Se Volete Celebrare Ancora Il Natale (In Ritardo) Facendo Casino! Old 97’s – Love The Holidays

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Old 97’s – Love The Holidays – ATO CD

I texani Old 97’s sono stati tra I pionieri del movimento alternative country degli anni novanta, insieme a band come gli Uncle Tupelo, i Jayhawks ed i Whiskeytown, e nel 2019 celebreranno i 25 anni di carriera: un quarto di secolo all’insegna di un country-rock di grande energia, con elementi punk ben presenti nel suono, ma anche con il ricorso spesso a sonorità più vicine al folk (infatti loro si autodefiniscono “loud folk”). In tutto questo tempo i nostri non hanno mai cambiato formazione, e sono ancora guidati dunque da Rhett Miller (che affianca a quella del gruppo una carriera da solista, e ha da pochissimo pubblicato il suo nuovo lavoro The Messenger https://discoclub.myblog.it/2019/01/22/senza-il-suo-abituale-gruppo-la-musica-cambia-la-qualita-no-rhett-miller-the-messenger/ ) insieme a Ken Bethea, chitarra solista, Murry Hammond al basso e Philip Peeples alla batteria. Il loro ultimo lavoro in studio, Graveyard Whistling, risale all’inizio del 2017, e sul finire del 2018 i quattro hanno deciso di celebrare il Natale pubblicando il loro primo album stagionale, Love The Holidays.

Ed il disco si rivela divertentissimo, puro Old 97’s sound: Miller e compagni mescolano abilmente brani della tradizione a canzoni nuove di zecca, il tutto suonato con la solita forza e grinta, ma anche con un gusto spiccato per le melodie immediate e fruibili. Un lavoro diverso dai soliti album natalizi, che per la sua peculiarità e freschezza trovo adatto ad essere ascoltato anche in altri periodi dell’anno. Il divertimento inizia subito con la title track, un brano ritmato e vigoroso tra rock, country ed errebi, con le chitarre ed una piccola sezione fiati che fanno a gara a chi ci mette più energia; I Believe In Santa Claus, se non fosse per la chitarra elettrica leggermente distorta e la sezione ritmica che pesta, sarebbe una languida ballata anni sessanta, ma sicuramente la preferisco con questo arrangiamento più rock. Deliziosa Gotta Love Being A Kid, rockin’ country a tutto ritmo e grinta, con un approccio degno dei Clash ma dalla melodia irresistibile. Snow Angels è più lenta ed attendista, ma alla maniera dei nostri (quindi sempre con brio), Christmas Is Coming è un coinvolgente e scintillante “punky-tonk” (ovvero un incrocio tra punk e honky-tonk), mentre Wintertime In The City è una ballatona quasi canonica, di buona fattura, che dimostra che i quattro sanno anche essere più accomodanti se vogliono (per contro, Rudolph Was Blue è uno scatenato rockabilly con chitarre in tiro e fiati ancora dietro la band).

Con Here It Is Christmastime i nostri ci propongono una squisita e toccante country ballad, anche se un po’ sgangherata come da loro stile, e con Hobo Christmas Song siamo in pieno honky-tonk elettrico, un pezzo saltellante e dal motivo vincente, con tanto di gorgheggi yodel. Auld Lang Syne è un traditional famosissimo (cantato più che altro a Capodanno), e la band lo rivolta come un calzino, rifacendolo in pura veste punk-rock, decisamente elettrica ma anche difficile da resistere; ancora più punk è la popolare Angels We Have Heard On High (sembrano i Ramones redivivi), mentre la nota God Rest Ye Merry Gentlemen è resa quasi irriconoscibile da un arrangiamento tra rock e surf music (con ottima prestazione chitarristica), con risultati comunque godibili. Il CD si chiude con altri due traditionals: in Up On The Housetop i nostri ricordano notevolmente i Pogues, con un pezzo tra rock e folk davvero coinvolgente, mentre la gentile Blue Christmas è decisamente più “natalizia”. Un disco quindi divertente e trascinante, in puro stile Old 97’s: Rockin’ Christmas at its best!

Marco Verdi

Un Bel Disco, Ulteriormente Potenziato E Migliorato. Son Volt – Okemah And The Melody of Riot

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Son Volt – Okemah And The Melody Of Riot – 2 CD Transmit Sound/Thirty Tigers

Proseguono le ristampe potenziate del catalogo dei Son Volt: dopo quella di The Search uscita ad Aprile, che già rivalutava l’opera della band nella seconda parte di carriera, arriva ora Okemah And The Melody Of Riot, quarto album della loro discografia, e il primo ad uscire dopo la lunga pausa dal 1999 al 2004. All’origine il disco avrebbe dovuto essere registrato con la prima formazione della band, che si era già ritrovata per incidere un brano per il tributo ad Alejandro Escovedo, e viste le buone vibrazioni aveva deciso di continuare, ma poi qualcosa deve essere andato storto e Jay Farrar ha messo in piedi una formazione completamente diversa, con Andrew Duplantis al basso e alle armonie vocali, Dave Bryson alla batteria e l’ottimo Brad Rice alla chitarra (già nelle band di Ryan Adams e Peter Case, e con Backsliders e Whiskeytown). Il suono ottenuto era decisamente più (alternative) rock rispetto ai loro classici dischi degli anni ’90, ma per nulla disprezzabile, come invece alcuni critici, peraltro non tutti, avevano sentenziato all’epoca all’uscita del disco.

Album che già in origine uscì in diversi formati, tra cui una versione Dual Disc (qualcuno li ricorda? I dischetti a doppio strato con audio e video insieme), che conteneva delle bonus nella parte DVD della confezione. Questa nuova versione aggiunge ulteriore materiale, nel secondo CD ci sono due brani extra e sette pezzi dal vivo, mentre il CD originale, a differenza di The Search, dove era stata cambiata la sequenza dei brani, mantiene quella della prima edizione. Il disco non sarà forse un capolavoro, ma rispetto a molti dei dischi di rock contemporanei, ha parecchie frecce al suo arco: il suono è decisamente più elettrico e chitarristico, spesso vibrante, ma lasciando comunque spazio alle malinconiche ballate che sono sempre state nel DNA di Farrar sin dai tempi degli Uncle Tupelo. Il suono potrebbe ricordare quello dei R.E.M. della prima fase: prendiamo il primo brano, Bandages And Scars, con un testo che si richiama a Woody Guthrie per fare un parallelo con la situazione politica di quegli anni (in un album che è comunque tra i più “impegnati” in questo senso di Farrar), ma musicalmente le chitarre sono molto presenti  e tirate, con un suono lontano (ma non poi così tanto) dall’alt-country  e dal suono roots dei primi dischi, il cantato di Jay è quello tipicamente laconico e laidback, caratterizzato da quella voce immediatamente riconoscibile, anche se calata in una dimensione decisamente più R&R ,estremamente godibile e mossa. Potrebbe ricordare i lavori più elettrici di Neil Young, o un country-rock più energico  anni ’70; della stessa tempra sonora anche Afterglow 61, sempre potente e con le chitarre mulinanti, come pure la vivace 6 String Belief, che il lavoro delle chitarre lo magnifica fin dal titolo, e pure Jet Pilot a tutto riff, completa la trilogia rock di apertura.

Atmosphere è una bella ballata mid-tempo cadenzata, dall’ambientazione solenne e malinconica, con improvvise accelerazioni e cambi di tempo. Ipecac ci riporta al sound acustico e meditato dei primi album, ed è un ottimo brano, dove si apprezza lo spirito più gentile della band, mentre Who mi ha ricordato il suono dei sopracitati R.E.M., con un bel jingle jangle delle chitarre, con Endless War che vira addirittura verso atmosfere leggermente psichedeliche alla Gene Clark, poi ribadite in Medication,in un ambito più folk e ricercato, con piccoli tocchi orientaleggianti che rimandano a Bert Jansch o ai Pentangle, anche grazie alla slide e al dulcimer di Mark Spencer. Con le chitarre elettriche che ritornano a farsi sentire nella Younghiana Gramophone, dove fa capolino anche una armonica o nella atmosferica Chaos Streams, prima di regalarci la deliziosa, sognante e pianistica Wolrd Waits For You, con tanto di ripresa e coda chitarristica con la pedal steel di Eric Heywood e la slide di John Horton in bella evidenza. Exurbia e la pianistica Anacostia, i due inediti di studio aggiunti, appartengono al lato più intimista di Farrar, mentre tra i brani dal vivo spiccano une deliziosa Joe Citizen Blues con un ottimo Rice alla solista e Afterglow 61,anche questa ripresa dal vivo a Philadelphia nel maggio del 2005. La sequenza di altri cinque brani Live tratti dall’album conferma l’impressione che i Son Volt dell’epoca erano una eccellente band. Una ottima ristampa da avere, e non solo per mero “completismo”,

Bruno Conti

Sono Canadesi, Quindi Sono Bravi! Deep Dark Woods – Yarrow

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Deep Dark Woods – Yarrow – Six Shooter Records/Thirty Tigers

E’ da qualche anno che seguo questo gruppo, e colpevolmente, per un qualche motivo non identificabile, in questi anni non abbiamo mai avuto l’occasione di recensire i loro dischi, ma finalmente con questo ultimo lavoro, possiamo rimediare. I Deep Dark Woods sono una band, diciamo “alternative-country”, che proviene dal freddo Canada (precisamente da Saskatoon, in mezzo alle sterminate foreste del Saskatchewan), con un “sound” che dal country rock degli esordi, nel corso degli anni si è sviluppato nell’attuale folk rock d’autore, ma tenendo sempre ben presente tra le proprie influenze il DNA di una storico gruppo come The Band. La formazione iniziale era composta da Ryan Boldt voce e chitarra, Burke Barlow alle chitarre, Geoff Hilhorst piano e tastiere, e una buona sezione ritmica composta dal basso di Chris Mason e la batteria di Lucas Goetz; hanno esordito nel 2006 con l’album omonimo The Deep Dark Woods, a cui fecero seguire l’anno successivo Hang Me, Oh Hang Me (con una prima “nomination” ai Canadian Music Awards),per poi farsi conoscere un pubblico più grande con Winter Hours (09), un lavoro pieno di suoni, suggestioni e sensibilità musicali intriganti. Il loro cammina continua con il pregevole The Place I Left Behind (11), un pugno di canzoni tra rock e tradizione (e alcune splendide ballate).

Fino ad arrivare alla consacrazione di Jubilee (13), prodotto da Jonathan Wilson con un suono caldo e inebriante, che si spinge in alcuni casi fino alla “psichedelia”. Alla fine del 2014 il batterista Lucas Goetz ha abbandonato la band, e di conseguenza il gruppo si è sciolto per una pausa di riflessione; ma dopo qualche anno ecco che i Deep Dark Woods si ripresentano con una nuova “line-up” composta sempre dal leader, cantante e chitarrista Ryan Boldt, e dal pianista e tastierista Geoff Hilhorst, con l’inserimento dei due cugini Kacy & Clayton (Jeff Tweedy dei Wilco ha prodotto il secondo album) e autori di due ottimi lavori Strange & Country e The Siren’s Song, e dal noto produttore e musicista Shuyler Jansen, per un lavoro come Yarrow dove la musica e le sonorità cambiano ancora, un folk rock con influenze dark, soppesato da testi che parlano di tragedie varie e oscure.

La traccia d’apertura di Yarrow, Fallen Leaves, si fa notare subito per un lieve accompagnamento “psichedelico”, con un bel controcanto femminile che accompagna la voce di Boldt, a cui fanno seguito l’alt-country di una raffinata Un Op The Mountaintop, e la dolcissima litania di una soave Deep Flooding Waters (dove si sente ancora l’apporto di Kacy & Claytonhttps://www.youtube.com/watch?v=57jLQIC2kcc , a chiudere una “trilogia” di brani che dimostrano come Yarrow possa essere il successore naturale di Jubilee. Con Roll Julia si cambia registro, veniamo trasportati in un West dove sembra di sentire le cadenze  del mai dimenticato Johnny Cash, per poi passare ancora alle meravigliose armonie della lunga, evocativa e intrigante The Birds Will Stop Their Singing (che rappresenta perfettamente il nuovo corso del gruppo), e una San Juan Hill, dove si ripresentano i cugini per un corale e trasognato alt-country. Ci si avvia alla chiusura con i ritmi lenti di Drifting On A Summer’s Night, dove il controcanto di Kacy e le scosse elettriche del gruppo danno un impronta dark al sound https://www.youtube.com/watch?v=zQuO01lCmr8 , mentre Teardrops Fell rimette in pista la vellutata e struggente atmosfera “psichedelica” del brano iniziale, una ballata languida imperniata sulla voce di Ryan, come pure nel brano finale The Winter Has Passed, con un accompagnamento acustico, e Kacy il cui controcanto segue in modo inappuntabile i musicisti della band.

Suoni, suggestioni e sensibilità musicali si diceva, il tutto che ruota fin dai primi passi attorno ai Deep Dark Woods, e sicuramente questo Yarrow chiude il cerchio di un primo decennio di carriera, ma nello stesso tempo ne apre subito un altro alla ricerca di nuovi suoni, sperimentando anche diverse strade musicali, per una musica che si presume in seguito sarà magari ancor più intensa e magnetica, ma in cui la voce di Ryan Boldt, misurata e struggente, deve comunque essere sempre la stella cometa in qualsiasi futura edizione del gruppo. In definitiva, forse, questi Deep Dark Woods non sono un gruppo di facile ascolto, ma ciò nondimeno le canzoni di Yarrow, registrate tra le grandi foreste e i fiumi del Saskatchewan e la west coast dove ora risiedono, bastano e avanzano per allietare le nostre serate in attesa del prossimo inverno, e quindi se volete un consiglio dal sottoscritto, e se non lo avete ancora fatto, sono da scoprire assolutamente.

Tino Montanari

Non E’ Nuovo, Ma E’ Come Se Lo Fosse! American Aquarium – The Bible & The Bottle

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American Aquarium – The Bible & The Bottle – American Aquarium CD

Gli American Aquarium sono una delle band più prolifiche in ambito alternative country, in quanto hanno pubblicato ben otto album (incluso un live) in dieci anni di carriera. Formatisi nel 2006 a Raleigh, North Carolina (città con una bella scena musicale, si pensi ai grandi Whiskeytown di Ryan Adams, ma anche ai Backsliders ed ai Connells, e pure gli Avett Brothers non distano molto dalla capitale dello stato) su iniziativa del cantante e chitarrista BJ Barham: The Bible & The Bottle non è però il loro nuovo disco, bensì la ristampa del secondo CD, uscito nel 2008 e da tempo introvabile, ma devo dire che suona fresco e piacevole come se fosse stato registrato pochi mesi fa. All’epoca di queste incisioni gli Aquarium erano diversi da come sono oggi, infatti oltre a Barham l’unico membro ancora presente è il bassista Bill Corbin: nella formazione del 2008 c’erano poi Chris Hibbard alla batteria, Jeremy Haycock alla chitarra solista, ed i bravissimi Sarah Mann e Jay Shirley, rispettivamente al violino e pianoforte, e con la ciliegina di Caitlin Cary (parlando di Whiskeytown) ospite ai cori.

The Bible & The Bottle presenta un gruppo ancora alle prime armi, ma con già una sua identità ed un suo suono: diciamo che non si sono ancora palesate alcune tendenze future, che hanno visto i nostri aggiungere elementi southern ed anche funk, ma abbiamo comunque undici canzoni (tutte di Barham) di pura Americana, con dentro tanto country unito a massicce dosi di rock, con il folk a fare da tramite tra i due generi; se si può fare un paragone, il suono non è troppo distante da quello dei primi Uncle Tupelo, ma anche del già citato ex gruppo di Ryan AdamsDown Under è una country song limpida e tersa, con grande uso di steel e piano, un brano davvero godibile: country vero, non come quello prodotto a Nashville, ma molto vicino all ex band di Jeff Tweedy e Jay Farrar. California è più rock che country, il violino stempera un po’ l’atmosfera, ma la sezione ritmica picchia sodo, anche se il tutto è molto equilibrato, con echi dello Steve Earle degli esordi; Road To Nowhere è un lento di chiaro stampo cantautorale, che riesce ad emozionare solo con l’uso della voce, una steel sullo sfondo ed il notevole piano di Shirley, un brano toccante che dimostra che il gruppo c’era già, eccome.

Tellin’ A Lie è un folk rock suonato e cantato con vigore quasi punk, con un uso dell’organo come negli anni sessanta, e l’influenza dei Rolling Stones  neanche troppo nascosta, anche se il violino dona al pezzo un sapore rurale; Bible Black October è una deliziosa ballata bucolica, con BJ che canta con voce leggermente filtrata, piano e violino guidano la melodia, che ricorda ancora il gruppo di Jagger e Richards quando si cimenta con il country. Manhattan è uno slow dall’arrangiamento classico, molto anni settanta, con Gram Parsons in mente ed un motivo fresco e piacevole, mentre la mossa e saltellante Come Around This Town è quasi uno swing un po’ obliquo, tra country e rock; niente male anche Monsters, altra ballad dallo script lucido e dal mood crepuscolare, dotata di un bel crescendo ed uno sviluppo molto creativo. La folkeggiante Stars And Scars assume toni quasi Irish, complice l’uso in tal senso del violino e la struttura melodica che la fa sembrare quasi un traditional, Lover Too Late è un’altra fulgida ballata, degna di gruppi molto più maturi di quanto non fossero i nostri all’epoca, mentre Clark Ave., che chiude il CD, è un rock’n’roll sciolto e trascinante, un finale in cui i ragazzi si lasciano andare e suonano con il preciso intento di divertirsi.

Non fate caso al fatto che The Bible & The Bottle sia un disco di otto ani fa: ancora oggi è molto meglio dell’80% delle nuove uscite di artisti cosiddetti cool.

Marco Verdi