Da New York A Memphis, Tra Blues E Soul! King Solomon Hicks – Harlem

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King Solomon Hicks – Harlem – Mascot/Provogue

La Mascot/Provogue è sempre più lanciata nella ricerca di chitarristi e cantanti di talento da inserire nel proprio roster: l’ultimo, King Solomon Hicks, come orgogliosamente annuncia il titolo del suo” primo” album per l’etichetta americana, Harlem, viene proprio dal quartiere della Grande Mela, noto anche come la Upper Side di Manhattan, dove il giovane musicista di colore sotto la guida della madre ha iniziato a muovere i suoi primi passi fin da ragazzino, arrivando a pubblicare un disco già nel 2010, Embryonic, come chitarrista della Cotton Club All-Star Band, quando di anni ne aveva solo 14. Ora ne ha 24 e sulla copertina del nuovo album è ripreso con una chitarra che da lontano sembra una Gibson, ma in effetti è una Benedetto GA35, fatta a mano dall’omonimo maestro liutaio. E il disco è un misto di blues, jazz, soul, molto rock, gospel, funky, R&B, Il tutto al servizio di una voce calda e matura, e di uno stile chitarristico eclettico e sfavillante, dove tutte le componenti citate vengono messe in fila dall’ottimo produttore Kirk Yano.

Ed ecco quindi scorrere un misto di materiale classico e brani originali firmati da Hicks, accompagnato da una band dove militano elementi provenienti da Soullive, Lettuce, le band di Jack White, Hank Williams Jr e altri, più in un brano, come ospite, il vecchio batterista di Savoy Brown/Foghat Roger Earl. Nella presentazione del disco King Solomon ricorda che in questa fusione di stili vorrebbe inserire anche elementi più” moderni”, contemporanei rispetto al suono classico, ma, fortunatamente, mi sembra non ci siano riusciti: l’iniziale I’d Rather Be Blind (da non confondere con I’d Rather Go Blind di Etta James) è un pimpante brano dello stesso Hicks, tra blues e R&B, può ricordare lo stile Stax di Albert King, ma anche il suono Delmark dei primi anni ’70, piano e organo in bella evidenza, un ritmo scandito, la voce calda e suadente di Hicks, sembra quasi un brano uscito da Muscle Shoals (manco a dirlo), la chitarra disegna linee e licks classici senza cadere mai nello scontato, mentre una vibrante Everyday I Have The Blues è meno “swingata” rispetto a quella di B.B. King, decisamente più veloce e vicina agli stilemi delle band rock, con la solista in grande spolvero in una serie di interventi gagliardi, quasi allmaniani nel loro dipanarsi.

What The Devil Loves è un potente brano tra rock, blues e R&B, scritto da Fred Koller, con un magnifico Earl alla batteria e un impeto fluido e torrenziale nella chitarra del nostro; 421 South Main, uno dei pezzi originali, è un veloce shuffle battente con un florilegio di soliste furiose e un suono palpitante, mentre Love You More Than You’ll Ever Know, è proprio il brano di Al Kooper scritto per i Blood; Sweat & Tears, che negli ultimi anni sta vivendo una seconda giovinezza ( di recente Bonamassa e Gary Moore, ma in passato anche Donny Hathaway), la eccellente versione di Hicks ha tocchi jazzy e latineggianti alla Santana, ma anche un timbro di chitarra tra Peter Green e Moore, spaziale e lancinante al contempo. Headed Back To Memphis è un “bluesone” di quelli duri e puri, tosto il giusto, che illustra questo viaggio musicale da Harlem a Memphis con grinta e grande carica, sia vocale che strumentale, a riprova di una classe innata del giovane Solomon, che si difende egregiamente anche nel settore funky con una versione carnale del vecchio brano di Gary Wright Love Is Alive, che diventa uno strumentale tra sax e chitarrine wah-wah impazzite, sonorità sognanti un attimo e carnali e sensuali quello successivo.

Have Mercy On Me, se mi passate l’ossimoro, è un” indiavolato” gospel-rock preso a velocità da ritiro della patente, con Hicks e i suoi accoliti che ci danno dentro alla grande, e pure Riverside Drive quanto ad intensità non scherza, altro strumentale poderoso con la solista pungente del giovane King Solomon di nuovo in grande spolvero in sonorità quasi futuribili ed hendrixiane, ottimo pure It’s Alright , altro fremente e scandito blues di ottima fattura. In conclusione troviamo una versione ardente e magnifica di Help Me, il classico di Sonny Boy Williamson, riletto con grinta, feeling e una perizia tecnica alla chitarra veramente ammirevoli. Il disco esce il 13 marzo.

Bruno Conti

Uno Splendido Disco Restaurato E Ristampato. Butterfield Blues Band – Live

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Paul Butterfield Blues Band – Live  – 2 CD Elektra/Wounded Bird      

Come recitava il titolo di una delle sue canzoni più famose (anche se scritta dall’amico Nick Gravenites) I Was Born In Chicago, Paul Butterfield è stato con la sua Blues Band, sin dal 1964/65, uno dei grandi “padri bianchi” della rinnovata ondata delle 12 battute, che seguiva gli anni d’oro caratterizzati principalmente dagli artisti  neri che negli anni ’50 avevano inciso per l’etichetta Chess nella Windy City, ma anche un poco dovunque sul territorio americano. Quando nasce la Butterfield Blues Band negli States, e in Inghilterra i gruppi di Ciryl Davies, Alexis Korner, e soprattutto i Bluesbreakers di John Mayall, il R&R sta diventando rock, il folk diventa elettrico a Newport, anche grazie alla presenza di alcuni membri della band di Butterfield al concerto di Bob Dylan. Ma il periodo inarrivabile del gruppo coincide con i primi due album, quelli con Bloomfield e Bishop alle chitarre, e Mark Naftalin alle tastiere, ma Paul, come Mayall dall’altra parte dell’oceano, seppe rinnovarsi, introducendo prima l’uso di una gagliarda sezioni fiati, e partecipando ad importanti kermesse sonore come il Festival di Woodstock nel 1969.

Quando arriva il 1970, l’anno in cui esce questo doppio LP Live, i grandi solisti come quelli citati, e anche gente come David Sanborn al sax e” Buzz” Feiten alla chitarra non ci sono più, ma il gruppo rimane una entità solida, con l’armonica di Butterfield sempre al centro della scena, oltre alla sua voce vibrante, ben coadiuvato da solisti come Gene Dinwiddie (già con James Cotton) e Trevor Lawrence ai sax, l’ottimo Steve Madaio alla tromba, un trio di musicisti che poi troveremo in decine di album nel corso degli anni a venire, nonché i bravi Ted Harris al piano e Ralph Walsh alla chitarra, con George Davidson alla batteria e Rod Hicks, uno dei primi ad utilizzare il basso fretless, a completare la formazione. Questo album è uscito varie volte nel corso degli anni, prima in doppio vinile nel 1970, poi è stato pubblicato brevemente come doppio CD (aggiungendo un dischetto di materiale inedito all’album originale) nel 2004 dalla Rhino Handmade, fuori catalogo da parecchi anni, sempre in questa versione era uscito nel cofanetto da 14 CD Complete Albums 1965-1980, ancora della Rhino, ed ora è di nuovo disponibile tramite la rinata Wounded Bird.

E rimane sempre un gran bel disco dal vivo, registrato nel corso di due serate, il 21 e 22 marzo del 1970 al Troubadour di Los Angeles, cattura la band in un momento di transizione, ma anche in grandissimo spolvero. Butterfield è autore di pochi brani, ma conduce il gruppo con grande autorità, sin dalla scintillante rilettura di Everything Going To Be Alright il classico brano di Little Walter che si dipana ben oltre i dieci minuti, con l’armonica di Paul subito protagonista assoluta, mentre il resto del gruppo macina un blues jazzato, ma sempre con quelle nuances rock ed improvvisative che hanno reso unica questa band formidabile, grazie ai fiati spesso in fibrillazione all’unisono e con Walsh che ci regala un bel assolo di chitarra, mentre Paul è in pieno controllo anche alla voce; la breve e swingante Love Disease scritta da Dinwiddie è stretta parente di quel rock alla Blood, Sweat And Tears che imperava in quegli anni, con un prodigioso Hicks al basso, e proprio Hicks è l’autore di The Boxer, un eccellente esempio dell’errebì vigoroso che erano in grado di generare, mentre Butterfield scrive e canta con passione una vibrante e nerissima No Amount Of Loving, seguita da Driftin’ And Driftin’ un classico brano mellifluo di Charles Brown, uno slow blues tiratissimo che è l’occasione per improvvisare alla grande in oltre tredici minuti di musica sublime, dove tutti i solisti si alternano, sempre con Paul “primo inter pares”, ma anche Walsh non scherza. Segue la presentazione della band e poi un’altra cavalcata di dieci minuti in Number Nine, un pezzo firmato dal pianista Ted Harris, uno strumentale dove sembra di ascoltare i B, S & T più sperimentali, ma sempre con quella magica armonica ad aleggiare.

I Want To Be With You è cantata dal suo autore Gene Dinwiddie, una bella ballata soul di buona fattura, prima di tornare al blues fiatistico con una cover notevole di Born Under A Bad Sign, seguito da un gospel-soul-rock caldo, cantato coralmente e in modo coinvolgente come Get Together Again, chiude il primo disco un altro brano pimpante, da soul revue scatenata e a tutto fiati,  So Far So Good, cantata ad ugola spiegata da un trascinante Butterfield. Il secondo CD inizia con Gene’s Tune, altri 12 minuti micidiali di improvvisazione pura, tra blues, soul e jazz, a cui la BBB fa seguire una accorata versione di uno dei brani più belli tra quelli meno noti di Otis Redding, Nobody’s Fault But Mine, e poi un altro brano firmato da un maestro come Ray Charles, ovvero Losing Hand, in cui arriviamo a quattordici minuti di goduria pura, in un lento sontuoso, dove Paul e il chitarrista Ralph Walsh si superano ai rispettivi strumenti.  All In A Day, di nuovo di Hicks, è un altro limpido esempio del loro rock-blues-jazz trascinante, ribadito nella tirata Feel So Bad, un brano di Chuck Willis più vicino al rock chitarristico dell’epoca, Except You di Jerry Ragavoy (quello per intenderci che ha scritto Time Is On My Side,Stay With Me e Cry Baby) è una splendida ballata strappalacrime cantata con grande pathos da Butterfield, che poi si riappropria delle proprie radici blues con You’ve Got To Love Her With  A Feeling, una grandissima canzone dal repertorio di Freddie King.  E per chiudere alla grande la serata ci regalano un’altra dozzina d minuti di grande musica con la divertente e scatenata Love March. Grande ristampa, forse non è uno dei Live fondamentali della storia della musica rock, ma sta subito sotto, non lasciatevelo fuggire, vi sorprenderà.

Bruno Conti

Formato Piccolo, Ma Voce Sempre Grande. Janiva Magness – Blue Again

janiva magness blue again

Janiva Magness – Blue Again – Blue Elan Records

Mini album, “mini” recensione, ma non mini nella qualità dei contenuti, questo nuovo disco della sempre più brava Janiva Magness, una delle migliori voci in ambito soul e blues in circolazione al momento. Il precedente disco Love Wins Again, era stato pubblicato all’incirca un anno fa http://discoclub.myblog.it/2016/05/11/piu-che-lamore-la-voce-che-vince-volta-janiva-magness-love-wins-again/ , ma per l’occasione la cantante di Detroit ha interrotto la cadenza biennale con cui stavano uscendo i suoi dischi nell’ultima decade e oltre: d’altronde se con un mini album ha dimezzato il tempo che di solito passava tra un’uscita e l’altra; non la possiamo certo definire prolifica, per quello dobbiamo guardare a un Bonamassa (sta arrivando il nuovo disco), oppure gruppi od artisti che da quando sono morti pubblicano più album di quando erano in vita, penso ai Grateful Dead o Frank Zappa, comunque nel passato era normale che i dischi uscissero con maggiore frequenza, senza pregiudicare la qualità dei contenuti.

E mi sembra che anche in questo caso la Magness centri il colpo: prodotta al solito dal bravo Dave Darling, che per l’occasione non suona nel CD, dove troviamo invece Zach Zunis e Garrett Deloian alle chitarre, Gary “Scruff” Davenport al basso, Matt Tecu alla batteria e l’ottimo Arlan Schierbaum, ex tastierista proprio della band di Bonamassa., con il solo batterista “nuovo” rispetto al precedente disco. Si diceva di un mini album: sei brani in tutto, tutte cover questa volta, per festeggiare 20 anni di carriera, visto che il primo disco, inciso con Jeff Turmes, It Takes One To Know One, usciva nel 1997, quando Janiva aveva già 40 anni (quindi stavolta in teoria non vi ho detto l’età, però i conti si fanno presto), ma era già una “signora” cantante, e con il tempo è solo migliorata, come dimostra la recente nomination ai Grammy e i sette Blues Music Awards vinti. E come si evince subito anche dalla potente I Can Tell, che pure essendo scritta da tale Samuel Smith, gira intorno a un riff alla Bo Diddley, che infatti era stato il primo ad inciderla, tra R&R e Blues, con una grinta vocale inconsueta nelle sue canzoni, più rauca e “cattiva” del solito, aiutata dall’eccellente lavoro di David “Kid” Ramos, ospite alla chitarra solista.

I Love You More Than You’ll Ever Know, la più bella canzone del disco, è quella splendida ballata blues’n’soul che appariva nel primo album dei Blood, Sweat & Tears, scritta da “Al Cooper” (, ma per favore,come hanno fatto a ciccare il nome dell’autore nelle note del dischetto?), e che ricordiamo in grandi versioni di Donny Hathaway e in quella più recente di Beth Hart con Joe Bonamassa, splendida, e la nostra Janiva rivaleggia proprio con Beth Hart, grazie ad una interpretazione calda e intensa come poche. Altro ospite presente nel CD è Sugaray Rayford che duetta con la Magness in una magnifica rilettura di If I Can’t Have You di Etta James, con i due cantanti che si stimolano a vicenda nel call and response tipico della grande soul music, raffinato e delicato anche il lavoro dei due chitarristi e di Schierbaum al piano; chitarristi che tirano di brutto anche nel rock-blues sanguigno ed inatteso della poco nota Tired Of Walking, dove Janiva canta come se fosse posseduta dal Dio del rock. Piu raffinata e bluesy Buck, un brano inciso ai tempi da Nina Simone, qui impreziosito da un intervento dell’armonica di TJ Norton, con la Magness che gigioneggia in grande souplesse. Chiusura dedicata ancora al blues con una cover di Pack It Up, un pezzo del repertorio di Freddie King, dove i due chitarristi si dividono tra una elettrica lancinante ed un’acustica di supporto, mentre Schierbaum è impegnato al piano elettrico e le nostra amica canta ancora in modo ricco di pathos. Come si suole dire, breve ma intenso.

Bruno Conti

Un Altro Disco “Nuovo” Ma Vecchio, Comunque Bello! David Clayton-Thomas – The Evergreens

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David Clayton-Thomas  – The Evergreens – Indipendent Label Services/Universal Canada                               

David Clayton-Thomas, nonostante la non più giovane età (75 compiuti lo scorso anno), continua ad avere una attività discografica intensa, si segnalano due suoi “nuovi” album recenti (anche se uno, a ben vedere, non lo è) e in ogni caso, dal 2004, quando ha abbandonato definitivamente i Blood, Sweat And Tears, ha intensificato la sua carriera solista, anche se si svolge principalmente nel mercato canadese. Accompagnato da una band di una decina di elementi, ricca di fiati, ripercorre il percorso sonoro dei B S & T, quel soul jazz-rock, con ampie spruzzate di blues e R&B, “inventato” da Al Kooper,  e che dopo un solo album, lo strepitoso Child Is Father To The Man, avrebbe lasciato in eredità proprio al suo sostituto David Clayton-Thomas, che, se possibile, lo ha ulteriormente perfezionato nel successivo album omonimo, uscito come il primo nel 1968. Clayton-Thomas, in possesso di una voce potente e duttile (completamente diversa da quella di Kooper) è stato nella formazione in tre diversi periodi, tra il 1968 e il 2004, mentre al momento il vocalist è l’ottimo Bo Bice.

david clayton-thomas canadiana

Gli ultimi album, il recente Canadiana (tutto con brani di autori appunto canadesi), ma anche i precedenti Soul Ballads, Combo e Spectrum, parlano di un cantante ancora in eccellente forma vocale, e anche se non facile reperibilità fuori dai confini nazionali, confermano questa sorta di nuova giovinezza che sta vivendo. La discografia però è un po’ confusa, perché questo The Evergreens, segnalato nelle uscite come album del 2017, leggendo le note all’interno del CD risulta registrato (e regolarmente pubblicato) tra il 2007 e il 2008. E pure il titolo confonde le idee: uno potrebbe pensare che si tratti di classici e standard della canzone americana, e invece, per una volta, le tredici canzoni portano tutte la firma di Clayton-Thomas, e gli arrangiamenti e le brillanti tastiere sono di Doug “Doc” Riley, per oltre 40 anni amico e collaboratore saltuario di David, e scomparso poco prima del completamento di questo CD, ma presente in tutti i brani meno due, e al quale il disco è dedicato. Come si diceva, il musicista canadese (ma è nato a Kingston Upon Thames, nel Surrey) ama circondarsi di formazioni molto ampie, nei credits si legge di dodici elementi, più tre cantanti aggiunte che curano le armonie vocali, e il suono è quello “classico”: fin dalla iniziale autobiografica Mornin’ Blues, che parla di essere “sixty-five and single” (nel frattempo sono passati altri dieci anni), si apprezzano i florilegi jazz del sax baritono di Vernon Dorge e della sezione fiati arrangiata da Riley, inserite nella struttura da blues afterhours del brano, dove si apprezza la voce vissuta ma ancora potente di DCT, ricca di sfumature che la avvicinano a quella di un Ray Charles bianco, con piano, sezione ritmica e fiati molto ben definiti anche da una registrazione strepitosa che permette di apprezzare anche i minimi particolari del sound.

Last Chance, con un fantastico groove di basso e batteria, si regge su ritmi quasi di samba, con le coriste che iniziano a farsi sentire, l’organo che “scivola” sullo sfondo e Dorge che passa al flauto per un assolo delizioso. La title track, che Clayton-Thomas dice nelle note essere ispirata dalla musica di Cannonball Adderley, si avvale di un bel piano elettrico e di un flicorno evocativo affidato a Bruce Cassidy, oltre che di un bel coro Gospel nel finale. Quindi musica “adulta”, raffinata, solida e onesta, magari non molto innovativa (ma chi lo è?) o trascinante, ma di gran classe; anche se la “modernità” non manca, in Blackberry Wine si ascolta un AVI, una “tromba sintetizzatore” che agisce in questo bel brano che rispolvera il soul e il R&B delle classiche ballate dei B, S & T, mentre Dancin’ To LaBelle si impadronisce di ritmi funky per un omaggio all’epoca di Lady Marmalade, anche grazie alla presenza dell’elettrica di Bernie La Barge. Surely You Know addirittura ci rimanda al classico sound dei Memphis Horns per un tuffo nel deep soul, estrinsecato in un bellissimo duetto con la brava Dione Taylor, una cantante di Toronto scoperta dal nostro. A Blues For Doc è l’omaggio a Doug Riley, una sorta di ballata “funebre”, molto intensa e commossa; non manca neppure il frenetico honky-tonk barrelhouse della scatenata Donnybrooko i ritmi afrocubani della mossa Doubletalk,  e ancora lo slow blues intenso e chitarristico di Fifteen Minutes e quello scandito da una armonica di I Can’t Complain, o la splendida ballata con uso di sax di Hell Or High Water. Insomma, ci siamo intesi, un gran bel disco “tardivo” da gustare fino all’ultima nota, e non gli manca neppure il senso dell’umorismo https://www.youtube.com/watch?v=tGkjVKEauA8

Bruno Conti