Pochi Ma Buoni! Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions

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Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions – M.C. Records

Kim Wilson a livello solista non è uno molto prolifico. L’ultimo album Blues And Boogie Vol.1, uscito per Severn nel 2017, faceva presagire che ci sarebbe stato un volume 2, e invece Kim torna alla M.C. Records che gli aveva pubblicato due CD tra il 2001 e il 2003 (in mezzo solo un disco in comproprietà con Mud Morganfield), ma andando a scorrere i credits degli album il suo nome appare in decine di uscite degli ultimi anni, inclusi un paio con i Fabulous Thunderbirds. Cambia il titolo ma non la formula per il nuovo Take Me Back, tutti insieme appassionatamente ai Bigtone Studios (quelli del sottotitolo dell’album), in presa diretta e registrati rigorosamente in mono, che è un po’ una fissa di Wilson ultimamente: Big John Atkinson, il boss degli studios, ha curato le sessions, oltre a suonare la chitarra come solista in 12 brani, poi della partita sono alcuni degli stessi musicisti del precedente CD (tanto da farmi pensare che i brani provengano dagli stessi nastri analogici), Billy Flynn, Barrelhouse Chuck, Rusty Zinn, mentre i “nuovi” Kid Andersen e Danny Michel, anche loro alle chitarre, i batteristi June Core, Al West, Ronnie Smith e il bassista Greg Roberts, oltre a Johnny Vlau ai fiati, completano le forze in campo, pe il pianista Barrelhouse Chuck è morto nel dicembre 2016, quindi…

Il repertorio e il suono pescano a piene mani dai classici del blues degli anni ‘50, ma nel caso di Wilson non possiamo parlare solo di cura filologica nella propria musica, quanto di passione pura per quel periodo, visto che tra le canzoni del CD ce ne sono anche parecchie “nuove” scritte dallo stesso Kim, che sono comunque molto simili alle vecchie. You’ve Been Goofing è un oscuro brano di Jimmy Nolen, il chitarrista di James Brown, tra R&B e Blues vintage, come i vecchi dischi Chess, Cobra, Vee-Jay, con chitarra e sax a fiancheggiare Wilson, che canta con impegno e piglio deciso, per poi iniziare a soffiare con forza nell’armonica nelle proprie Wingin’ It e Fine Little Woman, classici esempi di Chicago Blues primordiale, con Billy Flynn alla solista e Barrelhouse Chuck al piano che rispolverano vecchie atmosfere. Slow Down è proprio il vecchio brano di Larry Wlliams che Paul McCartney cantava come un ossesso in un 45 giri dei Beatles, qui riportato nel R&R del suo spirito originale, con qualche rimando meno elettrico al suono spiritato dei Fabulous Thunderbirds, grazie a Wilson e soci, che poi rivolgono la propria attenzione allo standard di Howlin’ Wolf No Place To Go, dove Kim Wilson mette in mostra la sua grande perizia all’armonica a bocca, con un approccio più intimo, chitarra acustica, contrabbasso e drum kit minimale per un tuffo nel blues primigenio.

Strange Things Happening di Percy Mayfield è un rovente blues lento, con il suono quasi “archeologico” che può risultare forse straniante per i non habituè del catalogo Chess, con Wilson che segue le tracce dei suoi maestri, da Little Walter in giù, anche nella propria Play Me o nella title track scritta da Walter Jacobs. If It Ain’t Me è un “bluesazzo” torrido scritto da James A. Lane, uno che come Jimmy Rogers ha diviso a lungo i palchi con Muddy Waters, sia come chitarrista che come armonicista, entrambe ben presenti in questa rilettura. Strollin’ è uno strumentale dello stesso Kim, The Last Time è un’altra intensa cover di un brano di Jimmy Rogers a tutta armonica, mouth harp sempre molto presente anche nel bel lento Money, Marbles And Chalk, uno dei brani originali di Wilson, che poi affronta Take Me Back, il pezzo di Little Walter, con piglio rigoroso e ottima resa anche vocale. In Rumblin’ un brano strumentale di Kim, quelli che finiscono in “in’’”, si apprezza una volta di più la sua perizia all’armonica, di nuovo Chicago Blues elettrico e vibrante in I’m Sorry, con Atkinson e Flynn che si dividono le parti di chitarra, molto rigorosa anche Goin’ Away Baby, la terza ed ultima cover di Jimmy Rogers, e lo shuffle sincopato dell’ultimo strumentale del nostro amico Out Of The Frying Pan. Se siete degli Indiana Jones del blues qui non troverete solo “mummie”, ma musica ancora fresca e vitale!

Bruno Conti

Loro Lo Chiamano “Bluesabilly”, Chi Siamo Noi Per Dissentire. Cash Box Kings – Hail To The Kings!

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Cash Box Kings – Hail To The Kings! – Alligator Records  

Album numero nove (o forse dieci)  per il gruppo di Chicago, anzi forse sarebbe meglio dire duo con membri “onorari” che a rotazione suonano nei dischi di Joe Nosek, armonicista e fondatore dei Cash Box Kings, nonché di Oscar Wilson, che ne è la gagliarda voce solista: Billy Flynn è ormai il chitarrista fisso da alcuni dischi, Kenny ‘Beedy Eyes’ Smith, che nell’album precedente Royal Mint, il loro debutto su Alligator https://discoclub.myblog.it/2017/07/26/in-piccolo-ma-pure-loro-sono-re-del-chicago-blues-cash-box-kings-royal-mint/ , era presente solo in tre brani alla batteria, è tornato a sedere sullo sgabello che lo ha visto per lunghi anni anche con Muddy Waters, e John W. Lauder è il nuovo bassista. Ovviamente lo stile non cambia, quel consolidato approccio alla musica della Windy City, che loro  hanno definito “bluesabilly”, termine che non richiede spiegazioni, basta ascoltare.

Tra gli ospiti anche la brava tastierista Queen Lee Kanehira, Xavier Lynn alla solista in un paio di brani, e Little Frank Krakowski alla chitarra ritmica in quasi tutte le tracce, in sostituzione del dimissionario Joel Paterson, e la bravissima Shemekia Copeland, che duetta  alla grande con Wilson nella maliziosa ed intensa The Wine Talkin’. La divertente Ain’t No Fun (When The Rabbit Got The Gun) è  un coinvolgente jump blues sempre puro Chicago Blues, con l’armonica di Nosek e il piano della Kanehira in bella evidenza, Take Anything You Can un altro eccellente esempio del blues più classico, con la chitarra veramente pungente di Flynn a duettare con l’armonica. Smoked Jowl Blues è un viscerale shuffle lento ispirato chiaramente dallo stile di Muddy Waters, come pure Poison In My Whiskey, in entrambe Billy Flynn si fa notare con la sua solista, slide e wah-wah innestato nel secondo brano. Back Off, Joe, You Ain’t From Chicago e Hunchin’ On My Baby, sono I tre brani cantata da Joe Nosek, più leggeri e disimpegnati, a tutto swing la prima, con un bel drive à la Bo Diddley la seconda e nuovamente un movimentato shuffle la terza.

I’m The Man Down There, con il pianino di Queen Lee a dettare i tempi, è una cover di un pezzo di Jimmy Reed, mentre Bluesman Next Door, tra ritmi funky e errebì ci dice che “il blues non è nato in Inghilterra nel 1963, ma nelle piantagioni ai tempi dello schiavismo”, manco non lo sapessimo, con  un ennesimo ottimo assolo di chitarra, questa volta di Xavier Lynn, che si produce alla solista anche nella energica e gagliarda Jon Burge Blues, uno dei brani dove è presente anche una forte componente rock. Sugar Daddy è lo slow  che non può mancare in un disco di blues elettrico che si rispetti, con l’armonica di Nosek, la chitarra di Flynn e il piano della Kanehira a sottolineare una ulteriore grande prestazione vocale dell’ottimo Oscar Wilson, lasciando alla divertente The Wrong Number, tra swing anni ’20 e ragtime, il compito di chiudere questo disco che conferma la reputazione dei Cash Box Kings di onesti ed apprezzati depositari della grande tradizione del blues di Chicago.

Bruno Conti

In Piccolo, Ma Pure Loro Sono Re, Del Chicago Blues. Cash Box Kings – Royal Mint

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Cash Box Kings  – Royal Mint – Alligator Records/Ird

Li avevo lasciati nel 2015 su etichetta Blind Pig con l’album Holding Court http://discoclub.myblog.it/2015/05/07/vecchia-scuola-del-blues-elettrico-cash-box-kings-holding-court/ , e me li ritrovo nel 2017 con questo nuovo Royal Mint su Alligator. Dovrebbe essere il loro ottavo album, almeno stando alle discografie disponibili, ma nelle note interne del CD, Joe Nosek e Oscar Wilson, i due leader della band, scrivono che si tratta del nono, e chi siamo noi per contraddirli? Purtroppo non c’è più Barrelhouse Chuck, il pianista che aveva condiviso con loro una lunga parte di carriera, che ha dovuto soccombere ad una lunga battaglia con il cancro, ma per il resto non è cambiato molto, i Cash Box Kings sono sempre fieri rappresentanti di quel blues vecchia scuola di Chicago, sia pure fuso al rockabilly di Memphis (e aggiungo io, a soul, R&B e Jump) in quello che il gruppo definisce “bluesabilly”. La missione è quella di perpetrare la grande tradizione delle registrazioni Chess, che un po’ rappresentavano tutti questi stili, cercando di modernizzarlo, ma appena un poco, forse più dal lato delle tecniche di registrazione, e magari con l’iniezione, a fianco di brani classici, di composizioni che portano la firma di Nosek e Wilson, ma nello spirito sono identiche ai brani in modalità anni ’40 e ’50 che compongono il loro repertorio.

Per fare tutto ciò si avvalgono più o meno degli stessi musicisti del disco precedente: Billy Flynn, il solista, e Joel Paterson, l’altro chitarrista, Kenny “Beedy Eyes” Smith, presente solo in tre brani, viene affiancato alla batteria da Mark Haines, mentre c’è un nuovo bassista Brad Beer, che sostituisce Gerry Hundt. E. ovviamente, in sostituzione di Barrelhouse Chuck, c’è un nuovo tastierista aggiunto, Lee Kanahira, oltre ad una piccola sezione fiati, in un brano. L’apertura, House Party, un piccolo classico di Amos Milburn, uno dei veri re del jump blues, indica quale sarà l’atmosfera dell’album, allegra e divertita, con Al Falaschi presente al sax solo in questo pezzo, con il vocione poderoso di Oscar Wilson a guidare le danze e l’armonica amplificata del virtuoso Joe Nosek, a farsi largo tra piano e chitarra, mentre la ritmica swinga di brutto. I’m Gonna Get My Baby è classico Chicago blues, e anche se l’autore Jimmy Reed non ha mai inciso per la Chess,  il sound è quello di quei dischi, poi ribadito nel classico slow di una Flood, proveniente dal repertorio di Muddy Waters, ancora con la bella voce espressiva di Wilson in evidenza, ma anche la slide di Flynn, e gli altri solisti si danno da fare. Comunque il risultato sonoro non cambia neppure quando i Cash Box Kings cantano e suonano le proprie canzoni, come nel divertente rockabilly di Build That Wall, con la piacevole e squillante voce di Nosek e la chitarra twangy di Flynn, oppure nel solido Blues For Chi-Rag, scritta a quattro mani da Joe e da Oscar, che la canta con la sua potente ugola, mentre i fiati aggiungono spessore all’eccellente lavoro del sempre eccellente Billy Flynn.

Certo, un pezzo di Robert Johnson, come Travelling Riverside Blues, anche in una versione solo per voce e chitarra bottleneck, ha ben altro spessore autorale; poi ci si torna a divertire con la leggera e vorticosa If You Get A Jealous Facebook Woman Ain’t Your Friend (titolo che segue la “modernità” della Download Blues del precedente album, anche se il sound è pur sempre quello del secolo scorso). E pure la leggiadra Daddy Bear Blues, cantata in modo suadente da Nosek, è sempre musica da club degli anni ’50, con il pianino barrelhouse di Kanahira che si fa notare, come pure il mandolino di Flynn; altro “bluesaccio” torrido del grande Muddy in una pimpante Sugar Sweet, https://www.youtube.com/watch?v=vQI2o5oP35w sempre più o meno Chess Records metà anni ’50, fedele all’originale, forse fin troppo, e questo è per certi versi il (piccolo?) limite di questo album, fin troppo didascalico e citazionista a tratti, anche se assai godibile. I’m A Stranger è un buon slidin’ blues, con uso puree di armonica e piano, e la solita voce passionale di Wilson, che rilancia nella successiva I Come All The Way From Chi-Town, un omaggio alla propria città di origine, ovvero Chicago, sede della loro nuova etichetta Alligator, solo per voce, chitarra e armonica, prima di tornare al divertimento con la spensierata e scatenata All Night Long di Clifton Chenier e al “bluesabilly” di Don’t Let Life Tether You Down, affidata di nuovo a Joe Nosek.

Bruno Conti