Un Gran Bel Concerto Per Una Delle Leggende “Minori” Del Blues. Johnny Shines – The Blues Came Falling Down Live 1973

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Johnny Shines – The Blues Came Falling Down Live 1973 – Omnivore Recordings

Johnny Shines è considerato, giustamente, almeno dalla critica, uno dei più grandi “praticanti” del blues acustico del Delta: anche se il nostro nasce nei sobborghi di Memphis, Tennessee, nel 1915, ha poi frequentato la zona, diventando discepolo prima del giovane Howlin’ Wolf, e per questo fu chiamato “Little Wolf”, poi in seguito incontrò colui che fu la sua più grande ispirazione, Robert Johnson , cercando di carpirne lo stile e la tecnica. Però, per varie vicissitudini e necessità lavorative della vita, la sua carriera non è mai decollata e per il grande pubblico Shines rimane uno sconosciuto, per quanto illustre: 4 canzoni registrate per Columbia nel 1946, pubblicate solo 20 anni dopo, 2 brani per la Chess incisi nel 1951, anche questi poco fortunati a livello discografico, visto che Johnny non gradì molto il cachet da “lustrascarpe” proposto dal boss Leonard Chess, che infatti lo inserì nei loro registri come “Shoe Shine Johnny”. Poi all’esplosione del blues nel South Side di Chicago, qualche registrazione per etichette locali, che non uscirono dai confini della città, una prima “riscoperta” a metà anni ’50, quando si esibiva negli stessi locali di Howlin’ Wolf, e quella definitiva nella grande ondata del blues anni ’60, con registrazioni per Vanguard, Testament, Biograph, Adelphi, Blue Horizon, Rounder e così via, rimanendo comunque sempre un artista di culto.

Dopo la morte, avvenuta nel 1992 a Tuscaloosa, in Alabama, diverse etichette periodicamente ne hanno pubblicato materiale edito ed inedito, ora arriva questo concerto “scoperto” dalla Omnivore e relativo ad una serata alla Washington University, Graham Chapel, St. Louis, nel 1973, anche se dalle note non è dato sapere la data esatta di questo Live, che comunque rimane una performance assolutamente degna della sua reputazione come uno dei grandi ”eroi misconosciuti” delle 12 battute classiche. Una qualità sonora spettacolare, che ci permette di godere la tecnica chitarristica sopraffina di Shines, un vero maestro della chitarra acustica, come ci dimostra subito in uno scintillante Big Boy Boogie, uno strumentale fantastico dal ritmo ondeggiante, in cui le sue mani volano sulla chitarra, mentre Johnny intrattiene il pubblico con alcuni commenti mentre si esibisce; Seems Like A Million Years, uno degli altri tredici brani a sua firma (ce ne sono anche quattro di Robert Johnson, uno di Sleepy John Estes e uno di Blind Willie Johnson) è il primo pezzo dove si apprezza la sua voce vissuta, profonda e risonante, vibrante e potente, in grado di salire e scendere di tono in modo mirabile, mentre narra le storie dei suoi protagonisti comuni, accompagnandosi sempre con quella chitarra che è una propaggine imprescindibile della sua anima.

Per Cold In Hand Blues sfodera un bottleneck magistrale, fremente e palpitante come la sua interpretazione vocale, trattenuta ma al contempo intensa https://www.youtube.com/watch?v=5VvR7f4sAk4 , Kind Hearted Woman Blues è il primo dei brani di Johnson, un esempio del miglior Delta blues eseguito in modo perfetto ed appassionato. Seguita  da una veemente Have You Ever Loved A Man (i temi dei brani sono sempre quelli, si intrecciano con quelli di decine di altri autori, come è consuetudine nel blues, dove ogni canzone difficilmente appartiene ad un singolo autore, ma fluttua nell’aria per essere carpita ed adattata alle proprie esigenze da chi la trova), e ancora dalla vissuta e potente Stay High All Night Long, dal traditional gospel Stand By Me, da un’altra composizione di Johnson, I’m A Steady Rollin’ Man,e poi ancora di Shines, Happy Home e Someday Baby Blues di John Estes, un ulteriore Johnson “minore” (se esiste) la breve e intricata They’re Red Hot (Hot Tamales). You’re The One I Love, preceduta da una lunghissima introduzione sulle virtù del blues, è più lenta e meditativa, Sweet Home Chicago, l’ultimo pezzo di Robert Johnson, direi che non ha bisogno di introduzione, il pubblico gradisce, le mani battono a tempo e quelle di Shines volano nuovamente sul manico della chitarra.

Non mancano un paio di slow magnifici come The Blues Came Falling Down e Big Star Falling (negli ultimi tre brani c’è anche Leroy Jodie Pierson alla seconda chitarra). Nel finale di concerto riappare il bottleneck per Tell Me Mama, Ramblin’ e una sgargiante rilettura del classico di Blind Willie Johnson It’s Nobody Fault But Mine, la brevissima e scatenata Goodbye Boogie e la conclusiva, intensa How You Want Your Rollin’ Done. Per chi ama il blues duro e puro, ma non noioso: un bel “regalo” per rivalutare un personaggio  come Johnny Shines , che forse in vita non ha avuto il credito che meritava.

Bruno Conti

Un Disco Dal Vivo Veramente “Mitico”, Anzi Due! Gov’t Mule – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre Parte 1

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Gov’t Mule  – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre2 CD + 2 DVD Deluxe Esce il 19-07/ 2 CD Mascot/Provogue

Quest’anno la band americana festeggia i 25 anni di carriera (anche se il primo album omonimo fu pubblicato nel 1995): nato come un side project di Warren Haynes e Allen Woody, all’epoca entrambi negli Allman Brothers, poi il gruppo è diventato una delle migliori realtà del rock americano, con dieci album di studio, più alcuni EP, dischi collaterali, progetti di revisione di altri CD, e almeno altrettanti dischi dal vivo ufficiali pubblicati in questo arco di tempo. Ma se andiamo a anche a vedere il materiale Live distribuito tramite il loro sito http://mule.net/ si raggiungono quantità spropositate: comunque anche per festeggiare la firma di un nuovo contratto di distribuzione con la Mascot/Provogue, dove comunque avevano già lavorato in passato, ecco che esce ora questo Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre in diversi formati, tra cui abbiamo estrapolato per parlarne, la versione Deluxe in 2 CD e 2 DVD che affianca la versione standard in 2 CD. Perché, in un attentato ai nostri portafogli, le due edizioni contengono materiale quasi completamente diverso a livello brani e quindi toccherebbe averle entrambe (ma occhio perché ci sarà anche un bundle limitato con la versione in 4 CD + 2 DVD): si tratta di un estratto quasi completo (manca comunque qualcosa) delle due serate registrate e riprese il  27 e 28 aprile del 2018 al Capitol Theatre di Port Chester, NY (una delle due location predilette in assoluto da Haynes, insieme al Fillmore).

Lo so perché sono andato a controllare sul sito https://www.setlist. che riporta le tracklist complete dei due concerti: direte voi, ma non era più semplice pubblicare i due concerti integrali (come fanno per quelli che vendono direttamente sul sito), magari anche nella sequenza originale? Certo, ma dovendo complicarci la vita, hanno preferito optare per questa soluzione complicata che mescola e riallinea la sequenza dei  due concerti. Quindi andiamo a vedere cosa dobbiamo aspettarci, partendo dalla versione standard in 2 CD. Se non avete voglia di leggervi tutto, sappiate comunque che, come al solito, si tratta di svariate ore di grande musica rock, con la solita quota di chicche imperdibili ad insaporire un menu di per sé gustosissimo, e quindi non si può farne a meno. Non facciamo proprio una track by track completa del tutto (comunque quasi), se no fra un paio di mesi siamo ancora qui, ma guardiamo comunque in profondità i contenuti: il primo CD edizione standard si apre con Travelin’ Tune (Part 1) che è la canzone che apriva il concerto del 28 aprile (o l’undicesima del 27 aprile? Chi può dirlo, quindi non ci poniamo più il problema), comunque trattasi di uno dei brani di Revolutions Come…Revolutions Go, tra le poche, tre in tutto se non ho visto male, che non raggiungono i cinque minuti. In ogni caso i quattro, Haynes, Abts, Louis e Carlsson, partono subito alla grande, ma con un pezzo diciamo più “gentile” , più rootsy, anche senza la steel della versione di studio, rispetto al rock dirompente di gran parte del concerto, deliziosa comunque.

A seguire arriva, da By A Thread, una potentissima cover del traditional Railroad Boy, grande rock-blues con gagliardo uso di slide, da parte di Haynes, mentre la versione di Mule, oltre i dieci minuti, lo conferma come uno dei pezzi apicali della loro storia, come avrebbe detto Abantuono “Viuulenza”, ma con classe zeppeliniana, rilanci continui ed interscambio anche con l’organo e il synth, con Abts che picchia come un fabbro appunto alla Bonzo Bonham. Beautifully Broken era su Deep End 1, potremmo definirla una hard ballad, più tranquilla, ma non mancano le scariche rock tipiche dei Muli e un bellissimo assolo di Warren, poi tocca a Drawn That Way, un altro dei brani di Revolutions, altro pezzo di grande impeto, molto scandito e tirato senza requie con accelerazione finale micidiale. Nel frattempo non si segue più la sequenza del concerto originale e arriva la splendida southern ballad The Man I Want To Be, che ricorda certe cose degli Allman, compreso il ficcante assolo di chitarra. La prima sorpresa arriva con la frenetica Funny Little Tragedy (Shout!), con grande giro di basso di Carlsson, che quasi inevitabilmente porta alla citazione nella parte centrale di Message In A Bottle dei Police, o viceversa, per poi tornare al tema originale; a seguire troviamo Far Away, un brano del 2000, sempre in versione ampliata, una ballata scura che parte lentamente e poi si dipana in crescendo, fino ad un acidissimo e quasi psichedelico assolo di Warren anche in modalità wah-wah.

Altra sorpresa in arrivo con la cover di Sin’s A Good Man’s Brother, un vecchio brano dei Grand Funk Railroad, che non eseguivano in concerto dal 2002, un pezzo di vibrante e gagliardo rock americano targato anni ’70, Mr. Man era su Dèjà Voodoo, altra bomba rock “riffatissima” che sembra uscire da qualche vecchio vinile dei Deep Purple, con Danny Louis molto Jon Lord alle tastiere. Dark Was The Night Cold Was The Ground è il vecchio traditional arrangiato da Blind Willie Johnson, che a sua volta Haynes aveva trasformato in un roccioso blues-rock per la versione di studio di Revolutions Come… qui ancora più grintoso in una versione monstre di oltre 10 minuti, intro pianistica, poi arriva la slide ed un groove che ricorda molto i Led Zeppelin di Physical Graffiti, grande brano. Life Before Insanity  che apre il secondo CD è un pezzo dall’aria più sudista, nuovamente allmaniano, con una bella melodia ricorrente, prima di passare a Thorns Of Life, uno dei brani migliori del disco del 2017, con Warren che lavora di fino su timbri e tonalità della propria chitarra nell’atmosfera sospesa della canzone, prima di scaricare insieme ai suoi pards tutta la potenza di fuoco della band, dieci minuti poderosi, poi replicati nell’altrettanto lunga title track dell’ultimo album (di cui vengono eseguiti ben 9 dei 12 brani, d’altronde era il Revolutions Come…Revolutions Go Tour), altro brano “swingin’ rock”, ancorato da un bel giro di basso e dalle divagazioni dell’organo, prima di una incantevole jam, quasi jazzata nella parte centrale strumentale e poi cambio di tempo verso un blues-rock cadenzato e infine di nuovo al tempo originale, con Louis impegnato anche alla tromba, oltre che all’organo.

Anche No Need To Suffer era su Life Before Insanity, altro lento dalle atmosfere sospese ed avvolgenti, per rimanere in tema Zeppelin siamo dalle parti di Houses Of Holy, altro tipico brano in crescendo con piano elettrico sullo sfondo e poi l’esplosione di un splendido assolo di chitarra torcibudella di Haynes, Dreams & Songs viene da Revolutions…, una dolente southern ballad con uso slide, tra Allman e Lynyrd Skynyrd, prima di passare alla lunghissima Time To Confess, che era su The Deep End 2, con accenni reggae e improvvise fiammate rock, che confluiscono nella devastante jam strumentale nella parte centrale, con un altro assolo mostruoso di Warren, che poi ci regala un’altra chicca come la cover di Comeback dei Pearl Jam, una primizia nel repertorio dei Muli, un pezzo non notissimo della band di Vedder, sul loro omonimo disco del 2006, una vibrante confessione ad una compagna che non c’è più, cantata con empatia e partecipazione da Haynes, che si immerge a fondo nella canzone, fino all’assolo lirico e liberatorio. World Boss era la traccia di apertura di Shout!, uno dei classici pezzi rock molto mossi dei Gov’t Mule, con qualche elemento hendrixiano nello svolgimento,  brano che conclude questo doppio CD nella versione standard.

Nella seconda parte del Post vediamo cosa contiene la versione Deluxe in 2 CD e 2 DVD.

Bruno Conti

Chitarristi Slide (E Non Solo) Di Tutto Il Mondo Esultate, E’ Tornato Il “Maestro”. Ry Cooder – Prodigal Son

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Ry Cooder – The Prodigal Son – Fantasy/Caroline/Universal

Sicuramente uno dei dischi più belli usciti in questo ultimo scorcio di tempo, e che si candida già fin d’ora ad essere tra i migliori dell’anno, è il nuovo album di Ry Cooder The Prodigal Son. A ben guardare non è che il nostro amico Ryland se ne fosse mai proprio andato, ma dopo i due dischi Election Special del 2012 e il Live In San Francisco dell’anno successivo, se ne era rimasto tranquillo per qualche anno. Poi, stimolato anche dal figlio Joachim che da qualche tempo gli proponeva costantemente di fare un disco che ritornasse alle sonorità dei vecchi dischi classici degli anni ’70, ha deciso di incidere questo The Prodigal Son che, partendo da una base gospel, andasse a toccare tutte le tematiche sonore care a quei dischi, peraltro mai del tutto abbandonate nel corso della sua carriera. La classe del chitarrista californiano non è che si scopra oggi, ma il nuovo album indubbiamente aiuta in modo deciso a rinverdirla, attraverso una serie di canzoni pescate dal grande repertorio storico della musica americana: gospel si diceva, ma anche blues, se vogliamo non manca neppure il rock,  come attitudine, per quanto coniugato in uno stile scarno ed asciutto, senza il rischio comunque di cadere mai nel didattico o nel didascalico, in quanto Cooder, oltre che musicologo sopraffino, è anche un musicista dal gusto e dalla tecnica superbe, e Joachim come percussionista si avvia a non essergli da meno. In più, rispetto ai primi dischi che vengono posti come pietre di paragone all’attuale, Ry Cooder, Into Purple Valley Boomer’s Story, c’è la presenza in molti brani dei tre vocalist di colore, Bobby King, arrivato solo nel 1974, Terry Evans dal 1976 (e che qui fa la sua ultima apparizione, visto che è scomparso poco dopo la registrazione del disco) e Arnold McCuller, che se non ricordo male apparve per la prima volta su Crossroads del 1986.

Il risultato si diceva è strepitoso, il repertorio del passato serve per tracciare un parallelo con quello che succede nel mondo del presente, con una serie di rimandi ed aggiornamenti, non solo musicali, nonché con l’aggiunta di tre brani scritti da Cooder per l’occasione: il tutto porto con il consueto garbo, una voce che sembra non risentire dello scorrere del tempo, anzi si è fatta più forte e sicura, e la riconosciuta maestria alla chitarra, soprattutto nell’uso del bottleneck, che lo rende uno dei massimi virtuosi di sempre della tecnica slide. Otto canzoni scelte con la consueta certosina abilità e pazienza nel cercare piccoli tesori perduti della tradizione: si parte proprio con uno di questi brani, Straight Street, un gospel ripescato dal repertorio dei Pilgrim Travelers, e che mette subito in evidenza che il suono è sì scarno, ma non minimale, Ry canta con voce suadente, suona anche il mandolino, il banjo. chitarre acustiche e il basso (e altrove nel disco anche le tastiere all’occorrenza), le tre voci di supporto aggiungono una patina molto soul e tocchi caraibici ai tratti religiosi del gospel originale, la canzone è splendida, il suono è elettrico e non paludato, una piccola delizia tanto per iniziare.

Shrinking Man è il primo dei tre brani originali a firma Cooder, introdotto da un florilegio di leggere percussioni suonate da Joachim, assume subito la classica andatura ondeggiante dei suoi brani migliori, tra rock, soul, blues e qualche tocco country, con le chitarre, soprattutto la slide, a marcarne una frizzante leggerezza che predispone al buon umore; e anche Gentrification mantiene elevato il livello qualitativo dei suoi contributi dell’album, solita introduzione interlocutoria delle percussioni, poi domina il ritmo in una canzone dal testo amaro ma dalla esecuzione sonora vivace che prende corpo nel leggero ma inesauribile crescendo della classiche canzone cooderiane, con mille soluzioni sonore ad impreziosirne la struttura sonora.

Non è la prima volta che Ry Cooder affronta il repertorio di Blind Willie Johnson, pensate alla splendida Dark Was The Night (spedita anche nello spazio sul Voyager), che era su Paris, Texas, ma veniva eseguita dal vivo sin dai primi anni ’70, per l’occasione tocca a Everybody Ought To Treat A Stranger Right, trasformato in un infuocato R&B dove la slide di Cooder stampa un assolo da urlo, mentre i tre “negroni” ci danno dentro alla grande nel reparto vocale. La title track Prodigal Son è un brano tradizionale attribuito al Rev. Robert Wilkins, altra canzone degli anni ’20 che assume una forma sonora moderna, un solido rock-blues che rimanda addirittura al Cooder del periodo Bop Till You Drop e Slide Area, tra le consuete evoluzioni vocali dei tre ospiti e la chitarra splendida di Ry che rende omaggio al grande Ralph Mooney, uno dei maestri della steel guitar del Bakersville sound nella country music, pezzo dove più che solo due musicisti sembra di ascoltare una band al completo, tanto il suono è corposo.

Il secondo brano di Blind Willie Johnson presente in questo CD è forse una delle composizioni più celebri del bluesman degli anni ’20, quella Nobody’s Fault But Mine di cui esistono decine di versioni, e questa di Cooder è comunque una delle più affascinanti, tra atmosfere sospese, un abbrivio che ricorda quasi le sonorità dei dischi di Jon Hassell ed un approccio molto sofferto, vicino anche al sound del Paris, Texas citato poc’anzi, qui il gospel si fa più rigoroso e meno “modernizzato”, per quanto sempre ricco di una sottile seduzione, oltre sei minuti di grande musica. Un altro “cliente” abituale del passato del musicista di San Francisco è stato indubbiamente Blind Alfred Reed, di cui ha realizzato una versione quasi definitiva della splendida How Can a Poor Man Stand Such Times and Live?, ebbene You Must Unload ci si avvicina molto, un vero e proprio inno mistico in origine, ma che nella versione attuale, l’unica dove appaiono anche Robert Francis al basso e Aubrey Haynie al violino, assume sonorità idilliache e sognanti, con tocchi folk celtici misti ad un gospel quasi romantico, insomma un’altra piccola meraviglia, cantata splendidamente da Ry.

Altro autore cieco d’epoca è il meno noto Blind Roosevelt Graves, di cui il musicologo Cooder va a ripescare l’oscura, ma bellissima, I’ll Be Rested When The Roll Is Called, di nuovo con le voci splendide di King, Evans e McCuller a testimoniare le glorie del Signore, con mandolino, banjo e rullante a giocare con le voci in modo gioioso. Harbour Of Love viene dal patrimonio degli Stanley Brothers, un gruppo bianco che era in grado di coniugare il country con la musica nera gospel, come testimonia questo delicato brano tra folk e country, tra florilegi di strumenti acustici e una pedal steel che “piange” sullo sfondo, mentre una sottile malinconia si impadronisce dell’ascoltatore. Anche Jesus And Woody, l’ultimo brano scritto da Ry Cooder per l’occasione, una dolce amara meditazione sui tempi che viviamo, in un dialogo immaginario tra Gesù e Woody Guthrie, ha uno spirito più raccolto, acustico, una sorta di poemetto che mette a confronto religione e dottrina politica e sociale con affetto e rispetto. Rimane la conclusiva In His Care, che porta la firma di William D. Dawson, ma era tra i cavalli di battaglia di Sister Rosetta Tharpe, una delle reginette assolute della musica gospel americana: altro brano energico e grintoso, con chitarre, voci e percussioni che si mescolano con classe e fervore, sempre con l’impronta inconfondibile di Cooder che per non farci mancare nulla ci regala un ultimo assolo di slide guitar che conclude la sua parabola sonora sul Figliol Prodigo.

Bruno Conti

Non Tradiscono Mai. Gov’t Mule – Revolution Come…Revolution Go

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Gov’t Mule – Revolution Come…Revolution Go – 2 CD Fantasy/Universal 09-06-2017

Tornano i Gov’t Mule con un nuovo album, Revolution Come…Revolution Go, concepito nei giorni dell’elezione di Trump negli USA (e quindi come nel caso di quello di Roger Waters, influenzato a livello di testi dagli avvenimenti allora in corso), ma musicalmente sempre legato al classico rock del quartetto americano, uno stile dove confluiscono anche elementi blues, soul, funky, jazz e anche country, oltre alle improvvisazioni tipiche delle jam band: quindi, come si ricorda nel titolo del Post, per certi versi non tradiscono mai i loro estimatori. Dopo lo scioglimento degli Allman Brothers (reso ancor più definitivo dalla recente scomparsa di Gregg Allman http://discoclub.myblog.it/2017/05/28/lultima-corsa-del-viaggiatore-di-mezzanotte-ma-la-strada-continua-per-sempre-ci-ha-lasciato-anche-gregg-allman-aveva-69-anni/ ) Warren Haynes si è dedicato alla sua carriera solista, pubblicando tre album, uno in studio, un Live e quello insieme ai Railroad Earth http://discoclub.myblog.it/2015/07/29/il-disco-dellestate-dellautunno-dellinvernowarren-haynes-featuring-railroad-earth-ashes-and-dust/ , non tralasciando comunque una intensa attività di pubblicazione di materiale d’archivio della sua band principale, più o meno in concomitanza con il 20° Anniversario dalla nascita del gruppo http://discoclub.myblog.it/2016/08/05/dagli-archivi-inesauribili-dei-govt-mule-ecco-le-tel-star-sessions/ . L’ultimo album Shout!, uscito nel 2013 per la Blue Note, era stato un album particolare, in quanto a fianco del disco principale era accluso un secondo CD con tutte le canzoni (ri)cantate da una nutrita serie di ospiti. Per Revolution Come…Revolution Go, il loro decimo album di studio, si ritorna alla formula abituale (anche se, come da benemerita abitudine, sarà pubblicata pure una versione Deluxe con ben 6 tracce extra, altri tre brani nuovi, una versione alternata e due Live In Studio dei pezzi contenuti nel primo CD).

Per l’occasione il numero degli ospiti è contenuto al minimo: Jimmie Vaughan è la seconda chitarra solista nella bluesata e texana Burning Point, Don Was, se vogliamo considerarlo tale, co-produce due brani del CD, alternandosi con Gordie Johnson che è il co-produttore con Haynes in altri sei. La formazione è la solita: Matt Abts alla batteria, una garanzia, Jorgen Carlsson al basso, sempre più impegnato, riuscendoci, a non fare rimpiangere Allen Woody Danny Louis alle tastiere, seconda chitarra e occasionalmente alla tromba. Il risultato, si diceva, è più che soddisfacente: a partire dalla ferocissima Stone Cold Rage, il primo “singolo” dell’album, che ci riporta al sound hard dei primi anni della formazione, a tutto wah-wah, con una carica che mi ha ricordato gli Humble Pie, Bad Company e gli amati Free, con le svisate dell’organo di Louis che si sovrappongono alle chitarre di Haynes con effetti devastanti, mentre Warren canta con la solita foga. Drawn That Way è un altro potente rock-blues cadenzato, tra la James Gang di Joe Walsh e le band citate prima, senza dimenticare il southern degli Allman e il classico rock seventies in generale, con un bel cambio di tempo, una decisa accelerazione nella seconda parte,  che prelude ad una bella jam con doppia chitarra solista; nel finale Pressure Under Fire è il secondo brano influenzato, a livello di testi, dai recenti eventi politici e sociali americani, ancora il classico rock dei Mule, un mid-tempo sospeso dalle atmosfere intense e curate dalla produzione di Don Was, con un ottimo lavoro nuovamente di Louis all’organo, alternato alla solista di Warren, mentre The Man I Want To Be è una splendida ballata in crescendo, giocata anche sui toni e i pedali della solista di Haynes, ma pure con un fervore quasi gospel e qualche retrogusto che ricorda il Jimi Hendrix più “melodico”, comunque la si veda una delle migliori canzoni del nuovo album, con un assolo fantastico di chitarra.

Traveling Tune, con l’uso della steel guitar e un’aura rustica e country è quella che più si avvicina a Ashes And Dust, il disco con i Railroad Earth, una ballata southern che ricorda anche certe cose di Dickey Betts con gli Allman, molto bella la melodia; viceversa Thorns Of Life è uno dei brani più lunghi dell’album e più improvvisati, inizio dark e quasi jazzato, con la ritmica che lavora di fino per preparare l’arrivo della voce di Haynes, molto misurato nella parte iniziale, poi entra la solista di Warren e il tempo inizia ad accelerare, si placa brevemente di nuovo e poi si ricarica per il finale di grande intensità sonora, tra picchi e momenti di quiete. Dreams And Songs, l’altro brano co-prodotto con Don Was, è una ulteriore eccellente ballata di stampo sudista, con un bel lavoro di piano elettrico e la lirica chitarra in modalità slide a sottolineare la dolce melodia della canzone che mi ha quasi ricordato il Dylan di Pat Garrett, e pure Sarah Surrender è un ottimo esempio dell’Haynes autore, non solo il chitarrista, ma anche l’amante della classica soul musicstranamente per l’unico brano non registrato nelle sessions dell’album tenute a Austin, Texas, ma in una appendice a New York nel gennaio del 2017: atmosfera ondeggiante, armonie vocali femminili, congas e organo a punteggiare l’impronta nera della canzone, scelta come secondo singolo del CD, persino qualche tocco santaneggiante nel lavoro della solista. Revolution Come…Revolution Go è l’altro brano che supera gli otto minuti, nuovamente tipico dello stile dei Gov’t Mule, partenza rock swingata su un deciso groove di basso, poi un improvviso cambio di tempo e si passa ad un blues shuffle cadenzato, sempre con la solista in grande evidenza, ulteriore cambio per una breve improvvisazione jazzata guidata dall’interscambio organo/chitarra nella parte centrale e poi nel finale si ritorna al tema iniziale.

Rimangono gli ultimi tre brani, Burning Point, quello con il duetto con Jimmie Vaughan, un brano dall’impronta blues, ma stranamente dall’anima rock, per il fratello più “tradizionale” rispetto alle 12 battute della famiglia, Warren Haynes è impegnato ad un wah-wah nuovamente quasi hendrixiano, ma anche Jimmie risponde da par suo con il suo tipico sound texano, mentre il ritmo ha pure un feeling funky, quasi à la New Orleans, grazie anche all’organo di Louis, come doveva essere nella intenzione originale espressa dall’autore nella presentazione del disco. Che si conclude con Easy Times, altra bella blues ballad dall’aria riflessiva, cantata con trasporto da Haynes, supportato nuovamente dalle voci femminili già impiegate in precedenza, prima di rilasciare un ennesimo assolo dei suoi nel finale. Anzi, per la precisione, l’ultimo brano è anche l’unica cover del disco, una rielaborazione del classico blues di Blind Willie Johnson Dark Was The Night, Cold Was The Ground, a cui Warren ha aggiunto un nuovo testo per renderlo più vicino ai tempi che stiamo vivendo, trasformandolo in una sorta di gospel-rock epico e futuribile, dove i florilegi del piano cercano di mitigare l’urgenza della chitarra e del cantato che portano l’album al suo climax: “soliti” Gov’t Mule, quindi ottimo album.

Nel secondo CD (che non ho ancora sentito, esce questo venerdì 9 giugno), come detto, altri 6 brani:

Bonus CD:
1. What Fresh Hell
2. Click-Track
3. Outside Myself
4. Revolution Come, Revolution Go (Alternate Version)
5. The Man I Want To Be (Live In Studio Version)
6. Dark Was The Night, Cold Was The Ground (Live In Studio Version) 

Bruno Conti