Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte I

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Proseguendo nella nostra serie di monografie dedicate ad una disamina di alcune delle principali band britanniche, inserite in quel filone che è stato appunto definito British Blues, dopo Fleetwood Mac https://discoclub.myblog.it/2019/06/28/in-attesa-del-cofanetto-inedito-atteso-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-i/ , Ten Years After https://discoclub.myblog.it/2013/03/13/alvin-lee-1944-2013-il-chitarrista-piu-veloce-del-mondo/ , e ovviamente John Mayall, con e senza Bluebreakers https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ , questa volta ci occupiamo dei Savoy Brown, una delle band più longeve, in attività già dal 1965 e a tutti gli effetti, come dicono i nostri amici inglesi “still alive and well”, ancora vivi e vegeti, con una media di una o due nuove uscite discografiche all’anno, l’ultima pubblicazione risalente a fine agosto 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/10/05/non-e-ancora-finita-eccoli-di-nuovo-savoy-brown-aint-done-yet/ . Naturalmente nel conteggio non inseriamo i Rolling Stones, che sono i più longevi di tutti, e che ultimamente un paio di capatine dalle parti delle 12 battute le hanno fatte: per essere pignoli mancherebbero i Chicken Shack, di Stan Webb e Christine Perfect, e tutta una serie di band e solisti, di culto o meno, che stanno ai margini di questa scena, o in quanto predecessori del fenomeno, Yardbirds, Animals, Pretty Things, Manfred Mann, “eredi”, dai Free ai Taste, tra i “minori” la Climax Blues Band, i Groundhogs e la Keef Hartley Band passando per Cream, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, che però sono fenomeni a sé stanti; poi ci sarebbe la “second wave” del movimento, che partendo a metà anni ‘70 dai Dr. Feelgood, a inizio anni ‘80 approda a gente come la Blues Band e i Nine Below Zero. Magari dedicheremo una puntata al “Best Of The Rest”. Comunque bando alle ciance e veniamo alla vicenda dei nostri amici Savoy Brown: naturalmente mi sono fatto un bel ripasso riascoltando i loro album e ho avuto la conferma che i migliori album come sempre sono quelli di inizio carriera, per quanto punte di eccellenza più saltuarie, ci sono state anche negli anni successivi e nel clamoroso ritorno attuale.

Gli inizi, che coincidono proprio con gli “anni migliori” 1965-1970

Nel febbraio del 1965 Kim Simmonds, “lider maximo” e tuttora alla guida della band, decide di formare a Londra, insieme ad un gruppo di amici, quello che sarà il primo nucleo della sua futura creatura, nsieme a Bryce Portius, uno dei primi musicisti neri a fare parte di una band blues (rock) inglese, che era il vocalist, a cui si aggiungono il tastierista Trevor Jeavons, il bassista Ray Chappell, il batterista Leo Manning e John O’Leary all’armonica, molti dei quali non arriveranno neppure ad incidere, in un tourbillon di sostituzioni, il disco di debutto, che esce sotto il moniker di

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Savoy Brown Blues Band – Shake Down – 1967 Decca ***1/2 Il produttore, quasi inevitabilmente, è il deus ex machina della scena britannica, ovvero Mike Vernon, una garanzia. Undici brani, quasi tutte cover, meno due pezzi: uno The Doormouse Rides The Rails, firmato da Martin Stone, aggiunto come secondo chitarrista solo per questo primo album, poi troverà “fortuna” con i Mighty Baby, band a cavallo tra psych-rock e progressive, di cui se volete approfondire c’è un box di 6 CD At A Point Between Fate And Destiny – The Complete Recordings, con l’opera omnia https://www.youtube.com/watch?v=UnWMLRQ5eW0 . L’altro brano è la lunga Shake ‘Em On Down un traditional arrangiato collegialmente dalla band, con l’aiuto dell’ottimo pianista Bob Hall, che appare in tre brani del disco, in cui spiccano vibranti versioni di I Ain’t Superstitious, Let Me Love You Baby, Black Night, I Smell Trouble, Oh Pretty Woman, It’s All My Fault, ma tutto il disco è eccellente https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , con la formula della doppia chitarra, che viene riproposta per il successivo

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Getting To The Point – 1968 Decca ***1/2 dove come chitarrista arriva Dave Peverett (in futuro nei Foghat come Lonesome Dave Peverett), ottimo alla slide, e il suo socio Roger Earl alla batteria, anche lui poi nei coriacei Foghat. C’è anche un nuovo ottimo cantante Chris Youlden, mentre Bob Hall rimane in pianta stabile, con il nuovo bassista Rivers Jobe. Come vedete il bandleader Simmonds applicava la formula della rotazione, come Mayall con i Bluesbreakers; la band eccelle negli slow blues, dove si apprezza la tecnica sopraffina di Simmonds e la voce potente di Youlden, tipo l’iniziale Flood In Houston https://www.youtube.com/watch?v=pEVKNz0fyZw , Honey Bee di Muddy Waters, Give Me A Penny dove sembra di ascoltare il Jeff Beck Group, la potente Mr. Downchild con doppia chitarra https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , ma anche i pezzi più mossi come You Need Love di Willie Dixon, brano poi trasformato dagli Zeppelin in Whole Lotta Love prendendo spunto soprattutto dalla versione degli Small Faces, ma anche da questa https://www.youtube.com/watch?v=r0AQL0RnXMU . L’anno successivo, con l’innesto di Tone Stevens, viene realizzato

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Blue Matter – 1969 Decca **** che viene considerato (insieme al disco successivo) il loro capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=N7wTOiYavCs&list=OLAK5uy_lrUqtRSmh00t70YCyznMN_4s_sjHEpfUE . L’uno-due iniziale con l’accoppiata Train To Nowhere e la minacciosa Tolling Bells è da sballo, ma spiccano anche le cover di Don’t Turn From Your Door di John Lee Hooker, e nella sezione live una superba Louisiana Blues di Mastro Muddy, con le chitarre di Kim e Dave che si inseguono, brano che è tuttora uno dei loro cavalli di battaglia, ottima anche una incendiaria It Hurts Me Too e il brano di Peverett May Be Wrong dove la band tira di brutto. Lo stesso anno, a distanza di pochi mesi, esce anche

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A Step Further – 1969 Decca **** altro disco che prosegue nella collaudata formula studio + live https://www.youtube.com/watch?v=Uybbl1wHWLo . E’ l’ultimo disco con Bob Hall al piano, che faceva da trait d’union tra il loro animo blues e quello più rock: Youlden firma quasi tutte le tracce della prima facciata in studio, tra cui spicca il solito “lentone” intenso Life’s One Act Play, dove appaiono anche gli archi, e spicca un assolo fantastico di Kim, e insieme a Simmonds, il vero tour de force Savoy Brown Boogie, registrato dal vivo a Londra nel Maggio 1969, un lungo medley ribollente di oltre 22 minuti, che incorpora Feel So Good, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Little Queenie. Purple Haze e Fernando’s Hideway. I Savoy Brown ai vertici della loro potenza, quando competevano alla pari con Ten Years After e Fleetwood Mac, con in più la presenza di Chris Youlden che era un cantante fantastico, sentire per credere., anche se poi la sua carriera solista sarà del tutto deludente. Ma prima di abbandonare registra ancora con loro nel 1969 l’ottimo

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Raw Sienna – 1970 Decca **** non più prodotto da Vernon, ma da Youlden e Simmonds, entrambi anche al piano in alcuni brani, oltre a scrivere la totalità delle canzoni: anche se qualcuno azzarda che Youlden avesse “problemi” di dipendenza e forse fu questa una delle ragioni del suo mancato successo come solista. In effetti in questo album troviamo Needle And Spoon, brano ricercato, come altri presenti nel disco, meno portato al boogie e più rivolto verso il formato canzone https://www.youtube.com/watch?v=R4rQvaL9qxE , come ribadiscono la fiatistica A Litte More Wine, dove Peverett va di slide alla grande, con il supporto di Youlden al piano, in un pezzo in stile Chicago o Blood, Sweat And Tears, come pure That Same Old Feelin’, con grande solo di Kim, reiterato nella superba Master Hare, dove appaiono anche gli archi, mentre anche l’ottima Is That So di Simmonds non scherza, un lungo brano strumentale molto raffinato con forti elementi jazzy. Tutto l’album è comunque solido e centrato, tra i loro migliori.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Uno Dei “Figli Di…” Migliori In Circolazione! AJ Croce – By Request

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AJ Croce – By Request – Compass Records

Nell’ampia categoria che include i “figli di” AJ Croce è sicuramente uno dei più validi ed interessanti (senza fare la lista della spesa, lo metterei più o meno a livello di Jeff Buckley, Jakob Dylan, Adam Cohen, i primi che mi vengono in mente): una vita ricca di tragedie, orfano a meno di due anni per la morte del padre Jim Croce, a quattro anni cieco completamente, anche se poi ha riacquistato parte della visione dell’occhio sinistro, a quindici anni l’incendio della casa in cui aveva sempre vissuto con la madre Ingrid, con la quale ha avuto un rapporto complesso e turbolento, nel 2018 la moglie Marlo, con lui da 24 anni, è morta di una rara malattia cardiaca, lasciandolo con due figli. Nonostante la pesante eredità del padre Jim ha saputo creare un suo approccio alla musica, non seguendo pedissequamente lo stile del babbo, ma ispirandosi al blues, al soul (punti di riferimento Ray Charles e Stevie Wonder), ma con elementi rock, a tratti country, e anche di pop raffinato, grazie all’uso costante del piano di cui AJ è una sorta di virtuoso, ma suona anche tastiere assortite e chitarre: ha realizzato una serie di 10 album, incluso questo By Request, più un disco di rarità dai primi anni di carrierahttps://discoclub.myblog.it/2017/08/20/di-padri-in-figli-aj-croce-just-like-medicine/.

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Dopo la morte della moglie Croce ha voluto rientrare, come suggerisce il titolo, con un disco di cover, realizzate con garbo, classe e ottimi risultati, un album veramente godibilissimo: aiutato da una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spiccano Gary Mallaber alla batteria, Jim Hoke a sax vari, armonica e pedal steel, David Barard al basso, Bill Harvey e Garrett Stoner alle chitarre, Scotty Huff alla tromba e Josh Scaff al trombone, più un terzetto di backing vocalist, in pratica la sua touring band e con la presenza di Robben Ford in un brano, AJ sceglie una serie di canzoni molte adatte al suo stile, in base alla formula “a gentile richiesta” che si applica nei concerti più intimi. E così ecco scorrere Nothing From Nothing, un vecchio brano di Billy Preston, con i fiati molto in evidenza, in questo classico e mosso R&B dove Croce si disbriga con classe al piano https://www.youtube.com/watch?v=dp2sd7IhGsg , la molto più nota Only Love Can Break Your Heart di Neil Young, una delle ballate più belle del canadese, resa molto fedelmente da AJ e soci che però aggiungono un retrogusto da blue eyed soul o country got soul, con la voce sottile di Croce che ricorda quelle dei Bee Gees degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=SKy_PcSEyR0 ; scatenata la versione di Have You Seen My Baby di Randy Newman, un’altra delle maggiori influenze del nostro https://www.youtube.com/watch?v=K-Ec5Od0WsI , Nothing Can Change This Love è un oscuro ma delizioso brano di Sam Cooke, con elementi doo-wop, e il piano che viaggia sempre spedito https://www.youtube.com/watch?v=FmeCGbt7glE , Better Day è un country-blues-swing di Brownie McGhee, con Robben Ford alla slide che contrappunta in modo elegante il lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=nQuHTW7viVc . O-O-H Child è il vecchio brano soul dei Five Stairsteps che ultimamente pare tornato di moda, visto che appare anche nel recente disco Paul Stanley con i Soul Station https://discoclub.myblog.it/2021/03/20/ebbene-si-e-proprio-lui-si-e-dato-al-funky-soul-con-profitto-paul-stanleys-soul-station-now-and-then/ , versione adorabile e delicata. https://www.youtube.com/watch?v=56btlAqRZLY 

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A seguire una robusta rilettura di Stay With Me il classico R&R di Rod Stewart con i Faces, con AJ al piano elettrico e una ficcante slide, Harvey per l’occasione. a ricreare lo spirito ribaldo del brano originale, e non manca neppure il New Orleans soul di Brickyard Blues una canzone di Allen Toussaint, qui resa in una versione a metà strada tra Dr. John e i Little Feat, grazie all’uso del bottleneck del chitarrista Garrett Stoner che interagisce con il piano di Croce, ricreando il dualismo Lowell George/Bill Payne https://www.youtube.com/watch?v=mH-dKTFOfbU . Incantevole anche la versione di San Diego Serenade di Tom Waits, con un arrangiamento che ricorda lo stile dei brani “sudisti” della Band, con tanto di pedal steel sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=CinzazO7Ti8 , e che dire di una versione barrelhouse blues di Sail On Sailor dei Beach Boys? Geniale e sorprendente! Tra i brani poco noti anche Can’t Nobody Love You di Solomon Burke: non potendo competere con la voce del “Bishop of Soul” AJ opta per un approccio gentile e minimale, con l’organo a guidare e con le coriste che danno il tocco in più, e per completare un disco di sostanza arriva infine Ain’t No Justice un esaltante funky-soul strumentale di Shorty Long targato Motown 1969.

Bruno Conti

Una Etnomusicologa Canadese Dalla Voce Sopraffina Per Un Album Eclettico E Di Grande Spessore. Kat Danser – One Eye Open

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Kat Danser – One Eye Open – Black Hen Music

Accidempoli, ma questi canadesi non finiscono mai di stupirci: d’altronde qualcosa devono pur fare per scaldarsi da quel freddo “sbarbino” che imperversa dalle loro parti. Prendiamo Kat Danser da Edmonton, stato di Alberta, nel momento in cui sto scrivendo questa recensione la temperatura lassù è a  -12, ma questo non preclude agli indaffarati abitanti della città di indulgere nelle loro attività: per esempio Kat Danser, anzi la dottoressa Danser, visto che ha un master in etnomusicologia e lavori sociali, insegna pure, è una esperta di musica latina, cubana in particolare, grazie ai suoi viaggi in loco, ha realizzato già sei album, vincitrici di svariati premi nelle più disparate categorie e anche candidata ai Juno Awards. Ma quello che conta al di là del CV è la musica che si sprigiona da questi album, il nuovo One Eye Open incluso: un mèlange, un frullato di stili, che includono Mississippi Delta blues da cui si parte. che sfuma in quello di New Orleans, soul e gumbo locali inclusi, profumati ed arricchiti da sfumature molto evidenti di musica cubana e per non farsi mancare nulla anche un po’ di sano R&R https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Se aggiungiamo che la produzione del tutto è stata affidata a Steve Dawson, che da Nashville ha assemblato tutto quello che gli arrivava da Edmonton, Vancouver e Toronto, visto che durante la pandemia non ci si poteva muovere, facendo sembrare il risultato organico e vitale, e regalando anche la sua maestria alle chitarre, spesso in modalità slide, come un novello Ry Cooder, alle tastiere il grande Kevin McKendree, una sezione fiati composta da Dominic Conway, Jeremy Cooke e Malcolm Aiken, ai quali si aggiunge Daniel Lapp, che suona violino, tromba e tenor guitar, e la sezione ritmica con Jeremy Holmes al basso e il bravissimo Gary Craig alla batteria, che ricordiamo con Blackie And The Rodeo Kings e Bruce Cockburn, giusto per citarne un paio.

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Il risultato finale, se non prodigioso, per non fare le solite inutili esagerazioni, è comunque eccellente, con materiale in gran parte originale, con un paio di cover scelte con cura. Way I Like It Done, è un midtempo delizioso, con McKendree che con il suo pianino intrigante, dà poi stura alla slide di Dawson, mentre i fiati imperversano tra blues e moderato R&R e lei canta in assoluta souplesse, come se passasse di lì per caso, ma non fatevi ingannare https://www.youtube.com/watch?v=gqYHEM1mWu4 . E siamo solo all’inizio: Lonely And The Dragon è un “lentone”malinconico, un blues intriso di umori sudisti, con chitarre, organo e fiati che sorreggono in modo robusto il cantato quasi sussurrato di Kat, che porge le 12 battute con garbo e classe senza forzare il suo timbro vocale comunque affascinante https://www.youtube.com/watch?v=dsUeiNJoXCw , poi ci trasporta con la cover di Bring It With You When You Come di Gus Cannon nel blues arcano degli anni ‘20, però quelli del secolo scorso, con chitarrine accarezzate, fiati e ritmi discreti, lei che gigioneggia appena il giusto, perché il brano lo richiede, ma è pronta a tuffarsi nel R&B ribaldo di Frenchman Street Shake, quando i suoi musicisti alzano i ritmi, la voce si fa più limpida e scherzosa, la solita chitarra slide di Dawson volteggia, la ritmica si fa più complessa e coinvolgente, i fiati sempre più coinvolti e non mancano dei tocchi latini https://www.youtube.com/watch?v=GJ_cFtJ5Abk .

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steve dawson photo

Get Right Church è l’altra cover, dal repertorio di Jessie Mae Hemphill, una delle regine pellerossa del blues del secolo scorso, grande brano, cantato con passione e “anima”, nel quale lentamente andiamo sulle rive del Mississippi, sempre grazie al lavoro essenziale delle chitarre di Dawson, doppiato anche da un assolo di trombone https://www.youtube.com/watch?v=buW1IoxqpKI ; non dico che One Eye Closed viri addirittura verso il punk come qualcuno ha detto, ma la Danser in questa canzone si infervora e si arrochisce, il rock’n’roll raggiunge quasi una intensità alla Patti Smith dei tempi che furono, assolo tiratissimo della solista incluso, si chiude un occhio ma l’altro è decisamente aperto https://www.youtube.com/watch?v=gumNFlLnvsc . Ottima anche Trainwreck, altra canzone dai tempi mossi dove rock (delle radici) e blues, incrociano le loro traiettorie, con Dawson che aggiunge il solito tappeto sonoro per le evoluzioni vocali, misurate ma impetuose della brava Kat https://www.youtube.com/watch?v=dtkLZZ7dh4Y ; Please Don’t Cry è una struggente ballata, con qualche tocco country, grazie all’uso del violino di Lapp, ma senza mai dimenticare blues e anche un pizzico di jazz notturno e demodé https://www.youtube.com/watch?v=gXkI1ggLKW0 . Molto bella anche End Of Days, dove blues e canzone d’autore convergono sulla melodia superba del brano, con assolo di organo strappamutande di McKendree che sottolinea il cantato soave della Danser, che mi ha ricordato quasi la Christine McVie dei tempi d’oro https://www.youtube.com/watch?v=7RsUAa-AONM . E last but not least Mi Corazon, convoglia pulsioni cubane, tex-mex, dolci trasporti amorosi a tempo di valzer e carezzevoli sentimenti tutti insiti nella voce leggiadra di Kat https://www.youtube.com/watch?v=kjbIOehnz2Q . Well Done Mrs, Danser.

Bruno Conti

Sempre Tra Blues E Soul, E La Voce Non Ha Bisogno Di “Controllo Dei Danni”! Curtis Salgado – Damage Control

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Curtis Salgado – Damage Control – Alligator Records/Ird

Già detto, ma repetita iuvant e quindi ricordiamolo di nuovo: Curtis Salgado è il “Blues Brother” originale, quello sul quale Belushi e Aykroyd hanno basato i loro due personaggi, ma condensati in uno, un eccellente armonicista e un formidabile cantante che il successo ha eluso, rimanendo un fantastico artista di culto, inanellando in una quarantina di anni abbondanti di carriera una serie di album di grande qualità, con alcune punte di eccellenza, Nonostante i molteplici problemi di salute (penso che il titolo del disco venga da lì)  che definire tali è quantomeno minimizzare (due tumori, un quadruplo bypass coronarico) ha continuato pervicacemente a sfornare nuova musica: l’ultimo CD era Rough Cut, un album principalmente acustico, in coppia con Alan Hager, pubblicato dalla Alligator (sempre garanzia di qualità) https://discoclub.myblog.it/2018/02/26/sempre-il-blues-brother-originale-anche-in-versione-piu-intima-curtis-salgado-alan-hager-rough-cut/ ,che dal 2012 lo ha messo sotto contratto. A due anni di distanza arriva ora questo Damage Control e ancora una volta Salgado centra l’obiettivo: forse, ma forse, la voce non è più così potente e devastante come qualche anno fa, ma ha acquistato una patina di vissuta maturità e francamente è ancora una delle migliori in assoluto in quell’ambito tra blues, soul e rock’n’roll dove Curtis ha pochi rivali.

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E come Dustin Hoffman (lui una volta) non sbaglia un colpo: il disco è stato registrato tra la California e il Tennessee, con la produzione dello stesso Salgado e con l’aiuto di una nutrita pattuglia di formidabili musicisti. Dodici canzoni nuove e una cover, per un album che ancora una volta farà godere come ricci gli appassionati di questa musica senza tempo: si parte subito bene con la “provocatoria” The Longer That I Live, una robusta apertura dove Curtis è accompagnato da Kid Andersen alla chitarra solista, Mike Finnigan all’organo, Jim Pugh al piano, con la sezione ritmica di Jerry Jemmott al basso e Kevin Hayes alla batteria, con Salgado che canta con il solito impeto e la classe del cantante soul che sono sempre insite in lui e incantano l’ascoltatore, oltre  a “testimoniare” https://www.youtube.com/watch?v=ikRzUBWoUIY . In What Did Me In Did Me Well, sfodera anche l’armonica e ci regala una blues ballad incantevole, sempre con quella voce ancora magnifica capace ci convogliare lo spirito delle 12 battute (e che assolo Kid Andersen), ma anche retrogusti gospel e soul, una meraviglia, specie quando si “incazza” nel finale. Nella ironica You’re Going To Miss My Sorry Ass arriva l’altra pattuglia di collaboratori, George Marinelli alla chitarra, Kevin McKendree ad un piano quasi barrelhouse, Johnny Lee Schell alla seconda voce, Mark Winchester al contrabbasso e Jack Bruno alla batteria, per un’altra eccellente canzone tra R&R e blues.

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Precious Time, con Marinelli alla slide ha un che di stonesiano (in effetti lo stesso Salgado ha parlato di un “Rock’n’roll Record”), e Wendy Moten alle armonie vocali attizza come si deve il buon Curtis https://www.youtube.com/watch?v=3uYEWzjW1g4 . La deliziosa e saltellante Count Of Three ci introduce alle delizie della doppia chitarra di Schell e Dave Gross, oltre alla batteria di Tony Braunagel, mentre il nostro amico guida la truppa con la solita verve, ma poi non può esimersi dal regalarci una di quelle sue superbe ballate accorate dove eccelle e Always Say I Love You, con organo gospel scivolante di Finnigan e il piano di Jackie Miclau, sono sicuro che avrebbe incontrato l’approvazione di Solomon Burke, un altro che aveva una big voice come Salgado, simile nel timbro, la Moten emoziona sullo sfondo. Per la lezione di storia di Hail Might Caesar, arriva una piccola sezione fiati e si va di errebì scandito con il nostro che un po’ gigioneggia, ma ci piace proprio per quello https://www.youtube.com/watch?v=gnQTttAgiL0 ; in I Don’t Do That No More siamo a metà strada tra Fabulous Thunderbirds e Blasters, e la band tira alla grande, con McKendree che va di boogie piano con passione e pure il nostro ci mette il solito impegno.

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Anche Oh For The Cry Eye è condotta con la la souplesse che solo i grandi hanno, un tocco di Dr. John o Allen Toussaint qui, un tocco sexy della Moten là, e Curtis che sovraintende al tutto https://www.youtube.com/watch?v=e37RK80kOFQ , prima di rituffarsi nel blues per una notturna e raffinata title-track, che cita anche coloriture jazzy e R&B https://www.youtube.com/watch?v=aU7Pd06DV-A , Truth Be Told, con Wayne Toups a fisa squeezebox e seconda voce, ci regala anche un bel tocco di allegro cajun che non guasta https://www.youtube.com/watch?v=fK5M9qBQm44 , e nella minacciosa e funky The Fix Is In, di nuovo con armonica d’ordinanza pronta alla bisogna, ci istruisce sulle virtù della buona musica blues, con Andersen, Finnigan e Pugh a spalleggiarlo in questa lezione sulle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=42jOLh5b7b8 , prima di congedarci con una travolgente e rauca versione della classica Slow Down di Larry Williams (la cantava anche Paul McCartney nei Beatles), che è puro R&R con fiati come raramente si ascolta ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=X8JJFixLwsQ . Curtis Salgado ha colpito di nuovo!

Bruno Conti

Un “Nuovo” Bluesman Canadese, Raffinato E Potente Al Contempo. Steve Strongman – Tired Of Talkin’

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Steve Strongman – Tired Of Talkin’ – Steve Strongman/Ontario Creates

In Canada esistono riserve quasi inesauste di musicisti eccellenti che attendono solo di essere “scoperti” da una platea più ampia rispetto a quella interna dello stato dell’Acero: non vi faccio elenchi ma quasi ogni mese sbucano dal nulla nomi di cui spesso non sospettavamo neppure l’esistenza. L’ultimo della lista potrebbe essere questo Steve Strongman, del quale Tired Of Talkin’ risulta già essere stato pubblicato nel 2019, ma solo a livello autogestito, e ora con una distribuzione più capillare tramite Stony Plain, risulta più facilmente reperibile, e quindi, visto che merita, sia pure in ritardo, parliamone… Non siamo di fronte ad un esordiente, Strongman è in attività dagli anni ‘90 e a livello discografico dal 2007, in effetti il nuovo CD è il settimo che pubblica, ha vinto svariati premi a livello nazionale, ed è stato candidato anche ai Juno Awards, i Grammy canadesi. Forse non ho detto che si tratta di un (ottimo) praticante del blues, di stampo rock, notevole chitarrista e anche in possesso di una bella voce, impegnato pure a dobro ed armonica.

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Il CD è stato registrato tra il Canada e Nashville, dove Steve, oltre al suo gruppo, si è avvalso dell’operato di musicisti di gran pregio come Pat Sansone  (giro Wilco)alle tastiere, il bravissimo Audley Freed (già dei Black Crowes) alle chitarre aggiunte e James Haggarty al basso; la sua band è formata da Dave King alla batteria (e coautore con Strongman di quasi tutte le canzoni), Colin Lapsley al basso e Jessie O’Brien al piano, presenti nei sei brani registrati a Hamilton, Ontario, in un paio di brani alle backing vocals ci sono Ella e Scarlett Strongman, presumo parenti. Il nostro amico non appartiene alla categoria dei chitarristi che privilegiano lunghi assoli e improvvisazioni, ma preferisce uno stile più ruspante, sanguigno, anche se è un ottimo manico: come risulta subito dalla gagliarda title track, pianino titillante, ritmica robusta e vari brevi assoli dello stesso Steve, anche in modalità slide, il tutto con richiami stonesiani, poteva capitarci di peggio https://www.youtube.com/watch?v=sC-eO0f_0lo Paid My Dues è un bel boogie-blues, tosto e tirato, con uso armonica e un bel groove e la chitarra che fila sempre liscia come l’olio https://www.youtube.com/watch?v=caDUz0_LJOk ; Still Crazy About You illustra anche il suo lato più romantico, una bella ballatona mid-tempo di impianto sudista, con Strongman anche al dobro e lap steel, che dona un tocco di pigro country https://www.youtube.com/watch?v=E17ATSwDgU0 , mentre Just Ain’t Right uno dei brani registrati in Tennessee, e firmato coralmente, è un ottimo esempio di funky-rock à la Little Feat, ovviamente con impiego di slide “cattiva” e un bel organo corposo di rinforzo https://www.youtube.com/watch?v=CWUrmCNRzxU .

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Can’t Have It Hall è un boogie blues vorticoso con il nostro anche all’armonica, mentre la solista tira alla grande, breve ma intenso https://www.youtube.com/watch?v=dYOIUuCWp_s , con Tell Me It Like It Is che è un bluesone di quelli duri e puri, sempre con la solista goduriosa di Steve in bella evidenza in un conciso assolo da sballo e piano d’ordinanza di supporto https://www.youtube.com/watch?v=7J4hl96yJNQ . Livin’ The Dream, sempre da Nashville, viceversa è un bel rock’n’roll a tutto riff, dove non si può fare a meno di andare a tempo con il piedino, mentre la band aizza Strongman che rilascia un altro serie di soli con bottleneck e solista raddoppiate, il tutto da manuale. That Kind Of Fight è una bella ballata avvolgente che ci presenta di nuovo il suo lato più intimo e melodico, con assolo di acustica, ma è un attimo https://www.youtube.com/watch?v=pbwMQp9jSuY , Hard Place And A Rock, come da titolo, è una botta di energia, con la band che rocca e rolla come se non ci fosse un futuro, niente lungaggini ma grinta da vendere e chitarre arrotate. Highway Man è blues puro, intimo e non adulterato, solo voce e una acustica in modalità slide https://www.youtube.com/watch?v=u_YUmxaYtJg , ottimo anche Bring You Down un rock mid-tempo, sempre con fantastico lavoro della chitarra che lavora di fino, a chiudere troviamo l’unica cover dell’album, una deliziosa rilettura di Let’s Stay Together di Al Green che essuda soul music di gran classe, anche nello squisito guitar solo  . Per usare un acronimo alla Asterix UDQB, uno di quelli bravi!

Bruno Conti

Una Sorprendente Dinamo Rock-Blues Nera. Skykar Rogers – Firebreather

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Skylar Rogers – Firebreather – Self-released CD/Download

Viene da Chicago, ma opera con la sua band, i Blue Diamonds, nell’area di St. Louis, dove è stato registrato questo Firebreather, che è il suo esordio, a parte un EP uscito nel 2019 Insecurities: stiamo parlando di Skylar Rogers, cantante nera che mescola orgogliosamente blues, soul, funky e molto rock, non per nulla tra le sue influenze cita Tina Turner, Etta James, Billy Joel, e Koko Taylor, tutte abbastanza comprensibili, a parte forse Billy Joel. Il disco consta di 10 tracce originali, niente cover, la band che la accompagna, un quintetto con due chitarre, basso, batteria e un tastierista, nomi poco conosciuti, ma comunque validi e tosti, anche se tutto ovviamente ruota intorno alla voce gagliarda e duttile della Rogers. Si parte subito forte con il rock-blues tirato di Hard Headed Woman, chitarra incisiva e ricorrente, organo scivolante, il resto della band ci dà dentro di gusto, il timbro vocale una via di mezzo tra Janis Joplin (o se preferite le sue epigone Beth Hart e Dana Fuchs, anche se non siamo per ora a quei livelli), Koko Taylor e la Tina Turner più rockeggiante https://www.youtube.com/watch?v=YtW5bE_Rmig , come ribadisce la robusta Back To Memphis, ancora potente e con la chitarra di Steven Hill sempre in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qPGItqPBkuc  .

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Work è più funky, anche se i ritmi rock sono sempre prevalenti, con l’organo che cerca di farsi largo, Like Father Like Daughter il singolo estratto dall’album è sempre molto riffata, addirittura con elementi southern nella struttura del brano e la solista che imperversa sempre https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU , ma la “ragazza” ha classe e quando i tempi rallentano come nella bellissima soul ballad Failure, le influenze di James e Taylor hanno modo di essere evidenziate e la vocalità si arricchisce di pathos, con l’organo che si spinge dalle parti di Memphis https://www.youtube.com/watch?v=bQeUxLGSsCc . Però il genere che si predilige nell’album è sempre abbastanza duretto, come ribadisce la tirata title track, sempre in odore di blues-rock, con chitarra quasi hard e organo ad inseguirsi, mentre basso e batteria pompano energicamente e Skykar canta con grande forza https://www.youtube.com/watch?v=NKMOc4glugs , con Movin’ On che viceversa ha retrogusti gospel su un tempo scandito, coretti e battiti di mano accattivanti per un call and response godurioso, mentre la melodia è affidata all’organo https://www.youtube.com/watch?v=encBYeZcv28 .

skylar rogers firebreather 1

Thankful è una blues ballad pianistica, sempre con le linee fluide e sinuose della solista a fare da contrappunto alla energica interpretazione della Rogers che poi lascia il proscenio a un drammatico e vibrante assolo della chitarra, atmosfera che si ripete nello slow blues Drowning, altro brano che ruota attorno al dualismo tra la voce accorata di Skylar e la parte strumentale con chitarra e organo sempre sugli scudi https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU . E per concludere non manca anche un tuffo nel rock and soul di marca Motown di Insecuties, molto piacevole e disimpegnato, che comunque conferma il talento di questa nuova promessa che potrebbe diventare un ancora maggior concentrato di potenza in futuro, magari affidata ad un produttore di pregio in grado di orientarla più verso le sonorità più raffinate espresse in Failure. Per ora da tenere d’occhio, anche se, manco a dirlo, la versione in CD dell’album è costosa e di difficile reperibilità.

Bruno Conti

Brava, Ma Non Sempre Chi Fa Da Sé Fa Per Tre! Ghalia Volt – One Woman Band

ghalia volt one woman band

Ghalia Volt – One Woman Band – Ruf Records

Questa ci mancava, una blueswoman che viene dal Belgio: a seconda dei dischi si presenta come Ghalia & Mama’s Boys, semplicemente Ghalia, ed ora Ghalia Volt, ma il suo vero nome all’anagrafe è Ghalia Vauthier e viene da Bruxelles, non esattamente la capitale del mondo per le 12 battute. Ovviamente poteva metterla sotto contratto solo la Ruf, che ha un roster di artiste femminili che gravitano intorno al blues, provenienti da tutte le latitudini (e anche le longitudini) del mondo: come certo saprete ci sono americane, inglesi, canadesi, finlandesi, serbe, italiane (la Cargnelutti), austriache, croate, alcune non incidono più per l’etichetta tedesca, ma ne arrivano sempre di nuove, non tutte sono allo stesso livello, ma quasi tutte interessanti. Ghalia ha un passato, ad inizio carriera, magari anche prima, da busker, tra Europa ed America, poi una passione per R&B e R&R con forti venature punk ed infine è arrivato il blues. Dopo due album full band questa volta la signorina, come da titolo One Woman Band, ha deciso di fare tutto da sola, anche se nel disco, registrato ai famosi Royal Sound Studios di Memphis, con la produzione di Boo Mitchell (degno nipote di Willie, quello dei dischi da Al Green) , sono apparsi come ospiti Dean Zucchero al basso e “Monster” Mike Welch alla chitarra.

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L’intento, in risposta alla crisi da Covid, era quello di creare una sorta di resilienza, con un disco, dove canta, suona la chitarra slide, e con i due piedi contemporaneamente kick drum, snare drum, tamburino e piatti https://www.youtube.com/watch?v=q8A2dlDo0-o . Naturalmente il risultato è molto ruspante, a tratti fin troppo. L’energia e la grinta ogni tanto debordano oltre il limite, e quindi il disco non mi ha convinto del tutto, ma è un parere personale, va bene il DIY, ma non sempre ci siamo: l’iniziale Last Minute Packer è un boogie/rock’n’roll con ritmo scandito, voce pimpante, chitarra leggermente distorta e qualche eco di juke joint blues https://www.youtube.com/watch?v=qQX6XvzK0zc , Esperitu Papago, con bottleneck in bella vista e Zucchero al basso, ritmi ripetuti alla John Lee Hooker, qualche tocco di leggero psych-garage rock con la voce trattata nel finale, non sempre decolla, Can’t Escape vira decisamente sul rock, grintoso e tirato, minimale ma deciso e vibrante. Evil Thoughts è uno shuffle quasi classico, divertente e divertito, anche se al solito un filo irrisolto, benché questa volta la chitarra è più in evidenza, ma sarà perché è quella di Mike Welch https://www.youtube.com/watch?v=WDud4wN6T9k ? Meet Me In My Dreams è più convinta ed immersa nelle paludi blues del Mississippi, ma quello che pare essere il suo modello come sound, ovvero RL Burnside, è pur sempre di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=343lZp98kyI .

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Reap What You Saw è una delle canzoni più riuscite, slide ascendente e discendente che mulina di gusto, influenzata dalla opera omnia di Elmore James, cantato partecipe e convinto e omaggio riuscito al re del bottleneck, poi ci si sposta verso le traiettorie sonore del Chicago Blues di Muddy Waters, con una sanguigna e scandita Loving Me Is A Full Time Job, che poi accelera nel corso del brano, anche se alcune immaginifiche recensioni mi paiono un filo esagerate nel tessere le lodi di Ghalia. It Hurts Me Too, di nuovo Elmore James, è un sapido lentone con uso bottleneck, che dimostra che volendo la stoffa c’è https://www.youtube.com/watch?v=-Hvkzl-GE0Q , non manca pure del sano R&R come nella divertente It’ Ain’t Bad https://www.youtube.com/watch?v=VWQyzVGscsc  e un’altra cavalcata slide, che dimostra la sua buona tecnica, nella tirata e “lavorata” Bad Apple, prima della chiusura affidata alla cover di un vecchissimo brano anni ‘50 di Ike Turner Just One More Time dove tornano per aiutarla Zucchero e Welch, tra swing e piacevole rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=-S74GoKuEZ4 . Alla fine un disco godibile, vediamo per il futuro.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte II

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(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES - JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES – JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

Seconda Parte.

Gli Anni Della Consacrazione Commerciale E La Conseguente Discesa 1985-1999

Dopo tre anni di concerti infiniti ( ne parliamo a fine articolo) si arriva al nuovo album di studio, nell’anno della partecipazione al Live Aid esce

George_Thorogood_Maverick

Maverick – 1985 Emi America – ***1/2 Dove arriva il nuovo produttore Terry Manning, partito con il soul Stax e poi passato anche per i Led Zeppelin fino ad approdare agli ZZ Top, un’altra band che di boogie e blues se ne intendeva, il suono si fa un più duro e mainstream, ma i nostri ci danno dentro comunque, come dimostra l’uno-due iniziale di Gear Jammer che va di slide, e I Drink Alone, un altro dei grandi cavalli di battaglia di Thorogood, che complessivamente firma ben quattro canzoni https://www.youtube.com/watch?v=4E9ydw_aDMg , notevole anche la famosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, l’unico singolo che in carriera entrerà nella Top 100, forse perché sembra in tutto e per tutto un brano alla Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=AuNOkGnEme8 . Insomma la qualità dei dischi comincia a diminuire, benché il tocco country di What A Price di Fats Domino e ldela conclusiva The Ballad Of Maverick e il rockabilly di Dixie Fried di Carl Perkins non sono per niente male, e una minacciosa e sospesa Crawling King Snake di Sor John Lee Hooker, e ben due Chuck Berry il medley Memphis/Little Marie e Go Go Go, dimostrano che il tocco magico non è scomparso. Dopo altri tre anni, e il primo disco ufficiale dal vivo arriva

George Thorogood BornToBeBad

Born To Be Bad – 1988 EMI *** Ancora Terry Manning in cabina di regia, suono sempre troppo secco e anni ‘80, anche se alcuni brani tirano di brutto, come l’iniziale Shake Your Money Maker dell’amato Elmore James dove Thorogood va di bottleneck con libidine  https://www.youtube.com/watch?v=pNKFePZk3rQ , come pure in Highway 49 di Big Joe Williams, rock’n’roll per You Can’t Catch Me e I’m Ready quella di Fats Domino, un po’ di R&B scatenato in Treat Her Right a tutto sax, blues nella “cattiva” e ululante Smokestack Lightning e nel train time di I’m Movin’ On, successo di vendite e fama sempre stabili. Dopo altri tre anni si entra nella nuova decade, con l’arrivo di un nuovo chitarrista Steve Chrismar che appare in

George Thorogood BoogiePeople

Boogie People – 1991 EMI ***1/2, con un suono decisamente più grintoso e sul versante blues-rock e classic rock, come testimonia l’iniziale If You Don’t Start Drinkin’, molto buona Long Distance Lover a tutta slide, il classico boogie Mad Man Blues di John Lee Hooker, come pure la cover acustica di I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo voce e chitarra con bottleneck, non un granché la title track, ottima la “lupesca” No Place To Go di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=7burMF7K-Lk  , seguita da una gagliarda Six Days On The Road e dalla tirata Born In Chicago, con ottimo lavoro della solista, un tuffo nel country con la piacevole Oklahoma Sweetheart e l’omaggio R&R all’amato Chuck Berry con la riffatissima Hello Little Girl. Quindi un buon disco, che però non ha successo e segnala un declino del successo di Thorogood, che procede anche con il successivo

George Thorogood -Haircut

Haircut – 1993 Capitol *** Un solo pezzo firmato da George, su, indovinato, i canonici dieci: produce ancora Manning, Get A Haircut è un brano divertente ma non essenziale, questa volta ci sono tre canzoni a firma Wiilie Dixon, due per Howlin’ Wolf, tra cui la classica Howlin’ For My Baby, oltre a I’m Ready che ogni tanto Thorogood incide in studio, bene anche Cops And Robbers con il tipico drive sonoro del suo autore Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=l7QKNP-C-CU , l’immancabile John Lee Hooker di Want Ad Blues e una “strana” Gone Dead Train, un pezzo cantato in origine da Randy Newman nella colonna sonora di Performance, il film con Mick Jagger https://www.youtube.com/watch?v=dSgWQSVGgig . Anche questo disco non rientra nella categoria degli indispensabili. Dopo quattro anni arriva l’ultimo CD per la Capitol, anche questo, per usare un eufemismo, non particolarmente brillante, parliamo di

George Thorogood RockinMyLifeAway

Rockin’ My Life Away – 1997 Capitol **1/2 Prodotto dalla band insieme a Waddy Wachtel(!), variazione sul tema ci sono 12 brani, alcuni anche inconsueti: Trouble Every Day di Frank Zappa, che in questa versione sembra un brano della J.Geils Band, anche vocalmente https://www.youtube.com/watch?v=UT6DRjA8k7s , mentre in Night Rider si va di slide, ma il brano è moscio, anche in The Usual, una bella canzone di John Hiatt il suono non sembra particolarmente brillante, e così via, anche il country Living With the Shades Pulled Down di Merle Haggard non acchiappa più di tanto, si salvano, a fatica, Manhattan Slide di Elmore James, il R&R della title track, e la cadenzata Blues Hangover di Slim Harpo. Non un brutto disco, ma manca la grinte e per un disco di Thorogood è una eresia: per il successivo album, l’ultimo del millennio

George Thorogood Half_a_BoyHalf_a_Man

Half a Boy/Half a Man – 1999 CMC *** torna Terry Manning alla produzione, un po’ meglio, ma niente di che. C’è anche una nuova etichetta del gruppo BMG, ma la collaborazione durerà per un solo album, più un Live: per confondere le idee si prova con 11 canzoni, solo un Chuck Berry e un Fats Domino, poi brani abbastanza oscuri di Keith Sykes B.I.G.T.I.M.E., la title track di Nick Lowe, un pezzo poco noto di Solomon Burke come Be Bop Grandma https://www.youtube.com/watch?v=gawgzsAqL4I  , ma anche due canzoni firmate da Willie Dixon, una per Little Walter e una per Magic Sam, in quota Blues, e Double Shot, tra R&R e R&B. Dopo una pausa di quattro anni, nuovo secolo, nuova casa discografica, nuovo produttore

george thorogood 2000's

Gli Anni 2000, Con Colpo Di Coda Finale.

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Ride ‘Til I Die – 2003 Eagle Records***1/2 Dietro la consolle c’è Jim Gaines, uno che di solito di blues ne capisce (ma non sempre), però questa volta ci siamo, anche l’arrivo di Jim Suhler, altro chitarrista coi fiocchi, controfiocchi e pappafico, alza il livello, forse non tutte le canzoni sono all’altezza, però: Greedy Man, scritta dal sassofonista jazz Woody Shaw è un ottima partenza, con la slide di George che si confronta con il sax di Hank Carter alla ultima apparizione con i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=y-ZyrDQpAu4 , Sweet Little Lady è un buon pezzo rock dove Thorogood e Suhler che sono anche gli autori se le suonano di gusto, Don’t Let The Bossman Get You Down è un gagliardo blues elettrico di Elvin Bishop del 1991, mentre anche il pezzo di JJ Cale Devil In Disguise subisce il trattamento boogie à la Destroyers, poi ripetuto nella ruvida She’s Gone di Hound Dog Taylor https://www.youtube.com/watch?v=0c7H3mWWwK8 , The Fixer è un robusto rock-blues scritto da Tom Hambridge il batterista/produttore. You Don’t Love Me, You Don’t Care, un brano di Bo Didley, sembra La Grange parte 2, veramente potente, poi si va di R&R con My Way di Eddie Cochran, e niente male anche That’s It I Quit, un tipico pezzo di Nick Lowe, e pure come country ci siamo, I Washed My Hands In Muddy Water, un pezzo che anche Elvis Presley incise in Elvis Country è veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=QfofoLFQLhU , Move It di Chuck Berry è una garanzia, come pure la title track, un pezzo di John Lee Hooker, in versione acustica ma trascinante. Tre anni dopo arriva

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The Hard Stuff – 2006 Eagle Records ***1/2 Altro buon album, il 13° in studio prodotto nuovamente da Gaines, addirittura ben 15 brani (e nel precedente ce ne erano 13): con il nuovo sassofonista Buddy Leach, che è tuttora con i Destroyers, e una scelta del materiale interessante, grazie anche alla presenza di Rick Steff, alla fisarmonica e piano, e dell’aggiunta di Tom Hambridge, come co-produttore e autore di quattro canzoni, tra cui la esplosiva title-track https://www.youtube.com/watch?v=j1lCNtLQ1mM , la riffatissima I Did’t Know e Any Town U.S.A che sembra un brano del Mellencamp più rock https://www.youtube.com/watch?v=2THiY8mV148 . Ottime Hello Josephine di Fats Domino, che grazie alla fisa sembra, un pezzo cajun https://www.youtube.com/watch?v=3mxdw8j8iOI , Little Rain Falling una bella blues ballad con uso sax, scritta da Jimmy Reed, Dynaflow Blues di Johnny Shines dove George si esibisce alla acustica con bottleneck, una scatenata Rock Party scritta dal musicista contemporaneo texano Holland K. Smith, che sembra un pezzo dei migliori Rockpile o Blasters. Eccellente anche una rispettosa cover di Drifter’s Escape di Bob Dylan, la turbolenta Give Me Back My Wig del vate Hound Tog Taylor, la magnifica Taking Care Of Business, con profumi di Louisiana, grazie al suo autore Rudy Toombs, e un superbo lavoro del nostro alla slide https://www.youtube.com/watch?v=uEi2CN-KbfA , che poi si ripete nella vorticosa Huckle Up Baby di John Lee Hooker. Questo è il Thorogood che ci piace, che poi torna alla Capitol per l’ultimo album pubblicato nella decade

George Thorogood TheDirtyDozen

The Dirty Dozen – 2009 Capitol *** Anche se è una mezza fregatura, perché a fianco di sei brani nuovi tutti belli, ci sono sei canzoni tratte dai vecchi dischi della EMI. Il produttore è ancora Jim Gaines: le sei canzoni nuove sono tutte cover, Tail Dragger, Willie Dixon per Howlin’ Wolf, solita formula dei Destroyers, ovvero sano rock-blues tirato https://www.youtube.com/watch?v=beGfipR1mIY , Drop Down Mama è di Sleepy John Estes, un boogie con slide, una sorta di southern rock nordista, vista l’origine del nostro, Run Myself Out Of Townè un pezzo degli Holmes Brothers, un bel roots-rock, Born Lover di Muddy Waters, sempre con bottleneck a manetta, è un boogie rock travolgente, Twenty Dollar Gig tra R&R e R&B, con sax in evidenza e Let Me Pass di Ellas McDaniel completano il CD a tempo di robusto Bo Diddley beat.

george thorogood live in boston 1982 first edition

La nuova decade parte con il botto: intanto nel 2010 viene pubblicato il Live In Boston 1982 ****, dalla Rounder, la vecchia etichetta di George,che è stato diciamo la causa scatenante per questo articolo. All’inizio dell’anno successivo esce un altro eccellente album della discografia del musicista di Wilmington, ovvero l’ottimo

George Thorogood 2120_South_Michigan_Ave.

2120 South Michigan Avenue – 2011 Capitol **** Stiamo parlando dell’indirizzo dei famosi Chess Studios a Chicago, una delle mecche del blues, dove anche i Rolling Stones registrarono negli anni ‘60. Il produttore è di nuovo Tom Hardbridge, e come ospiti appaiono Buddy Guy, in una strepitosa rilettura di Hi-Heel Sneakers, un brano di Tommy Tucker dove i due chitarristi, soprattutto Guy, se le “suonano” di santa ragione https://www.youtube.com/watch?v=rhQtXHN8TvM , e anche Charlie Musselwhite è presente in due brani, prima una vibrante My Babe e poi nella title track, attribuita a Nanker Phelge, che era lo pseudonimo che usavano i Rolling Stones per le composizioni collettive, a piano ed organo per questo strumentale molto sixties anche Kevin McKendree, che insieme a Tommy McDonald e Hambridge, suona in alcuni brani del CD, quando non appaiono i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=SYMQQzIOFyg . Ottimi anche i due brani dell’accoppiata Thorogood/Hambridge, la potentissima Going Back a tutta slide e Willie Dixon’s Gone, altra blues song tosta e poi una sequenza di classici del blues, Seventh Son, Spoonful, Two Trains Running, Mama Talk To Your Daughter, Help Me, Chicago Bound e del rock and roll, Let It Rock e Bo Diddley, tutti eseguiti in modo brillantissimo con Thorogood in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=u7UlDyUcV4I . Sembrava essere un ritorno di George ai livelli della prima parte di carriera, e invece cala il silenzio. Concerti dal vivo ne escono un paio, uno del 2013 e uno registrato nel 1980, ma per un nuovo album di studio, dobbiamo attendere fino all’uscita dell’unico album solo di George Thorogood

george thorogood party of one

Party Of One – 2017 Rounder/Spinefarm ***1/2 che esce 40 anni dopo il debutto omonimo, un album principalmente acustico, anche se il nostro amico non resiste ed in alcuni brani tira fuori la sua Gibson elettrica: produce di nuovo Jim Gaines ed il disco è proprio bello, anche se il titolo è “rubato” da un disco di Nick Lowe del 1990, I’m A Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, apre le procedure, acustica con bottleneck e grande intensità https://www.youtube.com/watch?v=zKhgnxbsGlw , Soft Spot di Gary Nicholson è una via di mezzo tra Cash e il Presley ‘68 in modalità unplugged, Talahassee Women è un pezzo anni ‘30 che assomiglia a certe cose del primo Rory Gallagher, Wang Dang Doodle di Willie Dixon regge anche in versione acustica, come pure una delicata Boogie Chillen di John Lee Hooker. Eccellente anche No Expectations degli Stones, solo voce e acustica con bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qSyh5tC94l8 , Bad News di John D. Loudermilk sembra nuovamente un pezzo del Johnny Cash anni ‘60, mentre Down The Highway era su The Freewheelin’ Dylan, anche questa fatta molto bene, e Got To Move di Elmore James non si può fare senza una elettrica, ma The Sky Is Crying evidentemente sì, sempre in modalità slide. Dal lato tradizionale anche un Brownie McGhee e un Hank Williams, altre due canzoni del vecchio Hook, tra cui una One Bourbon, One Scotch, One Beer, dal vivo in solitaria e a chiudere una Dynaflow Blues dylaniana, alla faccia di chi pensa che i dischi di Thorogood siano tutti uguali  , saltiamo le sette antologie e veniamo ai dischi dal vivo.

george thorogood livegeorge thorogood live let's work together

Il primo, l’omonimo Live – 1986 EMI *** non è però rappresentativo della vera forza dei concerti del nostro, un po’ come era stato per Springsteen con il suo cofanetto ufficiale dal vivo, questa data registrata in Ohio, pur contenendo molti classici non soddisfa a fondo, intendiamoci non parliamo di un brutto album, d’altronde Who Do You Love? https://www.youtube.com/watch?v=mYcob11rKHc , Bottom Of The Sea di Muddy Waters, Night Time, I Drink Alone, One Bourbon, One Scotch, One Beer, Madison Blues, una attesissima Bad To The Bone, The Sky Is Crying e Reelin’ And Rockin’ danno l’idea del suo carisma di performer, e neppure Live: Let’s Work Together – 1995 Capitol *** registrato in due date del 1994 a Saint Louis e Atlanta, pur essendo più che rispettabile, soddisfa del tutto: non ci sono brani in comune con il Live del 1986, il pubblico è comunque entusiasta già da prima che inizi il concerto, il suono è più brillante e presente, ma come detto non convince a fondo, ottime No Particular Place To Go di Chuck Berry e Ride On Josphine con il classico Diddley Beat, il country-boogie di Cocaine Blues, una galoppante I’m Ready, Get A Haircut molto stonesiana  , la pimpante Move It On Over e la dirompente Let’s Work Together, oltre alla conclusiva Johnny B. Goode, presentata come inno nazionale del R&R e che se la batte con la versione di Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=xZYcBFqaca0 .

george thorogood live in '99george thorogood live 30th anniversay

Anche Live In ‘99 – 1999 CMC *** è un disco dal vivo di discreta qualità (parliamo sempre del prodotto discografico, il perfomer non si discute), con punte di eccellenza nelle “solite” Who Do You Love?, una colossale anche se spezzettata One Bourbon, One Scotch, One Beer, l’uno-due di Get A Haircut/Bad To The Bone e la conclusiva You Talk To Much. Finalmente con Live 30TH Anniversary Tour – 2004 Capitol ***1/2 ci siamo, suono potente e presente, preceduto dal suo solito saluto al pubblico “How Sweet It Is”, vengono presentate, a fianco delle immancabili Who Do You Love, One Bourbon…, The Sky Is Cryng e Bad The Bone, anche I Drink Alone, lo slow blues Don’t Let The Bossman Get You Down, una scatenata Sweet Little Lady https://www.youtube.com/watch?v=cH3Twc55od8  e nella parte finale Greedy Man, The Fixer molto garage, That’s It I Quit e Rockin’ My Life Away.

george thorogood live in boston 1982george thorogood live at montreux 2013

Nella seconda parte della decade escono forse i due Live mgliori in assoluto, insieme alla recente strepitosa ristampa potenziata di Live In Boston 1982 – 2020 2 CD Rounder/Universal **** https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n-_3nWNtXXXuc083M4gGHqJL1fvbOy13M , ovvero Live At Montreux 2013 – CD DVD e Blu-ray Eagle Records **** con qualità audio/audio superba e qui mi cito: “anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira. Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta, non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura https://www.youtube.com/watch?v=wZwHXdUVBuQ , il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!” I brani sono più o meno quelli abituali, forse troviamo le inconsuete Rock Party e Tail Dragger, ma confermo quanto detto sette anni fa.”

george thorogood live at rockpalast

Anche per il successivo Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD ****, ma pubblicato nel 2017, rispolvero quanto scritto nella recensione originale, faccio una cover di me stesso: “per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR, nella serie Rockpalast. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers. La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD https://www.youtube.com/watch?v=1zHsAyyS1_Y ), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonato a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato.” Quindi da allora ad oggi poco è cambiato, se non la forza e la consistenza del suo repertorio. Dopo la lunga pausa dai concerti a causa del Covid il nostro amico è pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà. Direi che è tutto, leggete con attenzione e poi se volete approfondire, con il classico “celo manca” scegliete con cura.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte I

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Anche se, a quanto dicono alcuni dei suoi detrattori, “…i dischi di George Thorogood sono tutti uguali e non c’è mai un vero assolo di chitarra”, il nostro amico, soprannome Lonesome George, oltre che Mr. Bad To The Bone, in effetti è uno degli axemen più travolgenti in circolazione, con quel suo stile che coniuga blues, rock and roll, boogie e rock classico, ed un altro nickname con il quale viene ricordata la sua tecnica prepotente al bottleneck è “The Satan Of Slide”. La maggior parte delle biografie riportano come luogo di nascita Wilmington, nel Delaware, ma il nostro amico dovrebbe invece essere nato a Baton Rouge, in Louisiana, dalla quale si trasferì con la famiglia per essere cresciuto poi appunto nel Delaware: la certezza è la data di nascita, il 24 febbraio del 1950, quindi pure lui ha tagliato il traguardo dei 70 anni nel 2020. Nell’anno 1970 ci fu l’evento discriminante che trasformò un fervente praticante e appassionato del baseball, nel quale forse vedeva anche una futura carriera, in un bluesman a tutto tondo (benché per alcuni anni, anche se era già quasi una rock star, continuò a livello semi-professionale a frequentare i campi di baseball), grazie alla musica che era la sua altra grande passione, quando assistette a NY ad un concerto di John Hammond Jr, e pure lui, come Jake Joliet Blues a.k.a. John Belushi, ricevette l’illuminazione divina che lo portò su quella strada, dove tuttora si trova, a cinquanta anni di distanza dagli esordi.

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Esordi con una bella gavetta, anche come roadie di Hound Dog Taylor, che era uno dei suoi eroi, insieme a Chuck Berry, John Lee Hooker, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Elmore James, tutta gente della quale nel corso degli anni ha saccheggiato il repertorio (insieme a quello di molti altri, in quanto il repertorio del nostro è composto per la quasi totalità di cover): già intorno al 1973, tra un concerto e l’altro, forma la prima edizione dei Destroyers, agli inizi Delaware Destroyers, con il fedele compagno Jeff Simon, il batterista che ancora oggi divide con lui i palchi (e le sale di registrazione). Comunque con la prima line-up in essere, si spostano in quel di Boston, dove cominciano ad infiammare la scena dei club locali e già nel 1974 registrano un primo demo, che poi verrà pubblicato anni dopo dalla MCA come Better Than The Rest, ma ne parliamo nella disamina della discografia.

Gli Inizi 1974-1980

Nel 1976 arriva al basso Billy Blough, anche lui ancora oggi nella formazione dei Destroyers, che hanno eliminato il Delaware dalla ragione sociale, e messi sotto contratto dalla Rounder entrano in studio per registrare il primo album.

George Thorogood And The Destroyers

George Thorogood and the Destroyers – 1977 Rounder **** con la produzione di Ken Irwin, nei Dimension Sound Studios di Boston: dieci brani, con due soli originali di George, una vera schioppettata di energia, che esce a fine 1977 in piena esplosione punk, tanto che vista la potenza e la ruvidità del suono venne addirittura accostato ai tempi proprio al punk che nasceva in quel periodo, anche se la foto di copertina con Gibson di ordinanza, ed un repertorio che per autocitarmi da una vecchia recensione “è la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker che da sempre vivono in lui”: l’apertura è affidata ad un pezzo di un altro Hooker, Earl, You Got To Loes riff insistito e sound che ricorda i primi Stones, che a loro volta prendevano a piene mani da Chuck Berry, ottima Madison Blues un brano di Elmore James, altro mito, dove George va di bottleneck alla grande https://www.youtube.com/watch?v=LIh6I_0bmNw , seguito da una versione travolgente di One Bourbon, One Scotch, One Beer di Mastro “Hook”, con il tipico incalzante stile boogie del grande bluesmen del Mississippi, e l’assolo, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, c’è, mentre Blough pompa alla grande con il basso, per quanto aggiunto in seguito alla registrazione https://www.youtube.com/watch?v=obJpegVB5zk . Kind Hearted Woman di Robert Johnson, con acustica slide in bella mostra, ricorda di nuovo certe sonorità degli Stones tipo Love In Vain, Cant Stop Lovin’ è il secondo brano di Elmore James, anche questo tipico dello stile impetuoso di George, che per certi versi impugnava la chitarra come una clava o, appunto, una mazza da baseball, colpire precisi e con forza.

george thorogood and the delaware destroyers

Non manca ovviamente un brano dell’amato Ellas McDaniel a.k.a Bo Diddley, boogie, riff e ritmo, tre elementi immancabili del nostro, che vengono esplicati in una rutilante Ride On Josephine https://www.youtube.com/watch?v=A_FD3bvjfDs , che poi nelle volute di bottleneck di Homesick Boy, dimostra che volendo, raramente e con parsimonia, era in grado anche di attingere al proprio songbook, comunque sempre stretto parente di quello dei suoi ispiratori, e all’occorrenza anche ricorrere al patrimonio tradizionale della grande canzone popolare, come in John Hardy, un pezzo dai profumi folk solo per chitarra acustica, voce e armonica, prima di tentare anche la strada della ballatona blues in I’ll Change My Style dal repertorio di Jimmy Reed. Ma in chiusura scatena tutta la potenza dei suoi Destroyers nell’autoctona Delaware Slide, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=Z30ArnxgD4o . *NDB Nel 2015 il primo album viene ripubblicato come George Thorogood And The Delaware Destroyers ****, come era stato registrato in origine, senza le parti di basso, aggiunte in fase di mixaggio, quasi un disco nuovo. Esattamente un anno dopo, esce

George Thorogood MoveItonOver

Move It On Over – 1978 Rounder ****, degno successore del formidabile esordio, due dischi che per molti sono i migliori della sua carriera. Di nuovo dieci brani, tutte cover, perché evidentemente George era spossato dopo avere composto ben due canzoni per il disco precedente: ma non importa, materiale da cui scegliere ce n’è a iosa, e la band prende d’infilata prima la title track, un pezzo di Hank Williams, che subisce il classico trattamento à la Thorogood, poi una fenomenale Who Do You Love? di Bo Diddley, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=k6fGcpp3KzE , e ancora una formidabile The Sky Is Crying con il bottleneck che scivola, scivola, scivola…  https://www.youtube.com/watch?v=qGBbsQ6QTsc Cocaine Blues è uno standard della canzone americana, Thorogood goes country, in una canzone che si ricorda soprattutto in diverse versioni di Johnny Cash, alle quali si è sicuramente ispirato il nostro. Chuck Berry mancava ancora all’appello, ma anche senza leggere il nome dell’autore It Wasn’t Me è R&R all’ennesima potenza e George e soci ci danno dentro alla grande e pure That Same Thing di Willie Dixon per Muddy Waters, viene “thorogoodizzata”.

george thorogood 1978

So Much Trouble di Brownie McGhee conferma l’assunto del suo autore, “the blues had a baby and they called it rock and roll”, con la solista che impazza, poi una pausa di riflessione per la splendida I’m Just Your Good Thing di Slim Harpo, sempre con influenze stonesiane. Si torna a rollare e roccare in Baby Please Set A Date di Homesick James, di nuovo con la slide in azione, che poi accelera ulteriormente in New Hawaiian Boogie, il titolo dice tutto, un altro brano d’annata di Elmore James https://www.youtube.com/watch?v=dlZXnG8RgCg . Il disco entra nella Top 40 americana e vende mezzo milione di copie (alla faccia di chi dice che Thorogood è un musicista di culto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli appassionati , ma che nella sua carriera ha venduto più di 15 milioni di dischi) e a questo punto sbuca la MCA che pubblica

George Thorogood BetterThantheRest

Better Than The Rest – 1979/1974 MCA *** Diciamo un episodio minore, registrato nel 1974 quando GT era un illustre sconosciuto: le solite dieci canzoni, ma per complessivi 27 minuti, il suono è molto più ruspante, comunque abbastanza già ben definito: In The Night Time un pezzo garage sbucato da Nuggets, e anche I’m Ready un R&R frenetico, Howlin’ For My Darlin’ non può competere con l’originale di Howlin’ Wolf, fin troppo sguaiata e poco rifinita, You’re Gonna Miss Me non è quella dei 13th Floor Elevators ma un blues acustico di Memphis Slim, solo slide e voce, mentre Worried About My Baby è un’altra canzone di Howlin’ Wolf che riceve il trattamento Garage/R&R grintoso ma embrionale, con Huckle Up Baby di John Lee Hooker, qui in veste acustica, con un eccellente lavoro di Thorogood alla chitarra. Nel corso del 1980 Thorogood registra, e pubblica a fine anno, quello che sarà il suo ultimo album per la Rounder

MoreGeorgeThorogood

More George Thorogood And The Destroyers – 1980 Rounder ***1/2 Ancora un ottimo album, con le classiche e canoniche dieci canzoni, nove cover ed una firmata dallo stesso George come Jorge Thoroscum, per non “farsi riconoscere”! Il disco nella versione in CD è uscito anche come I’m Wanted, ma sempre quello è: il menu è il solito, ma c’è una novità, l’ingresso di Hank Carter al sax, che poi rimarrà fino al 2003, nello stile di Thorogood, come per esempio nella iniziale I’m Wanted di Willie Dixon, sempre in veste rock and roll, con assolo di sax aggiunto, le note vengono allungate per creare quell’effetto che poi permetterà al nostro una sorta di rito, ovvero quello di “battezzare” i fans nelle prime file ai suoi concerti, pratica alla quale ho partecipato anch’io, quando l’anno successivo George è venuto in Italia per il suo primo concerto nel Belpaese https://www.youtube.com/watch?v=UpewYYtheB8 .

george thorogood i'm wanted

Tornando al disco Kids From Philly è uno strumentale frenetico, chi ha misurato dice 180 bpm, ma è comunque un bel sentire https://www.youtube.com/watch?v=Jwk0-oZH070 , One Way Ticket è il classico blues alla e di John Lee Hooker, declamato da Thorogood, Bottom To The Sea è un Muddy Waters d’annata, che evidenzia similitudini con un altro che praticava un blues ruspante sull’altro lato dell’oceano Rory Gallagher, anche la voce è tipicamente roca e vissuta, come chitarrista l’irlandese era decisamente superiore ma George si difende con onore. Night Time è proprio quella degli Strangeloves, un pezzo tra psych e garage, che diventa più R&R nelle mani di George, con il sax entrano anche elementi R&B nel sound dei Destroyers, vedi Tip On In di Slim Harpo, mentre Goodbye Baby è il classico lento in modalità slide di Elmore James, e una turbolenta House Of Blue Lights è puro Rock’n’Roll all’ennesima potenza https://www.youtube.com/watch?v=UenvtCLHIbQ , con Just Can’t Make It che rende omaggio al maestro Hound Dog Taylor e la vertiginosa Restless a Carl Perkins.

Gli Anni Della Consacrazione 1981-1999

george-thorogood-50-50-tour

Con questo disco finisce il trittico per la Rounder, forse i suoi dischi migliori ancora oggi, nel 1981 Thorogood realizza il 50/50 Tour dei record, ovvero 50 concerti in 50 giorni nei 50 Stati americani e in un giorno tenne pure due concerti nella stessa giornata. Lo stesso anno fece anche da supporto agli Stones nella loro tournée, e vennero anche in Europa, puntata a Milano compresa, come ricordato, tra l’altro il 13 aprile, due giorni dopo la storica data di Springsteen all’HallenStadion di Zurigo, all’Odissea 2001, locale basso e stretto, dove dopo il rito della “benedizione” ricordo che già in pochi minuti eravamo tutti schiacciati contro la parete opposta al palco, per essere lontani da una onda sonora micidiale con rischio tinnito, e comunque due giorni di fischi alle orecchie. Però gran concerto. Nel 1982 firma per la EMI, quindi una major, ed esce il “mitico”

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Bad To The Bone – 1982 Emi America Music ***1/2-**** La differenza nel giudizio verte sul fatto che riusciate a trovare o meno la versione Deluxe uscita nel 2007, con sette bonus tracks re-incise quell’anno, ma va bene anche quella normale. Il repertorio si fa più vario, George scrive “ben tre brani”, tra i quali la leggendaria title track, che nel corso degli anni è diventata la sua signature song, ma sin da allora è diventata una canzone di culto, senza vendite clamorose (come l’album, che arrivò comunque al 43°posto delle classifiche USA, con la rispettabile cifra di mezzo milione di copie vendute), ma prima, grazie al divertente video su MTV, dove giocava a biliardo con il suo idolo Bo Diddley, che però in Europa non è disponibile su YoTube, quindi https://www.youtube.com/watch?v=8KciRaANKmo. poi con l’utilizzo nella colonne sonore di Christine e Terminator 2, e nel corso degli anni in decine di altri film e spot pubblicitari, si è trasformata in un tormentone. Alla riuscita del disco contribuì sicuramente anche la presenza del “sesto” Rolling Stone, ovvero Ian Stewart, al pianoforte in tutto l’album: il repertorio è consistente, dall’iniziale Back To Wentzille, sempre firmata da Thorogood, con sax, pianino e chitarra scatenati, Blue Highway scritta da Nick Gravenites per Brewer & Shirley illustra il lato cantautorale del nostro amico.

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Nobody But You un pezzo soul tipo Shout degli Isley Brothers, diventa una volata R&R a rotta di collo, mentre It’s A Sin di Jimmy Reed è una ballata blues, seguita dal super classico di John Lee Hooker New Boogie Chillum, dove George insegna il boogie ai suoi seguaci https://www.youtube.com/watch?v=uVHJNdzZIhA , di Bad To The Bone abbiamo detto, Miss Luann il terzo originale di Thorogood, pesca dal R&B anni ‘50, As The Years Go Passing By è uno dei grandi blues lenti delle 12 battute, e dimostra che il musicista del Delaware sa essere anche raffinato con assolo d’ordinanza, ma quando può scatenare tutta la potenza dei suoi Destroyers in una devastante No Particular Place To Go di Chuck Berry non ce n’è per nessuno, sentire anche Stewart please https://www.youtube.com/watch?v=hFyCxJuhEB0 , in chiusura una fantastica e trascinante ripresa di Wanted Man di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=4tbSbzCwrvU , per un album che rivaleggia con i suoi migliori, anche grazie alle riprese di alcuni brani nelle bonus tracks.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Non Solo Blues, Appunto Molto “Elastico”! Paolo Bonfanti – Elastic Blues

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Paolo Bonfanti – Elastic Blues – Rust Records CD + Libro

Da quando Paolo Bonfanti, detto il Bonfa, iniziava a muovere i primi passi nell’ambito delle 12 battute, in quel di Genova (anzi Sampierdarena), prima come fan, e poi come membro dei Big Fat Mama di Piero De Luca, è passato qualche annetto. Appena prima, durante e dopo, potrei sbagliare la cronologia, c’era stata la Hot Road Blues Band, in una era in cui non era ancora stato inventato il CD e la musica usciva su vinile, detto LP (al limite anche in cassetta e persino Stereo8) e in Italia c’erano due principali scuole di praticanti del blues, quella di Milano e quella di Roma: della prima faceva parte Fabio Treves, con la sua band, della seconda era capostipite Roberto Ciotti, ma c’era anche qualche deviazionista in Veneto, leggi Guido Toffoletti e Tolo Marton, agli inizi nelle “progressive” Orme, e a Genova, nei primi anni ‘70, c’erano stati i Garybaldi di Niccolò “Bambi” Fossati, noto epigono Hendrixiano, con un wah-wah al posto del cuore. Tutto questo, e moltissimo altro, lo potete leggere nel bellissimo libretto che accompagna questo Elastic Blues (che io ero convinto, pensate, fosse un disco dei Nucleus), dove tra aneddoti e brevi storie Paolo ci ricorda cosa è successo nei ultimi 40 anni della sua vita, anzi non solo nella musica, quindi 60 in totale.

BigFatMama

Inaugurata con gli studi di pianoforte a metà anni ‘70, proseguita più convintamente con la conversione alla chitarra, grazie ad Armando Corsi e Beppe Gambetta, grande virtuoso dell’acustica, ancora in pista oggi, e poi con l’ingresso in quei Big Fat Mama, nati nel 1979, di cui Bonfanti diventerà il chitarrista solista e frontman dal 1985 al 1990. Ovviamente nella penisola italica c’erano anche altri musicisti che suonavano il blues, cito a caso, Rudy Rotta, Fabrizio Poggi, i Mandolin Brothers di Jimmy Ragazzon, Angelo “Leadbelly” Rossi, i Model T. Boogie, dai quali passerà Nick Becattini, Aida Cooper, moglie di Cooper Terry, i Blues Stuff della scuola napoletana, da cui provenivano anche Edoardo Bennato e Pino Daniele, che avevano anche molto blues nelle loro corde: ce ne sarebbero moltissimi altri, ma è meglio se mi fermo, se no diventa un trattato, neppure breve. La carriera da solista di Bonfanti inizia nel 1992, per cui facciamo un Fast Forward verso il futuro e arriviamo al 2015 in cui esce l’ottimo CD dal vivo Back Home Alive, l’ultimo in ambito rock-blues https://discoclub.myblog.it/2015/09/07/la-via-italiana-al-blues-1-paolo-bonfanti-back-home-alive/ , mentre nel 2019 viene pubblicato Pracina Stomp, insieme all’amico Martino Coppo, il secondo in coppia, disco elettroacustico nel quale sono prodotti dal bravissimo Larry Campbell, a lungo collaboratore di Levon Helm, che Dio lo abbia in gloria : in mezzo c’è stato molto altro, ma concentriamoci sui contenuti di Elastic Blues, che è una sorta di “riassunto” delle puntate precedenti, un sequel e un prequel contemporaneamente, con la presenza di molti amici come “ospiti”.

Cirimilla un collega

Un” collega” omonimo di Paolo, le altre foto seguenti nell’articolo sono di Guido Harari.

Come dice la presentazione dell’album, che riporto integralmente

10 mesi di lavoro in piena pandemia, 40 musicisti coinvolti (compreso l’autore), 60 anni, 70 minuti di musica, 80 pagine di libro, 15 brani inediti, 1 cover, una campagna di co-produzione dal basso che ha ampiamente doppiato la cifra inizialmente richiesta; la prefazione di Guido Harari e molto altro per questo “Elastic Blues” che non è solo musica ma anche un libro di memorie, riflessioni, introduzione ai pezzi e traduzione dei testi, impreziosito dalle immagini e dalla grafica di Ivano A. Antonazzo.

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Vediamo i 16 brani del disco del mancino chitarrista genovese: si parte “stranamente” con il prog-rock misto a trip psichedelico di ALT!, che non è un ordine della pattuglia che ti controlla per vedere se sei in giro in violazione del lockdown, ma è tedesco che sta per “vecchio” in contrapposizione a Neu: quasi otto minuti di uno strumentale che miscela Grateful Dead e King Crimson (magari anche i Nucleus che citavo prima, con alla chitarra l’ottimo Chris Spedding), sezione ritmica ufficiale dell’album Alessandro Pelle, batteria e Nicola Bruno, basso, con l’aiuto di Yo-Yo Mundi assortiti, tra chitarre elettriche stranianti ed assolo di basso spinto di Andrea Cavalieri. D’altronde al 21st Century ci siamo arrivati, e quindi il progressive buono si ascolta sempre volentieri, specie se va a questi ritmi vorticosi. E anche The Noise Of Nothing, un duetto tra chitarra acustica e fisarmonica di un altro fedelissimo come Roberto Bongianino (che però suona come un organo, ricorda Paolo nelle ricche note del CD) forse col blues, non c’entra molto, ma mi ha ricordato certe sperimentazioni gentili di Richard Thompson con John Kirkpatrick, più spinte verso “l’altro”.

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E un po’ di jazz non ce lo vogliamo mettere? Magari il Jazz-rock di Haze, l’unica cover del CD, un brano di Bobby & The Midnites, una strana formazione che univa Bob Weir dei Dead, Bobby Cochran, quindi doppia chitarra, con Billy Cobham alla batteria e Alphonso Johnson al basso, più Brent Mydland anche lui dei Dead alle tastiere, sulla carta fantastici, i dischi, a mio parere, molto meno riusciti, anche se questo brano, registrato con la band anni ‘90 di Paolo, approda verso un robusto funky jazz-rock che ha anche qualche parentela di elezione con il sound dei Little Feat, e poi, a furia di tirare l’elastico della musica, si approda alla canzone d’amore In Love With The Girl, solo voce, chitarra acustica, un insinuante violino e la bella voce di Bonfanti, che poi mischia nuovamente le carte in Unnecessary Activies, dove suonano in metà di mille (facciamo una quindicina di musicisti, giro AnanasnnA, più Lucio Fabbri al violino) per un funky-jazz-rock che mi ha ricordato certe cose di James “Blood” Ulmer, segue una giravolta di 360° e arriva la pedal steel di John Egenes per Heartache By Heartache, una outtake di Pracina Stomp, una delicata ballata che profuma di country. Poi si ritorna al rock quasi da power trio, con seconda solista aggiunta nella potente Don’t Complain con la chitarra di Gabriele Marenco, come direbbero gli americani “all over the place” per un assolo cattivo il giusto, con wah-wah fumante. E non manca neppure la canzone in dialetto genovese, una Fin De Zugno ispirata dai moti anti Tambroni del 1960 contro un governo che voleva inserire i fascisti nel governo (la Meloni ce lo ha risparmiato), solo voce, chitarra acustica e un quartetto d’archi gli Alter Echo String Quartet, per un brano molto alla De André  .

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Già, ma il Blues? Ci sta, ci sta! In We’re Still Around, brano dal titolo quantomai esplicativo, tornano i Big Fat Mama, con tanto di duello con doppia chitarra, nel caso Maurizio Renda, per un pezzo che profuma di rock sudista, di quello buono. A O Canto, sarebbe On The Corner in genovese, sarà mica un disco di un certo Miles Davis? Mi sa di sì, doppia batteria, fiati in evidenza, Aldo De Scalzi, altro genovese doc (fratello di Vittorio dei New Trolls) ad un piano elettrico che tanto ci ricorda Chick Corea scomparso di recente, con la chitarra di Paolo molto “lavorata”, e visto il titolo del disco ci metto anche il sound di quei Nucleus ricordati prima. Hypnosis, per due chitarre acustiche, azzardo, potrebbe essere dalle parti del primo John Martyn, quello che non aveva ancora scoperto l’Echoplex, per quanto qualche effettuccio in questo brano malinconico c’è; in I Can’t Find Myself, canzone di Paolo del 2004, che ci suona tutti gli strumenti, esclusa l’armonica, affidata a Fabio Treves, che non poteva mancare alla festa per i 60 anni, in questo shuffle classico, tra Chicago e Texas, ma anche qualche tocco di British Blues o della Butterfield Blues Band.. Ottimo anche l’omaggio al Gumbo, il New Orleans Sound gemellato con quello genovese e napoletano in Sciorbì/Sciuscià, fiati a go-go dei Lambrettas (ma non facevano ska? Ah no quelli inglesi) e la fisarmonica di Roberto Bongianino, per un brano che fa muovere i piedi.

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La title track, per quelli che parlano bene, va verso territori dove il blues si fa futuribile, ma anche retrò (in senso positivo), tra fisarmonica e la seconda chitarra di Matteo Carbonicini che divaga con quella di Paolo in questo complesso pezzo strumentale. Per Where Do We Go https://www.youtube.com/watch?v=0WDJWqylWpc  Bonfanti nelle note del libretto parla di Van Morricrosby (questa prima o poi me la rigioco), in quanto l’ispirazione era quella di ricreare atmosfere tra Van Morrison, David Crosby e Ennio Morricone, e mi pare ci sia riuscito, anche se sapete che Van The Man parte avvantaggiato, perché da giovane ha ingoiato un microfono e quindi quella voce non è replicabile, ma il risultato finale è eccellente. Finito? Quasi, come insegnava Mastro Jimi ci vorrebbe un bel Slight Return, applicato a Unnecessary Activies, virato, vista la forte presenza di fiati, alla musica di Hendrix ripresa da Gil Evans nel suo celebre omaggio. Tutto molto bello, magari tra 60 anni uscirà il secondo capitolo, per ora se può interessare lo potete comperare sul suo sito, oppure qui https://paolobonfanti.bandcamp.com/album/elastic-blues. Ne vale assolutamente la pena.

Bruno Conti

P.s Ora attendiamo We’ll Talk About It Later (questa la capiranno in pochi, è il titolo del secondo disco dei Nucleus).