costa portarli in giro tutti insieme, quando si ritrovano in studio sono in grado di fare dei grandi dischi che dovrebbero essere recensiti anche sulle pagine di riviste come Mojo e Uncut,  non perché sono di moda o il fenomeno del momento, ma perché sono veramente bravi.

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Hey Senorita, è un altro gioellino sonoro, con il suo tempo da valzerone rock, una slide insinuante e un pre-finale da mexican border, e un finalino da New Orleans Streets, dove arriva anche una sezione fiati che avrà alzato esponenzialmente il budget del disco. Ma per fare delle canzoni così belle, ancora firmata dei due R, Rovino e Ragazzon, il gioco vale assolutamente la candela (non so cosa volevo dire, ma la frase mi è venuta così e siccome ci stava bene l’ho lasciata). Se il crowfunding funziona e avete altre canzoni pronte, direi di insistere. Perfino Springsteen si è messo a fare quasi un disco all’anno.

Per concludere su un’aria di allegria “old school”  (perché in fondo non bisogna proprio prenderci troppo sul serio), che è quella che contraddistingue anche musicalmente questo ottimo album, come avrebbe detto Frate Antonino da Scasazza a Quelli della Notte del signor Alberi: “Non è bello ciò che è bello, ma che bello che bello che bello”. Oppure ancora It’s Only Rock’n’Roll, Sono Solo Canzonette, Trattasi di canzonette…scegliete voi!

Bruno Conti

 

 

Il “Solito” Pop Da Camera Ma In Gustosa Versione Riveduta E Corretta! Tindersticks – Across Six Leap Years

tindersticks across six leap years

Tindersticks – Across Six Leap Years – City Slang 2013

Ad appena un anno e mezzo da The Something Rain (recensito puntualmente su queste pagine da chi scrive  http://discoclub.myblog.it/2012/03/30/una-pioggia-di-note-tindersticks-the-something-rain/), i Tindersticks,  per celebrare il ventesimo (più uno) anniversario di carriera, tornano in sala d’incisione, nel leggendario Studio 2 di Abbey Road, (proprio quello dei Beatles!) per registrare una sorta di “greatest songs” anomalo, nuove versioni di brani, però rari e tratti in gran parte dai loro album di minor successo, delle cui versioni i componenti della band non erano particolarmente soddisfatti http://www.youtube.com/watch?v=YdXRc9syInQ

I dieci frammenti che riprendono vita in queste nuove versioni partono con la ballata d’apertura Friday Night, estratta dal primo album solista del leader Stuart A. Staples (Lucky Dog Recordings (05) rifatta in una specie di rumba rallentata, mentre nella seguente Marseilles Sunshine sono gli archi a condurre le danze, passando poi nella malinconica She’s Gone , a un valzer dove duettano chitarra e pianoforte. E ancora, una Dying Slowly (siamo dalle parti del grande Cohen), contenuta in Can Our Love (01) album colpevolmente passato quasi inosservato. Gli archi si ripresentano (con più ritmo) in If You’re Looking For A Way Out (tratta da Simple Pleasure (99), e, sembra quasi incredibile, una batteria sincopata accompagna Say Goodbye To The City  http://www.youtube.com/watch?v=hnQ4mMYF02g, per arrivare a due ballate-manifesto del gruppo, Sleepy Song  http://www.youtube.com/watch?v=K7WQwHqU-9w e A Night In, pescate entrambe dal bellissimo secondo album omonimo Tindersticks (95 e) cantate con tono quasi dimesso dalla bellissima voce baritonale di Staples. Il cerchio si chiude con una visionaria I Know That Loving e con un brano uscito in un singolo in edizione limitata del 2008, What Are You Fighting For?, immeritatamente lasciato fuori dai dischi ufficiali (sarebbe stato perfetto in The Hungry Saw dello stesso anno.

tindersticks photo

Across Six Leap Years, è una panoramica eccellente per un gruppo che sviluppa un “pop da camera”, come di consueto, di un livello musicale elevatissimo (anche se la ricetta, lo ammetto, è sempre la stessa), in cui Staples e i suoi compagni d’avventura fanno di questo auto-tributo il punto di ripartenza per dare un altro degno successore al citato The Something Rain. Disco per completisti (ma anche per i fans più affezionati), da ascoltare a notte fonda (magari in dolce compagnia), con un buon bicchiere in mano, lasciandosi trasportare da una musica tra le più fascinose in circolazione, perfetta per queste fredde serate invernali.

Tino Montanari