Il Suono Degli Esordi Non C’è Più Ma La Signora Si Fa Ancora Apprezzare! – Joan Osborne – Trouble And Strife

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Joan Osborne – Trouble And Strife – Womanly Hip Records/Thirty Tigers

Sono passati ormai venticinque anni dal successo planetario di Relish e del singolo scala classifiche One Of Us, ma per fortuna Joan Osborne non ha perso entusiasmo e voglia di pubblicare nuove canzoni, nonostante l’anno travagliatissimo che stiamo vivendo. Dico per fortuna perché sarebbe un vero peccato non poter più ascoltare una voce come la sua, che, per timbrica, espressività e duttilità, ritengo tra le migliori in circolazione. Può permettersi di cantare qualunque cosa Joan, e anche se purtroppo sembra aver un po’ accantonato le sue origini di interprete rock blues, nel pop & soul che domina le sue ultime produzioni il livello non è mai sceso sotto il limite del buon gusto e del prodotto di classe. Dopo la buona parentesi del tributo al menestrello di Duluth, Songs Of Bob Dylan, pubblicato tre anni fa https://discoclub.myblog.it/2017/09/02/ci-mancava-giusto-un-altro-bel-tributo-joan-osborne-songs-of-bob-dylan/ , la Osborne è tornata a comporre ed incidere materiale originale nel suo studio di Brooklyn, riunendo per l’occasione un gruppo di musicisti affidabili e suoi collaboratori da parecchio tempo, i chitarristi Jack Petruzzelli, Nels Cline (Wilco) ed Andrew Carillo, il tastierista Keith Cotton, il bassista Richard Hammond e il batterista Aaron Comess (Spin Doctors).

Ne è scaturito un album dalle atmosfere piuttosto variegate, come il cursore che passa sulle frequenze di varie stazioni radio degli anni settanta, spaziando tra rock, country, blues, funk e persino un tocco di glam e disco. Il brano di apertura, Take It Any Way I Can Get It, potrebbe uscire da un qualunque lavoro della Tedeschi Trucks Band, caratterizzato com’è dal suono di chitarre smaccatamente southern e Joan lo interpreta da par suo supportata dalle quattro brillanti coriste, Catherine Russell, Ada Dyer, Martha Redbone e Audrey Martells. Le cadenze funky della successiva What’s That You Say, non tra le mie preferite a dire il vero, accompagnano la drammatica vicenda di Ana Maria Rea, messicana emigrata in Texas da bambina con la famiglia. E’ sua la voce che racconta in spagnolo sullo sfondo parte delle traversie che ha subito, concludendo con un significativo “no tengo miedo!” (non ho paura). Di abuso di potere si parla in Hands Off, un robusto blues rock che ricorda il Tom Petty di Mojo, in cui la voce della protagonista graffia come ai bei tempi degli esordi.

L’uso del sintetizzatore Prophet 6 da parte del tastierista Keith Cotton conferisce un gusto retro’ alla ritmica ballad Never Get Tired (Of Loving You), una accorata invocazione di stabilità in tempi così incerti, mentre per la title-track Trouble And Strife le chitarre tornano in primo piano con ottimi fraseggi all’interno di un robusto country-rock di matrice texana. Con la lenta e romantica Whole Wide World torniamo ai già citati seventies e in particolare allo stile dei gruppi di r&b che mietevano successi in quegli anni, come i Chi-Lites. In Meat & Potatoes invece, la Osborne sembra voler fare il verso a Prince, sua sicura fonte di ispirazione, ma il pezzo risulta piuttosto monotono e inconcludente. Molto meglio le sonorità luminose e piacevolmente psichedeliche di Boy Dontcha Know, che per strumentazione e struttura melodica rimanda a certe perle dei Big Star di Alex Chilton. Troviamo ancora del pop rock di pregevole fattura in That Was A Lie, che a dispetto della sua atmosfera solare nasconde un testo di aperta denuncia nei confronti della corruzione che Joan vede diffondersi nelle istituzioni americane. Il finale è affidato al gospel rock di Panama, il cui testo, ha dichiarato la sua autrice, è ancora una volta fortemente influenzato da Bob Dylan e dalla sua straordinaria capacità di proporre liriche al vetriolo all’interno di strutture musicali scarne e dirette come quelle del blues e del folk.

Con molti pregi e poche cadute di tono, questo Trouble And Strife può costituire una piacevolissima colonna sonora per questo difficile autunno e conferma Joan Osborne come una delle cantautrici più vitali ed interessanti del panorama americano oltreché interprete di gran classe.

Marco Frosi

 

Altro Che Facile Compitino Portato A Termine, Questo E’ Piuttosto Un Vero Atto D’Amore! Steve Forbert – Early Morning Rain

steve forbert early morning rain

Steve Forbert – Early Morning Rain – Blue Rose Music

Dopo venti dischi realizzati in studio con materiale originale, il veterano Steve Forbert si è concesso una pausa per scrivere con la giusta calma nuove canzoni. Con L’amico produttore Steve Greenwell, ha però deciso nel frattempo di pubblicare una raccolta di covers, undici brani scelti tra quelli che più ha amato e degli autori che maggiormente lo hanno influenzato all’inizio e durante la sua ormai quarantennale carriera. Il lavoro è stato realizzato in più sessioni fino allo scorso gennaio, e ad accompagnare in studio il cantautore originario di Meridian, Mississippi, troviamo un gruppo di validi musicisti che suonano con lui da parecchio tempo come il chitarrista George Naha, il tastierista Rob Clores e la sezione ritmica formata da John Conte al basso (tranne in due brani dove suona Richard Hammond) e da Aaron Comess degli Spin Doctors alla batteria.

Presentando l’album sul suo sito http://steveforbert.com Steve si rivolge al proprio pubblico dando per scontato che queste canzoni siano sufficientemente note da non richiedere un grande sforzo da parte di chi le ascolta, almeno per i seguaci del genere folk/Americana. Vero è che la maggior parte di esse sono indiscutibilmente molto note, ma dietro ciò poteva celarsi il rischio di una resa piatta e scontata, cosa che non si è mai verificata grazie alla capacità di Forbert di entrare nei brani con passione e rispetto, a cominciare da Early Morning Rain, una tipica acoustic ballad di Gordon Lightfoot scritta a metà degli anni ’60. Rispetto all’originale del grande songwriter canadese, Steve ne rallenta l’andatura accentuandone il sapore malinconico con un sapiente uso del pianoforte e una bella pedal steel guitar sullo sfondo, suonata da Marc Muller. Se chiudete gli occhi, vi sembrerà di sentire il ticchettio della pioggia sui vetri, splendida versione. Non è da meno il trattamento riservato ad un classico dei Grateful Dead, Box Of Rain, che apriva l’album American Beauty. Forbert ripropone quella caratteristica, tipica delle Dead songs, di prendere corpo poco alla volta con l’intervento di piano e chitarre a ricamarne la melodia e, a 50 anni esatti dalla sua pubblicazione, riesce a mantenere intatto il suo inebriante profumo da Californian beatniks.

Il confronto con un monumento, quale Your Song di sir Elton John, poteva creare parecchi problemi, ma anche qui Steve ne esce vincitore grazie al principale dono che la natura gli ha fornito, la voce. Con un’interpretazione ricca di pathos eseguita con quella inconfondibile timbrica roca, densa di sfumature, garantisce la giusta intensità ad una delle più belle love songs di tutti i tempi. Comparate questa e quella che nel recente disco tributo Revamp: Reimagining The Songs Of Elton John & Bernie Taupin ha eseguito la popstar Lady Gaga, e vi renderete conto della differenza che passa tra una cover che possiede un’anima e un semplice buon esercizio stilistico. Sorprende un po’ la scelta di Supersonic Rocket Ship dei Kinks, non proprio un anthem nella vastissima produzione di Ray Davies & soci. Ascoltandola però, ci si rende conto di quanto le frizzanti canzoni ricche di humour della band inglese abbiano influenzato generazioni di cantautori al di là dell’oceano e Forbert lo conferma sentendosi totalmente a proprio agio in questa fresca rendition. Restiamo in terra d’Albione per un sentito omaggio ad un illustre coppia del folk rock britannico, Richard & Linda Thompson: l’accorata atmosfera di Withered And Died, presente in origine nell’album I Want To See The Bright Lights Tonight, è riprodotta qui in modo efficace, con la pedal steel di Muller ancora in gran spolvero e la suadente voce di Emily Grove a doppiare quella del protagonista.

Da una coppia all’altra, dal repertorio degli anni sessanta di Ian & Sylvia Tyson, giunge la piacevole Someday Soon, che viene rivisitata in modo fedele all’originale, conservando quella linea melodica che pare baciata dal sole californiano. Pick Me Up On Your Way fa parte del vasto canzoniere di uno dei padri della country music, Charlie Walker, e Steve ne accentua la cadenza swingante ed allegra prima di cimentarsi con un altro pezzo da novanta, Suzanne, del compianto maestro Leonard Cohen. Penso che lo Steve Forbert giovane adolescente degli anni sessanta abbia sognato più volte di scrivere una canzone di tale intensità emotiva, quindi, giunto alla soglia dei 65 anni si è almeno preso lo sfizio di inciderla, dandone una versione convincente, rilassata e passionale nello stesso tempo. Da un brano arcinoto a un traditional sconosciuto ai più, ma che vanta ben 256 registrazioni accreditate da parte di personaggi del calibro di Lead Belly, Sam Cooke, Pete Seeger, Taj Mahal, Johnny Cash, Van Morrison, tanto per citarne alcuni. Frankie And Johnny, questo è il titolo, parla di un tragico omicidio passionale, dunque il blues ne è la veste sonora più appropriata come anche il nostro protagonista ci dimostra, dandone una sua versione sapida e tecnicamente ineccepibile.

Dal campionario dello stimatissimo songwriter Danny O’Keefe sappiamo in quanti abbiano attinto per ricavarne dei successi, da Jackson Browne con The Road a Judy Collins con Angel Spread Your Wings, ma anche Willie Nelson, Alison Krauss, Jimmy Buffett, Ben Harper e molti altri lo hanno interpretato nel corso degli ultimi decenni. Steve opta per l’unico grande hit single della lunga carriera di Danny, Good Time Charlie’s Got The Blues, una folk ballad che viene qui riproposta in una versione di cristallina bellezza, non a caso scelta per il primo video promozionale dell’album. Il cerchio si chiude con l’inevitabile tributo al nume tutelare di ogni cantautore che si rispetti, Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, che ancora non ha smesso di stupire come è dimostrato dalle ultime due gemme pubblicate di recente sul web, la magniloquente Murder Most Foul e l’evocativa I Contain Multitudes.

Mr. Forbert, che fu proprio uno dei “New Dylan” (insieme a Springsteen, John Prine e Elliott Murphy) non va a pescare nella categoria dei super classici, ma sceglie di interpretare un brano, tra virgolette, minore degli anni ’90, Dignity. Il motivo è forse da ricercare nel testo pieno di acuti riferimenti alla vita sociale, che risultano ancora oggi drammaticamente attuali. La sua versione è vitale e coinvolgente col piano che scandisce il ritmo sovrapponendosi alla batteria e le chitarre che svolazzano libere nella ripetitività delle strofe. Sarà sicuramente un appuntamento fisso nelle sue future esibizioni dal vivo. Per ora godiamoci questo ennesimo riuscito tassello nella discografia di un songwriter di razza che dimostra sensibilità e capacità non comuni anche nel ruolo di interprete.

Marco Frosi

Il Ritorno Del Figliol Prodigo. James Maddock – Insanity Vs. Humanity

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James Maddock – Insanity Vs. Humanity – Appaloosa Records

Nel 2010, Sunrise On Avenue C fu un vero e proprio colpo di fulmine per il sottoscritto. James Maddock, con le sue ammalianti rock ballads costruite su piano e chitarre e quella voce gradevolmente roca alla Ian Hunter, mi aveva subito conquistato e aggiunto il proprio nome alla lunga lista di beautiful losers che sanno regalare emozioni vere, ispirati dai grandi maestri Dylan, Springsteen e Van Morrison. Seguirono altre belle conferme, lo spumeggiante Live At Rockwood Music Hall, l’ottimo Wake Up And Dream dell’anno successivo, Another Life del 2013, più folk ed intimista dei suoi predecessori. Dopo una serie di prove tanto convincenti, grande fu la delusione che mi procurò l’ascolto di The Green, l’album del 2015, in buona parte rovinato da campionamenti e suoni fasulli. Per fortuna, dubbi e timori sono stati spazzati via come una folata d’aria fresca appena ho inserito nel lettore il nuovo Insanity Vs. Humanity e la limpida melodia dell’iniziale I Can’t Settle ha cominciato a diffondersi. Come negli episodi migliori dei vecchi dischi è il pianoforte a condurre le danze, e intorno chitarre acustiche, mandolino, organo e tastiere accompagnano la voce del protagonista nel suo racconto che tanto richiama alla memoria i personaggi delle backstreets springsteeniane. Subito dopo, altro bel colpo di acceleratore per la trascinante Watch It Burn, davvero irresistibile nel suo ritornello:

james maddock insanity

https://www.youtube.com/watch?v=ZPdEP-mlVDE

Burn Burn Burn urla James Maddock sostenuto da voci femminili e non posso evitare di pensare alle infuocate performances del grandissimo Dirk Hamilton nei suoi brillanti esordi degli anni settanta. Cambio di passo nella successiva Leave Me Down, soul ballad ad altissimo tasso emotivo con un crescendo paragonabile al repertorio del miglior Southside Johnny. Il binomio voce e chitarra elettrica nel finale del pezzo è da pelle d’oca. Basterebbero questi tre brani per convincerci della ritrovata vena del suo autore, ma le buone notizie proseguono con il country rock ruspante della seguente What The Elephants Know, anch’essa sostenuta dal gran lavoro alla sei corde del fido John Shannon. Kick The Can è l’ennesima composizione vincente col piano di Oli Rockberger ancora sugli scudi e un impeto degno delle migliori ballads di Bob Seger. Tre anni fa Maddock collaborò attivamente alla riuscita del positivo penultimo album dei Waterboys, Modern Blues (quanto scarso è invece l’ultimo Out Of All This Blue, una delle peggiori delusioni dell’anno appena concluso!) scrivendo insieme a Mike Scott tre dei migliori episodi di quel lavoro. Ora James si riappropria di due di quelle canzoni modificandone l’arrangiamento con ottimi risultati: November Tale è rallentata accentuandone il malinconico fascino che ti entra sotto pelle,. Mentre Nearest Thing to Hip, impreziosita dallo splendido apporto del piano, è una canzone che veniva eseguita dal vivo già da molto tempo, e ci offre una delle migliori interpretazioni del suo autore che cita nel testo Charlie Parker, Davis e Coltrane modulando la voce con un seducente sussurro nello stile del maestro Van Morrison, fino all’esaltante conclusione affidata alle lancinanti note dell’armonica.

james maddock insanity 2

https://www.youtube.com/watch?v=_blB8xjMyTU

The Old Rocker diventerà sicuramente uno degli highlights nei concerti del songwriter inglese (ma ormai newyorkese d’adozione) col suo refrain fatto apposta per essere cantato insieme al pubblico, un piccolo divertissement che profuma di anni sessanta e non avrebbe sfigurato nel repertorio dei Faces di Rod Stewart. La title track è un’altra perla, una canzone dall’incedere solenne e dal testo significativo che si colora di gospel nel finale, grazie al bell’intervento di un coro. Insanity Vs. Humanity fa il paio con la seguente The Mathematician, una classica ballata ad ampio respiro dalla  linea melodica che si fa apprezzare al primo ascolto. Fucked Up World è più arrabbiata, come suggerisce il titolo, e si movimenta nella seconda metà con l’ingresso dell’elettrica che si sovrappone al resto. The Flame, se mi passate il gioco di parole, non infiamma più di tanto, con gli archi ed il piano dal tocco jazzato a creare un’atmosfera da musical di Broadway, un po’ troppo zuccherosa. Torniamo comunque su livelli elevatissimi con la superlativa Nearest Thing To Hip di cui vi ho già parlato, e con la conclusiva Fairytale Of Love, personale rivisitazione della fiaba di Hansel e Gretel, delicato acquarello suonato in punta di spazzole dal batterista degli Spin Doctors Aaron Comess e con ricami deliziosi di Rockberger che fa il verso al professor Roy Bittan. Davvero un gran bel ritorno, James Maddock è vivo e in piena forma!

P.S.: Se ci riuscite, procuratevi anche il Live At Daryl’s House, già uscito da tempo e venduto solo sul sito  http://jamesmaddock.net oppure nelle sedi dei concerti che speriamo possano presto toccare anche la nostra penisola. Ne vale assolutamente la pena, come potete verificare nella nostra recensione http://discoclub.myblog.it/2017/03/25/un-rocker-inglese-di-casa-a-new-york-james-maddock-live-at-daryls-house/ !

Marco Frosi

Un Rocker “Inglese” Di Casa A New York! James Maddock – Live At Daryl’s House

James maddock live at daryl's house

James Maddock – Live At Daryl’s House – Casa Del Fuego Music

James Michael Alexander Maddock, rocker e songwriter di Leicester (città diventata famosa per la squadra di calcio locale diventata campione d’Inghilterra), è un ospite abituale di questo blog (in quanto le uscite precedenti sono state spesso recensite puntualmente dall’amico Bruno http://discoclub.myblog.it/2016/09/03/bella-gita-italiana-james-maddock-amici-jimmyimmy-with-alex-valle-live-italia/ ), ma da tempo si era trasferito a New York (tanto per cambiare per amore della sua compagna). Questo Live At Daryl’s House uscito in edizione molto limitata (e precisiamo subito, in teoria, acquistabile solo ai suoi concerti o sul suo sito), lo vede questa volta salire sul palco accompagnato dalla sua solida band, composta da Aaron Comess degli Spin Doctors alla batteria, Jason Darling alle chitarre, Drew Mortali al basso, Ben Stivers alle tastiere, per circa sessanta minuti di ottima musica, un concerto dove il buon James Maddock snocciola il meglio del suo repertorio.

La struttura del concerto pesca a piene mani dagli ultimi album, e l’iniziale Rag Doll (tratta da The Green) è la granitica conferma, canzone a cui fanno seguito l’ammiccante Change e un bel brano roots-rock come Another Life, mentre Step Into The Water è armoniosa e pure con un piglio lievemente soul. Con una dolce Better On My Own arriva la prima ballata della serata, con un delizioso lavoro al pianoforte di Ben Stivers, per poi passare all’andamento dolecemente dance-soul di una sorprendente Driving Around, cambiare nuovamente ritmo con la commovente My Old Neighborhodd, riletta in chiave acustica e cantata con voce sofferta da Maddock, prima di avvilupparci con una trascinante Beautiful Now, brano firmato a quattro mani con Mike Scott dei mai dimenticati Waterboys. Ci si avvia alla parte finale del concerto, prima con la gradevole e leggera I’ve Been There Too, poi con una delicata e sussurrata Mr. Universe, e andare a chiudere con una delle “perle” del suo “songbook” più recente, la bellissima Wake Up And Dream, introdotta dall’armonica e nel suo percorso accompagnata da un importante lavoro delle tastiere, senza dimenticare le note lancinanti della “slide” di Jason Darling. Sipario e applausi!

Questo eccellente Live At Daryl’s House, ha tutte le ragioni di far parte del vostro scaffale (se trovate ancora posto), in quanto la voce roca e strozzata, ma assai coinvolgente ( e che tanti suoi più famosi e celebrati colleghi non si possono permettere) è certamente uno dei punti di forza di James Maddock, e, per chi scrive, la dimensione live (soprattutto quando supportato dalla notevole band che l’accompagna), tende ad esaltarla, come era stato nel precedente Live At Rockwood Music Hall (11).

Chi lo conosce e lo segue, sa che questo rocker anglo-americano è stato adottato dalle nostre parti, come era successo in precedenza per altri artisti, tra i quali ricorderei Elliott Murphy, Willie Nile (i più noti), e Jono Manson, Bocephus King  (tra i “meno noti”), e  certamente non sarà il futuro del rock’n’roll, ma il suo talento, la sua voce e le sue canzoni lo certificano un autore d’altri tempi, in grado di ridestare emozioni degne dei grandi del passato. Chapeau.!

Tino Montanari