Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni Della Consacrazione 1971-1973

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Proprio il 28 e 29 maggio del 1971 vengono tenuti al Fillmore East di New York, quattro concerti leggendari  (due al pomeriggio e due alla sera, allora usava così), più o meno con delle scalette simili, come testimoniato dal cofanetto quadruplo in CD Performance Rockin’ The Fillmore, The Complete Recordings, uscito nel 2017, ma che all’epoca, nel classico formato del doppio album, fu pubblicato a novembre, e che arrivò al 21° posto delle classifiche di Billboard, vendendo più di mezzo milione di copie.

Si tratta di uno dei doppi Live forse meno conosciuti e celebrati di altri anche inferiori come qualità e contenuti, ma gli Humble Pie, ancora con Frampton in formazione, sono agli apici della loro potenza sonora, con un set incendiario che oltre alle riletture già citate di I’m Ready, Stone Cold Fever e Rollin’ Stone, comprende anche svariate altre cover: la breve Four Day Creep di Ida Cox,  che apre le procedure, con ugole spiegate e le chitarre a fronteggiarsi a tempo di boogie, con Ridley e Shirley che rispondono colpo sul colpo alla coppia Marriott/Frampton, dopo I’m Ready e Stone Cold Fever che rivaleggiavano come potenza di fuoco con i migliori Led Zeppelin, arriva una chilometrica, più di 23 minuti, versione di I Walk On Gilded Splinters di Dr. John, che dalle volute voodoo dell’originale si trasforma appunto in una devastante performance rock-blues, che tra lunghe pause, ripartenze improvvise, assoli di armonica e di chitarre strapazzate senza pietà, celebra il rito del rock-blues più focoso ed impulsivo che si poteva vedere all’epoca sui palcoscenici americani.

Dopo i 16 minuti di Rollin’ Stone, più soul che blues, arriva anche HallelujahI Love Her So, il brano classico di Ray Charles che la band piega con impeto ai propri voleri, pur mantenendo lo spirito dell’originale, per poi chiudere con un altro brano dal repertorio del “Genius”, una incandescente I Don’t Need No Doctor, piena della furia rock’n’rollistica di Steve Marriott, allora 24enne e non ancora provato dagli stravizi con alcol e droghe che da lì a poco gli faranno perdere il filo della storia.

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Ma nel 1972 tutto funziona ancora alla grande: Dave “Clem” Clempson, arrivato in precedenza dai Colosseum per sostituire Frampton nel tour europeo (approdato anche a luglio del 1971 al Vigorelli di Milano, pochi giorni dopo la mattanza dei Led Zeppelin, come spalla dei Grand Funk Railroad), si limita ad essere la seconda chitarra, mentre quasi tutte le composizioni di Smokin’ (****) sono di Steve Marriott, ed il disco, registrato a febbraio, esce a marzo ‘72, entrando per la prima volta al n° 6 negli States e al 20° posto in Inghilterra.

Diventando il loro disco di maggior successo ed enfatizzando quel tipo di sound su cui i Black Crowes hanno costruito, meritatamente, metà della loro carriera (l’altra metà con i Led Zeppelin, e qualche tocco di Faces): il disco è prodotto dallo stesso Steve che però comincia ad avere problemi di salute al termine delle registrazioni, dove spiccano il rock’n’soul con wah-wah di Hot’n’Nasty , il blues carico e selvaggio di The Fixer, la splendida ballata tra soul e gospel You’re So Good For Me con Doris Troy e Madeline Bell alle armonie vocali, con finale estatico https://www.youtube.com/watch?v=0L_AcS6zBSs .

C’mon Everybody di Eddie Cochran viene rallentata ad arte, ma è sempre di una potenza inaudita con Marriott che canta come un uomo posseduto dal R&R, Old Time Feelin’ è un blues acustico cantato da Ridley, con Alexis Korner al mandolino, mentre nella cover di Road Runner/Road Runner’s ‘G’ Jam, c’è Stills ospite alla chitarra, e non possiamo dimenticare 30 Days In The Hole, uno dei loro brani più famosi, a  tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=sdXjm8pZMws , di cui ricordo una versione gagliarda dei Gov’t Mule, per non parlare di un lungo slow blues formidabile come I Wonder, con assolo di wah-wah da sballo https://www.youtube.com/watch?v=KE1y1AUoQrs .

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Eat It (***1/2), un altro doppio album, esce nella primavera del 1973, registrato nello studio casalingo di Marriott, è ancora un successo nelle charts americane, dove arriva fino al 13° posto, un disco che impiega in pianta stabile le Blackberries,  un trio composto da Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews, e che accentua l’anima R&B e soul della band, senza tralasciare il rock: il disco alternava una facciata di pezzi di Marriott, una di cover, di nuovo pezzi originali e poi cover, tra i pezzi di Steve molto buone l’iniziale Get Down To It, la dichiarazione di intenti Good Booze & Bad Women, la melliflua Is It For Love, l’ondeggiante Drugstore Cowboy, la vibrante Black Coffee di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=oqWNGNRX_4s , e le sofferte I Believe To My Soul di Ray Charles e That’s How Strong My Love is, famosa nella versione di Otis Redding, ma l’hanno incisa anche gli Stones, che Marriott omaggia poi con una Honky Tonky Women scintillante, tratta dalla quarta facciata del disco, registrata dal vivo a Glasgow, concerto che si conclude con una versione monstre di oltre 13 minuti di Road Runner dove le chitarre di Clempson e Marriott ruggiscono con forza.

L’inizio della fine 1974-1975

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Nel  febbraio del 1974 esce Thunderbox (***), ancora un buon album che ha un discreto successo negli USA, ma in Inghilterra non viene neppure pubblicato: sette cover e cinque originali, ancora con la presenza delle Blackberries (dove è rimasta solo la Fields) e Mel Collins ospite al sax, la title track potrebbe passare con il suo riff e per il cantato di Marriott, per un brano degli AC/DC se decidessero di darsi al R&B, buone le cover di I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles e della delicata Anna Go To Him di Arthur Alexander, che avevano fatto anche i Beatles, la voce di Steve è sempre eccellente ma il suono non è più quello potente dei dischi precedenti, fin troppo annerito e funky, comunque Ninety-Nine Pounds, Every Single Day e la cover bluesy con uso slide e armonica di No Money Down di Chuck Berry non dispiacciono.

Con la stonesiana Oh La-De-Da che ha lampi del vecchio splendore. In quel periodo Steve Marriott si candida ad entrare appunto negli Stones in sostituzione di Mick Taylor, ma ovviamente, per i problemi di compatibilità con un altro cantante non male, tale Mick Jagger, non se ne fa nulla. Anche il disco solista di Marriott registrato nei ritagli di tempo, tra un disco degli Humble Pie e l’altro, viene “confiscato” dalla A&M e i nastri appaiono ai giorni nostri nell’orrido album della Cleopatra intitolato Joint Effort, di cui leggete in altra parte del blog https://discoclub.myblog.it/2019/03/11/dischi-cosi-brutti-negli-anni-70-non-li-avrebbero-mai-pubblicati-ma-oggi-purtroppo-si-humble-pie-joint-effort/ . Nel frattempo Steve, che comincia a da avere grossi problemi con alcol e droga, di ritorno da un ennesimo tour negli Stati Uniti, scopre che non ci sono più soldi sul conto in banca, e quindi su sollecitazione del manager Dee Anthony decide di registrare un altro disco per la A&M, con la produzione e soprattutto il mixaggio del rientrante Andrew Loog Oldham.

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Il risultato finale del disco pubblicato non piace a nessuno all’interno della band e in effetti Street Rats (*1/2) che esce nel febbraio del 1975 è piuttosto bruttarello: forse, e dico forse, si salvano le tre cover “soulizzate” di brani dei Beatles, We Can Work It Out, Rain e Drive My Car, anche se quest’ultima drammatizzata e cantata da Ridley è alquanto penosa, Greg canta anche con risultati disastrosi Rock And Roll Music di Chuck Berry e altri tre brani. Dopo il tour di addio la band si scioglie, anche se si parla brevemente di proseguire con Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group Mark II, ma non se ne fa nulla.

La Reunion Di Inizio Anni ’80.

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Però alla fine del 1979, proprio con Tench come secondo vocalist e chitarrista, e il nuovo bassista Anthony “Sooty” Jones, decidono di provarci ancora e registrano non uno ma ben due album, che in America escono per la Atco, mentre in Inghilterra, per la serie le sfighe non finiscono mai, vengono pubblicati dalla Jet Records di proprietà del primo manager degli Small Faces,  quel Don Arden (babbo di Sharon, la moglie di Ozzy Osbourne): On To Victory (**) esce nel 1980 e non è neppure orribile come Street Rats,  ma solo un filo migliore; la voce di Marriott è ancora il suo principale atout,però il sound per lunghi tratti è confuso e pasticciato, salverei forse Baby Don’t You Do It, un vecchio brano Motown, che faceva anche la Band e la struggente cover di My Lover’s Prayer dell’amato Otis Redding, ma gli anni ’80 sono iniziati e dal sound si sente, anche se il disco almeno vende.

Go For The Throat (**) , il loro decimo e ultimo album, che viene pubblicato a giugno 1981, non è molto meglio: c’è giusto un po’ di energia superiore nell’iniziale All Shook Up, dove quantomeno le chitarre si fanno sentire, e si salva anche la ripresa della vecchia Tin Soldier degli Small Faces che entra in classifica, e negli altri brani, anche se non c’è di nulla di memorabile almeno sembra che ci sia una maggiore convinzione e grinta, con le chitarre che a tratti ringhiano come ai vecchi tempi. Ma durante la tournée promozionale Marriott si ammala, scopre di avere l’ulcera e quindi le date rinviate, vengono poi cancellate e la casa discografica li scarica.

Una fine ingloriosa. Dopo alcuni anni difficili in cui si ritira nel circuito dei clubs e dei pubs, Marriott agli inizi degli anni ’90 contatta Frampton per scrivere alcune canzoni nuove ed un tentativo di reunion degli Humble Pie, ma il 20 aprile del 1991, Steve Marriott muore orribilmente nell’incendio che distrugge il suo cottage, causato forse da una sigaretta dimenticata accesa prima di andare a dormire. Stendiamo un velo pietoso sul tentativo di reunion del 2002 con l’album Back On Track, dove Ridley e Shirley, ancora una volta con Bobby Tench, tentano di far rivivere il vecchio marchio.

Meglio andarsi a cercare alcuni degli album dal vivo postumi pubblicati nel corso degli anni: Natural Born Boogie del 2000 con le vecchie BBC Sessions, il Live At The Whisky A Go-Go ’69 con un concerto strepitoso, solo 5 brani ma epici, uscito su CD nel 2000 per la Sanctuary, magari anche In Concert con il King Biscuit Flower registrato al Winterland di San Francisco nel 1973. E per i completisti più scatenati i due box della serie Official Bootleg, il primo da 3 CD e il secondo da 5 CD, la qualità sonora non è sempre eccellente, ma ci sono alcune performances memorabili.

That’s All.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte I

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Quando nel gennaio del 1969 Steve Marriott, avendo appena terminato la sua avventura con gli Small Faces, decide di dare l’avvio ad una nuova band, ovvero gli Humble Pie, il musicista londinese ha da poco compiuto 22 anni, ma è tutti gli effetti un veterano sia del pop che del nascente rock britannico. Con gli Small Faces ha avuto un successo clamoroso, sia a livello di singoli che di album, ma in quattro anni di carriera intensa, a causa di uno sciagurato contratto firmato ad inizio carriera con Don Arden, e nonostante fosse anche un icona dello stile Mod e, si mi passate il bisticcio, della moda di Carnaby Street, Marriott si rende conto che il suo conto in banca non è particolarmente florido. E nonostante il passaggio con la Immediate di Andrew Loog Oldham le cose non erano migliorate di molto, quindi dopo l’uscita dello storico album Ogdens’ Nut Gone Flake, che rimane al primo posto della classifica inglese per sei settimane nell’estate del 1968 https://discoclub.myblog.it/2018/12/31/correva-lanno-1968-6-la-ristampa-speriamo-definitiva-di-un-piccolo-capolavoro-small-faces-ogdens-nut-gone-flake-50th-anniversary/ , e riceve anche giustamente critiche entusiaste per il suo stile psichedelico a cavallo tra rock e pop, il nostro amico decide che è tempo di voltare pagina, insoddisfatto della sua immagine troppo legata al pop imperante (per quanto di sopraffina fattura, aggiungo io, ma questa è un’altra storia), proprio durante il concerto di Fine Anno abbandona il palco per iniziare una nuova avventura.

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Gli Immediate Years.
Solo che commette un errore madornale: rimane con l’etichetta di Loog Oldham, ex manager degli Stones, e firma quindi un nuovo contratto con la Immediate Records, che però all’insaputa di Steve versa in cattive acque, visto che già in precedenza non aveva pagato molte delle royalties dovute agli Small Faces per le loro vendite, ma evidentemente questo lo si saprà solo sul finire del 1970, quando l’etichetta andrà in bancarotta. All’inizio dell’anno 1969 nasce però questa sorta di supergruppo (uno dei primi) formato oltre che da Marriott, da Peter Frampton, che non ha ancora compiuto 19 anni, ma è reduce dal successo di una band come gli Herd, con tre Top 20 nelle classifiche, benché molto legata, almeno nella visione di Peter, al pop adolescenziale (per quanto non fossero poi così male, ma anche i Beatles e gli Stones agli inizi non erano completamente soddisfatti della loro immagine).

Insieme a loro il bassista Greg Ridley, che arriva dagli Spooky Tooth, e il giovanissimo batterista Jerry Shirley, che di anni non ne aveva ancora compiuti 17. I quattro entrano negli Olympic Studios di Londra sotto la guida del produttore Andy Johns, fratello del leggendario Glyn, e a sua volta uno dei talenti emergenti in quel campo: per l’occasione iniziano a registrare vario materiale che poi verrà pubblicato nei due album e nel singolo di esordio Natural Born Bugie, che però arriva nei negozi solo ad agosto, preceduto dalle uscite di altre band affiliate a quel nuovo heavy-blues-rock che sta prendendo piede in Inghilterra (ma anche e soprattutto negli Stati Uniti), come quello di Free e Led Zeppelin, questi ultimi guidati dalla voce di Robert Plant, da sempre grande fan di Steve Marriott, fin dai tempi degli Small Faces, di cui gli Zeppelin avevano “utilizzato” il brano You Need Loving (a sua volta una “riscrittura” di un pezzo di Willie Dixon per Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=tp0jZ4BGuDw ) in cui Plant, che lo ammise all’epoca, utilizzava un fraseggio vocale molto simile a quello di Marriott, che però non se la prese più di tanto.

Il singolo arrivò al 4° posto delle classifiche inglesi, ma il successo americano, come era stato per gli Small Faces, rimase una chimera. Comunque il singolo era già un ottimo esempio del rock sanguigno a doppia chitarra solista della band, cantato a turno dai due chitarristi e dal bassista, anche se firmato dal solo Marriott, ha qualche parentela sia con Get Back dei Beatles, per l’uso del piano elettrico, che con il nascente rock-blues, grazie alla voce negroide e potente di Steve. Il primo album As Safe As Yesterday Is (****) esce sempre ad agosto, ma arriva solo al 32° posto delle classifiche UK e ha zero successo negli States: dove però in una ottima recensione su Rolling Stone del 1970, firmata dal futuro punk negli Angry Samoans Mike Saunders, viene usato per una delle prime volte il termine heavy metal. Anche se l’album non è tra i più “duri” degli Humble Pie, che però in molti brani iniziano a “riffare” a destra e a manca, con grande forza e classe, mentre in altri indulgono in un folk-rock pastorale, post mod sound modificato e spunti dei sempre amati da Marriott, blues e soul: il disco, a mio modesto parere, è uno dei loro migliori in assoluto, la title track è un pezzo epico, di grande intensità, e anche Bang ha una forza devastante con le chitarre che mulinano, mentre Ridley pompa il basso alla grande e Shirley picchia come un disperato sui tamburi.

I’ll Go Alone ha un riff devastante simile a quello di Communication Breakdown degli Zeppelin, chi ci sarà arrivato prima https://www.youtube.com/watch?v=9_fBvAbf5d8 ? Mentre Alabama ’69 ha una prima parte folk-blues in linea con il titolo, poi con sitar e flauto aggiunti siamo in pieno trip tra orientale e pastorale; e all’inizio del disco c’è una cover fantastica di Desperation degli Steppenwolf (non a caso i primissimi a usare il termine heavy metal in Born To Be Wild https://www.youtube.com/watch?v=egMWlD3fLJ8 ) , cantata a piena ugola da Marriott, senza dimenticare lo psych-rock di Stick Shift con Marriott alla slide, la trascinante Butter Milk Boy, sempre con le twin guitars assatanate, insomma si fatica a trovare un brano debole, con Peter Frampton che anche a livello vocale risponde colpo su colpo. A differenza del precedente disco, Town And Country (***1/2), esce a sorpresa a  novembre sempre del ’69, sulle more dei grossi problemi della casa discografica, che lo pubblica sperando di bloccare la procedura di bancarotta.

Ma il disco, senza promozione, praticamente sparisce subito dai negozi: peccato perché l’album, concepito nel cottage di Arkesden, una dimora del 16° secolo, l’unica proprietà rimasta a Steve Marriott (credo la stessa dove troverà poi la morte nell’incendio appunto della sua casa nell’aprile del 1991), era diverso dal precedente, a tratti più morbido, ma non privo delle sferzate hard-rock tipiche della band, per parte della critica fu addirittura superiore al primo, che comunque il sottoscritto preferisce. Tra i brani da ricordare la raffinata ballata acustica Take Me Back di Peter Frampton, la bluesata The Sad Bag Of Shaky Jake, un brano di Marriott che i Black Crowes avranno sicuramente apprezzato, il blue eyed soul di Cold Lady, il rock-blues della gagliarda Down Home Again, l’intimista Every Mothers’ Son ancora di Steve, la potente cover di Heartbeat di Buddy Holly, la quasi psichedelica Silver Tongue e la quasi west-coastiana Home And Away https://www.youtube.com/watch?v=LG8VhDzP_LE .

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Gli Anni ” Americani”,  prima parte

Nel 1970 arriva un nuovo manager Dee Anthony, e una nuova etichetta americana, la A&M: il primo disco l’omonimo Humble Pie (***1/2), sempre prodotto da Glyn Johns e sempre registrato agli Olympic Studios di Londra, contiene anche una deliziosa ballata country-folk come la satirica e autoironica Theme from Skint (See You Later Liquidato)r di Steve Marriott, ovvero “Tema di Sono Al Verde (Ci Vediamo più Tardi Liquidatore! https://www.youtube.com/watch?v=cNK2Wc284E0 ), ed è un disco interlocutorio, ma comunque di buona fattura, che contiene un brano notevole come la loro cover di I’m Ready, dell’accoppiata degli amati Dixon/Waters, che sarà un cavallo di battaglia dei loro infuocati concerti negli USA.

Ottime anche l’iniziale Live With Me, una lunga rock ballad dalle atmosfere sospese, la delicata Only A Roach, una ode alla cannabis a tempo di country, con BJ Cole alla pedal steel, la dura e tirata One Eyed Trouser Snake Rumba, tipica del loro sound, mentre il lato più gentile e sognante è rappresentato dalla eterea Earth and Water Song, scritta da Peter Frampton, che lavora anche di fino alla sua elettrica, mentre il boogie-blues potente di  Red Light Mama, Red Hot!, ancora di Marriott, illustra il lato più sanguigno della band e l’ottima Sucking on the Sweet Vine di Greg Ridley, che la canta, sembra quasi un brano dei Genesis o dei King Crimson.

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L’anno successivo, a marzo del 1971, sempre registrato a Londra con Glyn Johns, esce Rock On (****), il primo disco a fare capolino nelle classifiche americane, solo al 118° posto, ma è un inizio, poi alimentato da una serie di concerti fantastici sul suolo americano che ne alimentano la leggenda di rockers intemerati: il disco contiene Shine On di Frampton, che poi farà parte del suo repertorio futuro (anche in Frampton Comes Alive), con tre formidabili vocalist aggiunte come P P Arnold, Doris Troy, Claudia Lennear, ma soprattutto i futuri cavalli di battaglia dal vivo, la devastante Stone Cold Fever, con un riff memorabile, e la epica Rollin’ Stone di Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=ys-AXAry3Yk , con l’aggiunta delle robuste Sour Grain e Strange Days, della delicata A Song For Jenny, dedicata alla prima moglie di Marriott (inseguita a lungo), del funky-rock di The Light, ancora di Frampton, che sembra quasi un brano dei Little Feat, completano un album tra i loro migliori in assoluto.

Fine della prima parte, segue…

Bruno Conti

L’Integrale Di Uno Dei (Pochi) Grandi Musicisti Italiani! Francesco De Gregori – Backpack Prima Parte

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Francesco De Gregori – Backpack – RCA Box Set 34CD

Qualche cantante famoso all’estero lo abbiamo anche in Italia, ma sono perlopiù nomi che su questo blog non leggerete mai (Laura Pausini, Il Volo, Andrea Bocelli, Zucchero), di bravi ne abbiamo tanti (due nomi a caso: Massimo Bubola e Fiorella Mannoia), ma, a mio parere, nel nostro paese abbiamo avuto negli anni ben pochi musicisti, tra quelli famosi, che potessero essere messi sullo stesso livello delle grandi star internazionali, anzi direi che si possono contare sulle dita di una mano: Fabrizio De Andrè, Franco Battiato (che però spesso parte per la tangente), Paolo Conte e quello che considero il migliore di tutti (su De Andrè di poco però), cioè Francesco De Gregori (e no, non ho dimenticato Lucio Battisti, semplicemente non mi ha mai fatto impazzire).

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Il musicista romano oggetto del post odierno è, sempre a mio parere, il miglior cantautore nostrano degli ultimi 45 anni: De Gregori infatti, dopo gli inizi incerti tra folk e pop, ha subito maturato un suo stile ben preciso (anche se l’influenza di Bob Dylan è sempre stata ben presente, e spesso Francesco su questo ci ha giocato), fatto di canzoni profondamente diverse dal solito cliché voce-chitarra-armonica, ma introducendo sin dai primi anni sonorità e ritmiche molto poco italiane, guardando spesso oltreoceano, e scrivendo testi talvolta ermetici, talvolta poetici, qualche volta politici, altre volte profondamente sarcastici, ma mai banali o risaputi, arrivando a poco a poco (verso la fine degli anni ottanta) ad introdurre suoni decisamente rock, specie dal vivo, dove spesso cambia anche gli arrangiamenti delle sue canzoni più note, rinnovandole di volta in volta.

L’occasione di parlare della discografia del Principe (il suo soprannome “ufficiale”) mi è data dalla pubblicazione, giusto prima del Natale scorso, di questo sontuoso cofanetto, piccolo e compatto nel formato ma ricco nei contenuti: il titolo è Backpack, e contiene l’opera omnia del nostro, 32 album tra studio e live (due sono doppi), completamente rimasterizzati (ma senza bonus tracks) ed in pratiche confezioni in simil-LP, accompagnati da uno splendido libro a cura di Enrico Deregibus, che narra disco per disco la storia di Francesco, corredando il tutto con diverse foto rare (NDM: il sottotitolo del box è Le Registrazioni Originali 1970-2015, e sinceramente non capisco perché, dato che il primo album incluso è del 1972). Un’opera importante (anche nel prezzo), che di solito le case discografiche dedicano solo ai loro artisti di punta: gli album ci sono proprio tutti, ad eccezione del live del 2010 con Lucio Dalla Work In Progress (ma c’è lo storico Banana Republic), il collettivo In Tour (con Pino Daniele, la Mannoia e Ron) ed il semi-antologico, ma con diversi inediti anche dal vivo, Mix del 2003. Procederei dunque ad una (rapida?) disamina.

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Theorius Campus (1972): album inciso in duo con Antonello Venditti, ci mostra un De Gregori ancora acerbo ed indeciso su quale direzione prendere, con diversi elementi pop alla Donovan che non ritroveremo in seguito, un brano in inglese (Little Snoring Willy) e la bella Signora Aquilone, che pur con qualche ingenuità ci fa intravedere il talento del nostro. Andrà meglio al socio e concittadino Venditti, dato che il disco contiene la famosissima Roma Capoccia.

Alice Non Lo Sa (1973): l’enigmatica quasi-title track (nel senso che si intitola solo Alice) è ancora oggi uno dei brani più popolari di Francesco, ma il resto del disco non ha lo stesso impatto e qualcuno comincia ad accusare il nostro di eccessivo ermetismo, anche se La Casa Di Hilde e la toccante 1940 sono due canzoni di ottimo livello.

Francesco De Gregori (1974): meglio conosciuto come “La Pecora” per via della copertina, questo album si apre con un uno-due magistrale costituito da Niente Da Capire (in cui il nostro si fa beffe di chi tenta di decifrargli i testi) e Cercando Un Altro Egitto, ma il resto, pur non sfigurando, è inferiore e tradisce ancora qualche ingenuità, proseguendo talvolta sulla strada dell’ermetismo (Informazioni Di Vincent è una delle canzoni più incomprensibili del songbook degregoriano). Forse l’album meno amato dal suo autore.

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Rimmel (1975): al quarto disco, il nostro sfonda: Rimmel è uno dei dischi più di successo di Francesco, e per molti ancora oggi è il suo album migliore, con brani magnifici come la splendida title track, una delle più belle canzoni italiane di sempre, il valzer folk Buonanotte Fiorellino, la struggente Pablo (scritta con Dalla), le bellissime Pezzi di Vetro e Piccola Mela, nella quale De Gregori dimostra anche di cavarsela benissimo anche come cantante. (*NDB E Le Storie Di Ieri?)

Bufalo Bill (1976): altro bel disco, che però non ottiene il successo del precedente. La title track ha una struttura decisamente complessa, quasi fosse una mini-suite di quattro minuti, ed è ancora oggi molto apprezzata, ma gli altri brani sono conosciuti solo tra i fans più assidui, pezzi come Ninetto E La Colonia, L’Uccisione Di Babbo Natale, Santa Lucia e Festival, dedicata a Luigi Tenco. Per anni De Gregori stesso indicherà questo album come il suo preferito.

De Gregori (1978): un disco breve ma bello, che inizia con la classica Generale, uno dei due-tre pezzi del nostro che conoscono tutti, ma che comprende anche il country di Natale, due versioni molto diverse di Renoir e l’autobiografica Il ’56.

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Banana Republic (1979): primo e per molto tempo unico live album del Principe (che però dagli anni novanta assumerà cadenze degne dei Grateful Dead o di Joe Bonamassa), per di più condiviso con Lucio Dalla. Gli highlights sono senz’altro la guizzante title track, traduzione di un pezzo di Steve Goodman, una cover scanzonata di Un Gelato Al Limon (di Paolo Conte), e la hit dell’epoca del duo, Ma Come Fanno I Marinai.

Viva L’Italia (1979): bellissimo disco, curatissimo nei suoni, la cui produzione viene affidata addirittura ad Andrew Loog Oldham, noto per i suoi lavori anni sessanta coi Rolling Stones, e con all’interno musicisti inglesi: la title track è un bellissimo atto d’amore di Francesco verso il nostro paese (pur con tutte le sue contraddizioni), ma nell’album trovano posto anche gemme come Gesù Bambino, Stella Stellina e la lunga Capo D’Africa.

Titanic (1982): tre anni di pausa, ma ne valeva la pena: Titanic non è un vero e proprio concept, ma almeno tre brani girano intorno al famoso transatlantico (e comunque il mare è un argomento che ricorre spesso nei testi di De Gregori), e cioè l’allegra title track e le intense I Muscoli Del Capitano (tra le più amate dal suo autore) e L’Abbigliamento Di Un Fuochista. L’album ha un grande successo, anche per la presenza della splendida La Leva Calcistica Della Classe ’68, una parabola della vita che è anche tra le ballate più note del nostro. Detto anche del quasi rock’n’roll di Rollo & His Jets, l’unica cosa davvero brutta è la copertina.

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La Donna Cannone (1983): primo ed unico EP (all’epoca chiamato QDisc) della discografia degregoriana, inciso dietro la richiesta di musiche per il film Flirt con Monica Vitti. Cinque pezzi in tutto, due strumentali di poco conto e due canzoni di cui non si ricorda nessuno (ma La Ragazza E La Miniera è bella), perché la scena se la ruba tutta la title track, ancora oggi la più celebre canzone di De Gregori, una ballata pianistica di straordinario impianto melodico ed eseguita alla grande (anche se con qualche etto di melassa di troppo), un brano che è diventato un vero e proprio standard della musica italiana. Inutile dire che le vendite andranno alle stelle.

de gregori scacchi e tarocchi de gregori terra di nessuno de gregori mira mare

Scacchi E Tarocchi (1985): tanto languido nei suoni era l’EP La Donna Cannone, quanto tignoso è questo nuovo album, con due brani prodotti da Ivano Fossati e, in altri due, la sezione ritmica più “in” dell’epoca, formata dai giamaicani Sly Dunbar e Robbie Shakespeare (e si sentono). Un disco solido e ben costruito, anche se poco commerciale: il classico è la ballata La Storia (della quale Francesco include il demo, che giudica perfetto così com’è), ma poi ci sono anche la commossa A Pa’ (dedicata a Pasolini), la ritmata Sotto Le Stelle Del Messico A Trapanar e la spigolosa title track. In questo disco si inaugura anche la lunga collaborazione tra Francesco ed il bassista Guido Guglielminetti, ancora oggi direttore musicale della live band del cantautore romano.

Terra Di Nessuno (1987): uno dei dischi meno considerati del nostro, ed uno di quelli che hanno venduto meno, risentito oggi si rivela un lavoro solido e compatto, a cui manca forse il brano di punta (ma la potente Il Canto Delle Sirene è tra le sue più belle degli ultimi anni), ma contiene ottime cose come Capataz, I Matti e l’intensa Pane E Castagne.

Miramare 19.4.89 (1989): uno dei migliori dischi degregoriani, ed il primo ad avere una decisa impronta rock, con uno spostamento abbastanza netto verso testi di scottante attualità (e densi di sarcasmo): la splendida Bambini Venite Parvulos maschera la durezza delle parole dietro uno scintillante arrangiamento folk-rock, la caustica Dr. Dobermann è addirittura reggae, mentre Pentathlon, Carne Di Pappagallo e 300.000.000 Di Topi sono gli altri highlights di un disco di un artista in grande spolvero.

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Catcher In The Sky, Niente Da Capire, Musica Leggera (1990): con una mossa rivoluzionaria (e criticatissima), De Gregori pubblica tre distinti album dal vivo contemporaneamente, con esiti eccellenti. Non sono tre dischi a tema, ed a parte La Storia le canzoni non si ripetono (tranne Alice e Viva L’Italia c’è tutto il meglio del barbuto songwriter): è qui che Francesco inizia a modificare gli arrangiamenti originali ed a rivestire i brani di una patina rock che negli anni si farà sempre più marcata: basti sentire la strepitosa resa di Cercando Un Altro Egitto (praticamente un’altra canzone), ma anche le più recenti Bambini Venite Parvulos ed Il Canto Delle Sirene ne escono rinvigorite.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi