E’ Difficile Da Trovare E Costa Pure Tanto, Ma Ne Vale La Pena! Various Artists – Chicago Plays The Stones

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Various Artists – Chicago Plays The Stones – Chicago Blues Experience CD

Il nome dei Rolling Stones negli anni è sempre stato legato, oltre che al rock’n’roll, al blues americano, anche se la band britannica un disco tutto di blues non lo aveva mai fatto fino al 2016, allorquando i quattro misero sul mercato lo splendido Blue And Lonesome, album di cover di classici di puro Chicago blues, che è pure candidato ai Grammy 2018 come “Best Traditional Blues Album”. Ora una bella serie di musicisti della capitale dell’Illinois (nativi o acquisiti) si è riunita sotto la guida del produttore Larry Skoller per “rispondere” affettuosamente a quel disco, registrando questo Chicago Plays The Stones, che come suggerisce il titolo è un album di cover di alcuni brani delle Pietre, rivisitati in chiave blues. Per la verità la prima volta che ho visto in rete questo CD ho pensato a qualche lavoro un po’ raffazzonato in stile Cleopatra (e la copertina, alquanto brutta, non mi aiutava a pensare meglio), ma poi ho scoperto quasi subito che si trattava di un progetto serio ed unitario, con tutte incisioni nuove di zecca da parte di artisti noti e meno noti, comprendendo alcune vere e proprie leggende. L’unico punto a sfavore è il fatto che il CD è acquistabile solo online, sul sito creato apposta per l’evento http://chicagoplaysthestones.com/ , e che le spese di spedizione nel nostro paese sono più care del costo del disco stesso (il totale è di circa trenta dollari): ma, come accennavo nel titolo, li vale tutti, anche se va detto che in nessun caso gli originali degli Stones vengono superati (ma questa sarebbe un’impresa per chiunque); c’è da dire infine che le scelte non sono state scontate, in quanto sono presenti brani che nessuno avrebbe mai associato al blues, come ad esempio Angie e Dead Flowers.

Ad accompagnare i vari ospiti c’è una house band da sogno, denominata Living History Band, guidata dal grande Bob Margolin alla chitarra (per anni solista nel gruppo di Muddy Waters), e con al piano l’ottimo Johnny Iguana (Junior Wells, Koko Taylor, Otis Rush e molti altri), Felton Crews al basso (la prima scelta, quando serviva un bassista, da parte di un certo Miles Davis), Kenny “Beedy-Eyes” Smith alla batteria (un altro che ha suonato con molti dei grandi, da Pinetop Perkins a Hubert Sumlin) ed il quotato armonicista francese Vincent Bucher. L’inizio è una bomba, con una potente rilettura di Let It Bleed da parte di John Primer (chitarrista anche lui per Waters, oltre che per Willie Dixon, alla guida nel 2015 del progetto Muddy Waters 100, simile a questo sugli Stones ), che ci fa capire di che pasta è fatto questo CD: gran voce, ritmo sostenuto, splendido pianoforte e l’armonica di Bucher in grande evidenza. Billy Boy Arnold è uno dei grandissimi del genere, un armonicista favoloso che qui rivolta come un calzino Play With Fire (infatti non la riconosco fino al ritornello): versione calda e piena d’anima, con il gruppo che segue come un treno, Margolin in testa; Buddy Guy è un’altra leggenda vivente, e non ci mette molto a far sua la poco nota Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) (era su Goats Head Soup), facendola diventare uno slow blues notturno, con la ciliegina data dalla presenza nientemeno che di Mick Jagger alla seconda voce ed armonica (cosa che dona, se ce ne fosse stato bisogno, il sigillo a tutta l’operazione), grande brano e grandissima chitarra di Buddy.

(I Can’t Get No) Satisfaction è forse il pezzo più inflazionato del repertorio degli Stones, ma questa versione errebi piena di swing da parte di Ronnie Baker Brooks (figlio di Lonnie Brooks) le dà nuova linfa, trasformandola quasi in un’altra canzone (ed anche Ronnie alla chitarra ci sa fare); Sympathy For The Devil nelle mani di Billy Branch (armonicista scoperto da Willie Dixon) mantiene il suo spirito sulfureo, piano e slide guidano le danze per sei minuti rock-blues di grande forza, mentre Angie (ancora John Primer) cambia completamente vestito, diventando un blues lento, caldo e vibrante, dominato anche qui dalla slide e dal solito scintillante piano di Iguana. La brava Leanne Faine ha una voce della Madonna, e riesce a far sua senza problemi la grande Gimme Shelter, accelerando notevolmente il ritmo e dando spazio all’armonica: puro blues; Jimmy Burns (fratello di Eddie e grande cantante e chitarrista in proprio) trasforma la splendida Beast Of Burden in un godibilissimo jump blues (e caspita se suonano), molto trascinante, mentre Mike Avery (cugino del grande Magic Sam) si occupa di Miss You, riprendendone in chiave blues il famoso riff, anche se forse questo è l’unico pezzo del disco che suona un po’ forzato. Ci avviciniamo alla fine: ecco i due brani più recenti della raccolta (anche se hanno ormai una ventina d’anni sul groppone), una granitica I Go Wild con protagonista l’armonicista e cantante Omar Coleman (un giovincello rispetto agli altri invitati) ed una veloce e tonica Out Of Control, dominata dalla voce cavernosa di Carlos Johnson; chiusura ancora con Burns, alle prese con Dead Flowers, una canzone talmente bella che la ascolterei anche se la facesse Fedez (sto scherzando…).

Se potete, vale la pena fare uno sforzo economico per accaparrarsi questo Chicago Plays The Stones, anche perché il 50% dei proventi verrà destinato al progetto “Generation Next” per finanziare le prossime generazioni di bluesmen di Chicago: quindi non il “solito” tributo, ma uno dei dischi blues dell’anno.

Marco Verdi

Armonica Blues Dalla California! Mitch Kashmar – West Coast Toast

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Mitch Kashmar – West Coast Toast – Delta Groove Music/Ird

I colleghi armonicisti, da Charlie Musselwhite allo scomparso William Clarke (di cui il nostro è una sorta di erede e utilizza anche gli stessi musicisti che suonavano nella band del musicista scomparso negli anni ’90 https://www.youtube.com/watch?v=hX49LPkuQtw ) ne hanno cantato le lodi, la critica lo indica quasi sempre tra i migliori rappresentanti della scuola del West Coast Blues, tanto che alla fine Mitch Kashmar ha dedicato anche il titolo del CD a questo filone del blues. Nato sul finire degli anni ’50 in California, secondo molti grazie alla figura di George “Harmonica” Smith, attualmente vede tra i suoi rappresentanti più validi Al Blake (già nella Hollywood Fats Band), Rod Piazza, con i suoi Mighty Flyers, Kim Wilson, con e senza Fabulous Thunderbirds, oltre al citato Clarke. E naturalmente Kashmar, che ritorna con questo nuovo album di studio West Coast Toast, il primo dopo una pausa di circa dieci anni, interrotta dall’uscita di un Live At Labatt del 2008 e di 100 Miles To Go, uscito nel 2010, ma che raccoglieva registrazioni degli anni ’80 con i Pontiax (e di cui mi pare di ricordare di essermi occupato ai tempi sul Buscadero, ma essendo ormai diversamente giovane, non ne sono sicuro, anche se certamente ho già scritto di Kashmar in passato) https://www.youtube.com/watch?v=_DchUBlCWyM . Tutti questi ultimi album sono usciti per la Delta Groove, l’etichetta di Van Nuys, California, per certi versi depositaria di questo suono della West Coast in ambito blues, un sound che prendendo spunto dalle 12 battute classiche di Chicago, aggiunge elementi swing, jazz, spesso l’uso dei fiati (ma non in questo caso), l’uso dell’armonica diatonica, anche amplificata, in alternanza con la cromatica, come fa il buon Mitch in questo album.

All’inizio vi dicevo che Kashmar utilizza gli stessi musicisti impiegati da William Clarke a metà anni ’80, ovvero Junior Watson alla chitarra, Bill Stuve al basso e il bravissimo pianista/organista Fred Kaplan, l’unica new entry è il batterista Marty Dodson. Tutti musicisti specializzati nell’accompagnare armonicisti: se aggiungiamo il consueto ottimo lavoro del produttore Jeff Scott Fleenor, che applica la classica formula del sound della Delta Groove, quindi riprendere i musicisti nella purezza del suono dei loro strumenti, molto ben definiti, e, ove possibile, registrati in sessions dove i protagonisti suonano insieme in studio, ottenendo la freschezza dell’approccio live applicata ad un ambiente chiuso. E mi sembra ci riesca. Il materiale si divide tra sei originali scritti dallo stesso Kashmar e cinque cover scelte con cura dall’immenso songbkook del blues. Intendiamoci, il disco non è un capolavoro assoluto e quindi difficilmente porterà nuovi proseliti tra le file dei seguaci delle 12 battute, ma gli appassionati del genere troveranno una piacevole aggiunta ai loro ascolti. Si apre con lo swingato e scatenato strumentale (uno dei quattro del disco) East Of 82nd Street, dove domina l’armonica amplificata di Karshmar, ma anche la chitarra di Watson ha modo di farsi apprezzare, oltre alla eccellente sezione ritmica.

Too Many Cooks, un brano di Willie Dixon, ci permette di apprezzare anche la voce di Mitch Karshmar, in possesso di uno stile canterino sicuro ed elegante, oltre al piano di Fred Kaplan, che comincia a cesellare sugli 88 tasti da par suo, mentre la successiva Young Girl era nel repertorio di Rudy Toomes, un musicista che persino Ray Charles citava tra le sue fonti di ispirazione, un bel pezzo tra blues e soul, con tocchi jazz grazie all’organo di Kaplan e alla chitarra accarezzata da Watson, senza dimenticare il cantato felpato del titolare. The Petroleum Blues, sempre a firma Kashmar, affronta tematiche sociopolitiche nel testo, ma lo fa con l’ironia tipica dei bluesmen, ed un ritmo a tempo di boogie veramente contagioso, sempre con i vari solisti, nell’ordine armonica, chitarra e piano, in grande spolvero (brano già apparso nel disco del 2010 https://www.youtube.com/watch?v=9I2OKd1ceTM). Mood Indica, altro strumentale, è il classico lento intenso che non può mancare, mentre Don’t Stay Out All Night, è uno shuffle in stile Chicago Blues, un brano gagliardo di Billy Boy Arnold, seguito da My Lil’ Stumptown Shack, un omaggio di Mitch Kashmar all’Oregon, lo stato dove si è trasferito per vivere, altro blues elettrico intenso. Di nuovo strumentale Makin’ Bacon, dove sembra quasi di ascoltare il New Orleans sound di Fats Domino e poi un omaggio al John Lee Williamson originale, il primo Sonny Boy, con una sanguigna Alcohol Blues, dove si apprezzano sia la voce vissuta come l’armonica cromatica di Mitch, e anche Love Grows Cold di Lowell Fulson, per quanto più mossa e divertita, si immerge a fondo nella tradizione, con la conclusione affidata al lungo strumentale Canoodlin’, dove tutti i solisti si mettono in luce di nuovo, divertendo l’ascoltatore con la loro perizia tecnica.

Bruno Conti