Ancora Prima Di Esordire, Sapeva Già Stare Sul Palco. Steve Goodman – Live ’69

steve goodman live '69

Steve Goodman – Live ’69 – Omnivore CD

Continua da parte della Omnivore la meritoria opera di recupero della figura di Steve Goodman, talentuoso quanto sfortunato cantautore di Chicago grande amico di John Prine, scomparso nel 1984 a causa di una subdola forma di leucemia contro la quale combatteva da anni: dopo le ristampe dell’anno scorso che riguardavano gli ultimi due lavori pubblicati in vita da Steve (Affordable Art ed il live Artistic Hair) ed i primi due postumi (Santa Ana Winds e Unfinished Businesshttps://discoclub.myblog.it/2019/09/18/un-piccolo-grande-cantautore-e-quattro-ristampe-per-ricordarlo-steve-goodman-artistic-hairaffordable-artsanta-ana-windsunfinished-business/ , l’etichetta indipendente di Los Angeles mette sul mercato un album dal vivo inedito che, come suggerisce il titolo Live ’69, prende in esame un concerto che Goodman tenne due anni prima del suo esordio discografico. Nel 1969 Rich Warren (autore delle liner notes di questo CD) era un giovane studente della University of Illinois a Champaign ma anche un appassionato di musica folk, ed ebbe quindi l’idea di creare e condurre un programma radiofonico da mandare in onda sulle frequenze universitarie, il cui titolo era Changes e lo scopo quello di presentare giovani talenti locali in esibizioni dal vivo, ispirandosi alla leggendaria trasmissione degli anni cinquanta The Midnight Special.

Una sera, durante lo show della folksinger Bonnie Koloc, Warren ascoltò una canzone intitolata Song For David che gli piacque molto, ed alla domanda su chi l’avesse scritta la Koloc face il nome di un ventunenne songwriter chiamato Steve Goodman che purtroppo stava soccombendo alla leucemia. Dopo la pausa estiva, una sera Warren si trovava in un locale di Chicago famoso per ospitare musica folk dal vivo, The Earl Of Old Town, e sul palco c’era un piccolo artista che ad un certo punto intonò proprio Song For David: quando poi Rich apprese che la persona davanti a lui era proprio Goodman (che stava sperimentando con successo una nuova cura per la sua malattia), lo scritturò immediatamente per il suo show radiofonico, impressionato dalla capacità di Steve di stare sul palco e di tenere in pugno il pubblico nonostante una figura non proprio imponente e carismatica. Live ’69 documenta proprio la partecipazione di Goodman allo spettacolo di Warren, un’esibizione tenutasi il 10 novembre presso il campus dell’Università dell’Illinois che vede Steve alla chitarra acustica accompagnato solo da Bob Hoban al basso, violino ed occasionalmente seconda voce.

Il concerto (inciso molto bene) ha la particolarità di presentare soltanto cover: evidentemente Steve non era ancora sicuro del suo materiale e preferiva affidarsi a canzoni che la gente conosceva bene, anche se qua e là ci sono delle scelte decisamente personali. Ma quello che colpisce all’ascolto è la capacità e la padronanza del palcoscenico che il nostro aveva già due anni prima del suo debutto ufficiale, sia quando suonava e cantava sia quando intratteneva il pubblico con l’umorismo e l’ironia che in futuro sarebbero diventati due dei suoi punti di forza. Lo show si apre con la nota You Can’t Judge A Book By Its Cover di Willie Dixon, che Steve spoglia delle originarie caratteristiche blues e fa diventare una pimpante folk song; subito dopo abbiamo la splendida Ballad Of Spiro Agnew di Tom Paxton, purtroppo solo accennata, ed i nove minuti di Bullfrog Blues, brano che verrà poi ripreso anche da Rory Gallagher. A seguire abbiamo un trio di folk songs, a partire dall’evocativa Fast Freight (in questo caso la versione famosa è quella del Kingston Trio), suonata con molta forza e decisione, e continuando con i traditional Byker Bill e John Barleycorn, entrambi eseguiti a cappella.

Steve affronta anche autori affermati come Bob Dylan (Country Pie, scelta insolita), Merle Haggard (la classica Mama Tried), e Lennon/McCartney con Eleanor Rigby che fa parte di un torrenziale medley di ben 19 minuti nel quale il nostro mescola anche i Jefferson Airplane di Somebody To Love, il brano tradizionale Where Are You Going e la nota I’m A Drifter di Travis Edmonson, intrattenendo il pubblico con apprezzati intermezzi quasi cabarettistici. Da citare anche una coinvolgente rilettura del classico country Truck Drivin’ Man, la scherzosa Wonderful World Of Sex di Mike Smith (che rimarrà nelle sue setlist anche in futuro) ed una esuberante The Auctioneer di LeRoy Van Dyke, che chiude la serata. Se siete dei neofiti per quanto riguarda Steve Goodman forse questo Live ’69 non è l’album da cui cominciare (mi rivolgerei piuttosto, se non siete tipi da antologie, ai suoi due primi lavori o alle quattro ristampe dello scorso anno), ma rimane comunque un’interessante testimonianza del talento in erba di un artista che ci ha lasciato troppo presto.

Marco Verdi

The Devil Went (Back) To Heaven: Ci Ha Lasciato Anche Charlie Daniels. Ed Un Augurio A Ringo Starr.

charlie daniels

In una fase di profonda crisi sociale (parlo degli USA), che però sta portando alcune persone su posizioni deliranti come il considerare razzista chiunque rivendichi le sue radici sudiste o far cambiare il nome a gruppi di seconda o terza fascia, vorrei celebrare la figura di Charlie Daniels, storico musicista scomparso ieri all’età di 83 per un ictus emorragico, un personaggio che in vita non aveva mai nascosto il suo orgoglio di “southern man”, né le sue tendenze conservatrici (posizioni che non escludono assolutamente il fatto di essere contro ogni tipo di razzismo, anche se molti soloni e buonisti un tanto al chilo pensano che ciò sia impossibile), e non aveva paura di usare la parola “Dixie” nelle sue canzoni.

Nato Charles Edward Daniels a Wilmington in North Carolina, il nostro è stato negli anni settanta con la sua Charlie Daniels Band uno dei massimi esponenti del movimento southern rock, anche se rispetto a gruppi come Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd la componente country era molto più marcata, grazie al fatto che Charlie era un provetto violinista che talvolta operava anche per conto terzi (per esempio era diventato nei seventies uno presenza quasi fissa negli album della Marshall Tucker Band).

Man mano che passavano gli anni la sua musica (sia da solo che con la CDB, ma non ci sono mai state grandi differenze nel suono in un caso rispetto all’altro) era diventata sempre più country, ma lo spirito graffiante del rock’n’roll non lo aveva mai abbandonato, e ciò si notava specialmente nelle potenti esibizioni dal vivo. Attivo dagli anni sessanta, Daniels comincia principalmente come sessionman a Nashville (inizialmente come bassista, solo in seguito si sposta alla chitarra e come ho già detto al violino), suonando anche con Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e Leonard Cohen. Il suo esordio discografico omonimo avviene nel 1970, ma è con il quinto album Fire On The Mountain del 1974 che Charlie pubblica uno dei lavori cardine del southern rock di quel periodo, un lavoro splendido che contiene tre dei suoi brani più popolari: Caballo Diablo, Long Haired Country Boy e The South’s Gonna Do It.

Da lì in poi il suono diventa sempre più country (e le vendite iniziano ad aumentare), con dischi comunque di ottimo valore come Saddle Tramp, High Lonesome e soprattutto il pluripremiato Million Mile Reflections del 1979 che contiene la celebre The Devil Went Down To Georgia, unico singolo di Daniels a raggiungere il primo posto in classifica. Se gli album sono più country che rock, le esibizioni live pongono maggiormente l’accento su potenza ed elettricità, con il nostro che dà il via dalla metà dei seventies alle Volunteer Jam, una sorta di appuntamento annuale in cui i migliori gruppi del sud (e non solo) si trovano sullo stesso palco per lanciarsi appunto in jam infuocate, un rendez-vous che però negli anni verrà parecchio diradato. Negli anni ottanta Daniels continua a pubblicare album di buona qualità trovando anche ottimi riscontri di vendite (specialmente con Windows del 1982 e Simple Man del 1989), mentre dai novanta inizia a perdere qualche colpo con lavori che denotano un certo patriottismo da baci Perugina come lo stucchevole America, I Believe In You ma anche con buone cose come Renegade del 1991 (che contiene una bellissima versione country-rock di Layla di Eric Clapton) e By The Light Of The Moon, notevole e coinvolgente collezione di cowboy songs.

Nei duemila Charlie ribadisce la sua fede repubbicana (ma nei settanta aveva appoggiato la candidatura di Jimmy Carter) difendendo la politica estera di Geroge W. Bush e registrando addirittura un album dal vivo in Iraq davanti alle truppe americane; non mancano però le zampate, come il bel disco di duetti Deuces del 2007 e, negli ultimi anni, un eccellente tributo alle canzoni di Dylan (Off The Grid, 2014), bissato nel 2016 da un altro ottimo disco di canzoni western, questa volta dal suono più acustico (Night Hawk). Due anni fa è uscito il bellissimo tributo dal vivo a Charlie in occasione della pubblicazione della ventesima Volunteer Jam, un notevole doppio CD con ospiti del calibro di Blackberry Smoke, Lynyrd Skynyrd, Devon Allman con Duane Betts, Billy Gibbons oltre naturalmente al padrone di casa.

Riposa in pace, vecchio Charlie, ed insegna agli angeli come si suona il violino.

Marco Verdi

ringo starr 80

P.S: vorrei controbilanciare una brutta notizia con una lieta, facendo gli auguri a Ringo Starr per il suoi 80 anni, portati peraltro splendidamente. Non sto certo qui a spiegarvi di chi sto parlando (tutti sanno chi è ed in che gruppo ha militato), ma vorrei celebrarlo con due canzoni: la prima adattissima per via del titolo anche se non è lui a cantare (ma a suonare la batteria sì!), mentre la seconda è uno dei suoi classici assoluti e forse la mia preferita del suo repertorio solista, un brano il cui testo rivela che Ringo aveva capito fin da subito che il suo percorso artistico post-Beatles non sarebbe stata una passeggiata.

Un “Big Man” In Più Per Il Capitano Jerry! Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989

jerry garcia garcialive 13

Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989 – ATO 2CD

Con tutte le uscite d’archivio dei Grateful Dead (solitamente due all’anno, una in primavera ed una in autunno, ed in più ci sono anche i Dave’s Picks) diventa difficile seguire anche l’analoga operazione denominata Garcia Live, riguardante appunto i tour da solista del leader Jerry Garcia ed anch’essa rinnovata più o meno con cadenza semestrale (senza considerare che ogni tanto vengono pubblicati live album del grande chitarrista anche al di fuori della serie, come per esempio Electric On The Eel). Lo scorso dicembre per esempio avevo soprasseduto, un po’ perché le mie finanze erano già provate dalle spese natalizie, ma soprattutto perché il dodicesimo volume della serie riguardava per l’ennesima volta un concerto di Jerry con il tastierista Merl Saunders, un binomio a mio giudizio già ampiamente documentato in passato, dal famoso Live At Keystone in poi.

A soli quattro mesi da quel triplo CD ecco però arrivare l’episodio numero tredici, e qui è stato molto più difficile resistere: innanzitutto stiamo parlando di un concerto del 1989 (per la precisione il 16 settembre al Poplar Creek Music Theatre di Hoffman Estates, un sobborgo di Chicago), cioè il primo anno di quello che per me è il miglior triennio di sempre della Jerry Garcia Band in termini di performance, e poi perché come ospite speciale in aggiunta ai soliti noti di quel periodo (oltre a Garcia, Melvin Seals alle tastiere, John Kahn al basso, David Kemper alla batteria e le backing vocalists Jaclyn LaBranch e Gloria Jones) abbiamo un sassofonista “abbastanza” conosciuto: Clarence Clemons, in quel periodo non troppo impegnato come d’altronde tutti i membri della E Street Band, che Bruce Springsteen aveva sciolto all’indomani del tour di Tunnel Of Love. Ma la presenza del “Big Man” non è la classica ospitata in cui il nostro si limita a soffiare nel suo strumento in un paio di pezzi, in quanto Jerry aveva chiesto a Clemons di entrare a far parte del suo gruppo per cinque concerti interi del tour. Ed il binomio funziona alla meraviglia, in quanto Clarence non è per nulla un corpo estraneo alla JGB ma anzi è integrato alla perfezione al suo interno, ed i suoi interventi portano un tocco di “Jersey Sound” in canzoni che in origine stavano da tutt’altra parte. Se aggiungiamo che lo stato di forma del resto del gruppo è a livelli eccellenti (soprattutto Seals, strepitoso all’organo), che Jerry canta per tutto lo show quasi senza sbavature (mentre la sua performance chitarristica è stellare come sempre) e che il suono del doppio CD lascia a bocca aperta, mi sento di affermare che questo Volume 13 è uno degli episodi migliori di tutta la serie.

Il concerto, 14 pezzi in tutto, inizia con gli unici due brani a firma Garcia-Hunter, una solidissima Cats Under The Stars, con Jerry che mostra da subito il suo stato di forma eccellente (e Clarence che dona alla canzone un tocco soul), e They Love Each Other, una bella ballata che è anche un classico negli show dei Dead, leggermente spruzzata di reggae, con un ottimo refrain ed una notevole performance strumentale collettiva (e Seals che fa i numeri all’organo). Negli spettacoli solisti di Garcia non mancano mai dei pezzi di Bob Dylan, ed in quella serata Jerry ne suona tre: due lunghe e rilassate versioni di I Shall Be Released e Knockin’ On Heaven’s Door (splendida la prima, con organo e sax che portano idealmente il sound ben al di sotto della Mason-Dixon Line), ed il finale con una pimpante Tangled Up In Blue, dove forse l’unica cosa superflua è il coro femminile. C’è anche un match tra Beatles e Rolling Stones (che si chiude in parità), con una solida e riuscita interpretazione di Dear Prudence, ancora ricca di umori sudisti estranei all’originale dei Fab Four (ed il suono è davvero uno spettacolo), mentre le Pietre Rotolanti sono omaggiate con una grintosa e coinvolgente Let’s Spend The Night Together, dall’arrangiamento funkeggiante ed i cori che danno un tono gospel.

I nostri poi pagano il giusto tributo al rock’n’roll (una strepitosa Let It Rock di Chuck Berry, nove minuti che Clemons tinge ancora di umori soul), all’R&B (una saltellante How Sweet It Is di Marvin Gaye, qui più che mai godibile e riuscita) ed al blues (una sinuosa ed elegante resa di Someday Baby di Lightnin’ Hopkins, davvero eccelsa, ed una ripresa quasi rigorosa di Think di Jimmy McCracklin, con un gran lavoro da parte di Seals e Jerry che si cala alla perfezione nei panni del bluesman con una prova chitarristica sontuosa). Infine, non mancano tre omaggi alla canzone d’autore, con una scintillante Waiting For A Miracle di Bruce Cockburn, tra le più belle versioni mai suonate da Garcia di questo brano, e le altrettanto imperdibili Evangeline dei Los Lobos (rilettura irresistibile e trascinante) e The Night They Drove Old Dixie Down, superclassico di The Band cantato piuttosto bene da Jerry e non massacrato come altre volte, a conferma che la serata di fine estate del 1989 è tra quelle in cui tutto funziona a meraviglia. In definitiva Garcia Live Volume 13 è un live da accaparrarsi senza troppe esitazioni, nonostante l’infinito ed inarrestabile fiume di pubblicazioni inerenti ai Grateful Dead e dintorni.

Marco Verdi

Anche Mister Little “A-Wop-Bop-A-Loo-Bop-A-Wop-Bam-Boom” Richard Se Ne E’ Andato…Ora Rimane Soltanto Jerry Lee!

little richard screaming

Ieri, 9 maggio 2020, il rock’n’roll ha perso uno dei suoi pionieri più fondamentali: si è infatti spento a Nashville, a causa di un tumore osseo, il grande Richard Wayne Penniman, che tutto il mondo aveva imparato a conoscere come Little Richard. Figura importantissima per lo sviluppo del rock’n’roll nell’ambito della musica popolare (iniziò diversi anni prima di un certo Elvis Presley), Richard fu anche il solo esponente di colore del genere insieme a Chuck Berry (ci sarebbero anche Fats Domino e Bo Diddley, benché i loro nomi non sono sempre associati direttamente al rock’n’roll), ma mentre le radici del rocker di St. Louis affondavano nel blues, Penniman fu il primo a contaminare la sua musica con cospicue dosi di rhythm’n’blues, soul e gospel, il tutto unito ad esibizioni infuocate e ad un look stravagante e decisamente trasgressivo per l’epoca.

little richard with the beatles

Oggi la sua figura è poco citata (complice anche la lunga inattività discografica), ma Richard è considerato uno dei soggetti più influenti in assoluto nel mondo del rock, e parlo di gente come Beatles, Rolling Stones (Mick Jagger lo ha definito la sua massima fonte di ispirazione), Bob Dylan (che quando fu introdotto nella Hall Of Fame dichiarò che fu proprio per merito della figura di Little Richard a convincersi a diventare musicista, concetto ribadito ieri con un messaggio su Twitter), John Fogerty, Bob Seger, Jimi Hendrix (che ancora sconosciuto fu per quasi un anno il suo chitarrista), Rod Stewart e Freddie Mercury, ma anche suoi quasi contemporanei come Ray Charles e James Brown. Nato nel 1932 a Macon, in Georgia, Richard era il terzo di ben dodici figli, e ricevette dai suoi genitori un’educazione a forte carattere religioso, cosa che si rivelerà determinante per il suo futuro. La musica entrò presto nella vita del giovane Richard, che usava esibirsi nelle chiese locali insieme ai membri della sua famiglia con il nome di The Penniman Singers.

A scuola perse presto interesse per lo studio ed iniziò a suonare in gruppi giovanili (prima di spostarsi al pianoforte, il suo primo strumento fu il sassofono), essendo notato per la prima volta nel 1947 da Sister Rosetta Tharpe, che ne ammirava lo stile esuberante e la voce potente nonostante la giovanissima età. In seguito Richard conobbe il già affermato Billy Wright (jump blues singer che era anche uno dei suoi idoli giovanili), che tramite le sue conoscenze lo aiutò a fargli firmare un contratto con la RCA ed a farlo entrare in uno studio di registrazione nel 1951, dove incise il suo primo 45 giri Taxi Blues.

Durante i primi anni (funestati anche dal lutto per la tragica morte del padre, ucciso con un colpo di pistola all’inizio del 1952) Richard non ebbe alcun successo con i suoi singoli, neppure quando passò dalla RCA alla Peacock, ma le cose cambiarono quando fu notato dal noto produttore Robert “Bumps” Blackwell, che gli fece firmare un nuovo contratto con la Specialty Records. Inizialmente le cose non sembravano andare molto meglio, ma spesso nella storia del rock’n’roll gli eventi più importanti succedono quasi per caso: nel 1955, in una pausa tra una session e l’altra, Richard iniziò a strimpellare al piano l’abbozzo di una nuova canzone dal testo non esattamente “stilnovista” ed un titolo un po’ idiota, ma con un mood sonoro decisamente trascinante. Blackwell intravide subito il potenziale della canzone e la fece incidere al nostro pubblicandola in tempi stretti come singolo.

Sto parlando di Tutti Frutti, una delle cinque-sei rock’n’roll songs che tutto il mondo (ma proprio tutto) conosce, brano che balzò subito al secondo posto delle classifiche e l’anno seguente acquistò ancora maggior popolarità in quanto fu incisa da Elvis nel suo formidabile album di debutto. Il resto è storia: da lì in poi Richard incise una lunga serie di canzoni che hanno fatto la storia del rock’n’roll (molte delle quali scritte da lui o dalla coppia formata da Blackwell e John Marascalco), brani irresistibili e famosissimi che rispondono ai titoli di Lucille, Slippin’ And Slidin’, Rip It Up, Ready Teddy, Long Tall Sally, Send Me Some Lovin’, Jenny Jenny, Good Golly Miss Molly, Kansas City, Keep A-Knockin’,

mentre dal 1957 con Here’s Little Richard il nostro incominciò anche a pubblicare album, pubblicati dalla etichetta Specialty, che all’inizio degli anni sessanta presero anche un indirizzo gospel.

A tutto ciò, Richard affiancava travolgenti esibizioni dal vivo, durante le quali venivano in un certo senso oltrepassate le rigide barriere razziali che resistevano ben salde nell’America di quegli anni, in quanto bianchi e neri si ritrovavano a ballare insieme nei club al suono della musica del piccolo musicista della Georgia. L’educazione religiosa ricavuta da bambino incomiciò però a bussare alla sua porta, e proprio nel 1957 (quindi all’apice del successo) il nostro smise improvvisamente di esibirsi dal vivo per frequentare un corso universitario cristiano al fine di diventare predicatore, ma nel 1962 tornò sulle scene con un trionfale tour nel Regno Unito, con sia Beatles che Stones (entrambi i gruppi erano agli esordi) come band di supporto prima dei suoi spettacoli.

Gli anni sessanta però vedranno calare la stella di Richard (destino comune con tutte le altre star dei fifties), e lui contribuirà in prima persona a causa dell’uso di droghe e di atteggiamenti a sfondo sessuale per l’epoca scandalosi (in quel periodo l’omosessualità non era vista benissimo, specie nell’America perbenista della cosiddetta “Bible Belt”), anche se verso la fine della decade tentò una parziale risalita, pubblicando due buoni album per la Okeh (uno in studio ed un live), nel 1969 partecipò al Toronto Peace Festival, organizzato da John Lennon, che vedete sotto e nel 1970 un disco dal suono parzialmente country per la Reprise (The Rill Thing). Gli anni settanta però saranno ancora più avari di soddisfazioni per Richard, che rischierà di sprofondare ancora di più nel tunnel della droga ma troverà conforto ancora una volta nella religione, diventando un predicatore quasi a tempo pieno e diradando in maniera sempre maggiore gli impegni musicali.

Un solo album negli anni ottanta (Lifetime Friend, 1986) ed uno nei novanta, una raccolta uscita nel 1992 con vecchie hits reincise con il chitarrista giapponese (!) Masayoshi Takanaka: poi più nulla a livello discografico (se si esclude qualche ospitata su dischi altrui o partecipazioni a tribute albums e colonne sonore) e solo sporadiche esibizioni dal vivo fino al 2013. Ma non c’era bisogno d’altro, in quanto il lascito di Little Richard alla storia del rock’n’roll era già enorme per quanto fatto nella seconda metà degli anni cinquanta e per l’influenza avuta sulle generazioni di musicisti venute dopo di lui: io vorrei ricordarlo con la re-incisione di Good Golly Miss Molly nel 1991, uno dei suoi brani storici per la colonna sonora del film con John Goodman King Ralph, registrazione prodotta dal mio “amico” Jeff Lynne e con Ringo Starr alla batteria (e del cui rarissimo CD singolo possiedo orgogliosamente una copia).

Con la scomparsa di Mr. Penniman ora Jerry Lee Lewis è davvero rimasto “the last man standing” dell’epoca d’oro del rock’n’roll: tieni duro Killer!

Marco Verdi

E Nel Giorno Dei Beatles Chi Ti Va Ad Annunciare Un Nuovo Album? Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

Come accennato da Bruno alla fine del suo post che ricordava che oggi è il cinquantesimo anniversario dell’uscita di Let It Be, ultimo album dei Beatles, nello stesso giorno quel burlone di Bob Dylan annuncia la pubblicazione di un nuovo disco, non si sa se per coincidenza o per mettere amichevolmente i bastoni tra le ruote agli ex colleghi. Rough And Rowdy Ways, questo il titolo del lavoro, è il primo album di brani originali da parte del nostro da Tempest del 2012 (in mezzo, come saprete, i tre dischi di cover di Frank Sinatra), ed uscirà il 19 giugno in doppio CD (e doppio LP), anche se vista la durata complessiva di 70 minuti circa si poteva prevedere anche un dischetto solo (ma per fortuna il prezzo sarà quello di un album singolo). Al momento la tracklist non è stata ancora comunicata, così come i dettagli su musicisti e produttore: l’unica cosa certa è che tra i dieci brani totali saranno presenti i singoli pubblicati recentemente come download I Contain Multitudes e Murder Most Foul (quest’ultima dovrebbe occupare il secondo dischetto da sola), più un terzo brano che è stato rilasciato in contemporanea all’annuncio dell’album, un ottimo rock-blues in odore di Rolling Stones intitolato False Prophet.

Ovviamente ci torneremo al momento dell’uscita, ma è chiaro che siamo di fronte ad uno degli eventi musicali dell’anno.

Marco Verdi

It Was 50 Years Ago, Per L’Ultima Volta? Beatles – L’8 Maggio Del 1970 Usciva Let It Be

beatles let it be

Il 1970, anche se quello che sta succedendo nel mondo potrebbe suggerire diversamente, sarà un anno importante a livello di 50esimi Anniversari di importanti dischi che uscivano in quell’anno. Oggi parliamo di Let It Be dei Beatles, il 12° album dei Fab Four veniva pubblicato l’8 maggio appunto del 1970, ma era stato registrato nel corso del 1969, prima delle sessions di Abbey Road, anche se gli ultimi ritocchi vennero apportati nel gennaio ’70, vedi I Me Mine, mentre pochi giorni dopo, tra il 13 e il 20 maggio, sarebbe uscito anche il film.

Si parla insistentemente da tempo di varie edizioni commemorative del film in DVD e Blu-Ray, che si chiamerà The Beatles:Get Back, diretto da Peter Jackson, il regista neozelandese, sceglendo tra oltre 55 ore di materiale video e 100 ore di materiale audio, quindi probabilmente ci saranno anche cofanetti a iosa in vari formati, e quindi ne parleremo quando sarà il momento, probabilmente verso la fine anno nel periodo natalizio, il motivo del punto interrogativo nel titolo del Post, naturalmente coronavirus permettendo. Ma oggi postiamo almeno alcuni dei video di un album che sicuramente, per usare un eufemismo, non è tra i migliori in assoluto di Lennon, McCartney, Harrison Starr, anche a causa della produzione “intrusiva” applicata da Phil Spector al disco, ma che comunque contiene alcune perle assolute del songbook dei Beatles.

Le vedete in sequenza e senza commenti, qui sopra e sotto.

Oggi anche Bob Dylan presenta una nuova canzone e annuncia per il 19 giugno l’album Rough And Rowdy Ways.

Una buona giornata a tutti.

Bruno Conti

Ci Voleva Il Virus Per Avere Una Sua Canzone Nuova? Bob Dylan – Murder Most Foul

Questa mattina è arrivato come un fulmine a ciel sereno un messaggio di Bob Dylan sui principali social networks, nel quale in sostanza il cantautore ringraziava i fans ed i followers per il supporto e la fiducia avuti in tutti questi anni, auspicando che con l’aiuto di Dio tutti usciranno in salute da questa situazione. Già questo sarebbe un piccolo evento per un soggetto così poco comunicativo come Dylan, ma la cosa ancora più interessante è che il nostro ha messo a disposizione sulle principali piattaforme un brano nuovo di zecca, il primo in otto anni (come saprete, gli ultimi tre album di Bob erano tutti costituiti da cover di standard interpretati da Frank Sinatra, e per avere un disco di brani originali bisogna appunto risalire allo splendido Tempest del 2012). Il pezzo in questione si intitola Murder Most Foul, e non è una canzonetta qualsiasi bensì un brano epico della durata di ben 17 minuti, in cui il nostro racconta con spirito da cronista l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (un po’ come aveva fatto con Tempest, la canzone, dedicata all’affondamento del Titanic): dato che però Dylan è Dylan, il celebre fatto di cronaca nera del 1963 è una sorta di pretesto per estendere il testo ad una disamina degli anni sessanta e settanta, citando anche la guerra del Vietnam, i festival di Woodstock e Altamont ed una lunga serie di nomi appartenenti al mondo del cinema e soprattutto della musica, con anche parecchi titoli di canzoni celati nelle lunghissime liriche.

Bob DylanCREDIT: Gus Stewart/Getty Images

Dal punto di vista musicale il brano vede il nostro più nei panni del narratore che in quelli di cantante, con una voce molto rilassata e le parole scandite molto bene: il pensiero va ad un’altra canzone del passato di Bob dalla durata “importante”, cioè Brownsville Girl, anche se qui l’accompagnamento musicale è quasi impercettibile, con pianoforte e violino come unici strumenti a farsi largo mentre sia chitarre che sezione ritmica stanno piuttosto nelle retrovie. Un brano di non facile approccio, uno di quei pezzi che non possono prescindere dalla lettura del testo, e perciò penso di fare cosa gradita nell’includere qua sotto una trascrizione grossolana basata sull’ascolto: come vedrete le citazioni sono parecchie, e se molti nomi o titoli di canzoni non ci si stupisce di trovarli in un brano di Dylan, altri sono più sorprendenti (Eagles, Fleetwood Mac, Queen, il film Nightmare On Elm Street): ma ecco il testo di Murder Most Foul, penso con un buon 95% di aderenza a quello reale…magari divertitevi come ho fatto io a trovare tutte le citazioni.

Twas a dark day in Dallas, November ’63
A day that will live on in infamy
President Kennedy was a-ridin’ high
Good day to be livin’ and a good day to die
Being led to the slaughter like a sacrificial lamb
He said, “Wait a minute, boys, you know who I am?”
“Of course we do. We know who you are.”
Then they blew off his head while he was still in the car
Shot down like a dog in broad daylight
Was a matter of timing and the timing was right
You got unpaid debts; we’ve come to collect
We’re gonna kill you with hatred; without any respect
We’ll mock you and shock you and we’ll put it in your face
We’ve already got someone here to take your place

The day they blew out the brains of the king
Thousands were watching; no one saw a thing
It happened so quickly, so quick, by surprise
Right there in front of everyone’s eyes
Greatest magic trick ever under the sun
Perfectly executed, skillfully done
Wolfman, oh wolfman, oh wolfman howl

Rub-a-dub-dub, it’s a murder most foul

Hush, little children. You’ll understand
The Beatles are comin’; they’re gonna hold your hand
Slide down the banister, go get your coat
Ferry ‘cross the Mersey and go for the throat
There’s three bums comin’ all dressed in rags
Pick up the pieces and lower the flags
I’m going to Woodstock; it’s the Aquarian Age
Then I’ll go to Altamont and sit near the stage
Put your head out the window; let the good times roll
There’s a party going on behind the Grassy Knoll

Stack up the bricks, pour the cement
Don’t say Dallas don’t love you, Mr. President
Put your foot in the tank and step on the gas
Try to make it to the triple underpass
Blackface singer, whiteface clown
Better not show your faces after the sun goes down
Up in the red light district, they’ve got cop on the beat
Living in a nightmare on Elm Street

When you’re down in Deep Ellum, put your money in your shoe
Don’t ask what your country can do for you
Cash on the ballot, money to burn
Dealey Plaza, make left-hand turn
I’m going down to the crossroads; gonna flag a ride
The place where faith, hope, and charity died
Shoot him while he runs, boy. Shoot him while you can
See if you can shoot the invisible man
Goodbye, Charlie. Goodbye, Uncle Sam
Frankly, Miss Scarlett, I don’t give a damn

What is the truth, and where did it go?
Ask Oswald and Ruby; they oughta know
“Shut your mouth,” said the wise old owl
Business is business, and it’s a murder most foul

Tommy, can you hear me? I’m the Acid Queen
I’m riding in a long, black limousine
Riding in the backseat next to my wife
Heading straight on in to the afterlife
I’m leaning to the left; got my head in her lap
Hold on, I’ve been led into some kind of a trap
Where we ask no quarter, and no quarter do we give
We’re right down the street from the street where you live
They mutilated his body, and they took out his brain
What more could they do? They piled on the pain
But his soul’s not there where it was supposed to be at
For the last fifty years they’ve been searchin’ for that

Freedom, oh freedom. Freedom cover me
I hate to tell you, mister, but only dead men are free
Send me some lovin’; tell me no lies
Throw the gun in the gutter and walk on by
Wake up, little Susie; let’s go for a drive
Cross the Trinity River; let’s keep hope alive
Turn the radio on; don’t touch the dials
Parkland hospital, only six more miles

You got me dizzy, Miss Lizzy. You filled me with lead
That magic bullet of yours has gone to my head
I’m just a patsy like Patsy Cline
Never shot anyone from in front or behind
I’ve blood in my eye, got blood in my ear
I’m never gonna make it to the new frontier
Zapruder’s film I seen night before
Seen it 33 times, maybe more

It’s vile and deceitful. It’s cruel and it’s mean
Ugliest thing that you ever have seen
They killed him once and they killed him twice
Killed him like a human sacrifice

The day that they killed him, someone said to me, “Son
The age of the Antichrist has only begun.”
Air Force One coming in through the gate
Johnson sworn in at 2:38
Let me know when you decide to thrown in the towel
It is what it is, and it’s murder most foul

What’s new, pussycat? What’d I say?
I said the soul of a nation been torn away
And it’s beginning to go into a slow decay
And that it’s 36 hours past Judgment Day

Wolfman Jack, speaking in tongues
He’s going on and on at the top of his lungs
Play me a song, Mr. Wolfman Jack
Play it for me in my long Cadillac
Play me that “Only the Good Die Young”
Take me to the place Tom Dooley was hung
Play St. James Infirmary and the Court of King James
If you want to remember, you better write down the names
Play Etta James, too. Play “I’d Rather Go Blind”
Play it for the man with the telepathic mind
Play John Lee Hooker. Play “Scratch My Back.”
Play it for that strip club owner named Jack
Guitar Slim going down slow
Play it for me and for Marilyn Monroe

Play “Please Don’t Let Me Be Misunderstood”
Play it for the First Lady, she ain’t feeling any good
Play Don Henley, play Glenn Frey
Take it to the limit and let it go by
Play it for Karl Wirsum, too
Looking far, far away at Down Gallow Avenue
Play tragedy, play “Twilight Time”
Take me back to Tulsa to the scene of the crime
Play another one and “Another One Bites the Dust”
Play “The Old Rugged Cross” and “In God We Trust”
Ride the pink horse down the long, lonesome road
Stand there and wait for his head to explode
Play “Mystery Train” for Mr. Mystery
The man who fell down dead like a rootless tree
Play it for the Reverend; play it for the Pastor
Play it for the dog that got no master
Play Oscar Peterson. Play Stan Getz
Play “Blue Sky”; play Dickey Betts
Play Art Pepper, Thelonious Monk
Charlie Parker and all that junk
All that junk and “All That Jazz”
Play something for the Birdman of Alcatraz
Play Buster Keaton, play Harold Lloyd
Play Bugsy Siegel, play Pretty Boy Floyd
Play the numbers, play the odds
Play “Cry Me A River” for the Lord of the gods
Play Number 9, play Number 6
Play it for Lindsey and Stevie Nicks
Play Nat King Cole, play “Nature Boy”
Play “Down In The Boondocks” for Terry Malloy
Play “It Happened One Night” and “One Night of Sin”
There’s 12 Million souls that are listening in
Play “Merchant of Venice”, play “Merchants of Death”
Play “Stella by Starlight” for Lady Macbeth

Don’t worry, Mr. President. Help’s on the way
Your brothers are coming; there’ll be hell to pay
Brothers? What brothers? What’s this about hell?
Tell them, “We’re waiting. Keep coming.” We’ll get them as well

Love Field is where his plane touched down
But it never did get back up off the ground
Was a hard act to follow, second to none
They killed him on the altar of the rising sun
Play “Misty” for me and “That Old Devil Moon”
Play “Anything Goes” and “Memphis in June”
Play “Lonely At the Top” and “Lonely Are the Brave”
Play it for Houdini spinning around his grave
Play Jelly Roll Morton, play “Lucille”
Play “Deep In a Dream”, and play “Driving Wheel”
Play “Moonlight Sonata” in F-sharp
And “A Key to the Highway” for the king on the harp
Play “Marching Through Georgia” and “Dumbarton’s Drums”
Play darkness and death will come when it comes
Play “Love Me Or Leave Me” by the great Bud Powell
Play “The Blood-stained Banner”, play “Murder Most Foul”

Non si sa al momento se questo brano sia o meno l’anticipazione di un nuovo album di Bob, ma è chiaro che sperare non costa nulla.

Marco Verdi

Anche Fatti (Bene) Da Al Di Meola, I Beatles Sono Pur Sempre I Beatles – Across The Universe

al di meola across the universe

Al Di Meola – Across The Universe – earMUSIC

Tra il 2017 e il 2018 Al Di Meola ha pubblicato due dischi: Opus e Elegant Gypsy & More 40th Anniversary Live, che festeggiava appunto i 40 anni dall’uscita del suo album più fortunato (e bello) https://discoclub.myblog.it/2018/07/19/uno-dei-migliori-album-del-jazz-rock-anni-70-rivisitato-40-anni-dopo-dal-vivo-al-di-meola-elegant-gypsy-more-live/ , il secondo registrato in versione full band e il primo diciamo con “full sound” elettrico, con Al che si occupava in ogni caso di tutti gli strumenti, piano e tastiere escluse. La stessa formula sonora è stata applicata per questo Across The Universe, che come lascia intuire il titolo è un tributo alla musica dei Beatles, il secondo capitolo, in quanto già nel 2013 Di Meola aveva pubblicato il disco acustico All Your Life: A Tribute to the Beatles Recorded at Abbey Road Studios, London, che sin dal titolo esplicitava chiaramente i suoi contenuti, presentando la visione personale del chitarrista del New Jersey della musica dei Fab Four, della quale anche lui, come molti di noi, è stato un avido ascoltatore negli anni formativi e che poi è sempre rimasta nel suo cuore.

Vediamo cosa ha scelto Di Meola per il secondo capitolo del suo tributo: ovviamente non ci sono brani in comune nei due dischi, ma cambia quasi completamente l’approccio sonoro, qui decisamente più rutilante e pirotecnico, senza però mai perdere di vista l’approccio melodico e complesso della musica di Lennon & McCartney (ma anche un brano di George Harrison, e persino un frammento di un pezzo di Ringo). Come si diceva il nostro amico suona tutto; chitarre acustiche ed elettriche come piovesse, inclusa la sua celebre Gibson nera del 1971 che non suonava dai dischi dei Return To Forever e nei primi due da solista, Land Of The Midnight Sun e Elegant Gypsy, un basso Rickenbacker, lo stesso modello suonato da MccCartney, ma anche batteria e percussioni (cajon e rullante), facendosi solo aiutare da un suonatore di tablas, in un paio di brani l’accordion, il tutto utilizzando lo stesso approccio one-man-band usato dai Beatles per il White Album. Il disco ha un suono splendido, Di Meola suona utilizzando al massimo la sua tecnica sopraffina per adattare e rivisitare la musica attraverso arrangiamenti di taglio rock (jazz), con parecchie parti aggiunte da lui, visto che il suo strumento principale non è la voce, che è praticamente assente, ma le chitarre, che fanno quindi anche le parti delle voci soliste.

Prima di iniziare un cenno alla copertina, che rivisita la foto di Rock’n’Roll, il disco di John Lennon del 1975, e poi 14 canzoni in sequenza, alcune celeberrime, altre meno note e scontate, partendo proprio dall’unico brano di Harrison, una splendida Here Comes The Sun, particolarmente adatta al suono stratificato delle chitarre, che ruotano intorno alla classica 12 corde, su cui si inseriscono le parti soliste intricate ma che non tralasciano il classico riff della canzone, e tutti i brani durano il doppio degli originali. Una bella sorpresa il medley di Abbey Road, da Golden Slumbers a Carry That Weight che mantiene il fascino della melodia originale, grazie alle magiche chitarre di Di Meola https://www.youtube.com/watch?v=ewU33TXlEWg , che si trasferiscono in Oriente grazie alle derive modali di una splendida Norwegian Wood, dove il tipico melody-bridge e ritorno dei pezzi dei Beatles viene arricchito dalle tablas e soprattutto dalle lunghe improvvisazioni di Al che ricordano il suono del periodo con McLaughlin e De Lucia, prima anche una sinuosa Dear Prudence, dove appaiono brevemente le voci di Di Meola e della figlia.

Altra perla acustica è la delicata Mother’s Nature Son, sempre con le prodigiose acustiche in azione https://www.youtube.com/watch?v=jchyHiTQrEI , e quella che sembra una fisa sullo sfondo, anche se forse il brano migliore dell’album è una magnifica Strawberry Fields Forever, avvolgente e complessa, in un crescendo elettrico di rara bellezza, pure la melodia indimenticabile di Yesterday viene ampliata oltre i cinque minuti per permetterc di ascoltarei le divagazioni del nostro, che poi si cimenta in una strana Your Mother Should Know a tempo di flamenco e con le note immortali di Hey Jude, all’inizio quasi irriconoscibile, e poi ancora caratterizzata dal suono della fisarmonica che gli dà un piglio quasi mitteleuropeo. Una malinconica e mossa I’ll Follow The Sun, la dolcissima Julia, Till There Was You che parte piano e poi assume un crescendo irresistibile, e infine uno dei miei preferiti assoluti di McCartney, quel capolavoro che risponde al nome di Here, There And Everywhere, qui eseguita solo con una acustica arpeggiata  https://www.youtube.com/watch?v=fvxqgpWNew0 . Prima di congedarci un breve divertissement per Octopus Garden, “cantata” dalla figlia più piccola di Di Meola. Quindi questi sono i Beatles visti superbamente dall’occhio di un grande Musicista, innamorato della loro musica.

Bruno Conti

Succedeva All’Incirca 40 Anni Fa. Elton John With Ray Cooper – Live From Moscow

elton john live from moscow

Elton John with Ray Cooper – Live From Moscow – 1979 – 2 CD Virgin/Universal Strategic

Dal 1977 Elton John aveva iniziato una serie di concerti ricorrenti per piano e percussioni , in compagnia dell’ineffabile Ray Cooper, uno dei più bravi e versatili musicisti inglesi: concerti che vengono riproposti periodicamente come An Evening with Elton John and Ray Cooper, dopo il 1977, c’è stato il tour del 1979, di cui tra un attimo, e poi ancora nel 1993-1994-2009-2010, gli ultimi due in Italia, perché più che di tournée si trattava di eventi speciali, serate uniche. Quella del 28 maggio 1979 a maggior ragione, visto che si trattava della prima volta in cui un artista pop occidentale importante varcava la cortina di ferro per recarsi nell’allora Unione Sovietica per esibirsi in concerto, nello specifico alla Russya Hall di Mosca, show che venne trasmesso lo stesso giorno dalla BBC, e di cui in seguito venne distribuita una VHS dal titolo To Russia With Elton, con un documentario e degli estratti dal concerto, che poi negli anni seguire è uscita per etichette improbabili, con titoli diversi e di fantasia, anche in DVD.

Ora per la prima volta (anche se ad aprile dello scorso anno per il Record Store Day era stato pubblicato il vinile) viene pubblicato un doppio CD e LP, rimasterizzato nel 2019 dai nastri analogici originali dal grande Bob Ludwig: il risultato è eccellente, anche se non si può evitare un appunto, che anche se non inficia il giudizio positivo fa esprimere qualche perplessità, infatti non si tratta del concerto completo, dei 26 brani che vennero eseguiti nella serata, nel doppio CD ce ne sono “solo” sedici, otto di Elton John in solitaria e otto con il supporto di Ray Cooper. Peccato perché, come ha dichiarato lo stesso Elton:  «Posso onestamente dire che è stata una delle migliori esperienze della mia vita. È stato uno dei tour più memorabili e felici che abbia mai fatto. L’ultimo spettacolo è stato probabilmente uno dei migliori concerti che abbia mai tenuto in vita mia. Lavorare con Ray, solo noi due sul palco, è stato esilarante e stimolante».

Avendolo ascoltato con attenzione, non posso che confermare, ma anche segnalare che mancano, tra le tante, canzoni come Yous Song, che apriva il concerto, Sixty Years On, Part-Time Love e Song For Guy, che erano i due brani tratti da A Single Man, l’ultimo grande album di Elton, prima di un lungo e lento declino iniziato con Victim Of Love proprio dell’autunno del 1979, e protrattosi per moltissimi dischi, prima di un lento ritorno alla forma negli anni ’90, e il clamoroso ritorno degli anni 2000 iniziato con Songs From The West Coast e proseguito anche con due album prodotti da T-Bone Burnett, oltre al disco di duetti con Leon Russell. Nella serata moscovita all’inizio il pubblico è titubante e “riservato, anche se Elton John è in forma strepitosa: la scaletta del doppio CD si apre con una ottima Daniel, e poi un fantastico trittico con emozionanti versioni di Skyline Pigeon, Take Me To The Pilot e Rocket Man, con il nostro veramente sontuoso al pianoforte, e anche il terzetto successivo di canzoni, per usare un eufemismo, non è male, Don’t Let The Sun Go Down On Me, Goodbye Yellow Brick Road e Candle In The Wind, sempre fantastiche.

Poi arriva la sorpresa della serata con una chilometrica versione (quasi 12 minuti) di I Heard It Through The Grapevine, con il nostro che esplora in modo virtuosistico tutti gli 88 tasti del suo pianoforte, dimostrando di essere un entertainer eccelso, e questo si è sempre saputo. La seconda parte del concerto, quella con Ray Cooper, si apre con il vibrante strumentale Funeral For A Friend, Elton, piano dirompente e le percussioni fenomenali di Cooper, segue la sinfonica Tonight da Blue Moves, Better Off Dead da Captain Fantastic e la divertente Bennie And The Jets, e ancora una malinconica e bellissima Sorry Seems To Be The Hardest Word, ottima anche la movimentata Crazy Water, sempre da Blue Moves, prima del finale pirotecnico con due medley da antologia che trascinano anche il compassato pubblico russo: Saturday Night’s Alright for Fighting/Pinball Wizard, dieci minuti da sballo e poi, in soli tre minuti e mezzo Crocodile Rock/Get Back/Back in the U.S.S.R., con l’omaggio finale ai Beatles. 40 anni ma non li dimostra, che concerto!

Bruno Conti

Tra Pop E Rock’n’Roll, Una Volta Si Diceva Power Pop, Un Dischetto Frizzante E Divertente. The Rubinoos – From Home

rubinoos from home

The Rubinoos – From Home – Yep Roc CD

Alzi la mano chi si ricorda dei Rubinoos, band di San Francisco che nella seconda metà degli anni settanta ebbe qualche successo minore con la sua miscela fresca e diretta di pop e rock’n’roll, soprattutto con i singoli I Think We’re Alone Now e I Wanna Be Your Boyfriend, che entrarono nella classifica di Billboard pur restando ben lontani dalle prime posizioni. Formatisi nel 1970, il gruppo esordì solo nel 1977 con l’album omonimo, per sciogliersi nell’indifferenza generale a metà anni ottanta dopo aver pubblicato solo un altro disco ed un EP. Tornati una prima volta nel 1998 e poi in pianta stabile negli anni duemila, i Rubinoos sono stati paradossalmente più attivi in questo nuovo millennio che nel momento di maggior popolarità, con ben cinque album pubblicati tra il 2003 ed il 2015.

Tra i loro fans c’è anche un certo Chuck Prophet, ed è proprio l’ex chitarrista dei Green On Red a produrre From Home, il nuovo lavoro del quartetto (formato dai membri fondatori Tommy Dunbar e Jon Rubin, chitarre e voci, dal batterista Donn Spindt, con loro dal 1971, e dal bassista Al Chan, acquisito nel 1980), oltre a suonare la chitarra e addirittura a scrivere tutte le dodici canzoni insieme a Dunbar, rivestendo quasi il ruolo di quinto membro aggiunto. E From Home si posiziona agevolmente in prima posizione tra gli album pubblicati dal quartetto californiano dalla loro reunion in poi: un dischetto fresco, piacevole e decisamente divertente e spensierato, in cui pop e rock’n’roll vengono fusi in maniera mirabile con un attitudine ed una grinta non comuni. Musica just for fun, ma fatta a regola d’arte, per 34 minuti davvero piacevoli a base di chitarre, gran ritmo e melodie accattivanti: il classico disco che non avrà grandi pretese ma che si fa una fatica boia a levare dal lettore.

Si parte con Do You Remember, brano chitarristico dal ritmo elevato e contraddistinto da un motivo diretto e cori al posto giusto, suonato però con piglio da garage band; ancora chitarre in evidenza (ma è una costante in tutto il disco) nell’orecchiabile January, puro pop in stile British fatto da americani, mentre la solare Do I Love You è immediata, piacevole e con uno squisito sapore pop-errebi anni sessanta. Bellissima poi Phaedra, una canzone dal ritmo irresistibile, accompagnamento diretto e vibrante e ritornello splendido, un pezzo che 50 anni fa avrebbe potuto diventare una hit; la velocissima How Fast è puro “pop’n’roll” suonato con una grinta che li avvicina ai Flamin’ Groovies, e si distingue dalla lenta ed elettroacustica Heart For Sale, a dimostrazione che i nostri non sono solo ritmo ma hanno anche le ballate nelle loro corde.

Con Honey From The Honeycombs riparte il mood rocknrollistico, che si sposa alla grande con la melodia beatlesiana ed i coretti in stile Beach Boys, e che prosegue con la cadenzata Rocking In Spain, ennesimo brano che rende impossibile l’ascolto senza muovere almeno il piedino. Masochist Davey è limpida, leggera e godibilissima, così come la bella Miss Alternate Universe, una pop song di quelle che vorresti durassero almeno dieci minuti; chiusura con la fresca ed immediata Pretty Close, di nuovo contraddistinta da uno spiccato gusto beatlesiano, e con Watching The Sun Go Down, deliziosa ballatona ancora in odore sixties. Bentornati ai Rubinoos ed alla loro musica fatta per divertire senza troppi fronzoli o complicazioni di sorta, ed un plauso a Chuck Prophet per averli aiutati (o almeno per averci provato) a farli uscire dall’anonimato.

Marco Verdi