“Alternativa” Ma Non Troppo, Anzi Sofisticata Ed Elegante. Neko Case – Hell-On

neko case hell-on

Neko Case – Hell-On – Anti-

Neko Case non è più una “giovanotta”, 47 anni compiuti (sempre dire l’età delle signore), una carriera iniziata nel 1994, ma il primo disco da solista è del 1997: all’inizio, per quanto valgano le etichette, era più alternative country, nel primo album appunto del 1997 The Virginian, e pure nel successivo Furnace Room Lullaby, ma già Blacklist virava verso lidi più rock, anche se poi l’esibizione all’Austin City Limits del 2003 era ancora in un ambito “Americana” con tanto di cover di Buckets Of Rain di Dylan.

Poi da Fox Confessor… del 2006 il suono si fa più “lavorato”, ma a tratti anche spensierato, visto che Neko Case aveva anche una sorta di carriera parallela con i New Pornographers, più orientati verso un sound power-pop, definirlo commerciale forse è una esagerazione, ma i dischi in Canada vendono in modo rispettabile. Whiteout Condition è l’ultimo disco del 2017 in cui canta Neko, e l’album in trio del 2016 con Laura Veirs e KD Lang il penultimo uscito https://discoclub.myblog.it/2016/06/29/le-csn-degli-anni-2000-caselangveirs/ . E proprio la Lang appare come voce di supporto in Last Lion Of Albion, il delizioso secondo brano di raffinato stampo pop di questo nuovo Hell-On, -co-prodotto, come altri sei del CD, da Bjorn Ytlling di Peter, Bjorn And John, che ha curato la quota svedese dell’album e il mixaggio complessivo del disco. La title track Hell-On è stata scritta con Paul Rigby, chitarrista e collaboratore abituale della Case, mentre Doug Gillard è l’altro chitarrista, e nella parte americana dell’album collaborano anche Joey Burns dei Calexico, Steve Berlin e Sebastian Steinberg, un brano “lunare” e soffuso, dove Neko suona la kalimba, e ci sono anche cello e autoharp.

Da Stoccolma arriva pure Halls Of Sarah, delicata e complessa, con la base strumentale incisa in Arizona, come le voci di Laura Veirs e Kelly Hogan. A questo punto facciamo un piccolo salto nel passato: siamo nel settembre del 2017, quando alle tre del mattino Neko Case riceve una chiamata dagli Stati Uniti in cui le viene comunicato che la sua casa nel Vermont sta bruciando e non ci sono speranze di salvare nulla, tutti i suoi possedimenti vanno in fumo, si salvano solo i cani e le persone care. Ma la nostra amica, che a dispetto dell’aspetto esteriore tranquillo è una tipa tosta, decide di completare comunque l’album, infatti nei contenuti appaiono vari richiami a questa vicenda, a partire dal titolo e dalla copertina, dove la Case appare con il capo ricoperto di sigarette e con la sua strana acconciatura che prende fuoco. Si sa che spesso dalle disgrazie nascono spunti di resilienza ed in effetti l’album nel complesso risulta una dei suoi migliori https://www.youtube.com/watch?v=j5MPRCf2M9U , con una clamorosa eccezione in Bad Luck (altro riferimento) che sembra quasi un brano della futura reunion degli Abba, e che francamente, esprimo un parere personale, a qualcuno piacerà, ci poteva risparmiare, tra ritmi disco-pop e coretti insulsi molto kitsch https://www.youtube.com/watch?v=MnCRbKyn1KY .

Invece molto meglio, sempre prodotta da Ytlling, la lunga e maestosa ballata Curse Of The I-5 Corridor che vale quasi da sola l’album, e in cui la Case duetta con Mark Lanegan, e con le voci, quella chiara e cristallina di Neko e quella bassa e profonda di Lanegan che si intrecciano con risultati assolutamente affascinanti, a tratti anche solari,  grazie alle tastiere di Burns e alla batteria di Matt Chamberlain. Molto bella Gumball Blue, scritta con Carl A.C. Newman dei New Pornographers, che aggiunge la sua voce a quella della Hogan, della Lang e di vari altri vocalist per una pop song raffinata e composita, dove si apprezzano il violino di Simi Stone e pure il synth di John Collins, vogliamo chiamarlo, parafrasando Nick Lowe, “pure pop for now people” https://www.youtube.com/watch?v=ccNWxAB8hk8 ? Anche la sognante Dirty Diamond ha complessi arrangiamenti, con  doppia chitarra e batteria, altro “alt-pop” elegante dove spicca la voce sicura e brillante della nostra amica https://www.youtube.com/watch?v=Ki7wQbTGPXI .

Oracle Of The Maritimes, scritta con Laura Veirs, suono avvolgente, molte chitarre acustiche ed elettriche, cello, piano, clavicembalo e la voce che quasi galleggia sulla base strumentale, con un ottimo crescendo finale. Winnie, dove tra le altre appare anche Beth Ditto, buona ma nulla di memorabile, mentre più interessanti Sleep All Summer, scritta e cantata a due voci con Erich Bachmann, da tempo anche nella sua touring band e ancora My Uncle’s Navy, di nuovo con Newman, che grazie anche alla stessa Case a piano e chitarre ed alla pedal steel di Jon Rauhouse rimanda in parte alle sonorità del passato, tra wave e alt-country https://www.youtube.com/watch?v=cPkr54tl1gw . Pitch Or Honey, con un misto di strumenti tradizionali e drum machines e synth incombenti mi piace meno, ma non inficia il giudizio complessivamente più che positivo dell’album.

Bruno Conti

Sempre A Proposito Di Voci Femminili Intriganti. Haley Heynderickx – I Need To Start A Garden

haley heynderickx

Haley Heynderickx – I Need To Start A Garden – Mama Bird Recording Co.

Ho sempre avuto una particolare predilezione per le voci femminili: siano quelle poderose del rock, o quelle intense e fenomenali delle dive del soul, ma anche in ambito folk e pop-rock,  dalla grande Joni Mitchell a Laura Nyro, Carole King, Sandy Denny o Joan Armatrading,  ma pure gente dalla vita e dalla carriera sfortunata, come Judee Sill o Karen Dalton, Carolyn Hester. Nelle generazioni successive mi hanno affascinato le canadesi Jane Siberry e Mary Margaret O’Hara, per cui quando ho letto paragoni con Haley Heynderickx, rispetto alla O’Hara (ma anche con Angel Olsen, tra le contemporanee e Vashti Bunyan, che probabilmente Haley conosce, essendo della stessa generazione, le altre non so), mi sono detto che era il caso di estrarre il manuale Guido Angeli/San Tommaso e provare, per eventualmente credere.

Dopo avervi stordito di nomi, potrei aggiungere anche  una Suzanne Vega più sognante ed umbratile, che d’acchito mi ricorda nella prima canzone, la breve e scarna No Face, solo la voce e la chitarra acustica arpeggiata della filippino-americana Heynderickx (inserita nella scena locale di Portland, una delle più vivaci negli States): testi surreali e poetici, come nella particolare The Bug Collector, che parla di visioni di strani insetti che sono metafore per persone e situazioni della vita reale e non immaginata, seppur vividamente dall’autrice, e qui la musica si fa più complessa, il fingerpicking è più intricato, può ricordare anche la prima Laura Marling (non l’avevamo ancora citata?), poi entra il contrabbasso di Tim Sweeney a scandire il tempo, ci sono i tocchi sonori del produttore Zak Kimball, un trombone con la sordina suonato da Denzell Mendoza, le percussioni di Phillip Rogers, che saranno poi i musicisti presenti anche negli altri sei brani di questo album, solo circa 30 minuti di musica, ma assemblati con certosina pazienza nei Nomah Studio di Kimball, grazie ad un autofinanziamento che ha portato Haley quasi alla bancarotta.

Ma il disco c’è, è bello, comincia a delinearsi, è alt-folk se volete chiamarlo così, ma non solo: Jo,  parte ancora soffusa,  una elettrica accarezzata e la voce della Heynderickx , che comincia ad assumere tonalità quasi leggiadre, grazie al suo vibrato fragile e  forte al contempo, poi entrano il basso e la batteria, la canzone si fa affascinante, ma quando uno sta per dire – toh,  Mary Margaret O’Hara – è già finita, bella però. E Worth It, il brano più lungo con i suoi quasi otto minuti, è ancora più bella, partenza con la solita chitarra elettrica arpeggiata, ma la voce comincia ad essere ancora più ricercata e appassionata, con vocalizzi quasi spericolati, mentre la sezione ritmica vira a tratti verso un rock intenso e i continui cambi di tempo tengono avvinto l’ascoltatore alle derive folk-rock del brano, dove le acrobazie vocali che hanno portato ai paragoni con la O’Hara assumono un senso, grazie anche alla seconda voce della bassista Lily Breshears che rende l’insieme ancora più “spaziale” https://www.youtube.com/watch?v=jnJURSfVoMg . Fosse tutto così l’album sarebbe un capolavoro, ma il disco grida forte “talento al lavoro”, come conferma l’avvolgente ed affascinante Show You A Body, dove il piano della Breshears aggiunge impronte  jazz ad una ballata notturna e complessa, fin troppo concisa nella sua durata, tutto è studiato e realizzato con certosina abilità.

Molto bella anche Untitled God Song con il suo strano approccio con una divinità al femminile e lo stile musicale che di nuovo incorpora l’uso del trombone, e una voluttuosa slide tangenziale nel suo soffuso e delicato folk-rock, dove la voce non domina ma accompagna gli strumenti, e in Oom Sha La la, il brano che contiene il verso “I Need To Start A Garden” che dà il titolo all’album, si incrocia un tema musicale che ricorda a tratti i Velvet Underground e un pigro pop-doo-wop, per  accelerare in un finale in cui la voce assume tonalità quasi isteriche.  A chiudere il tutto di nuovo il delicato folk acustico della cristallina Drinking Song dove si apprezza di nuovo la vocalità inconsueta di Haley Heynderickx, che non sarà Mary Margaret O’Hara ma sicuramente è una delle nuovi voci più interessanti della scena alternativa (e non) e merita di essere conosciuta con questo bel disco.

Bruno Conti

Un’Altra “Esordiente”Tardiva: Il Titolo Potrebbe Ingannare. Juanita Stein – America

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Juanita Stein – America – Nude Music/Handwritten Records

Il nome, e anche il cognome, Juanita Stein, potrebbero far pensare ad una esordiente,  e per certi versi lo è, visto che questo America è il suo primo disco da solista. Ma poi basta indagare brevemente in rete, e si scopre che questa bella quarantenne (eletta nel 2009 dalla rivista online britannica Gigwise nientemeno che “the sexiest woman in rock”) ha già una lunga carriera alle spalle, prima nei Wakiki e poi negli Howling Bells (due band indie alternative rock australiane, la seconda ancora in attività, visto che è condivisa con i due fratelli della Stein), carriera iniziata nel lontano 1999. Questa provenienza ci indica anche che il titolo dell’album, venendo Juanita da Down Under, potrebbe essere fuorviante, ma in effetti si tratta della sua visione, musicale e testuale, dell’America, come si rileva dai testi delle canzoni, contenuti nel libretto del CD, che però non riporta altre indicazioni sui musicisti e sui collaboratori dell’album, anche se una piccola ricerca in rete ci informa che l’album è stato prodotto da Gus Seyffert, musicista americano in azione con Beck, Ryan Adams, di recente nell’ultimo Roger Waters, ma anche con diverse voci femminili, Michelle Branch, Jenny Lewis, Norah Jones e altre che non mi sovvengono al momento ma ci sono, il quale contribuisce al sound di questo album, che vorrebbe miscelare il suono “alternative” della Stein, con un genere più twangy, persino country, con rimandi a Chris Isaak, Roy Orbison e Patsy Cline (questi sarebbero i desiderata e le influenze, poi riuscirci è un altro paio di maniche).

Juanita+Stein

https://www.youtube.com/watch?v=2TL8yGpanYE

In effetti la voce è piacevole, per quanto, a grandi linee, sempre della categoria “sospirose”, paragonata anche, in modo sfavorevole, a Lana Del Rey (manco la musicista newyorkese fosse questo genio assoluto, forse solo per i modaioli), comunque complessivamente l’album è piacevole, ci sono dei brani di buon spessore e altri meno interessanti: l’iniziale Florence ha quel suono twangy, con le chitarre “vibranti” che potrebbero rimandare a Chris Isaak e per relata persona a Roy Orbison, ma poi lo sviluppo sonoro è più contenuto, per quanto sognante, Dark Horse è un buon brano pop-rock che potrebbe ricordare una Neko Case un filo meno talentuosa, con una melodia che rimanda a mille altre canzoni di sue colleghe femminili contemporanee, oltre alla Case, direi anche Hope Sandoval dei Mazzy Star, più psych, però entrambe più di brave di lei, o così mi pare. Black Winds potrebbero essere i Jefferson Airplane di Grace Slick dopo una forte dose di valium https://www.youtube.com/watch?v=9fGUW5E1_5o , mentre I’ll Cry ondeggia tra una roots music decisa e i soliti sospiri affettati e svenevoli che ne rovinano l’effetto, Stargazer, sempre sognante ed eterea è una canzone meglio costruita e più soddisfacente https://www.youtube.com/watch?v=_SfLrOBUCKI , con la voce che mostra interessanti sfumature.

Juanita+Stein 1

https://www.youtube.com/watch?v=I0Qm1zvojlc

Shimmering vira verso un “narcotismo” fin troppo soporifero https://www.youtube.com/watch?v=iEYzyyjhMlw , mentre Someone’s Else Dime indica quale avrebbe potuto essere la strada maestra per un buon album, con soluzioni anche da female sixties pop di buona fattura. Torna la baritone twangy guitar in It’s All Wrong, brano sempre sognante, ma forse un po’ di nerbo maggiore non guasterebbe; insomma un po’ di più rilevante ed autentica sostanza avrebbe giovato, probabilmente anche questo stile avrà i suoi estimatori, come ribadisce Not Paradise, ancora vicina al pop che avrebbe frequentato Dusty Springfield, se invece di cantare avesse sussurrato e cinguettato, comunque in confronto a Carla Bruni, la Stein sembra pur sempre Maria Callas. Alla fin fine i due brani migliori sono quelli conclusivi, una bella country ballad come Cold Comfort, che la stessa Stein avvicina alla musica di Caitlin Rose e la title track America che finalmente esplica, in modo “moderno”e delizioso, il suo amore per la musica di Orbison, Loretta Lynn e Patsy Cline e per gli Stati Uniti tutti, cosa che le farebbe ottenere le classiche tre stellette di stima e di incoraggiamento, visto che la stoffa tutto sommato c’è, se fosse possibile basterebbe affinarla maggiormente, magari con un altro produttore.

Bruno Conti

Come Uragano Sembra Veramente “Piccolo”! Little Hurricane – Same Sun Same Moon

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Little Hurricane – Same Sun Same Moon – Mascot/Provogue           

Di formazioni in duo, solo chitarra e batteria, soprattutto negli ultimi anni, ne sono apparse parecchie: anche con batterista donna, il nome White Stripes dice qualcosa? E in ambito tutto maschile, pure i Black Keys. Nella cartella stampa non vengono citati come riferimenti questi due gruppi, solo esperienze mistiche tra i nativi americani sulle montagne nei pressi di San Diego, California, dove vive e opera la coppia, e ascoltando il disco qualche dubbio viene. Tornando al misticismo, tra l’altro il chitarrista e cantante, tale Anthony “Tone” Catalano ha rischiato di lasciarci la pelle in una di queste “chiamate” spirituali: è sparito ed ha camminato tra le montagne per un giorno ed una notte, ed è stato ritrovato in ipotermia, e ricoverato per insufficienza renale, appunto congelamento, e danni ai piedi che non gli hanno permesso di camminare per un mese. Però la socia e compagna di avventure Celeste “C.C.” Spina, ha detto che l’album è venuto molto bene, sarà. Dai nomi (anzi cognomi) dubito ascendenze italiche, non si sfugge, ma d’ora in poi li chiameremo Tone e C.C. per comodità. Questo Same Sun Same Moon è già il terzo album della loro discografia (quarto se contiamo una raccolta di cover), il primo ad uscire per la nuova etichetta Mascot/Provogue, e dopo essersi sposati nel 2016.

Dicono di essere entrambi fan, tra gli altri, di Van Morrison e Counting Crows, ma lui in precedenza aveva lavorato con Gwen Stefani, fatto l’ingegnere del suono e lavorato in gruppi jazz. Presentati come una band blues, rock e lo-fi, dal loro CV fatto di brani usati in serie televisive, spot pubblicitari e film proprio non di prima categoria, mi pare che, ascoltando il disco, che è uscito il 14 aprile, il genere si potrebbe definire piuttosto come un generico indie o alternative, non malvagio ma nemmeno così innovativo e “mistico” come viene presentato. Insomma il blues lo amano e lo ascoltano, ma lo praticano per vie molto trasversali: prendiamo la title track che apre l’album, sembra uno dei brani tipici di Jack White quando lavora con le sue band alternative, Dead Weather e Raconteurs, comunque una voce piacevole, un arrangiamento basico ma raffinato, basso e batteria molto presenti, la chitarra elementare ma efficace sia in fase ritmica che solista, insomma non ti cambiano la vita, almeno la mia. Bad Business, usata in un gioco della PlayStation MLB The Show 16,  sembra quasi ricordare il primo Sting dei Police in “leggero acido”, la voce è simile e anche i ritmi “angolari” ricordano le cose più strane del trio inglese. OTL, con le sue tastiere e ritmi elettronici aggiunti, le voci pure filtrate, alternate e anche sovrapposte dei coniugi è ancora più “moderna”, ma non mi entusiasma, con la voce di “Tone” che assume tonalità, scusate il bisticcio, tipo l’ultimo Bono degli U2, quelli più pasticciati e meticciati.

Come conferma pure la successiva Isn’t It Great dove si affacciano di nuovo ritmi reggae-rock, quindi fino adesso di Van Morrison, Counting Crows e blues ne ho sentito poco. Tra riverberi vari, ritmi scanditi e melodie radiofoniche si prosegue con Take It Slow, dove Tone e C.C. duettano di nuovo, mentre Lake Tahoe Eyes ha qualche spunto di blues desertico, un’atmosfera sospesa, una chitarra insinuante, ma poi il brano rimane irrisolto e anche un filo narcotico. March Of The Living è un breve e gagliardo brano strumentale dal ritmo più mosso del solito e potrebbe ricordare sia i White Stripes che i Black Keys citati all’inizio, ma l’idea non viene sviluppata e il brano finisce subito. Mt. Senorita sempre con i soliti ritmi scanditi ed ipnotici, questa volta più lenti, sembra appunto musica per illustrare immagini o situazioni e forse in quel ambito potrebbe funzionare, il lavoro della chitarra è interessante, mentre la voce è un filo monocorde https://www.youtube.com/watch?v=AA333KY-GDo . For Life, sempre con la timbrica tra Bono e Sting, è una sorta di ballata futuribile, con una bella melodia, e in effetti potrebbe richiamare vagamente qualcosa dei Counting Crows https://www.youtube.com/watch?v=wFDuhoiPnww  e anche You Remind Me rimane in questo ambito pop raffinato e “reggato”, con una tromba sullo sfondo a cercare di dare profondità al sound. Anche la chitarra acustica della successiva Slingshot tenta altre sonorità, ma non mi sembra memorabile. Mentre l’acquarello acustico della conclusiva Moon’s Gone Gold nella sua semplicità è uno dei brani più riusciti di questo album e potrebbe essere uno sviluppo interessante per il futuro https://www.youtube.com/watch?v=NmrbJ5NuqkE . Per il resto, con Shakespeare direi: “Molto rumore per nulla!”

Bruno Conti