Cover Stories, La Recensione: Ovvero Rivisitando “The Story” Di Brandi Carlile Per Una Giusta Causa. Anche Cantato Da Altri Sempre Un Ottimo Disco!

cover stories brandi carlie

Various Artists – Cover Stories – Sony Legacy

Ne abbiamo già parlato un paio di volte; prima in occasione della presentazione e poi all’uscita del 5 maggio, ma visto che si tratta di una operazione a sfondo benefico http://discoclub.myblog.it/2017/05/05/esce-il-5-maggio-ma-visto-che-il-fine-e-nobile-cover-stories-ovvero-rivisitando-the-story-di-brandi-carlile-per-una-giusta-causa/  torniamoci per un’ultima volta. Al link leggete tutta la storia, questa volta parliamo solo dei contenuti, ossia delle singole canzoni, di quello che giustamente viene ancora oggi considerato il migliore album di Brandi Carlile, cantautrice di cui spesso e volentieri avete letto su questo Blog http://discoclub.myblog.it/2015/03/18/folk-rock-il-nuovo-millennio-delle-migliori-brandi-carlile-the-firewatchers-daughter/ :

1. Late Morning Lullaby – Shovels & Rope

Il duo americano agli inizi mi piaceva molto, poi mi pare che si siano persi per strada, con una svolta commerciale verso il “modernismo” a tutti i costi, che mi sembra li accomuni a gente come Mumford And Sons, Arcade Fire, Low Anthem, Needtobreathe (con cui hanno collaborato, nel pessimo Hard Love) e vari altri. Per l’occasione i due fanno le cose per benino, forse ispirati da questa dolce ninna nanna che apriva anche l’album originale, con l’intreccio delizioso delle due voci, Michael Trent e Cary Ann Hearst  una chitarra acustica e poco più, bella partenza.

2. The Story – Dolly Parton

La title track dell’album è anche una delle più belle canzoni del disco, Dolly Parton, una delle “eroine” musicali della Carlile, rimane molto fedele allo spirito del brano, un folk-rock accorato, cantato con grande pathos e passione.

3. Turpentine – Kris Kristofferson

Splendida anche la rivisitazione del grande Kris, la voce è sempre più “vissuta” e scarna, ma la classe non manca, e pure questa, un’altra delle canzoni migliori di The Story, rifulge di nuova gloria in una versione splendida, caratterizzata da una pedal steel avvolgente, dalla chitarra di Chris Stapleton e dalle armonie vocali della figlia di Kristofferson, Kelly.

4. My Song – Old Crow Medicine Show

Per gli Old Crow Medicine Show mi pare che valga la regola aurea dei tempi di “E Intanto Dustin Hoffman Non Sbaglia Un Film”, loro non sbagliano non dico un album ma neppure una canzone: My Song diventa una splendida bluegrass song dei Monti Appalachi, con armonie vocali impeccabili, picking di chitarre, banjo e mandolino e svolazzi di violino, bellissima. Tra l’altro, se cercate in rete, visto che sono stati in tour assieme, si scambiano di continuo versioni dei loro brani.

5. Wasted – Jim James

Ultimamente il leader dei My Morning Jacket, da solo o con il suo gruppo, non sempre centra l’obiettivo, e anche questa versione psichedelica alla Tomorrow Never Knows di Wasted, non mi pare il massimo.

6. Have You Ever – The Avett Brothers

Questa canzone era già bella di suo, ma la versione dei fratelli Avett, rallentata rispetto all’originale, intima e delicata, quasi alla Simon & Garfunkel, è un altro dei pezzi migliori contenuti in questo tributo. Dando il via ad un trittico di cover nella parte centrale dell’album che sfiora la perfezione.

7. Josephine – Anderson East

Per esempio, nel caso di Anderson East, che sia una delle più belle voci in circolazione delle ultime generazioni non lo scopriamo certo oggi: la sua sua voce rauca e vissuta, a dispetto dei suoi 29 anni ancora da compiere (ma Otis Redding ne aveva 26, quando morì nel 1967), è perfetta per questa versione gospel-soul di Josephine, arricchita anche dalle armonie vocali della fidanzata Miranda Lambert.

8. Losing Heart – The Secret Sisters

A proposito di armonie vocali, due che non scherzano nel campo sono le Secret Sisters, di cui ai primi di giugno, il 9 per la precisione, è in uscita il terzo album You Don’t Own Me Anymore, prodotto, toh che caso, da Brandi Carlile. Se ne parla molto bene, recensione già prenotata da Marco, quando verrà pubblicato. Per il momento gustiamoci questa Losing Heart, pure questa rallentata rispetto all’originale, ma sempre una piccola perla, con la stessa Brandi al banjo e Tim Hanseroth al piano e mellotron, una ballata molto anni ’70, affascinante.

9. Cannonball – Indigo Girls

Le Indigo Girls erano presenti anche nell’album originale, quindi sembrava quasi doverosa la loro presenza per un altro dei pezzi “forti” del CD, con il classico sound del duo americano, a cui molto si è ispirata la Carlile ad inizio di carriera, anche se l’uso dei fiati e del violino è inconsueto, quasi pop barocco, comunque interessante, e gli intrecci vocali sono sempre magnifici.

10. Until I Die – TORRES

Torres condivide con Brandi le passioni per Kate Bush, Johnny Cash e Kurt Cobain, una sorta di spirito affine sul lato alternative-indie, e questa versione lo-fi sembra ispirata proprio dalla cantante inglese, e poi la voce è decisamente bella.

11. Downpour – Margo Price

Questa era una delle canzoni che più mi piacevano dell’album originale, e la versione dell’emergente Margo Price, cantata con voce dolce e vulnerabile, quasi “infantile”, ben si accoppia con il sound alternative-country della Carlile, con intrecci di chitarre  e pedal steel che disegnano la deliziosa melodia della canzone.

12. Shadow On The Wall – Ruby Amanfu

Ecco uno dei due brani che erano già stati pubblicati in precedenza e non incisi appositamente per questo progetto. Ruby Amanfu è una cantante nata in Ghana, ma che vive ed opera musicalmente negli Stati Uniti, tra Nashville e Los Angeles. In possesso di una voce potente ed espressiva è in circolazione già dal 1998, ma Standing Still, il disco del 2015, è stato il primo con una produzione “importante”, e una delle cose migliori dell’album era proprio la sua versione della canzone di Brandi.

13. Again Today – Pearl Jam

Non potevano mancare naturalmente i suoi amici Pearl Jam (Mike McCready è apparso nei suoi dischi e Eddie Vedder è sempre disponibile per degli eventi di carattere benefico come questo): la versione di Again Today, che in origine era una malinconica ballata, per l’occasione diventa una potente canzone rock nello stile tipico della band di Seattle (quindi anche quasi concittadini) con la stessa Brandi Carlile alle armonie vocali per uno dei brani più importanti della raccolta

.14. Hiding My Heart – Adele

Questo pezzo era la “traccia nascosta” nella versione originale di The Story e poi era presente come bonus track nella versione limitata dell’album 21 di Adele, il disco che ha venduto svariati “fantastilioni” di copie in giro per il mondo.

Quindi, ribadisco, non solo un album per una giusta causa, ma anche, a parte un paio di eccezioni, un gran bel disco!

Bruno Conti

Un’Altra Nuova Band Dal Grande Futuro (Si Spera). The Show Ponies – How It All Goes Down

show ponies how it all goes down

The Show Ponies – How It All Goes Down – Freeman CD

Non solo, almeno a parere del sottoscritto, gli Old Crow Medicine Show sono la miglior band americana del nuovo millennio (superiori di poco anche ad Avett Brothers e più nettamente anche ai Mumford And Sons), ma negli ultimi anni si può dire che i ragazzi della Virginia abbiano creato un vero e proprio suono e sono stati presi come riferimento da una lunga serie di gruppi nati dopo di loro. Il rielaborare la tradizione folk e country aggiungendo robuste dosi di rock lo si faceva già negli anni novanta (basti pensare ad Uncle Tupelo ed ai primi Jaykawks), ma gli OCMS hanno avuto il grande merito di rivitalizzare un genere, quello roots-rock-Americana, che forse cominciava a mostrare un po’ la corda, tra l’altro con l’ausilio quasi totalmente di strumenti acustici, ma suonati con la forza di una vera rock band. Nei gruppi che seguono questo filone farei senz’altro ricadere gli Show Ponies, un quintetto di Los Angeles con già un disco al proprio attivo ((We’re Not Lost, 2013), e il cui nuovo lavoro How It All Goes Down mi è piaciuto a tal punto che non ho difficoltà ad inserirli tra i migliori nuovi gruppi degli ultimi tempi. I cinque si sono conosciuti circa otto anni fa al college, e quindi di membri originari della Città degli Angeli non c’è nessuno: i due leader sono Clayton Chaney (dall’Arkansas, voce solista e basso) ed Andi Carder (texana di Houston, voce solista e banjo), i quali hanno formato il primo nucleo assieme a Jason Harris (chitarra e piano, anch’egli di Houston), per poi completare il quintetto in un secondo momento con Kevin Brown (batteria) e Philip Glenn (violino). I cinque hanno presto scoperto di avere gli stessi interessi musicali e hanno cominciato a scrivere e suonare insieme: non conosco il loro debut album, ma vi assicuro che questo secondo lavoro è davvero notevole.

Rispetto agli OCMS (che, va detto,  comunque restano nettamente superiori) gli Show Ponies sono decisamente più rock, le chitarre elettriche sono spesso presenti all’interno delle canzoni, ma la base di partenza è sempre folk, ed in più i cinque suonano con grande forza e feeling: tra ballate, pezzi più rock o canzoni di stampo puramente folk, i nostri mostrano di essere decisamente creativi e di avere un grande senso del ritmo e della melodia, consegnandoci con How It All Goes Down (uscito il 20 gennaio) una delle sorprese più piacevoli di questo 2017, con almeno tre-quattro canzoni di caratura superiore. Folk, country, rock e bluegrass fusi insieme in un cocktail molto stimolante ed in grado anche di entusiasmare a tratti, come nel brano che apre il disco, The Time It Takes, stupendo folk-rock dalla melodia cristallina, incroci chitarristici di prim’ordine ed uno splendido pianoforte: l’alternanza tra le due voci soliste, maschile e femminile, è poi uno dei punti di forza del gruppo. Un inizio perfetto, una delle più belle canzoni che ho ascoltato ultimamente. This World Is Not My Home ha un approccio più tradizionale, banjo e violino sono gli strumenti principali (e Glenn è un fiddler coi controfiocchi), anche se né la chitarra elettrica né la sezione ritmica fanno mancare il loro apporto: dopo la prima strofa il ritmo cresce vorticosamente e, complice anche un refrain di presa immediata, il brano diventa irresistibile; la voce gentile della Carder introduce Kalamazoo, un folk tune elettrificato ma di stampo rurale, con grande uso di violino e tempo sempre mosso anche se più leggero, mentre con Someone To Stay si torna prepotentemente in ambito rock, anzi qui la componente folk sarebbe quasi assente se non fosse per il violino, ed il pezzo è uno scintillante ed orecchiabile esempio della bravura dei nostri nel confezionare canzoni fresche, dirette e creative al tempo stesso.

Should Showed Him è una filastrocca un po’ sghemba e dall’arrangiamento ancora più rock (anche il violino viene suonato come fosse una chitarra elettrica), per un brano forse meno immediato ma comunque grintoso e stimolante; Folks Back Home è invece puro folk, limpido, cristallino, solare e delizioso, mentre Only Lie è più introversa, spezzettata e decisamente meno immediata, non tra le migliori. Something Good e Sweetly sono due tenui slow ballads, tra folk d’altri tempi e cantautorato puro (leggermente meglio la seconda, cantata da Andi) ed anche If You Could Break That Chain prolunga il momento intimista del CD, con un altro lento di stampo acustico, dal bel ritornello corale e con una chitarra elettrica che si affaccia sullo sfondo. Il disco si chiude in crescendo con la pimpante Don’t Call On Me, un country-rock gustoso e suonato con la solita forza, l’intensa (e breve) Bravery Be Written, folk purissimo con un chiaro accento irlandese, e con la title track, melodia di stampo tradizionale su base elettrica, altro fulgido esempio di come si possano scrivere ottime canzoni giusto a metà tra folk e rock, da parte di un gruppo che, ne sono certo, ha cominciato solo adesso a far parlare di sé.

Marco Verdi

Esce Il 5 Maggio, Ma Visto Che Il Fine E’ Nobile… Aggiorniamo! Cover Stories, Ovvero Rivisitando “The Story” Di Brandi Carlile Per Una Giusta Causa: Pearl Jam, Adele, Avett Brothers, Anderson East, Eccetera

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Aggiornamento del Post scritto il 2 marzo, visto che il disco esce oggi 5 maggio, e si conferma come un progetto importante sia a livello umanitario, come molto interessante in ambito musicale: vi ribadisco quindi l’uscita di questo CD Cover Stories, la riproposizione completa dell’album del 2007 di Brandi Carlile The Story, disco che molti considerano il migliore della cantautrice di Ravensdale, Washington e che fu anche il suo maggior successo commerciale, vendendo oltre 500.000 copie all’epoca. Il 100% dei proventi della vendita dell’album verranno devoluti alla fondazione War Child UK (ma c’è anche in Olanda e Canada), l’associazione che si occupa di offrire assistenza ai bambini nelle aree di guerra, spesso con l’aiuto di artisti internazionali che hanno donato la loro musica per creare delle compilations musicali, di cui la prima fu Help, uscita nel 1995, poi replicata con Help! A Day In The Life, nel decimo anniversario dell’uscita del primo album, nel 2005, e con altre uscite discografiche, fino al 2009. Nel primo disco c’erano soprattutto musicisti inglesi, tra cui Oasis, Radiohead, Stone Roses, Blur, Sinead O’Connor, ma anche Paul McCartney, Paul Weller, Noel Gallagher e molti altri.

Per il nuovo progetto sono stati coinvolti molti “amici” della Carlile per reinterpretare tutte le 14 canzoni dell’album, e la lista dei partecipanti è veramente impressionante, tutti, più o meno, musicisti di qualità e “amici” del Blog.

“Late Morning Lullaby” – Shovels & Rope

“The Story” – Dolly Parton

“Turpentine” – Kris Kristofferson

“My Song” – Old Crow Medicine Show

“Wasted” – Jim James

“Have You Ever” – The Avett Brothers

“Josephine” – Anderson East

“Losing Heart” – The Secret Sisters

“Cannonball” – The Indigo Girls

“UntiI I Die” – Torres

“Downpour” – Margo Price

“Shadow On The Wall” – Ruby Amanfu

“Again Today” – Pearl Jam

“Hiding My Heart” – Adele

La gran parte delle canzoni sono state registrate appositamente per l’occasione, altre, tipo quella di Adele Hiding My Heart, già apparsa come bonus nell’album 21 e Shadown On The Wall di Ruby Amanfu, non sono inedite. Tra i musicisti coinvolti, anche Chris Stapleton che suona la chitarra nel brano di Kris Kristofferson e Miranda Lambert che canta nel brano del “moroso” Anderson East.

Se volete saperne di più sulle attività dei beneficiari di questa operazione andate qui https://www.warchild.org.uk/. Progetto meritevole e anche buona musica, mi sembrala combinazione perfetta. Qui si può già prenotare https://brandicarlile.merchtable.com/.

Ho aggiunto due o tre video, rispetto all’articolo originale:alla prossima.

Bruno Conti

Il Meglio Del 2016, Ultima Appendice. Le Scelte del Buscadero

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Siamo all’inizio del 2017, ma visto che come sapete ci scrivo, mi permetto di aggiungere le scelte della redazione Buscadero per i migliori dischi (e ristampe) del’anno appena passato. Vi propongo le prime quindici posizioni della classifica, considerando che molti titoli sono risultati ex aequo come numero di voti.

Poll 2016

Disco Dell’Anno

van morrison keep me singingvan morrison it's too late 3cd+dvd

Van Morrison – Keep Me Singing 21 voti (considerando che la ristampa di It’s Too Late To Stop Now II, III, IV & DVD ha avuto 6 voti)

leonard cohen you want it darker

Leonard Cohen – I Want It Darker 14 voti

Rolling Stines - Blue&Lonesome

Rolling Stones – Blue & Lonesome 10 voti (compresi 2 per il Live Havana Moon)

avett brothers true sadness

Avett Brothers – True Sadness 8 voti

billy bragg joe henry shine a light

Billy Bragg & Joe Henry – Shine A Light 8 voti

bob weir blue mountain

Bob Weir – Blue Mountain 7 voti

mudcrutch 2

Mudcrutch – 2 7 voti

peter wolf a cure for loneliness

Peter Wolf – A Cure For Loneliness 6 voti

bob dylan 1966live-480x480

Bob Dylan – The 1966 Live Recordings Box Set 6 voti (compresi 2 per Fallen Angels)

vinicio capossela canzoni della cupa

Vinicio Capossela – Le Canzoni Della Cupa 6 voti

tedeschi trucks band let me get by

Tedeschi Trucks Band – Let Me Get By 6 voti

lucinda williams the ghosts of highway 20

Lucinda Williams – The Ghost Of Highway 20 6 voti

nick cave skeleton tree

Nick Cave & The Bad Seeds – Skeleton Tree 6 voti

david bowie blackstar 2

David Bowie – Blackstar 6 voti

ryley-walker-golden-sings-that-have-been-sung

Ryley Walker – Golden Sings That Have Been Sung 5 voti

E’ tutto, da domani riprendiamo con alcune delle anticipazioni dei dischi più interessanti in uscita a Gennaio.

Bruno Conti

Il Nome Fa Abbastanza Schifo, Ma La Musica No! The Brothers Comatose – City Painted Gold

brothers comatose city painted gold

The Brothers Comatose – City Painted Gold – Swamp Jam CD

La storia del rock è piena di gruppi dai nomi strani, particolari o addirittura poco invitanti: in questa terza categoria farei ricadere i Brothers Comatose, anche se gli elementi funerei si limitano al nome. Due fratelli a capo della band ci sono, ma si chiamano Morrison (Ben alla voce e chitarre, Alex alla voce, banjo e mandolino), e sono aiutati dal bassista Gio Benedetti, dal violinista Philip Brezina (bravissimo, una forza della natura) e da Ryan Avellone alle chitarre e mandolino. I cinque, che hanno già due album alle spalle (Songs From The Stoop del 2010 e Respect The Van del 2012) vengono da San Francisco, ma come avrete intuito dagli strumenti non fanno né rock psichedelico, né pop californiano, e neppure musica cosmica influenzata dal Laurel Canyon Sound, bensì si possono far ricadere in quel filone dei nuovi tradizionalisti dominato da band come Old Crow Medicine Show, Avett Brothers (che però sono molto più rock) e Trampled By Turtles.

I Comatose sono però ancora più legati ad un suono old time, non usano strumenti elettrici e neppure la batteria, anche se le loro canzoni sono comunque intense e piene di ritmo, grazie agli ottimi impasti sia vocali che strumentali. Una struttura profondamente tradizionale quindi, con elementi country, bluegrass e folk: City Painted Gold raggruppa mirabilmente tutte queste caratteristiche, coniugandole con una scrittura invece più attuale e meno legata a stilemi tipici delle canzoni popolari di sessanta/settanta anni fa. Un buon disco, coinvolgente, ritmato ed ottimamente cantato, forse non al livello dei gruppi che ho citato prima ma neppure lontano anni luce. Brothers apre l’album, un country-folk dall’accompagnamento classico ma con una melodia dal sapore moderno: domina il violino di Brezina, suonato splendidamente, vero strumento solista; Angeline è un bluegrass dal ritmo velocissimo, un refrain decisamente orecchiabile ed altra prestazione maiuscola del fiddle (ma tutta la band è un treno in corsa, altro che comatosi). La title track, dedicata a San Francisco, è una delicata ballata con un suggestivo coro femminile in sottofondo, ed un ritmo che cresce man mano, Tops Of The Trees è una canzone dalla struttura moderna, ma suonata con strumenti tradizionali https://www.youtube.com/watch?v=N7Im9kFGUug , mentre Knoxville Foxhole ha un sapore più antico, una bella armonica, intrecci chitarristici di valore ed una coinvolgente melodia corale.

She’s A Hurricane è puro country, The Way The West Was Won, ancora dal ritmo frenetico, è un altro bluegrass di chiara ispirazione western (come da titolo), con le chitarre che incalzano ed il violino scatenato: una delle più riuscite del CD; la gradevole Black Lightmoon è un blues acustico vivace e suonato alla grande, che piace nonostante la voce leggermente filtrata del leader, mentre Dance Upon Your Grave torna al folk d’altri tempi, una bella canzone, limpida e dallo script molto solido, anche questa la metterei tra le migliori (e gli stop & go strumentali sono da applausi). Chiudono l’album, un’iniezione di freschezza da parte di un gruppo di cui sentiremo ancora parlare, la fluida e rilassata Valerie e Yohio, caratterizzata da una melodia scintillante ed anche toccante, grazie anche ad un bel coro: un finale decisamente positivo per un bel dischetto.

Comatosi a chi?

Marco Verdi

Country-Bluegrass Di Vecchio Stampo, Ma Con Nuova Freschezza. National Park Radio – The Great Divide

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National Park Radio – The Great Divide – Mri Associated

Sono in cinque, vengono dalla zona delle Ozark Mountains, e il loro stile si ispira (forse inconsciamente), o cosi sostiene il loro leader Stefan Szabo, a quello di gruppi come i primi Mumford And Sons, gli Avett Brothers, gli Old Crow Medicine e a tutto quel movimento che fa riferimento a bluegrass, country, folk, old mountain music, Americana e roots. Insomma una vecchia storia che si ripete, pensate anche a gruppi dei tempi che furono, Ozark Mountain Daredevils, Dillards, Country Gazette, certe cose più bluegrass della Nitty Gritty Dirt Band, tutti gruppi, gli ultimi quanto i primi, che Szabo dichiara di non avere mai sentito ai tempi o oggi, se non dopo essere entrato nel mondo della musica. Il nostro amico, che dichiara di essere un “vecchio tipo” di 30 anni che va per i 60, ha iniziato tardi a fare musica: sposato a 18 anni, a 21 aveva già due figli, e fino a 27 anni non ha iniziato a scrivere canzoni, accompagnandosi con una Fender Statocaster, poi venduta per passare ad un banjo a 6 corde accordato come una chitarra. Dal 2012 ha cominciato a cercare anime gemelle per proporre quella che era la sua musica (diversa da i successi da top 40 e dall’alternative Christian rock che ascoltava alla radio quando era un ragazzo), quindi una musica prettamente acustica che nasce dalla zona dell’Arkansas nei pressi delle Ozark Mountain, a Harrison, nelle vicinanze del Parco Nazionale del Buffalo National River, da cui ha preso il nome il gruppo.

Dicevamo che sono un quintetto, oltre a Szabo, voce solista, chitarra acustica, banjo e autore delle canzoni, Heath Shatwell, banjo e voce, Mike Womack, basso, Ed Barrett, batteria e il violinista Jon Westover, polistrumentista che suona anche altri strumenti a corda e le tastiere. Il suono che scaturisce dal loro album di esordio, questo Great Divide, ispirato dalla linea che divide in due longitudinalmente il continente americano, è, come si diceva, una miscela di country e bluegrass, principalmente acustico, ma con la grinta e l’attitudine di una band rock, infatti qualcuno con termine felice ha parlato di “Rock And Roll Americana”. In effetti sembra proprio di ascoltare molte delle band citate poc’anzi, tra folate poderose di banjo, chitarre acustiche, una ritmica quasi sempre impegnata sui ritmi del bluegrass ma con l’approccio di una band rock, un violino guizzante e la bella voce di Szabo che ricorda quelle dei vari Richie Furay, John Dillon e Steve Cash ( i due degli Ozarks), Doug Dillard, Jeff Hanna, fino ad arrivare agli attuali Seth e Scott Avett e Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show. Le undici canzoni sono tutte piuttosto belle, ma come in tutti gli album d’esordio confluisce il materiale preparato da tutta una vita e quindi poi sarà difficile ripetersi (a giudicare da altri brani che si trovano in rete non è detto però https://www.youtube.com/watch?v=C9hFOvLJ-e4  ), ma per il momento accontentiamoci.

I testi sono ispirati dallo spirito esplorativo dei pionieri, dalla sana provincia americana che non si accontenta di vivere secondo le regole del consumo, andare al college, trovare un lavoro, magari per la stessa società per 30 anni e passa e poi ritirarsi: Szabo predica la vita all’aria aperta, l’andare in canoa, fare camping, crescere la propria famiglia secondo sani principi, anche religiosi, preservare la natura (e quindi anche i Parchi Nazionali), seguire le proprie passioni e i propri amori, tutte bellissime cose sulla carta, nella tradizione del grande sogno americano, poi non sempre si riesce a realizzarli. Musicalmente si diceva che prevale questo country-bluegrass veloce e frizzante, esemplificato per esempio dall’iniziale title track The Great Divide, dove un banjo detta il ritmo frenetico che poi viene arricchito da vari altri strumenti a corda, acustiche, mandolini, e da una ritmica incalzante, begli intrecci vocali, soprattutto la voce pimpante di Stefan Szabo e una melodia ariosa che ti rimane in testa

Nella successiva There’s A Fire entra nell’insieme anche il violino guizzante di Jon Westover, sullo sfondo si agitano pure piccoli tocchi di tastiere, per un suono che è tutt’altro che monocorde, degno degli migliori canzoni degli Old Crow Medicine Show o degli Avett Brothers più roots, veramente coinvolgente. In Steady, che rallenta leggermente i tempi, entrano piccoli elementi vaudeville, con piano e organo e le deliziose armonie vocali che assumono un’aria un poco demodé ma non pacchiana, cosa di cui erano maestri quelli della Nitty Gritty https://www.youtube.com/watch?v=9te90CQ5N7E ; I Will Go On, una canzone incentrata sulla sopravvivenza nei difficili tempi che stiamo vivendo, riparte di grande lena, di nuovo con banjo e violino sugli scudi, oltre alle immancabili chitarre acustiche e a quel sound senza tempo della migliore tradizionale musicale americana, con l’appassionata voce di Szabo ad incorniciare il tutto, e qui l’energia almeno ricorda quella dei primi Mumford And Sons https://www.youtube.com/watch?v=1cXihlp5OAY .

Monochrome è una delle migliori canzoni dell’album, una ballata mid-tempo degna dei migliori brani del country-rock di inizio anni ’70, con le tastiere, piano e organo, che conferiscono un tocco di “modernita” (si fa per dire) degno della Band più rurale e genuina, con le canzoni di tutto il disco che hanno spesso questo spirito quasi antemico nel loro dipanarsi; Ghost, altro brano più intimo e raccolto, ma sempre con il picking vorticoso degli strumenti a corda e le evoluzioni del violino ben presenti, insomma si rallenta appena, ha uno svolgimento tra lo spirituale ed il religioso, pur sempre con quella leggera vena irriverente e scanzonata che scorre comunque nei pezzi di Szabo, peraltro assai godibili. Once Upon A Time, ancora per merito della voce brillante di Stefan Szabo, sembra un brano di quelli più belli degli Avett Brothers, con intrecci vocali e strumentali di grande fascino. Rise Above è bluegrass allo stato puro, al limite con qualche elemento gospel, una canzone dallo spirito positivo e ottimista, con chitarre, mandolino, banjo e sezione ritmica sempre impegnati nelle evoluzioni tipiche dello stile, e qui mi gioco di nuovo Old Crow Medicine Show e Nitty Gritty, e pure i Dillards, ma è solo per tracciare dei parallelismi con il meglio del genere. The Walking Song, per quanto piacevole, tra voce come filtrata da un megafono e l’uso del kazoo, è forse la traccia meno brillante del disco, mentre The Ground And The Knee, di nuovo una brillante folk-country song, un filo meno frenetica e con un coretto coinvolgente da memorizzare, e soprattutto la splendida ballata conclusiva, una Virginia che illustra anche il lato più melodico e raccolto del songbook di Szabo, con un violino struggnete, sono di nuovo ottimi esempi del talento compositivo del leader di questi National Park Radio. Promossi con pieno merito,

Bruno Conti

Avett Brothers – True Sadness: Il Disco Del Mese Di Giugno?

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Avett Brothers – True Sadness – American Recordings/Universal

Ovviamente tra le uscite “importanti” del 24 giugno c’era anche il nuovo album degli Avett Brothers, e la risposta alla domanda del titolo è sì (anche se se la batte con il nuovo dei Mudcrutch di Tom Petty, tra gli album di studio, per quanto uscito il 20 maggio, e con Joan Baez Neil Young, tra le proposte dal vivo recenti, di cui leggerete nei prossimi giorni, o con la ristampa magnifica in cofanetto di It’s Too Late di Van Morrison): comunque questo True Sadness dei fratelli Avett è un gran bel disco, pure se forse non possiamo gridare al capolavoro. D’altronde il gruppo della Carolina del Nord non ha mai sbagliato un disco: che si sia trattato dell’eccellente disco dal vivo di fine anno scorso http://discoclub.myblog.it/2016/01/18/dal-vivo-sempre-bravi-avett-brothers-live-vol-4/, o di Magpie And The Dandelion del 2013, The Carpenter del 2012 http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/, o I And Love And You del 2009, tutti i tre prodotti da Rick Rubin, il quartetto americano – oltre a Seth Scott Avett, che si dividono strumenti a corda, elettrici ed acustici e tastiere, nel nucleo storico della band ci sono anche Bob Crawford, il bassista (che pare avere superato i suoi problemi di salute) e Joe Kwon al violoncello (con l’aggiunta di Paul DeFiglia, anche lui al basso, e tastiere, e di Mike Marsh alla batteria), più Tania Elizabeth, al violino e alle eccellenti armonie vocali e Jason Lader Dana Nielsen, a strumenti assortiti – conferma la sua vena melodica, con i consueti rimandi al pop classico dei Beatles, ma anche al miglior country-rock, elementi robusti di bluegrass e folk, ma pure tanto rock ed energia, cosa che li differenzia da altre formazioni più vicine alla roots music o al cosiddetto stile Americana, che forse erano più presenti nei primi album e poi si sono coagulate in Emotionalism, l’ultimo disco pubblicato per la loro etichetta, la Ramseur, e che insieme al primo prodotto da Rubin e a Magpie…,  a parere di chi scrive, sono le loro migliori prove.

Questo True Sadness, peraltro ottimo, mi sembra un gradino inferiore, ma, ripeto. è un parere personale e magari con ulteriori ascolti potrebbe crescere, siamo comunque a un livello qualitativo nettamente al disopra di quanto ci propone l’attuale scena musicale. Il disco si apre sulle note di Ain’t No Man, una sorta di Rock and Roll minimale misto a gospel, solo un giro di basso elettrico reiterato, un battito di mani corale e le voci dei fratelli Avett e del resto della gang che intonano questo pezzo semplice semplice, ma assai coinvolgente. Già il secondo brano, Mama I Don’t Believe, alza il livello qualitativo, una splendida ballata con agganci a Dylan o Young, per l’uso dell’armonica, e al country-rock anni ’70 per l’uso avvolgente delle chitarre, acustiche ed elettriche, il piano e poi quelle armonie vocali splendide (particolare che li accomuna ad altre band come Blue Rodeo Jayhawks), mentre l’aggiunta degli archi e il nitido break chitarristico rimandano anche ai Beatles, lato McCartney, veramente bello. No Hard Feelings è un brano più folk, intimo e gentile, giocato su delle chitarre acustiche e banjo appena accennate e discrete, come pure la sezione ritmica, con gli strumenti ad arco e l’organo che aggiungono spessore ad un brano che cresce lentamente e ti prende con la sua malinconia. Smithsonian, fin dal titolo, vuole essere un omaggio alle radici della musica americana e ai suoi simboli, ma lo fa con un suono comunque contemporaneo, dove il banjo e il violino sono perfettamente inseriti nel tessuto sonoro e apportano il loro tocco classico, mentre la sezione ritmica scandisce il tempo, senza esagerare, lasciando spazio alle magnifiche voci dei due fratelli, altro brano notevole https://www.youtube.com/watch?v=mlveMZVSHEQ .

You Are Mine parte anche questa con un banjo pizzicato, ma poi entra subito un moog d’altri tempi, la batteria, le chitarre elettriche, gli archi, e infine il piano, e si sviluppa una pop song raffinata e complessa, con continui cambi di tempo, dove probabilmente c’è lo zampino di Rubin, regista del brillante equilibrio tra radici e modernità da sempre presente nel sound del gruppo. Satan Pulls The Strings, che era già presente sul Live Vol.4, è un altro riuscito incrocio tra un moderno rock “indiavolato” e gli inserti di violino e banjo che rappresentano il lato country, brano minore ma comunque piacevole. Decisamente superiore la title-track, True Sadness è sulla falsariga delle loro cose migliori, la canzone ha tutto: ritmo, energia, splendide armonie vocali, una bella melodia, un arrangiamento di notevole complessità, e la voce in primo piano è un ulteriore esempio di come fare del perfetto rock and roll per i nostri tempi (con il tocco di classe del violino inserito in chiusura di brano) https://www.youtube.com/watch?v=s3PaIw7pFuI . I Wish I Was, sempre con un banjo evocativo, suonato da Scott, che la apre e si affianca alla voce limpida e partecipe di Seth, mentre il contrabbasso tiene il tempo sullo sfondo, è una sorta di folk song in crescendo, con gli strumenti che entrano lentamente, le acustiche, un organo, il cello appena accennato e addirittura con un assolo di banjo, caso rarissimo nella musica degli anni 2000 https://www.youtube.com/watch?v=uKkW_pjDQSA .

Ancora atmosfere raccolte per Fisher Road To Hollywood, un’altra folk song che quasi si inserisce nel filone dei brani narrativi dei migliori Simon And Garfunkel https://www.youtube.com/watch?v=gNRz2IXXCn0 , con Seth e il fratello Scott che la cantano all’unisono, mentre il cello di Kwon si innesta in modo discreto ma significavo nella tenue bellezza della canzone. In un disco degli Avett Brothers non può mancare il rock, o meglio lo spirito del rock, sotto la forma energica e travolgente di una arrembante Victims Of Life, tra chitarre spagnoleggianti arpeggiate, percussioni e il solito contrabbasso che marca il tempo, ci riporta al suono folk (rock) dei primi dischi, ma anche a quello dei primi Mumford And Sons. Divorce Separation Blues, per parafrasare il titolo dell’album è una canzone di “vera tristezza”, almeno nel titolo e nel testo, perché poi il brano, tra yodel appena accennati, uno spirito folk anni ’30 che si rifà ai fondamentali della canzone popolare americana e uno spirito nuovamente malinconico ma ironico, ha comunque una sua “modernità nella tradizione”, che è il tratto distintivo dei migliori brani del gruppo. Un florilegio magniloquente di archi apre la conclusiva May It Last, altra ballata, in questo caso più epica, che si regge sull’alternarsi delle due voci soliste che poi si ritrovano nella parte centrale e ci regalano ancora una volta le loro splendide armonie vocali, mentre tastiere, strumenti a corda e percussioni allargano lo spettro sonoro di questa canzone che vive ancora una volta nell’alternarsi tra pieni orchestrali e momenti più intimi, anche se forse gli manca quel quid che caratterizza i grandi pezzi. In conclusione un lavoro solido, onesto, con parecchie belle canzoni, suonato benissimo, cantato anche meglio e con la produzione di Rubin che valorizza l’insieme, probabilmente non un capolavoro ma un bel disco sicuramente!

Bruno Conti

Con Un Nome Così Difficile Fare Dischi Brutti! Green River Ordinance – Fifteen

green river ordinance fifteen

Green River Ordinance – Fifteen – Residence Music

Ovviamente il riferimento del titolo del Post è quello ad una delle canzoni più famose e più belle dei Creedence (il genere però non c’entra per nulla), ma il nome della band viene da una legge americana che proibisce la vendita porta a porta a meno che il proprietario non dia il permesso. E noi il permesso di entrare ai Green River Ordinance lo diamo assolutamente, soprattutto per questo Fifteen, il loro quarto album, che festeggia appunto quindici anni di carriera (le aste cancellate sulla copertina). Tipi semplici e dal cuore d’oro, vengono da Forth Worth, Texas, sono un quintetto, incentrato intorno alla voce fresca e piacevolissima di Josh Jenkins, che vede nella propria formazione una coppia di fratelli, Jamey Ice, chitarra solista, resonator, 12 corde, mandolino e banjo, e Geoff Ice, basso, armonica e voce di supporto. Completano il quintetto Denton Hunker, alla batteria e Joshua Wilkerson, seconda chitarra, piano, mandolino e anche lui voce aggiunta. E sono proprio le armonie vocali tra i punti di forza di questa band sudista che però rientra nel filone Americana, anzi direi che fanno proprio del country rock classico, quello dei bei tempi che furono. Quindi ancora una volta possiamo dire, niente di nuovo, però fatto molto bene, con canzoni decisamente belle, prevalentemente sotto forma di ballate, ma se serve aggiungono la giusta quota rock, mai troppo tirato. I vari produttori, Jordan Critz, Rick Beato Paul Moak, aggiungono, oltre a una bella nitidezza di suono, altre chitarre, lap e pedal steel, tastiere, che con l’aggiunta di un paio di violinisti che si alternano in sei degli undici brani dell’album aumentano decisamente anche la quota country dell’album.

Come si diceva la forma ballata è quella prediletta dalla band, magari in leggero mid-tempo, come nell’iniziale Keep Your Cool. che parte piano, poi va in crescendo, con gli strumenti che entrano di volta in volta, acquisisce grinta e si insinua nell’attenzione dell’ascoltatore, con armonie vocali avvolgenti, tocchi di armonica, organo e le chitarre elettriche che senza ruggire sono comunque molto presenti nel sound complessivo. Red Fire Night, con violini guizzanti, banjo, armonica e le solite armonie vocali delicate è sempre una deliziosa e gioiosa celebrazione della vita attraverso ritmi country che non saranno nuovi ma se ben suonati si ascoltano sempre con piacere. Maybe It’s Time (Gravity) è una delle loro escursioni nel rock, più ruvida e riffata degli altri brani, può ricordare certe cose degli Avett Brothers o dei conterranei Band Of Heathens, a tratti si va quasi di boogie. Simple Life, con la pedal steel, suonata dal produttore Paul Moak, in evidenza, è una di quelle bellissime ballate che sono il loro marchio di fabbrica, con piano e violino ad ampliare lo spettro sonoro del brano. Eccellente anche Tallahasseee, senza pedal steel aumenta la quota rock, ma l’armonizzare del gruppo è sempre di grande effetto e il suono corale di band e musicisti aggiunti è sempre coinvolgente, con l’armonica che è uno degli elementi ricorrenti negli arrangiamenti.

You, Me And The Sea, ballata elettroacustica molto dolce, sempre dalle melodie molto accattivanti, e non mancano mai in nessun brano, sempre con questa rivisitazione di suoni e stili molto garbata, ma efficace e ben realizzata. Anche Always Love Her, altra bella canzone d’amore, prosegue in questo percorso musicale, più mossa e brillante nei ritmi, ma con le immancabili armonie vocali, violino guizzante e suoni country. Ancora più evidenti in Endlessly, dove sono mandolino, piano e pedal steel gli strumenti guida, con il solito violino di Lindsey Duffin sullo sfondo, insieme alle voci dei componenti della band che in questo brano si alternano alla guida della canzone.Only God Knows dimostra che anche invertendo l’ordine di un titolo, la canzone rimane un piccolo gioiellino, una sorta di spiritual moderno e contemporaneo con sonorità rock, mentre Life In The Wind, con slide, acustica, piano e mandolino in evidenza, ha un impianto più country-folk e diversifica il sound dell’album, anche grazie al leggero falsetto a tratti di Josh Jenkins, che si rivela ottimo cantante per chi non lo conosceva e interagisce al solito con le voci degli altri componenti la band. A chiudere Keep My Heart Open, la più lunga e forse anche la più bella delle ballate contenute in questo Fifteen, che si conferma come uno degli album più interessanti di questo primo scorcio di 2016.

Bruno Conti

Dal Vivo Sempre Bravissimi! Avett Brothers – Live Vol. 4

avett brothers live volume 4

Avett Brothers – Live Vol. 4 –  CD+DVD American Recordings/UMG

Gli Avett Brothers sono quasi dei clienti fissi del Blog, http://discoclub.myblog.it/2012/09/22/pop-in-excelsis-deo-avett-brothers-the-carpenter/ e http://discoclub.myblog.it/2010/11/04/temp-38e44dc3108786660152b6bd09f62fa0/, ma anche dei concerti dal vivo, visto che questo Live Vol.4, come recita il titolo, è già il quarto capitolo della serie dedicata alle esibizioni in concerto, dal primo Live At The Double Inn del 2002, quando erano degli illustri sconosciuti. Per questa nuova puntata delle loro avventure concertistiche hanno deciso di abbinare nella confezione sia il CD come il DVD, mentre per esempio nel 3° volume i due formati erano usciti divisi. e, purtroppo, come al solito, il doppio non è edito né in Europa, né tanto meno in Italia. Oltre a tutto essendo stato pubblicato il 18 dicembre, nelle immediate vicinanze del Natale non ha fatto neppure in tempo ad entrare in molte classifiche dei migliori dischi dell’anno, magari almeno per i Live.

Il concerto è stato registrato il 31 dicembre del 2014 alla PNC Arena, a Raleigh, Carolina del Nord, quindi nella tana del lupo, a casa loro, dove la band è popolarissima, e i ventimila presenti praticamente pendevano dalle loro labbra. Non che ne abbiamo bisogno, visto che dal vivo (ma pure in studio) sono bravissimi, una delle migliori band del nuovo rock a stelle e strisce, sempre in bilico tra country, Americana, Bluegrass e, dal vivo, anche moltissimo rock: i due fratelli Scott Seth Avett hanno delle bellissime voci e anche il resto dei componenti del gruppo contribuiscono a questo suono fresco, frizzante e di eccellente qualità. Se proprio un appunto si può fare al CD è quello che essendo un tipico concerto “festivo”, la gag del vecchio “Father Time” che si aggira per le strade e sul palco e della sua compagna Mother Nature, viene tirata un po’ per le lunghe e anche le versioni del traditional Auld Lang Syne, preceduta dal countdown di fine anno e del vecchio brano di Roy Rogers, Happy Trails, non mi sembrano particolarmente memorabili. Per il resto pollice alzato.

L’apertura, sulle immagini del pubblico che entra nell’arena, è affidata a una lunga intro batteria e violino, suonato dalla bravissima Tania Elizabeth, con il resto dei componenti che salgono sul palco a mano a mano, sulle note di una inedita, e indiavolata, dato il nome del brano, Satan Pulls The Strings, che illustra il loro lato più bluegrass/country, tra banjo, chitarre acustiche, un secondo violino, il cello di Jim Kwon, il contrabbasso e la batteria di Mike Marsh. tutti vestiti in nero da bravi cowboys. Laundry Room è un bellissima ballata elettro-acustica e malinconica che era sull’album prodotto da Rick Rubin, quell’  I And Love And You che li ha fatti diventare popolarissimi negli States e piuttosto conosciuti nel resto del mondo, senza concessioni alla musica pop e con quelle armonie vocali e crescendo strumentali che sono il loro marchio di fabbrica. Another Is Waiting, altra canzone bellissima era su Magpie And The Dandelion, l’ultimo album del 2013, anche questo recensito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2013/11/01/sono-sempr-5747492/Shame era su Emotionalism, il quinto ultimo, l’ultimo primo della fama globale, ma quando erano giù una band formata e dalle eccellenti aperture folk, confermate in questa calda versione (il brano era anche nel precedente Live Vol.3).

Poi inizia la parte più elettrica del concerto: Kick Drum Heart è un formidabile pezzo rock, quasi springsteeniano, ideale per gasare il pubblico, sempre da I And Love And You, con fioriture di piano, organo e violino, oltre all’elettrica di Seth che si produce in un veemente assolo nella parte finale del brano, mentre anche l’altra canzone nuova, Rejects In the Attic, conferma la sempre eccellente vena compositiva dei fratelli, ben coadiuvati da Bob Crawford, il bassista storico e co-autore della gran parte dei brani della band, in questo caso una delle loro tipiche ballate melodiche ed avvolgenti, tipico brano “invernale” che ben si inserisce anche metaforicamente nel periodo più freddo dell’anno. Ancora dal loro album di maggior successo, dopo un altro intermezzo di Father Time, ecco la dolcissima ed acustica, solo due chitarre, Ten Thousand Words, dove la sorella Bonnie si aggiunge alle formidabili armonie vocali della famiglia Avett. Talk On Insolence, di nuovo a tutto bluegrass, viene dal loro non dimenticato passato di grande band country-folk, di nuovo in in un florilegio di banjo, acustiche, violini e continui cambi di tempo che esaltano il pubblico presente che viene trascinato in un gorgo di divertimento.

Di Auld Lang Syne che arriva dopo il conto alla rovescia di fine anno e l’ennesima apparizione di Father Time, con la sua clessidra, si è detto, molto più travolgente una fantastica versione di The Boys Are Back In Town dei Thin Lizzy, di cui Phil Lynott il suo autore, sarebbe stato orgoglioso: cantata da Valient Thorr, il leader dell’omonima band locale, e con i fratelli alle twin leads conferma il suo status di grande pezzo di R&R. Poi c’è ancora tempo per due brani tratti da I And Love And You, la travolgente Slight Figure Of Speech, con vari finti finali e la title-track di quel disco che è una ballata tra le più belle mai firmate dagli Avett Brothers. Chiude il tutto Happy Trails. Luca Carboni una volta disse che Dustin Hoffman non sbagliava un film, ma poi ha iniziato a “ciccarli” a ripetizione, i nostri amici, per il momento, viceversa, non sbagliano un disco!

Bruno Conti

P.s Filmati ufficiali del concerto in rete non se ne trovano per cui ho inserito materiale da altri concerti, passati e recenti.