La “Saga” Degli Orphan Brigade Sbarca In Irlanda – To The Edge Of The World

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Orphan Brigade -. To The Edge Of The World – Appaloosa/Ird

Prosegue il meritevole viaggio musicale dei bravi Orphan Brigade, iniziato con la registrazione in una casa coloniale del Kentucky, e precisamente la Octagon Hall, con l’ottimo Soundtrack To A Ghost Story, proseguita nelle strade di Osimo, tra le caverne e le catacombe della ridente cittadina marchigiana, con Heart Of The Cave https://discoclub.myblog.it/2017/10/12/dal-kentucky-ad-osimo-la-magia-continua-the-orphan-brigade-heart-of-the-cave/ , fino poi ad arrivare, in una ideale trilogia, con questo ultimo lavoro To The Edge Of The World, alle belle coste della verde contea di Antrim. Come nei dischi precedenti gli Orphan Brigade, che sono sempre Ben Glover alla chitarra acustica e voce, Neilson Hubbard alla chitarra, batteria, percussioni, tastiere, voce, nonché produttore dell’album, Joshua Britt al mandolino, chitarra acustica e voce, compongono le canzoni sul posto, avvalendosi poi anche di validi musicisti locali quali Colm McClean alla pedal steel, Conor McCreanor al basso, Barry Keer al flauto e cornamusa, Danny Mitchell al piano, Marla Gassmann al violino, Bestie Whirter all’organo, le brave coriste Lorna, Karen e Joleen McLaughlin, e come ospite John Prine, per un nucleo di brani che non sono altro che 14 brevi racconti tra musica tradizionale e nuove sonorità.

L’introduzione del disco è una breve Pipes’ suonata dalla cornamusa di Barry Kerr, seguita dalle percussioni al ritmo da Bo Diddley “style” di una grintosa Mad Man’s Window, per poi scoprire gli intriganti e stranianti ululati di una “tribale” Banshee, registrati a mezzanotte nella foresta di Glenarm, fare in seguito un salto nel cimitero della chiesa di St.Patrick per cantare una celtica Under The Chestnut Tree, mentre con la danzante Dance With Me To The Edge Of The World, eseguita sulle scogliere del castello di Kinbane, è proprio impossibile non muovere il “piedino”. Si riparte con le chitarre acustiche di una dolce Children Of Lir, per poi far salire su una barca il grande John Prine, e dirigersi verso la baia di Glenarm, per cantare in duetto con lui una splendida ballata come Captain’s Song (Sorley Boy), scivolare ancora sulle note del mandolino di Joshua Britt, nel tenue valzer Isabella, cambiare totalmente ritmo con il “country celtico” di una song irlandese come St.Patrick On Slemish Mountain, che introduce il secondo breve intermezzo musicale, una Bessie’s Hymn giocata sull’organo della McWhirter.

La parte finale del lavoro ci porta infine sulle spiagge di Cushendun, con la corale e danzante Fair Head’s Daughter, la ripresa di una breve To The Edge The World, cantata con il supporto del Children’s Choir, trasferirsi nel convento di Bonamargy nel Ballycastle per ballare sulle panche una marcia nuovamente “tribale” come Black Nun, e andare a chiudere sulle strade della foresta di Glenarm, accompagnati dalla dolce nenia di un flauto, nella spettrale e catartica Mind The Road, cantata da Ben Glover. Il gruppo americano/irlandese, con questo To The Edge Of The World continua il suo viaggio per il mondo, con un modo attualmente unico di fare musica, una sorta di concept-albums sempre alla ricerca di storie e ispirazioni, con un giusto equilibrio tra arrangiamenti tradizionali e le nuove sonorità, che è il marchio di fabbrica della band. Gli Orphan Brigade non sbagliano un colpo, e come nei lavori precedenti c’è della magia in questo disco, suonato come Dio comanda, con testi intrisi di storia e commozione che ti entrano nell’anima e questo li rende unici e affascinanti. To be continued …

*NDT: Al solito una menzione speciale per la gloriosa etichetta italiana Appaloosa che ha pubblicato il CD, con allegato un libretto arricchito dai testi in inglese e con ottime traduzioni italiane.

Tino Montanari

Canzoni Dal Salotto Di Casa. Jude Johnstone – Living Room

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Jude Johnstone – Living Room – Bojak Records

Come gli attenti lettori di questo blog sanno, Jude Johnstone non la scopriamo certo adesso, ma già in passato abbiamo avuto modo di parlare di alcuni suoi dischi, tra cui gli eccellenti Shatter e A Woman’s Work https://discoclub.myblog.it/2017/02/17/un-altro-grande-disco-per-la-randy-newman-al-femminile-jude-johnstone-a-womans-work/ , lavori di un’artista molto conosciuta e apprezzata a livello internazionale, ma purtroppo ancora poco conosciuta dalle nostre parti, e temo che rimarrà tale vista la non facile reperibilità dei suoi album, e il fatto non depone certo a nostro favore per una artista che ha iniziato la sua carriera nel lontano 2002. Questo Living Room è il suo ottavo album, sempre distribuito dalla sua etichetta indipendente Bojak Records (per l’occasione, come da titolo; registrato nel salotto di casa di Nashville della cantautrice), con solo l’apporto del pianoforte, e il contributo di alcuni eccellenti musicisti, tra i quali il violoncellista Bob Liebman, la brava violinista Olivia Korkola (lo zoccolo duro del lavoro), David Pomeroy al basso, Mike Meadows alle percussioni, con il non trascurabile apporto in qualità di “vocalist aggiunti” di colleghi come Ben Glover, Neilson Hubbard (Orphan Brigade), Brandon Jesse, il tutto sotto la produzione del fonico Michael Hanson, con il risultato finale di un set di dieci brani dolorosi e profondi.

Pura poesia sonora emana dalla dolcissima iniziale Is There Nothing solo pianoforte e voce, seguita dalla bellissima My Heart Belongs To You cantata in coppia con Neilson Hubbard, passando poi ad una delicata That’s What You Don’t Know interpretata con il socio di Hubbard negli Orphan Brigade, Ben Glover. All I Ever Do costituisce uno dei punti di forza del disco, soprattutto per il canto vibrante di Jude che emana una profonda commozione, brano subito seguioa da una raffinata One Good Reason, arricchita dal suono di un quartetto d’archi che rivaleggia con il pianoforte della Johnstone, che ci porta poi all’ascolto di un vero capolavoro con una ballata come Serenita, una sorta di delicata “romanza” per piano, voce e la tromba di Tim Hockenberry, ad accompagnare la voce calda di Brandon Jesse supportata dal canto di Jude. Ci si avvia verso la conclusione con la magia di una “poesia” declamata come I Guess It’s Gonna Be That Way, una sorta di dolcissimo valzer-celtico Season Of Time, interpretato ancora insieme al bravo Glover, per poi commuoversi sulle le note della pianistica So Easy To Forget, sussurrata ancora in coppia con Brandon e il supporto della tromba di Tim, andando a chiudere con un piccolo raffinato gioiello musicale solo piano e voce, che non poteva che chiamarsi Paradise.

Devo ammettere che quando ascolto i nuovi lavori di questa signora, mi sorprendono ogni volta per la sensibilità squisitamente femminile dei testi dei suoi brani, cosa che puntualmente accade anche in questo Living Room, dove le dieci canzoni che lo compongono non possono non ricordare nella stesura e approccio compositivo un’altra grande artista che risponde al nome di Mary Gauthier. Durante la sua lunga carriera Jude Johnstone, ha avuto il riconoscimento che le sue canzoni sono state interpretate da artisti del calibro per esmpio di Johnny Cash, ma anche di diverse cantautrici (per il discorso fatto poc’anzi), interpreti come le americane Bette Midler, Stevie Nicks, Emmylou Harris, Trisha Yearwood, Jennifer Warnes, Bonnie Raitt, e la grande vocalist irlandese Mary Black, guadagnandosi il nostro rispetto anche per questo Living Room, un disco dal fascino incredibile e senza tempo, che pur non aggiungendo nulla alla lunga storia musicale americana, evoca un tempo che (purtroppo) non esiste più, ma per tenerlo in vita potrebbe essere sufficiente un costante e meritevole “passaparola”, per far conoscere questo piccolo gioiello musicale.

*NDT: Per chiudere il cerchio vi ricordo che la Johnstone era stata scoperta ai tempi, dal suo primo mentore Clarence Clemons, il mitico sassofonista della E-Street Band.

Tino Montanari

Dal Kentucky Ad Osimo, La Magia Continua! The Orphan Brigade – Heart Of The Cave

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Orphan Brigade – Heart Of The Cave – Appaloosa Records / Ird

Come nei “sequel” di successo che si rispettino, a distanza di due anni dall’acclamato Soundtrack To A Ghost Story, tornano gli Orphan Brigade che, lasciata la casa “infestata” nel Kentucky, l’Octagon Hall di Franklin http://discoclub.myblog.it/2016/01/12/recuperi-inizio-anno-6-delle-sorprese-fine-2015-orphan-brigade-soundtrack-to-ghost-story/ , con questo nuovo lavoro Heart Of The Cave (sempre per l’italiana Appaloosa, con accluso libretto dei testi in inglese e traduzione in italiano) si sono trasferiti nella ridente e bella cittadina italiana di Osimo, registrando questo “concept.album” nelle famose caverne (ricche di storia e con un alone di magia e mistero) della località marchigiana. Essenzialmente il “trio” è composto dal talentuoso cantante irlandese Ben Glover, e dai suoi due compari americani Joshua Britt e il bravo produttore Neilson Hubbard, ma bisogna ricordare che la “brigata” riunisce sotto lo stesso tetto anche una schiera di artisti e musicisti di talento che rispondono al nome di Gretchen Peters, Barry Walsh, Danny Mitchell, Dean Marold, Will Kimbrough, Natalie Schlabs, Eamon McLoughlin, Audrey Spillman, Kira Small, e Kris e Heather Donegan, che sviluppano, come nel lavoro precedente, tredici capitoli di un romanzo che spazia fra tradizione e religione, su un tappeto sonoro prettamente “folk acustico”.

Il brano iniziale Pile Of Bones, ricorda fortemente la musica dei nativi americani, a cui fanno seguito la ballata popolare Town Of A Hundred Chirches, dove spicca il mandolino di Josh Britt, il dovuto omaggio alla storia di Osimo (Come To File) un brano mid-tempo sostenuto dagli ottoni, la storia del patrono locale in una Flying Joe arrangiata in un intrigante “gospel bluegrass”, per poi rispolverare un antico motto massonico con Vitriol accompagnata da una chitarra acustica, violino e tastiere. L’ambizioso viaggio prosegue con la melodia contagiosa di una sussurrata Pain Is Gone, i cori magici che accompagnano una tambureggiante Alchemy, ricordando i migliori Arcade Fire (precisamente il periodo di Funeral), con la bellissima The Birds Are Silent (ispirata da un terremoto che purtroppo si è verificato nelle grotte), per poi passare alle note di una gioiosa The Bells Are Ringing, e tornare alla ballata romantica con Sweet Cecilia, sostenuta da una chitarra classica “andalusa”, che poi nello sviluppo si trasforma in un arrangiamento “appalachiano”.

La parte finale inizia con le note di pianoforte che accompagnano il percorso di una spettrale Meet Me In The Shadows, si affronta di nuovo la spiritualità con la commovente There’s A Fire That Never Goes Out, con il determinante contributo ai cori dei collaboratori e cantanti Gretchen Peters e Will Kimbrough, e per terminare questo nuovo magnifico progetto rimane la traccia di chiusura Donna Sacra, con le voci evocative del sacerdote e della congregazione femminile di Osimo, a testimonianza che l’intreccio fra la storia americana e quella italiana è meno distante di quello che si potrebbe pensare. Nel complesso Heart Of The Cave completa in modo eccezionale il precedente lavoro deglii Orphan Brigade, spaziando con disinvoltura da storie di uomini e fantasmi, a racconti di chiesa, misticismo e perfino di massoneria, dischi che personalmente non mi stancherei mai di ascoltare (suonati e cantati come dio comanda), intrisi di storia e di valori, capaci di catturare l’anima e l’orecchio di chi ama la “buona musica”, una consigliata colonna sonora per queste prossime serate autunnali!

Tino Montanari   

Due “Tipi” Diversi Che Dispensano Talento E Romantiche Emozioni! Ben Glover – The Emigrant/Ed Harcourt – Furnaces

*NDB. Dopo una assenza di qualche mese torna a collaborare con il Blog Tino Montanari, che riparte con una doppia recensione.

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Ben Glover – The Emigrant – Appaloosa Records/I.R.D.

Ed Harcourt – Furnaces – Caroline/Universal

I più attenti lettori di questo “blog” ricorderanno sicuramente che di questo giovanotto, Ben Glover, abbiamo parlato bene in occasione dell’uscita di Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ , ne abbiamo riparlato. ancora meglio, per il progetto Orphan Brigade, con lo splendido Soundtrack To A Ghost Story http://discoclub.myblog.it/2016/01/12/recuperi-inizio-anno-6-delle-sorprese-fine-2015-orphan-brigade-soundtrack-to-ghost-story/ , e ora puntualmente mi accingo a parlare positivamente anche di questo nuovo lavoro The Emigrant (il suo sesto album da solista e dal tema più che mai attuale), composto da dieci brani: suddivisi tra pezzi folk tradizionali, e canzoni composte per l’occasione insieme ad autori come la grande Mary Gauthier, Gretchen Peters, e Tony Kerr.

Con la co-produzione del collega e polistrumentista Neilson Hubbard al basso, percussioni e piano (membro anche lui degli Orphan Brigade), Ben Glover riunisce negli studi Mr.Lemons di Nashville ottimi musicisti fidati, tra i quali Eamon McLoughlin alle chitarre, Dan Mitchell e John McCullough al pianoforte, Skip Cleavinger al violino, Colm McClean alle chitarre acustiche, Conor McCreanor al basso, rispettando musicalmente (come negli album precedenti) le proprie radici irlandesi, impiantate da parecchio tempo nella città di Nashville, dove vive e lavora ormai da sette anni.

L’apertura di questo moderno “concept-album” è rappresentata da un brano folk tradizionale come The Parting Glass (Il Bicchiere Della Staffa), dove un seducente violino accompagna la voce calda e rabbiosa di Ben, a cui fanno seguito la ballata scritta a quattro mani con Tony Kerr A Song Of Home, la pianistica e sofferta tittle-track The Emigrant che vede co-autrice la brava Gretchen Peters per poi tornare ancora ad un famoso brano tradizionale la bellissima Moonshiner (cantata in passato anche da Dylan, ma vi consiglio di ascoltare la versione dei Say Zuzu  dall’album Bull) https://www.youtube.com/watch?v=vaAW1XgROZs , e omaggiare Ralph McTell con una efficace cover di From Clare To Here. Il viaggio riparte letteralmente “con il cuore in mano” di una melodia tipicamente irlandese scritta con Mary Gauthier Heart In My Hand, dove imperversa lo struggente violino di Skip Cleavinger, proseguire con un altro brano di area celtica The Auld Triangle firmato da Brendan Behan, la breve Dreamers, Strangers, Pilgrims, rispolverare un brano del famoso cantautore australiano di origini scozzesi Eric Bogle And The Band Played Waltzing Matilda (una canzone struggente da Pub Irlandese, rivisitata anche dai Pogues, June Tabor, Dubliners, Christy Moore, Joan Baez e moltissimi altri), e andare a chiudere con una visione poetica della sua terra con il tradizionale The Green Glens Of Antrim. Commovente!

ed harcourt furnaces

Ed Harcourt (per chi scrive), è sicuramente uno dei migliori cantautori della scena inglese apparsi negli ultimi anni, fin dall’esordio con Here Be Monster (01). Questo Furnaces è l’ottavo album di Harcourt (compreso l’ottimo mini CD Time Of Dust (14), a distanza di tre anni dall’album solo piano e voce Back Into The Woods (13) http://discoclub.myblog.it/2013/03/29/piano-songs-confidenziali-ed-harcourt-back-into-the-woods/ , con dodici tracce sonore mai cosi ricche e pulsanti, e il merito è sicuramente nella produzione del “mago del suono” Mark Ellis (meglio conosciuto con lo pseudonimo di Flood), una “personcina” che nella sua carriera ha collaborato con artisti di vaglia come i Depeche Mode, Nick Cave, U2, e anche il nostro Lucio Battisti per l’album Images, come fonico.

Diciamo subito che tutte le canzoni sono concepite come se a suonarle fosse una band, con Ed che ha suonato di tutto, dal suo amato pianoforte, al basso, batteria, synth e chitarre acustiche, aiutato da valenti musicisti (e amici) quali Stella Mozgawa delle Warpaint, il percussionista Michael Blair (del giro di Tom Waits), il bassista Tom Herbert, e la cantante Hannah Lou Clark alle armonie vocali, a certificare un lavoro vario e importante.

Fin dall’introduzione che sembra un brano uscito dai solchi di Michah P.Hinson, si capisce cosa si va ad ascoltare, e la successiva e maestosa The World Is On Fire ne è la conferma, seguita da Loup Garou dalla ritmica insistita, la title track Furnaces, ariosa con grande uso di archi, passando per il blues moderno e elettronico di Occupational Hazard, e la intrigante, scarna e sensuale Nothing But A Bad Trip.

Il “nuovo corso” del cantautore britannico, riparte con l’indolente e meravigliosa ballata You Give Me More Than Love, con la tambureggiante Dionysus, la sincopata There Is A Light Below, per poi passare alle atmosfere care ai migliori Arcade Fire con Last Of Your Kind, andando a chiudere con una Immoral dall’arrangiamento cinematografico, e i titoli di coda di una carezzevole Antarctica.

Ho l’impressione che questo lavoro di cantautorato “indie”, sia una svolta per la carriera di questo bravissimo instancabile polistrumentista (recentemente ha collaborato con Marianne Faithfull per lo splendido Live No Exit http://discoclub.myblog.it/2016/10/06/unaltra-splendida-quasi-settantenne-marianne-faithfull-exit/ e Sophie Ellis-Bextor, qui approvo meno), depositario di un “songwriting” elaborato ma affascinante e coinvolgente, e Furnaces lo testimonia con una musicalità varia e curata in ogni sfumatura, che forse necessita di ascolti ripetuti, ma il risultato credetemi è coinvolgente ed emozionante e merita una doverosa e meritoria attenzione. Camaleontico!

Tino Montanari

Recuperi Di Inizio Anno 6: Una Delle Sorprese di Fine 2015! Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story

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Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story – Appaloosa / I.R.D.

Per chi scrive, è successo in passato, ed è successo di in questa occasione, è succederà certamente in futuro, di avere dei “colpi di fulmine musicali”, in quanto non credo che esistano dischi in grado di essere ascoltati solo in un determinato contesto, ma è altrettanto vero che certi dischi riescono a salire di tono ricordando emozioni anche soltanto immaginarie. Mi sembra questo il caso di Soundtrack To A Ghost Story degli Orphan Brigade (mi sono documentato, e come è abbastanza noto, il nome deriva da una brigata militare di quel periodo intorno a cui ruota tutta la storia), capitanati dal cantautore irlandese trapiantato negli States Ben Glover (di cui mi ero occupato a fine 2014 per il suo pregevole Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ ), affiancato da due autori e musicisti americani, Joshua Britt e Neilson Hubbard (anche produttore del lavoro), che con l’aiuto di altri validi musicisti e collaboratori, tra cui spiccano Heather e Kris Donegan, Danny Mitchell, Dean Marold, Eamon McLoughlin e le brave, e forse meno conosciute di quanto meritino, cantanti Kim Richey http://discoclub.myblog.it/tag/kim-richey/  e Gretchen Peters, che, tutti insieme si sono ritrovati a incidere (a loro insaputa)  in quella che viene considerata la casa colonica più “infestata” d’America, la Octagon Hall Franklin nel Kentucky, sessanta miglia a nord di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=TAwEyiBWY9Y . Tutto questo progetto parte da una serie di documenti ritrovati (lettere, diari e poesie scritti dai militari della Orphan Brigade), messi in musica da questi baldi cantautori di talento, che hanno sfornato l’album rivelazione di fine 2015.

Per impostare il contesto im cui si svolge la vicenda, il disco si apre con i rintocchi funebri del piano in Octagon Hall Prelude, seguiti subito dalla meravigliosa Pale Horse, con un tamburo militare ad accompagnare una solenne melodia, passando poi al “groove” della sferragliante Trouble My Heart (Oh Harriett), con il banjo e la seconda voce della Richey in evidenza, il pungente country-walzer di I’ve Seen The Elephant, addolcito dalla voce di Gretchen Peters, e una intrigante marcetta a ritmo di gospel come Sweetheart (con una tromba lacerante nel finale). Dopo una buona “disinfestazione” le storie ripartono con il lamento delicato di Last June Light e il dolce mandolino che accompagna le voci femminili in The Story You Tell Yourself (su tutte quella della Richey), mentre We Were Marching On Christmas Day è una ballata palpitante, seguita dalla strumentale e fischiettata Whistling Walk.

Il racconto prosegue ancora con Good Old Flag  un tipico brano dall’andatura mid-tempo, per poi passare al lamento in salsa irlandese di una Cursed Be The Wanderer (dove si nota lo zampino di Glover), che ci mette del suo (con solo voce e chitarra) anche nel tradizionale accorato Paddy’s Lamentation, arrivando infine al termine del racconto con la struggente bellezza di Goodnight Mary, una sognante e intensa ninna-nanna  del duo Hubbard e Richey, e una finale The Orphans cantata da Glover e Donegan (supportati nuovamente dalle voci femminili), doveroso omaggio ai soldati che hanno ispirato il nome di questo magnifico “combo”.

Soundtrack To A Ghost Story è la perfetta colonna sonora di una storia vera, che rappresenta uomini veri, ambientata a cavallo della guerra civile americana, ma è anche una “ghost story” cantata e narrata logicamente con forti influenze letterarie. La cosa particolare di questo lavoro è che ascolto dopo ascolto, le trame del disco si sviluppano in modo diverso, con arrangiamenti che spaziano dal folk al rock, dal gospel al country, con bellissimi testi che raccontano di vita e di morte (e che trovate acclusi meritoriamente tradotti in italiano nella versione della Appaloosa), con un percorso sonoro accattivante e coinvolgente.

Per chi ama le storie vere e la buona musica, un vero balsamo, credetemi. Imperdibile!

Tino Montanari

Ripassi Per Le Vacanze. Sempre La “Solita” Mary Gauthier – Trouble And Love

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Mary Gauthier – Trouble And Love – In The Black Records/Proper/Ird

L’ultimo disco di studio di Mary Gauthier era stato uno dei più belli e più intensi del 2010, http://discoclub.myblog.it/2010/05/05/uno-dei-dischi-dell-anno-mary-gauthier-the-foundling/, seguito a sua volta da un eccellente album dal vivo, http://discoclub.myblog.it/2012/11/05/poco-glamour-e-tanta-sostanza-per-una-grande-cantautrice-mar/, come potete (ri)leggere qui sopra, se vi aggrada, incensati dal sottoscritto su questo Blog, che ha sempre avuto una particolare predilezione per questa bravissima cantautrice, sin dai tempi dello splendido Drag Queens In Limousines. Ammirazione condivisa anche da molti suoi colleghi, in primis Bob Dylan, che nella sua Theme Time Radio Hour ha voluto trasmettere il brano I Drink insieme ai classici della canzone americana folk, blues e country. Un altro fan è Tom Waits, ma la stessa Mary ricambia chiamando gente come Dylan, Neil Young, Leonard Cohen, Patti Smith, “truth tellers”, i narratori della verità! Come un’altra collega che viaggia più o meno su queste coordinate sonore, Lucinda Williams, ha una voce facilmente riconoscibile, particolare, laconica, sofferta, malinconica, direi quasi sofferente e le vicende della sua vita ne giustificano l’impostazione. Con la sua storia di “trovatella” la Gauthier in The Foundling ha esorcizzato i suoi dolori più profondi ed ora con questo Trouble And Love, oltre ai guai, sempre presenti, esamina anche gli amori, nelle sue canzoni. Non possiamo dire che sia un album ottimista, ma laggiù, in fondo al tunnel, si intravede un po’ di gioia e speranza.

Come dicevo nel titolo, i contenuti dei suoi dischi, per chi non la ama, potrebbero risultare un po’ ripetitivi e non di facile accesso, ma, insistendo, si viene ripagati con una bella serie di canzoni. Anche le otto che compongono questo disco raccontano la “solita” storia, forse senza la disperazione assoluta che faceva di The Foundling un disco così bello, ma con alcune punte di eccellenza che la confermano come una delle voci più autorevoli del panorama femminile americano. Registrato in quel di Nashville, negli studi di Ricky Skaggs, il disco si avvale di una piccola pattuglia di musicisti ben assortiti, tra cui spiccano Viktor Krauss e Lynn Williams, come sezione ritmica, oltre ad una serie di vocalist di spicco tra cui Ashley Cleveland, le McCrary Sisters, Beth Nielsen Chapman e Darrell Scott, che divide con Guthrie Trapp il reparto chitarristico. A completare la formazione Jimmy Wallace alle tastiere, più un ospite di prestigio, di cui vi dirò fra un attimo. Tutti gli otto brani sono firmati con un altro autore o autrice, a partire dall’iniziale When A Woman Goes Cold, scritta con Gretchen Peters, una ballata (ma lo sono tutte, la forma musicale è quella) elettrica dalla struttura blues, non dissimile da quelle di Lucinda Williams, chitarristica, con Scott e Trapp che si dividono i compiti, ben sostenuti dall’organo di Wallace, il suono è vivo e pimpante, registrato in presa diretta, con tutti i musicisti presenti in studio, in circolo intorno a Mary Gauthier che dirige con autorità le operazioni, bella partenza. False From Truth, firmata con Beth Nielsen Chapman, che è anche la seconda voce della canzone, è una ulteriore ballata, di stampo più soffuso, con piano e contrabbasso, anche suonato con l’archetto e la chitarra in fingerpicking che sottolineano le pene d’amore del(la) protagonista “”You woke up inside a cage/I woke up consumed with rage/A million miles from our first kiss/How does love turn into this?…There are two of you and one don’t feel/I don’t know which one is real….”, molto bella .

Ancora più bella Trouble And Love, il co-autore è Scott Nolan, la voce di supporto mi sembra quella di Ashley Cleveland, ma è il brano che rifulge di suo, sostenuto da una bellissima chitarra “riverberata” che crea un effetto di profondità e ampi spazi, con piano e organo in grande evidenza, una meraviglia di canzone. Più sparso e contenuto è l’accompagnamento di Oh Soul, ambientata sul sito della tomba di Robert Johnson, e che prende la forma di un country-gospel, con la seconda voce e la chitarra acustica di Darrell Scott, a sottolineare la bellezza di questa composizione, firmata anche da Ben Glover, sullo sfondo si percepiscono anche le voci delle sorelle, McCrary per un altro brano dall’atmosfera magica e  delicata. Worthy, firmata di nuovo con Beth Nielsen Chapman, è ancora più triste e malinconica, con la Gauthier che si chiede ripetutamente se è “degna” (un tema ricorrente non ancora sviscerato a fondo neppure in The Foundling, le incertezze evidentemente rimangono), sulle note di una deliziosa slide acustica suonata da Scott e con il piano che sottolinea le evoluzioni vocali soffuse ma decise di Mary e Beth. Walking Each Other Flame, di nuovo con l’aiuto di Gretchen Peters, sembra il brano dalla struttura più country, ma sempre dal lato “giusto” di Nashville, un’altra ballatona, forse un filo più ottimista delle altre, ma giusto un poco, in ogni caso sempre molto bella e coinvolgente, con tutti gli strumenti bilanciati alla perfezione dalla stessa Mary Gauthier, che ha prodotto l’album, con l’aiuto di Patrick Granado.

Ancora migliore la terza e ultima collaborazione con la Peters, How To Live Alone, cantata con passione e partecipazione assoluta dalla Gauthier, la canzone si avvale anche di un emozionante intervento chitarristico da parte del grande Duane Eddy che nobilita ulteriormente le qualità sopraffine di questo fantastico brano. Conclude, su una nota di speranza, Another Train, nuovamente firmata con Ben Glover, e con in bella evidenza la chitarra di Guthrie Trapp https://www.youtube.com/watch?v=iGL1HG1qq7c , bravissimo in tutto il disco, ma tutto il gruppo di musicisti e cantanti è perfetto nel sottolineare lo spirito di questi brani che ancora una volta esplicano la ricerca spirituale della musica di Mary Gauthier, spesso malinconica e triste, seppur pervasa da una nuova vena di serenita che non spezza del tutto la sofferenza, ma la allevia in modo sostanziale. E poi, diciamocelo, sono otto belle canzoni, tutte nello stesso disco e non è poco di questi tempi.

Il disco è uscito il nove giugno, quindi questo è il primo dei “ripassi” di questa estate, e con i dischi di Rosanne Cash e Carlene Carter, fa un bel terzetto per le scelte dei migliori di fine anno.

Bruno Conti