Un Ritorno A Sorpresa Ma Molto Gradito, Anche Se Per Il CD Bisognerà Aspettare. Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times

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Gillian Welch & David Rawlings – All The Good Times – Acony Records Download

Lo scorso 10 luglio, pochi giorni fa, la bravissima folksinger Gillian Welch ha messo online senza alcun preavviso All The Good Times, un intero album registrato con il partner sia musicale che di vita David Rawlings (ed è la prima volta che un lavoro viene accreditato alla coppia) e per ora disponibile solo come download, anche se i pre-ordini per la versione in CD e vinile sono già aperti (mentre la data di pubblicazione è ancora incerta, si parla di fine settembre-inizio ottobre). Il fatto in sé è un piccolo evento in quanto Gillian mancava dal mercato discografico addirittura dal 2011, anno in cui uscì lo splendido The Harrow & The Harvest, ultimo lavoro con brani originali dato che Boots No. 1 del 2016 era una collezione di outtakes, demo ed inediti inerenti al suo disco di debutto Revival uscito vent’anni prima (benché comunque Gillian è una delle colonne portanti del gruppo del compagno, la David Rawlings Machine, più attiva in anni recenti https://discoclub.myblog.it/2017/08/22/altre-buone-notizie-da-nashville-david-rawlings-poor-davids-almanack/ ).

Il dubbio che la Welch soffrisse del più classico caso di blocco dello scrittore mi era venuto, e questo All The Good Times non contribuisce certo a chiarire le cose dato che si tratta di un album di cover, dieci canzoni prese sia dalla tradizione che dal songbook di alcuni grandi cantautori, oltre a qualche brano poco noto: a parte queste considerazioni sulla mancanza di pezzi nuovi scritti da Gillian, devo dire che questo nuovo album è davvero bello, in quanto i nostri affrontano i brani scelti non in maniera scolastica e didascalica ma con la profondità interpretativa ed il feeling che li ha sempre contraddistinti, e ci regalano una quarantina di minuti di folk nella più pura accezione del termine, con elementi country e bluegrass a rendere il piatto più appetitoso. D’altronde non è facile proporre un intero disco con il solo ausilio di voci e chitarre acustiche senza annoiare neanche per un attimo, ma Gillian e David riescono brillantemente nel compito riuscendo anche ad emozionare in più di un’occasione. Un cover album in cui sono coinvolti i due non può certo prescindere dai brani della tradizione, ed in questo lavoro ne troviamo tre: la deliziosa Fly Around My Pretty Little Miss (era nel repertorio di Bill Monroe), con Gillian che canta nel più classico stile bluegrass d’altri tempi ed i due che danno vita ad un eccellente guitar pickin’, l’antica murder ballad Poor Ellen Smith (Ralph Stanley, The Kingston Trio e più di recente Neko Case), tutta giocata sulle voci della coppia e con le chitarre suonate in punta di dita, e la nota All The Good Times Are Past And Gone, con i nostri che si spostano su territori country pur mantenendo l’impianto folk ed un’interpretazione che richiama il suono della mountain music più pura.

Non è un traditional nel vero senso della parola ma in fin dei conti è come se lo fosse il classico di Elizabeth Cotten Oh Babe It Ain’t No Lie (rifatta più volte da Jerry Garcia sia da solo che con i Grateful Dead), folk-blues al suo meglio con la Welch voce solista e Rawlings alle armonie, versione pura e cristallina sia nelle parti cantate che in quelle chitarristiche. Lo stile vocale di Rawling è stato più volte paragonato a quello di Bob Dylan, ed ecco che David omaggia il grande cantautore con ben due pezzi: una rilettura lenta e drammatica di Senor, una delle canzoni più belle di Bob, con i nostri che mantengono l’atmosfera misteriosa e quasi western dell’originale, pur con l’uso parco della strumentazione, e la non molto famosa ma bellissima Abandoned Love, che in origine era impreziosita dal violino di Scarlet Rivera ma anche qui si conferma una gemma nascosta del songbook dylaniano. Ginseng Sullivan è un pezzo poco noto di Norman Blake, una bella folk song che Gillian ripropone con voce limpida ed un’interpretazione profonda e ricca di pathos, mentre Jackson è molto diversa da quella di Johnny Cash e June Carter, meno country e più attendista ma non per questo meno interessante; l’album si chiude con Y’all Come, una country song scritta nel 1953 da Arlie Duff e caratterizzata dal botta e risposta vocale tra i due protagonisti, un pezzo coinvolgente nonostante la veste sonora ridotta all’osso.

Ho lasciato volutamente per ultima la traccia numero quattro del CD (anzi, download…almeno per ora) in quanto è forse il brano centrale del progetto, un toccante omaggio a John Prine con una struggente versione della splendida Hello In There, canzone scelta non a caso dato che parla della solitudine delle persone anziane, cioè le più colpite dalla recente pandemia (incluso lo stesso Prine).

Nell’attesa di un nuovo album di inediti di Gillian Welch, questo All The Good Times è dunque un antipasto graditissimo quanto inatteso, anche se per gustarmelo meglio attendo l’uscita del supporto fisico.

Marco Verdi

Chiamatelo Pure “Mississippi John Oates”! John Oates – Arkansas

john oates arkansas

John Oates With The Good Road Band – Arkansas – PS/Thirty Tigers CD

Non avrei mai pensato che nella mia umile carriera di critico e recensore avrei un giorno parlato di un album di John Oates, che insieme a Daryl Hall andava a formare Hall & Oates, un duo tra i più di successo di tutti i tempi, che negli anni settanta ed ottanta ha venduto vagonate di dischi all’insegna di un “Philly Sound” decisamente annacquato, una miscela all’acqua di rose di soul, errebi e pop molto commerciale e lontano anni luce dai gusti del sottoscritto. Ma gli americani hanno sempre in serbo delle sorprese, e così come un attore conosciuto per i suoi ruoli comici anche al limite dell’idiota al primo ruolo drammatico sfodera una prestazione da Oscar (il riferimento è al Jim Carrey di The Truman Show, secondo me uno dei più bei film di sempre, ma la storia di Hollywood è piena di esempi in tal senso), allo stesso modo un artista che ha passato la vita a fare musica per vendere a palate, arriva ad un certo punto in cui decide di pubblicare album di ben altro spessore artistico. Oates ha iniziato a fare dischi da solista solo nel nuovo millennio (il suo sodalizio con Hall parrebbe giunto al capolinea), avvicinandosi sempre di più al suono Americana, influenzato dalle canzoni che fanno parte del songbook dei suoi avi, ma è con il nuovissimo Arkansas che ha fatto bingo, trovando un disco che mi ha lasciato a bocca aperta, quasi un capolavoro che assolutamente non pensavo fosse nelle sue corde.

Arkansas è un chiaro omaggio di Oates prima di tutto al suono di Mississippi John Hurt, una leggenda del folk-blues acustico che da sempre è uno dei suoi preferiti (anche se negli anni settanta non si sarebbe detto), fino al punto di aver voluto acquistare ad un’asta la chitarra che Hurt usò durante il Festival di Newport del 1964 (anche se l’acquisto è avvenuto a disco terminato, e quindi non ha fatto in tempo ad usarla). Ma John allarga il raggio, e con questo lavoro omaggia canzoni che hanno anche più di un secolo sulle spalle, alcune molto note altre decisamente oscure, e completa il tutto con due pezzi nuovi di zecca ma scritti nello stesso mood. Come ciliegina, John (che suona la chitarra acustica e canta con una voce arrochita e non molto familiare, anche perché quello del duo che cantava era Hall) si è fatto accompagnare da un gruppo formidabile, The Good Road Band, un combo di fuoriclasse del calibro di Sam Bush (mandolino), Guthrie Trapp (chitarra elettrica), Russ Pahl (steel), Steve Mackey (basso), Josh Day (batteria), Nathaniel Smith (cello), che si occupano anche di saltuari backing vocals quando si tratta di dare un tono gospel ai brani. Un grande disco dunque, una miscela vincente di folk, country, rock, blues ed old time music, suonata con una classe sopraffina e con l’attitudine da veri pickers: 34 minuti scarsi di musica, ma tutta ad altissimo livello.

Splendido l’inizio: Anytime, un brano del quasi dimenticato Emmett Miller (un musicista da circo degli anni venti), è un pickin’ country decisamente d’altri tempi, suonato con uno stile alla Bill Monroe e con deliziosi interventi di mandolino e chitarra elettrica, e con la voce roca di John che si integra alla perfezione. Arkansas è il primo dei due pezzi scritti dal nostro, una folk ballad elettrificata decisamente vibrante e con accenni gospel: il songwriting è moderno ma l’accompagnamento no, anche se c’è una bella slide che porta il suono ai confini del rock. Splendida My Creole Belle, un brano attribuito a Mississippi John Hurt (una volta si usava prendere dei brani dalla tradizione, cambiare qualche parola e spacciarli per autografi), uno scintillante folk-blues con il solito cocktail vincente di strumenti a corda ed un coinvolgente botta e risposta voce-coro; Pallet Soft And Low, un traditional, è parecchio bluesata, sa di polvere e fango e sembra provenire dal delta del Mississippi, con uno splendido lavoro all’elettrica di Trapp, per sei minuti tutti da godere (è la più lunga). Non poteva mancare Jimmie Rodgers: Miss The Mississippi And You, pur non essendo stata scritta da lui, è uno dei brani simbolo del “singing brakeman”, e John ne offre una rilettura molto old-fashioned, lenta e decisamente raffinata, tutta suonata in punta di dita; il famoso traditional Stack O Lee, ripreso negli anni da un sacco di gente, ha qui un trattamento regale, tra country e folk, con il solito pickin’ d’alta classe ed una sezione ritmica discreta ma spedita.

That’ll Never Happen No More è un’oscura canzone dell’ancora più oscuro Blind Blake, riproposta da Oates e compagni con un delizioso sapore dixieland pur in assenza di strumenti a fiato, mentre Dig Back Deep è il secondo pezzo originale, uno splendido e trascinante brano elettrico tra boogie e gospel, intriso a fondo di atmosfere sudiste. Il CD si chiude con Lord Send Me, altra bellissima canzone tradizionale che mischia alla grande folk, gospel e bluegrass, suonata anch’essa in maniera strepitosa, e con Spike Driver Blues, altro pezzo del repertorio di John Hurt, pura e limpida come l’acqua di montagna, solo John e due chitarre acustiche. Un disco splendido e sorprendente, tra i più belli di questi primi due mesi dell’anno, che probabilmente ritroveremo nelle liste di Dicembre.

Marco Verdi