“Nuovi” Dischi Live Dal Passato 3. Heart – Live In Atlantic City

heart live in atlantic city

Heart – Live In Atlantic City – EarMusic/Edel CD/BluRay

Le Heart, noto duo formato da Ann e Nancy Wilson, non si sono mai tirate indietro quando si è trattato di immettere sul mercato degli album dal vivo. Solo negli ultimi cinque anni ci sono state ben quattro uscite registrate on stage (Fanatic Live, il natalizio Home For The Holidays, Live At The Royal Albert Hall con l’orchestra https://discoclub.myblog.it/2016/12/24/un-po-di-sano-classic-rock-al-femminile-heart-live-at-the-royal-albert-hall/  ed il Live At Soundstage), ed ora la label tedesca Edel va ad infittire il gruppo con questo Live In Atlantic City, pubblicato nel doppio formato CD/BluRay e registrato nel marzo del 2006 nell’ambito della trasmissione a sfondo rock Decades Live (la stessa da cui è stato tratto il disco dallo stesso titolo dei Lynyrd Skynyrd uscito lo scorso anno). Mercato inflazionato o no, le Wilson Sisters dal vivo sono sempre un bel sentire, dato che stiamo parlando forse del miglior gruppo rock al femminile in circolazione (in realtà un duo, la backing band è sempre stata molto variabile): Nancy è una valida chitarrista ritmica e ha sempre avuto un’eccellente presenza scenica, mentre Ann, a discapito di un fisico non esattamente da pin-up, ha mantenuto negli anni una potenza vocale formidabile, una sorta di versione femminile di Robert Plant, non a caso il cantante che l’ha influenzata di più.

Live In Atlantic City riassume in quattordici canzoni una performance molto solida del gruppo (completato dal chitarrista Craig Bartok, dalla tastierista Debbie Shair e dalla sezione ritmica formata da Mike Inez e Ben Smith), con l’aggiunta di diversi ospiti la cui presenza, va detto, è sempre in secondo piano rispetto a quella delle due sorelle Wilson, che restano indubbiamente le mattatrici della serata. I primi tre pezzi vedono salire sul palco Dave Navarro, chitarrista di Jane’s Addiction e Red Hot Chili Peppers: l’inizio è appannaggio di Bébé Le Strange, versione potente e decisamente zeppeliniana, con sezione ritmica granitica, chitarre in gran spolvero ed Ann che “addenta” da subito la canzone con la sua solita grinta. Straight On è un bell’esempio di funky-rock godibile dalla prima all’ultima nota, con un refrain diretto e vincente ed Ann che tira fuori una voce della Madonna, mentre Crazy On You è una delle signature songs del duo, un pezzo rock tirato ed elettrico, grande riff d’apertura e ritornello epico. All’epoca di questo show l’ultimo album delle due sorelle era Jupiters Darling, dal quale viene tratta Lost Angel, elettroacustica e folkeggiante (ma sempre alla maniera dei Led Zeppelin); a proposito di Zeppelin, nel CD troviamo due notevoli cover dello storico gruppo di Page e Plant, e cioè una devastante Rock’n’Roll in cui Ann e Nancy sono raggiunte da Gretchen Wilson e, ancora con Navarro, una altrettanto roboante interpretazione di Misty Mountain Hop, che non sfigura di fronte all’originale.

Gretchen (che porta dunque a tre il numero di Wilson sul palco) è presente anche nella rilettura di Even It Up, possente rock’n’roll con ritmo e chitarre come si non ci fosse domani, mentre Dog And Butterfly, una bellissima ballata acustica, viene cantata a due voci insieme a Rufus Wainwright. Non ho mai amato gli Alice In Chains, e sinceramente non capisco la loro “intrusione” (insieme all’ex Guns’n’Roses Duff McKagan) dato che non interagiscono con le Heart ma si limitano ad eseguire due brani del proprio repertorio (Would? e Rooster); per fortuna subito dopo abbiamo una strepitosa versione lenta ed acustica di Alone, forse la ballata più bella di sempre delle Heart, nella quale Ann duetta con Carrie Underwood regalandoci una prestazione vocale da pelle d’oca. Finale senza ospiti con tre classici assoluti del songbook delle due Wilson: la mossa Magic Man, ancora influenzata dal Dirigibile, una fluida e scintillante Dreamboat Annie, molto folk e con assolo di flauto da parte di Ann, e chiusura con la potentissima e sanguigna Barracuda. Non sono contrario di principio al proliferare di album dal vivo delle Heart: finché la qualità è quella di Live In Atlantic City possono pubblicarne anche uno ogni tre mesi, io non mi stanco di sicuro.

Marco Verdi

Una Delle Sorprese Piacevoli Di Quest’Ultimo Periodo. E Che Voce! Ann Wilson – Immortal

ann wilson immortal 14-9

Ann Wilson – Immortal – BMG CD

Mi sono sempre piaciute le Heart, duo femminile formato dalle sorelle Ann e Nancy Wilson, sia nelle loro espressioni più rock (spesso influenzate dai Led Zeppelin), sia nelle pagine più AOR della loro carriera (la seconda metà degli anni ottanta) https://discoclub.myblog.it/2016/12/24/un-po-di-sano-classic-rock-al-femminile-heart-live-at-the-royal-albert-hall/ , anche se non le ho mai seguito più di tanto né i loro progetti collaterali (The Lovemongers) né i loro album solisti. Sono stato però da subito incuriosito da questo Immortal, nuova fatica di Ann Wilson senza la sorella Nancy (ad undici anni dal suo primo solo album Hope & Glory, mentre i due EP a nome Ann Wilson Thing sono storia recente), in quanto trattasi di un album di cover. Fin qui nulla di strano, anche Hope & Glory non presentava brani originali, ma qui Ann ha deciso di omaggiare artisti che l’hanno influenzata od altri che semplicemente le piacciono, però con il comune denominatore del fatto che tutti i dieci nomi omaggiati sono ormai passati a miglior vita. Un tributo quindi sentito a musicisti che non sono più tra noi, con alcune scelte logiche ed altre decisamente più sorprendenti (lo dico subito, gli Zeppelin non ci sono, forse Ann ha considerato John Bonham un personaggio “collaterale” per quanto riguarda le composizioni dello storico gruppo).

Il disco, prodotto dalla Wilson insieme a Mike Flicker, è decisamente riuscito, in quanto Ann nella maggior parte dei casi reinterpreta brani più o meno noti con indubbia personalità, senza riproporre delle copie carbone degli originali, ed in più confermando di avere una delle più belle e potenti voci dell’intero panorama rock femminile. Un valido aiuto glielo ha dato anche la house band (Craig Bartok, chitarre, Andy Stoller, basso, Daniel Walker, tastiere, e Denny Fongheiser, batteria) ed un ridotto numero di validissimi ospiti che vedremo tra poco. Da un cover album di Ann Wilson mi sarei forse aspettato una preponderanza di omaggi a cantanti donne, ma in realtà ne troviamo solo due: You Don’t Own Me, grande successo della quasi dimenticata Lesley Gore, apre il CD in maniera splendida, con nientemeno che Warren Haynes alla chitarra solista, una versione solida, potente e bluesata, molto diversa dall’originale, cantata in maniera divina da Ann e con Warren che fende l’aria da par suo (e la mente va alle migliori pagine della collaborazione tra Beth Hart e Joe Bonamassa), mentre la nota Back To Black, di Amy Winehouse, è tutta giocata sulla vocalità profonda e ricca di sfaccettature della Wilson, un’interpretazione drammatica e densa di pathos (il languido violino è di Ben Mink, noto per le sue collaborazioni con k.d. lang) che rende giustizia nel modo migliore alla cantautrice inglese entrata a far parte del cosiddetto “Club dei 27”.

Ann si ricorda anche di Chris Cornell, ma non ripropone un pezzo dei Soundgarden, bensì degli Audioslave, I Am The Highway, che diventa una toccante rock ballad elettroacustica, cantata ancora splendidamente e con voce leggermente arrochita, mentre l’accompagnamento è limpido e scintillante, quasi di stampo californiano: bella canzone e grandissima interpretazione, una delle migliori del disco. Non viene dimenticato Tom Petty, anche se viene scelta la poco nota Luna (dal disco d’esordio del 1976 del biondo rocker), ancora con Haynes protagonista: la struttura del pezzo rimane “pettyana”, ma Warren le dona un tocco blues ed Ann canta in maniera decisamente sensuale, aiutata anche dal ritmo soffuso del brano. Grande classe. Anche I’m Afraid Of Americans non è tra i pezzi più noti di David Bowie (scritta dal Duca Bianco con Brian Eno, era sul controverso Earthling del 1997), ed Ann elimina le sonorità techno e drum’n’bass dell’originale e la indurisce oltremodo, con un mood quasi zeppeliniano (eccallà, direbbero a Roma), complici anche certi passaggi strumentali orientaleggianti: versione tosta di un brano comunque non memorabile. Con Politician (Cream, l’omaggio è chiaramente per Jack Bruce) la Wilson è invece nel suo ambiente naturale: canzone che già in origine era possente e granitica, e la “sorellona” non deve far altro che sfoderare la sua voce più “plantiana” per portare a casa il risultato, aiutata anche dagli ottimi interventi alla solista di Doyle Bramhall II https://www.youtube.com/watch?v=5qLRh6vYqqU .

Cambio completo di registro con la soffusa A Thousand Kisses Deep di Leonard Cohen, guidata ancora dal violino di Mink e con un background musicale da club jazz-lounge (ed anche i rumori di sottofondo sembrano provenire dall’interno di un bar), con la Wilson che mostra di saper usare anche il fioretto, modulando la voce con un tono confidenziale da femme fatale. Forse per omaggiare Glenn Frey c’erano canzoni più rappresentative di Life In The Fast Lane, che vede sì Glenn tra gli autori ma è sempre stata una canzone più di Henley e Walsh: Ann elimina il noto riff chitarristico, rallenta il tempo e le dona un sapore funky ed un arrangiamento moderno che non mi convince molto, anche se un mezzo scivolone si può perdonare. Come chiusura dell’album ecco due brani che non mi aspettavo: A Different Corner è un pezzo di George Michael, uno che non mi sarebbe mai passato per la testa di omaggiare, ma Ann non la pensa come me e ne fornisce una rilettura fin troppo sofisticata, che non solleva i dubbi del sottoscritto né sulla canzone né sull’arrangiamento un po’ artefatto; meglio Baker Street, il classico per antonomasia di Gerry Rafferty: ritmo accelerato, arrangiamento anche qui moderno ma con un marcato mood folk-rock, ed un notevole crescendo elettrico che rinuncia al celebre riff di sax: quasi un’altra canzone.

A parte un paio di incertezze, Immortal è quindi un gran bel disco, ed Ann Wilson conferma di avere una voce straordinaria, unita ad una capacità interpretativa non comune.

Marco Verdi

Anticipazioni Della Settimana (Ferr)Agostana, Prossime Uscite Di Settembre: Parte III. Richard Thompson, Steve Forbert, Ann Wilson, Alejandro Escovedo, Paul Weller, Willie Nelson

richard thompson 13 rivers 14-9

Ed eccoci arrivati alle uscite di venerdì 14 settembre, forse la settimana che presenta complessivamente i titoli più interessanti a livello qualitativo in programma nel prossimo mese.

Proprio Richard Thompson è una delle garanzie assolute di qualità, per il sottoscritto uno dei cinque/dieci artisti ancora in attività dagli anni ’60 più importanti a livello della quasi “inesorabilità” del valore delle sue opere, sempre uniche e riuscite, quasi una sorta di unicum senza paragoni. Ancora prolifico ma non a scapito del suo livello artistico: dopo un paio di album di materiale acustico .https://discoclub.myblog.it/2017/10/18/non-ce-due-senza-tre-revisited-richard-thompson-acoustic-rarities/ , Thompson ritorna a pubblicare un album di studio, il primo dopo Still del 2015 e il suo 19°, composto di brani completamente nuovi, intitolato 13 Rivers, esce per la Proper in Europa e per una nuova etichetta, la New West, negli Stati Uniti.

Nel disco, registrato ai Boulevard Recording Studios di Los Angeles, California (che con il vecchio nome di The Producers Workshop erano di proprietà di Liberace ed il luogo in cui gli Steely Dan registravano i loro dischi e anche dove è stato mixato The Wall); a fianco di Thompson ci sono gli abituali collaboratori Michael Jerome alla batteria e Taras Prodaniuk al basso, con l’aggiunta di Bobby Eichorn, che abitualmente è lo stage manager e tecnico delle chitarre nei tour, ma essendo anche musicista appare come secondo chitarrista nel nuovo album. Come il titolo lascia facilmente presumere i brani contenuti nel CD sono 13. Ecco la tracklist completa.

1. The Storm Won’t Come
2. The Rattle Within
3. Her Love Was Meant For Me
4. Bones Of Gilead
5. The Dog In You
6. Trying
7. Do All These Tears Belong To You?
8. My Rock, My Rope
9. You Can’t Reach Me
10. O Cinderella
11. No Matter
12. Pride
13. Shaking The Gates

Dai due brani presentati in anteprima mi sa che ancora una volta Richard Thompson ha centrato l’obiettivo.

steve forbert the magic tree 14-9

Steve Forbert non è sicuramente ai livelli di Thompson, ma è uno che negli ultimi anni sia con dischi nuovi che con le ristampe potenziate dei suoi vecchi album ha dimostrato di essere tra i migliori cantautori americani e nello stesso giorno del disco verranno pubblicate anche le sue memorie Big City Cat – My Life in Folk-Rock, che indicano chiaramente quale sia stato il suo stile musicale nei 40 anni di carriera del musicista nativo della zona del Mississippi ma da sempre legato alla scena musicale di New York (lui, Willie Nile e Carolyn Mas muovevano i primi passi nello stesso periodo di fine anni ’70).

Il materiale del nuovo album proviene da vecchi demo, provini e canzoni non utilizzate, ripulite, riviste e a cui è stata aggiunta una nuova base musicale e che suonano fresche come le migliori, anche del suo passato https://discoclub.myblog.it/2015/11/03/musicista-che-si-compromette-nel-titolo-del-disco-steve-forbert-compromised/ .Il disco, The Magic Tree, uscirà per la etichetta Blue Rose Music distribuita dalla Alliance negli States: prodotto da  Karl Derfler (Tom Waits, No Doubt, Two Gallants) è stato registrato tra Meridan  (il suo luogo di nascita) New York,il New Jersey, e Nashville dove Forbert vive da molti anni. Il tutto è anche una sorta di colonna sonora della sua autobiografia e presenta queste 12 tracce.

1. The Magic Tree (Version One)
2. That’d Be Alright
3. Carolina Blue Sky Blues
4. Let’s Get High
5. Tryna Let It Go
6. Lookin’ At The River
7. Diamond Sky
8. Movin’ Though America
9. I Ain’t Got Time
10. The Magic Tree (Version Two)
11. Only You (And Nobody Else)
12. The Music Of The Night

ann wilson immortal 14-9

Non è che la discografia come solista di Ann Wilson al di fuori delle Heart sia particolarmente abbondante: a memoria mi pare di ricordare solo un disco precedente a questo Immortal, ovvero Hope And Glory del 2007. La Wilson, reduce dal recente tour americano insieme a Paul Rodgers Jeff Beck che sta terminando in questi giorni, pubblicherà per la BMG il 14 settembre questo nuovo disco costituito solo da cover di autori scomparsi, tra i preferiti della cantante canadese: il repertorio è quantomai eclettico, infatti ci sono canzoni degli artisti più disparati.

“A Different Corner” (George Michael)
“A Thousand Kisses Deep” (Leonard Cohen)
“Back to Black” (Amy Winehouse)
“Baker Street” (Gerry Rafferty)
“I Am the Highway” (Chris Cornell, Audioslave)
“I’m Afraid of Americans” (David Bowie)
“Life in the Fast Lane” (Joe Walsh, The Eagles) in honor of Glenn Frey
“Luna” (Tom Petty)
“Politician” (Cream) in honor of Jack Bruce
“You Don’t Own Me” (Lesley Gore)

Vedremo e sentiremo, la voce sembra strepitosa come sempre e anche l’arrangiamento del primo brano rilasciato non è affatto male.

alejandro escovedo the crossing 14-9

Il texano Alejandro Escovedo negli ultimi anni sta vivendo una sorta di seconda giovinezza a livello discografico: gli ultimi album Big Station (2012)  e Burn Something Beautiful (2016), ma anche il precedente Street Songs Of Love del 2010 erano tra i suoi migliori in assoluto di sempre. Ora arriva questo nuovo The Crossing, registrato in Italia con Don Antonio, la band di Antonio Gramentieri, che è una sorta do concept album sulla storia di due giovani immigranti diretti verso gli Stati Uniti, che sono uniti dal comune amore per il punk rock e dalla lotta contro il razzismo e la discriminazione appunto verso gli immigrati. A livello musicale, come ospiti, appaiono Wayne Kramer (MC5), Joe Ely, che firma una delle canzoni più belle, la splendida ballata Silver City e Peter Perrett e John Perry degli Only Ones.

Lista completa dei brani, e qui sopra una anticipazione dell’album.

1. Andare
2. Footsteps In The Shadows
3. Texas Is My Mother
4. Teenage Luggage
5. Something Blue
6. Outlaw For You
7. Amor Puro
8. Waiting For Me
9. How Many Times
10. Cherry Blossom Rain
11. Sonica USA
12. Rio Navidad
13. Silver City
14. Fury And Fire
15. Flying
16. MC Overload
17. The Crossing

paul weller true meanings 14-9

14° album solista per Paul Weller, dopo il non esaltante Saturn’s Pattern del 2015 e il discreto A Kind Of Revolution dello scorso anno. Quest’anno a maggio Weller ha compiuto 60 anni e questo True Meanings potrebbe essere il disco della maturità che contiene anche Aspects, la canzone scritta per festeggiare il suo genetliaco, una collaborazione a livello testi con Conor O’Brien dei Villagers e tre con Erland Cooper di Erland & The Carnival. Nel disco, registrato in soli tre giorni con l’aiuto della Paul Weller Band, sono stati aggiunti anche degli eleganti e complessi arrangiamenti orchestrali, e vede una lunga lista di ospiti in parte sorprendenti: per esempio le leggende del folk britannico Danny Thompson e Martin Carthy, alle tastiere in un paio di brani Rod Argent dei leggendari Zombies, Little Barrie alle chitarre e Lucy Rose alle armonie vocali, oltre all’amico Noel Gallagher.

Il risultato che dicono sia uno degli album più eclettici (e più belli, a giudicare dalle prime canzoni) pubblicati dal Modfather of Rock, uscirà il 14 settembre per la Parlophone, anche in una edizione Deluxe con cinque tracce in più, che però sono tre remix e due strumentali, oltre ad una confezione più lussuosa (e costosa), quindi occhio. Ecco la lista dei brani, senza le bonus.

1. The Soul Searchers
2. Glide
3. Mayfly
4. Gravity
5. Old Castles
6. What Would He Say?
7. Aspects
8. Bowie
9. Wishing Well
10. Come Along
11. Books
12. Movin On
13. May Love Travel With You
14. White Horses

willie nelson my way 14-9

Willie Nelson nella sua lunga carriera, oltre alla musica country, ha dedicato parecchi album a quello che abitualmente si chiama il Great American Songbook, da Stardust Somewhere Over The Rainbow, passando per What A Wonderful World, American Classic, Summertime: Willie Nelson Sings Gershwin, e vari altri, anche lo strumentale Night And Day. Ma mancava un disco dedicato proprio al repertorio di Frank Sinatra, e quindi il buon Willie si sarà detto, se Dylan ne ha incisi addirittura tre, almeno uno facciamolo. Quindi ha chiamato il fido Buddy Cannon e anche con l’aiuto del grande pianista Matt Rollings ha realizzato questo My Way, già annunciato da aprile e che uscirà per la Sony Legacy sempre il 14 settembre. Solo undici brani, alcuni già incisi in passato da Nelson, tra cui il suo cavallo di battaglia, One For My Baby (And One More For The Road), oltre al duetto con Norah Jones in What Is Thing Thing Called Love, una canzone di Cole Porter.

Come di consueto ecco la tracklist completa. Al solito un disco eccellente, 85 anni suonati e non sentirli!

1. Fly Me To The Moon
2. Summer Wind
3. One For My Baby (And One More For The Road)
4. A Foggy Day
5. It Was A Very Good Year
6. Blue Moon
7. I’ll Be Around
8. Night And Day
9. What Is This  This Thing Called Love(with Norah Jones)
10. Young At Heart
11. My Way

 Anche per oggi è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

Qualche Disco (Dal Vivo) Per L’Estate –Parte 2. David Bowie – Welcome To The Blackout/Heart – Live At Soundstage

david bowie welcome to the blackout heart live soundstage

David Bowie – Welcome To The Blackout (Live London ’78) – Parlophone/Warner 2CD

Heart – Live At Soundstage – BMG CD/DVD

Dopo avervi parlato dell’ottimo nuovo volume degli archivi dei Rolling Stones, ecco due altre interessanti proposte dal vivo, abbastanza diverse tra loro ma con il comune denominatore della buona musica. Welcome To The Blackout è un doppio CD intestato a David Bowie, che era già uscito questa primavera in vinile per il Record Store Day (esattamente come Cracked Actor dello scorso anno), e documenta l’ultimo concerto del segmento europeo dell’Isolar II Tour del Duca Bianco del 1978 (registrato all’Earl’s Court di Londra), una tournée mondiale che promuoveva i primi due album della cosiddetta “trilogia berlinese”, Low e Heroes (Lodger sarebbe uscito l’anno successivo), insieme ad una delle band migliori della sua lunga carriera: Carlos Alomar ed il bravissimo Adrian Belew alle chitarre, Sean Mayes al piano, George Murray al basso, Dennis Davis alla batteria, Simon House al violino e Roger Powell al synth.

Un concerto bello, teso, molto rock, con Bowie carismatico e teatrale come sempre, ed una larga rappresentanza di pezzi tratti dai due album berlinesi (11 su 24 totali, di cui ben 10 su 12 nel primo CD): dopo l’intro strumentale, invero un po’ tetro, di Warszawa, i brani migliori presi da questi due lavori sono la fluida rock ballad Be My Wife, che neppure un invadente synth riesce a rovinare, la potente e diretta Blackout, e naturalmente le due più famose, cioè l’algida ma accattivante Sound And Vision e soprattutto la splendida Heroes, con un grande Belew. Ci sono anche diverse canzoni non molto note del songbook bowiano, e che raramente verranno riprese in seguito, tra cui l’intensa ballad Five Years, cantata benissimo da David, e la coinvolgente e teatrale Alabama Song. Ovviamente non possono mancare i classici, come la saltellante e quasi bluesata (alla maniera di Bowie) The Jean Genie, con grande assolo di chitarra, la funkeggiante Fame, scritta dal nostro insieme a John Lennon, la sempre emozionante Ziggy Stardust ed i trascinanti rock’n’roll di Suffragette City e Rebel Rebel, che chiude un ottimo show, nonostante l’assenza di evergreen come Space Oddity e Life On Mars? 

Non è invece una novità assoluta questo Live At Soundstage delle Heart, in quanto era già uscito brevemente come DVD nel 2008, con la registrazione di questo concerto del 2005 per la famosa trasmissione americana, e oggi viene riproposto aggiungendo il supporto audio a quello video (con però solo 17 canzoni sulle 23 totali nel CD, farlo doppio pareva brutto. Il DVD per fortuna offre lo show completo). Non mancano di certo sul mercato album dal vivo delle sorelle Ann e Nancy Wilson, ma devo dire che questo è uno dei più riusciti, in quanto presenta un concerto in cui le due musiciste sono in forma smagliante, specialmente Ann che offre diverse prestazioni vocali degne di nota, ed entrambe sono coadiuvate da una solidissima band dal suono decisamente diretto e rock’n’roll (purtroppo non sono citati i nomi dei musicisti *NDB Per i feticisti dei nomi, visto che non sono molto noti, a parte Inez degli Alice In Chains: Ben Smith, drums, Craig Bartock, guitar, Debbie Shair,keyboards, Mike Inez, bass). Un concerto molto bello quindi, roccato e grintoso, con Ann in forma vocale splendida, e pure Nancy se la cava egregiamente quando viene chiamata al microfono, anche se non può raggiungere le tonalità della sorellona.

Gli highlights della serata sono lo scatenato rock’n’roll Kick It Out, la cadenzata e coinvolgente Straight On, con la prima performance vocale da applausi di Ann, il folk-rock di Fallen Ones, in cui la Wilson dai capelli neri si traveste da Robert Plant (e con risultati convincenti), la solida ballata elettrica Lost Angel, la diretta e chitarristica Even It Up e la saltellante e quasi country Things. Non mancano le loro ballate di successo degli anni ottanta, e se These Dreams, cantata da Nancy, non l’ho mai amata più di tanto (ma qui ha le sonorità giuste), Alone è splendida, soprattutto spogliata dei suoi effetti “Big Eighties” e trasformata in uno slow acustico che fa risaltare la bellissima melodia e la potenza della voce di Ann. Ci sono anche delle ottime cover, come Love Song di Lesley Duncan (ma resa nota da Elton John, una delle poche canzoni non scritte da Sir Reginald) e soprattutto ben tre pezzi dei Led Zeppelin, da sempre la maggiore influenza del duo: una splendida The Battle Of Evermore e, come finale, un uno-due da favola con Black Dog (ma che voce) e Misty Mountain Hop. Dulcis in fundo, i classici del gruppo, come la trascinante Magic Man, la grandiosa Crazy On You, una delle loro più belle rock songs, la zeppeliniana Bebe Le Strange e la dura e viscerale Barracuda. Come ho già detto, uno dei migliori live delle Wilson Sisters.

Marco Verdi

Un Po’ Di Sano Classic Rock Al Femminile! Heart – Live At The Royal Albert Hall

heart-live-at-the-royal-albert-hall heart-live-at-the-royal-albert-hall-dvd

Heart – Live At The Royal Albert Hall (With The Royal Philarmonic Orchestra) – Eagle Rock CD – DVD – BluRay

Chi mi conosce sa che, tra i vari generi musicali, non disdegno il rock anni settanta di matrice classica, e fra i vari gruppi e solisti che formano questo tipo di panorama ho sempre avuto un occhio di riguardo per le sorelle Ann e Nancy Wilson (per Nancy, anche due occhi…), meglio conosciute come Heart. Nel corso della loro carriera, le due musiciste di Seattle hanno conosciuto il successo a fasi abbastanza alterne: il primo periodo (la seconda metà dei seventies), caratterizzato da una discreta popolarità e da sonorità decisamente influenzate dai Led Zeppelin, un inizio di anni ottanta piuttosto difficile, subito seguito da una incredibile metamorfosi dal 1985, sia nel look che nel sound, che ha fatto conoscere loro il successo planetario consacrandole vere e proprie star del panorama AOR, per poi ripiombare nuovamente nel corso degli anni novanta quasi nell’oblio generale. Verso la fine della prima decade del nuovo millennio le due Wilson hanno ricominciato ad incidere con una certa regolarità ed a buoni livelli, prima con Red Velvet Car (2010), molto legato a sonorità più roots del solito, seguito dal più duro Fanatic e, quest’anno, dal discreto Beautiful Broken, più vicino al loro classico suono.

Negli ultimi anni non sono mancati neppure gli album dal vivo, dall’ottimo Fanatic Live del 2014, al natalizio Home For The Holidays di un anno fa, fino a questo Live At The Royal Albert Hall, appena uscito sia in formato audio che video (ma con i tre classici supporti pubblicati separatamente), che senza dubbio è il più riuscito dei tre, in quanto prende in esame in egual misura tutte le fasi della carriera delle due sisters, ma anche perché è registrato insieme all’Orchestra Filarmonica di Londra (che non è mai sovrastante, ma sottolinea con molta misura i brani del disco) in uno dei templi mondiali della musica dal vivo, tra l’altro mai frequentato prima d’ora da Ann e Nancy. E la serata è di quelle giuste, con le due “ragazze” in ottima forma, sia la bionda Nancy, che non è mai stata una axewoman ma se la cava benissimo con la ritmica e soprattutto con l’acustica, sia soprattutto la mora Ann, che passano gli anni ma non passa mai la bellezza della sua voce, potente il giusto nei pezzi più rock e seducente e profonda nelle ballate; la band di supporto è formata da quattro elementi (Craig Bartok alla solista, Christopher Joyner alle tastiere, Daniel Rothchild al basso e Benjamin Smith alla batteria), mentre l’orchestra è arrangiata e condotta nientemeno che da Paul Buckmaster, una vera e propria leggenda per quanto riguarda gli archi trapiantati nel rock (avendo in passato collaborato soprattutto con Elton John, ma anche con David Bowie, Rolling Stones, Leonard Cohen, Grateful Dead, Dwight Yoakam, Harry Nilsson, Stevie Nicks e persino Miles Davis).

La serata, che si apre con la potente Magic Man, decisamente zeppeliniana (provate a fare il giochino immaginario di sostituire la voce di Ann con quella di Robert Plant) e con un buon break nel ritornello, dà chiaramente spazio all’ultimo lavoro del duo, Beautiful Broken, con cinque canzoni, tra le quali spiccano la maestosa Heaven (nella quale esordisce l’orchestra), anche questa con abbondanti tracce del Dirigibile, come peraltro anche la complessa I Jump, con i suoi palesi riferimenti a Kashmir, mentre Two è una delicata ballata pianistica, cantata benissimo da Nancy, che non avrà la potenza della sorellona ma se la cava egregiamente. Non mancano naturalmente le megahits degli anni ottanta, e se These Days non mi ha mai convinto più di tanto (troppo pop ed annacquata), What About Love, pur essendo decisamente ruffiana e costruita per le classifiche, ha un’ottima melodia (copiata pari pari qualche anno dopo dal duo pop-rock-AOR svedese dei Roxette per la loro Listen To Your Heart, mentre Alone è semplicemente straoordinaria, una delle migliori ballate degli eighties: da anni le Heart la ripropongono in una versione più lenta e spogliata dal big sound dell’originale, valorizzando ancor di più il motivo splendido e la voce strepitosa di Ann, ed anche questa sera i brividi non si contano.

Non mancano neppure i successi della prima ora, come la scintillante Dreamboat Annie, title track del loro primo album del 1975 (e con l’orchestra che commenta con grande gusto in sottofondo), la grandiosa Crazy On You, forse la loro migliore rock song di sempre, e l’incalzante e trascinante Barracuda, posta nei bis giusto prima del finale di Kick It Out (un rock’n’roll tosto e vibrante). E non dimenticherei l’omaggio proprio agli Zeppelin, con una magistrale No Quarter, che mantiene intatta l’atmosfera minacciosa ed inquietante dell’originale, una rilettura lunga e potente che anche i tre membri superstiti della storica band inglese apprezzeranno (in passato sia Plant che Page hanno avuto parole più che lusinghiere per le due sorelle Wilson). Come ho scritto nel titolo, un po’ di sano rock al femminile ogni tanto ci vuole, e le Heart sono sempre tra le migliori interpreti in tal senso.

Marco Verdi

 

Il “Vero” Tributo Era Quello Del 2002, Ma Anche Questo Non E’ Malaccio! George Fest: A Night To Celebrate The Music Of George Harrison

george fest box

Various Artists – George Fest: A Night To Celebrate The Music Of George Harrison – Hot Records/BMG 2CD/BluRay – 2CD/DVD – 3LP

Non è la prima volta che George Harrison è il soggetto al quale viene dedicato un concerto/tributo: il 29 Novembre del 2002, giusto un anno dopo la prematura scomparsa dell’ex chitarrista dei Beatles, un’incredibile serie di amici ed ex collaboratori di George si diede appuntamento alla Royal Albert Hall per una serata tra le più belle e toccanti mai riservate ad un musicista. Quella sera le canzoni di George ricevettero un trattamento sontuoso da ex compagni di scuderia (Paul McCartney e Ringo Starr), collaboratori ed amici di vecchia data (Eric Clapton, Ravi Shankhar, Billy Preston) e più recenti (Tom Petty e Jeff Lynne), con l’unica ed abbastanza inspiegabile assenza di Bob Dylan, che oltre che compagno di Harrison nei Traveling Wilburys era sempre stato uno dei suoi migliori amici.

Il 28 Settembre del 2014, sotto la direzione musicale del figlio di George, Dhani Harrison (unico presente anche nel 2002), un cast molto variegato e di età media decisamente più bassa si è riunito al Fonda Theater di Los Angeles per omaggiare nuovamente il “Beatle Tranquillo”, ed il risultato, pur apprezzabile, non è neppure lontanamente paragonabile a quello di 14 anni fa. Nel 2002 l’amore e la commozione si potevano quasi toccare con mano, ed il cast era composto quasi esclusivamente da artisti che con George avevano camminato a lungo e condiviso parecchi momenti, mentre qui la maggior parte dei partecipanti, pur essendo probabilmente stati influenzati in qualche modo dal nostro, non lo hanno neppure mai conosciuto personalmente, ed in alcuni casi la loro carriera professionista è iniziata addirittura dopo la morte del chitarrista.

Sarebbe però ingiusto liquidare la serata in questo modo, un po’ per la presenza di Dhani che fa da garante legittimando il tutto, ma anche perché, nelle due ore circa di concerto, ci sono diverse performance di buon livello, ed in qualche caso anche ottimo. Non tutto funziona alla perfezione, di qualcuno avrei fatto anche a meno, ma alla fine direi che il tributo funziona, grazie soprattutto alla bellezza delle canzoni (mi stupisce però l’assenza del capolavoro While My Guitar Gently Weeps) ed all’intelligenza dei partecipanti che hanno deciso di non stravolgere troppo gli arrangiamenti originali, mostrando grande rispetto per George. E poi, come vedremo, i nomi importanti ci sono anche qui. Un consiglio: se volete ascoltare il doppio CD fatelo pure (magari in macchina), ma per un’esperienza completa sarebbe meglio gustarsi il concerto con l’ausilio delle immagini. La house band, Dhani a parte, è composta da musicisti poco noti (almeno a me), con l’eccezione dell’ottimo chitarrista Jimmy Vivino, che è anche il direttore musicale e membro “anziano” del gruppo (per la sua lista di collaborazioni vi rimando al mio recente post sul nuovo disco di Dion, di cui è anche produttore http://discoclub.myblog.it/2016/02/18/vecchie-glorie-alla-riscossa-dion-new-york-is-my-homejack-scott-way-to-survive/ ).

Dopo una breve e scherzosa introduzione nella quale afferma che quando ha letto “George Fest” pensava ad un tributo a George Michael, Conan O’Brien si lancia in una robusta rilettura di Old Brown Shoe: Conan è un presentatore ed attore, non un musicista, ma se la cava con mestiere e la band lo segue in maniera potente. Anche I Me Mine, pur non essendo tra i brani migliori di Harrison, esce bene dal trattamento di Britt Daniel, leader della band texana Spoon; Jonathan Bates (che confesso di non conoscere) insieme a Dhani fornisce una suggestiva interpretazione della Ballad Of Sir Frankie Crisp, che conserva l’atmosfera sognante dell’originale (era su All Things Must Pass), con una steel che le dona un sapore country. Something è una delle grandi canzoni di Harrison (e dei Beatles) e Norah Jones (stasera in perfetto stile “Puss’n’Boots”) è un’ottima interprete, ma stranamente la miccia non si accende, e Norah fornisce una performance abbastanza scolastica; si presenta a questo punto per la gioia del pubblico femminile Brandon Flowers (frontman dei Killers), che è comunque bravino ed offre una godibile interpretazione della vivace Got My Mind Set On You, oscuro pezzo di Rudy Clark portato al successo da Harrison nel 1987. If Not For You è una splendida canzone di Bob Dylan, ma l’ha incisa anche George e gli Heartless Bastards, guidati dalla particolare voce di Erika Wennerstrom, la rifanno proprio con l’arrangiamento presente in All Things Must Pass; Be Here Now era soporifera anche in origine, ed il leader dei Cult, Ian Astbury, non è la persona adatta per ravvivarla; pollice verso invece per la Wah-Wah di Nick Valensi, chitarrista degli Strokes e qui anche in veste di cantante, una versione confusa e con scarso feeling.

Molto gradevoli i Jamestown Revival con una versione a due voci di If I Needed Someone, arrangiata in maniera folk-rock, quasi roots, mentre pessimi i Black Rebel Motorcycle Club che rovinano la bella Art Of Dying con le loro sonorità eteree e finto-psichedeliche che appiattiscono una canzone che in origine era un rock tosto ed elettrico. Splendido invece il primo intervento solista di Dhani, con una bella versione dell’allegra Savoy Truffle, dove quello che si nota è l’incredibile somiglianza della sua timbrica vocale con quella del padre, la stessa identica, ma proprio uguale! For You Blue è affidata alla voce fin troppo delicata di Chase Cohl (non conosco, part 2), ma il brano ne esce bene grazie all’accompagnamento molto rock’n’roll dell’house band. La prima parte si chiude con Ann Wilson, una delle due metà delle Heart e grande voce, che alle prese con la bellissima Beware Of Darkness (una delle canzoni di George che preferisco in assoluto) non può che fare faville.

La seconda parte è nell’insieme meglio della prima, a partire dalla complessa Let It Down, ancora con Dhani voce solista, che termina in una jam chitarristica coi fiocchi, per proseguire con Ben Harper, che quando vuole è bravo, il quale se la cava più che bene (grazie anche al suo tocco chitarristico sopraffino) con la gentile Give Me Love, uno dei maggiori successi di George; una delle più grandi sorprese della serata è un invecchiatissimo (e plastificato) Perry Farrell, che lascia da parte per una sera i suoi Jane’s Addiction e ci regala una deliziosa rilettura elettroacustica della stupenda Here Comes The Sun: da brividi. Anche Weird Al” Yankovic quando non fa il buffone (cioè raramente) dimostra di saper cantare, e anche bene, e What Is Life (una delle grandi canzoni rock di Harrison) è riproposta alla perfezione; torna sul palco Norah Jones, molto più a suo agio con la languida Behind That Locked Door, ballata country-oriented con echi di Gram Parsons.

Ed ecco l’ospite numero uno della serata, cioè Brian Wilson, che non poteva che proporre il più grande successo di George come solista, My Sweet Lord: l’ex Beach Boys (che per l’occasione si porta dietro anche Al Jardine) farà anche fatica a muoversi e a parlare, ma quando canta si difende ancora alla grande, e qui è raggiunto ai cori da gran parte degli ospiti della serata, quasi ad omaggiare una leggenda vivente. I Black Ryder suonano la fluida Isn’t It A Pity nel modo giusto, ma la vocalità di Aimée Nash è piuttosto piatta e quindi nel complesso manca qualcosina (interessante però l’accenno finale a Hey Jude), mentre l’ironica Any Road necessitava un’interpretazione più raffinata di quel buzzurro sguaiato di Butch Walker, che ci regala, si fa per dire, la performance peggiore del concerto. Per contro, l’affascinante Karen Elson oltre ad essere bella è anche brava, e la sua I’d Have You Anytime (brano scritto da George insieme a Dylan) è completamente riuscita; Taxman non mi ha mai fatto impazzire, e non sono certo i mediocri Cold War Kids a farmi cambiare idea, mentre i Flaming Lips di Wayne Coyne riescono a conservare l’atmosfera psichedelica che It’s All Too Much (uno dei brani meno noti tra quelli scritti da George per i Fab Four) aveva anche in origine.

La serata volge al termine: Handle With Care, il pezzo più noto dei Wilburys è una grande canzone comunque la si faccia, ed anche stasera, con Flowers, Daniel, Dhani, Bates, Coyne e Yankovic che si dividono il microfono, il risultato è eccellente; tutti sul palco (tranne Brian Wilson) per una sentita e commossa All Things Must Pass, dove invece, a parte Dhani, le voci soliste sono tutte femminili (la Jones, la Elson e la Wilson), una versione intensa che chiude il concerto in maniera adeguata. In definitiva, se non avete il tributo del 2002 dovete rimediare subito alla mancanza, ma anche questo George Fest ha comunque diverse frecce al suo arco, e si può definire riuscito almeno al 70%.

Marco Verdi