Facciamo Finta Che Questo Disco Non Esista! Brantley Gilbert – Fire & Brimstone

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Brantley Gilbert – Fire & Brimstone – Valory/Universal CD

Brantley Gilbert, musicista nativo della Georgia, dopo aver esordito nel 2009 con un album dalle vendite incerte (Modern Day Prodigal Son), ha capito in fretta come funziona il giochino a Nashville ed in breve tempo è diventato uno degli artisti country più popolari d’America, con ben tre album di fila andati al numero uno della classifica, compreso quello di cui mi accingo a scrivere. Il nostro ha infatti smesso molto presto di fare musica di qualità preferendo la via più facile: ha saputo entrare nel giro giusto circondandosi così di produttori di grido, sessionmen che vanno a lavorare timbrando il cartellino e mettendo a punto degli album di pop radiofonico travestito da country, che però è il genere che dalle parti della capitale del Tennessee ti fa volare alto nelle classifiche.

Fire & Brimstone, il nuovo CD di Gilbert, non si distacca dalla mediocrità congenita che è ormai la sua carriera, e dal suo punto di vista Brantley ha anche ragione: ho trovato il filone d’oro, perché mai dovrei cambiare? Musica anonima dunque, canzoni fatte con lo stampo con una strumentazione infarcita di suoni finti, all’insegna di synth, loop vari e drum programming a go-go. Anche l’approccio del titolare del disco è piuttosto molle, senza grinta, come se già sapesse che basta il minimo sindacale di impegno per avere successo: il risultato finale è un lavoro che ha ben poco di interessante per chi ama il vero country, con l’aggravante di essere anche piuttosto lungo. L’inizio è appannaggio di Fire’t Up, un rockin’ country elettrico che ad un ascolto distratto potrebbe sembrare aggressivo e grintoso, ma qualcosa non quadra: i suoni sono infatti finti, poco spontanei e pieni di effetti, ed il tutto va a scapito dell’immediatezza. Not Like Us, ancora dura e chitarristica, è un po’ meglio dal punto di vista del suono anche se non sono del tutto convinto: l’assolo è decisamente hard e poi comunque la canzone è deficitaria dal punto di vista dello script.

Anche Welcome To Hazeville, una ballata qualsiasi e per di più con un drumming che sa di sintetico, non è niente di speciale, e dispiace che in una tale pochezza siano stati coinvolti il bravo Lukas Nelson e soprattutto il leggendario padre Willie (che però si limita a cantare una breve frase alla fine), per di più insieme al rapper Colt Ford: in poche parole, un pasticcio brutto e musicalmente criminale. What Happens In A Small Town sembra la continuazione del brano precedente, e devo guardare il lettore per capire che la traccia è cambiata (ed il refrain è puro pop commerciale), She Ain’t Home prosegue con banalità un tanto al chilo, una ballata buona per chi non sa neanche cosa sia il vero country, Lost Soul’s Prayer è bruttina e ha un arrangiamento finto-rock che non va da nessuna parte. Il disco come ho già detto è pure lungo, 15 canzoni, ed in certi punti è una sofferenza: fra i pezzi rimanenti salvo solo Tough Town, che se non altro ha un buon tiro rock ed i suoni abbastanza sotto controllo, la title track, ballata elettroacustica nobilitata dalla presenza di Jamey Johnson ed Alison Krauss (ed anche la canzone non è malaccio, forse la migliore del CD), l’orecchiabile Bad Boy e la discreta Man Of Steel, dalle (molto) vaghe atmosfere western.

Il resto però è da mani nei capelli, almeno per chi li ha ancora.

Marco Verdi

Una (Parziale) Rivincita Per L’Hank “Sbagliato”! Hank Williams Jr. – It’s About Time

hank williams jr. it's about time

Hank Williams Jr. – It’s About Time – Nash Icon/Universal CD

Nascere figli di Hank Williams e voler fare i musicisti non è facile, ma Hank Williams Jr., nel corso delle ormai quasi sei decadi di carriera, ci ha messo spesso e volentieri del suo per offrire il fianco alle critiche, complice una qualità media discografica altalenante (però comprensibile quando hai quasi sessanta album all’attivo, live ed antologie esclusi) e soprattutto testi che palesavano uno spirito patriottico un tantino qualunquista (per usare un eufemismo), una religiosità un po’ stucchevole ed una simpatia politica abbastanza evidente per il partito repubblicano (quasi un peccato mortale in ambito artistico per l’intellighenzia americana, mentre io penso che ognuno abbia il diritto di professare la propria ideologia in santa pace, tanto quello che conta è la musica). Ma Hank Jr. non è mai stato un beniamino della critica, anche perché musicalmente molto spesso si è lasciato andare a soluzioni non proprio raffinatissime, altre volte rivestendo le proprie canzoni con arrangiamenti discutibili, ma sovente, bisogna dirlo, i suoi dischi non sfiguravano affatto nell’ambito di un certo country-rock imparentato con la musica del Sud (sua area d’origine peraltro), e diverse volte il suo suono robusto non ha mancato di intrattenere a dovere gli ascoltatori, come è successo anche con il suo penultimo lavoro, il discreto Old School New Rules del 2012.

Ora Hank fa anche meglio, in quanto It’s About Time è, testi a parte, un signor disco di rockin’ country vigoroso ma non banale, con una dose più che sufficiente di feeling ed una serie di buone canzoni, suonate e cantate con il piglio giusto ed arrangiamenti asciutti e diretti (la produzione è di Julian Raymond, già collaboratore per molti anni di Glen Campbell): un bel disco dunque, direi anche un po’ a sorpresa dato che Williams Jr. non ha mai sfornato capolavori, né ha mai goduto di un gran credito (a differenza dei figli Holly, davvero brava, e Hank III, che però a fianco di ottimi dischi country ha pubblicato anche immani porcate quasi metal) ed è sempre stato guardato dall’alto in basso. L’album inizia subito col piede giusto, intanto perché Are You Ready For The Country di Neil Young è una grande canzone, e poi perché Hank ne fa una versione accelerata e decisamente più roccata (tra l’altro in duetto con Eric Church), un trattamento che dà nuova linfa ad un classico: chitarre e sezione ritmica dominano, ma c’è anche un tagliente violino a dire la sua (il grande Glen Duncan, e nel disco suona anche il leggendario steel guitarist Paul Franklin). La sciovinista Club U.S.A. è un rock’n’roll tiratissimo che non sfigurerebbe nel repertorio dei migliori Lynyrd Skynyrd, che in quanto a sciovinismo pure loro non scherzano, un pezzo davvero trascinante (e Hank, è giusto ricordarlo, ha anche una bella voce), God Fearin’ Man è ancora un southern country roccioso e potente, Hank non molla la presa e ci circonda di ritmo e chitarre a manetta (ed anche il refrain non è niente male), mentre Those Days Are Gone è più rilassata, un honky-tonk cadenzato dal suono comunque pieno e con la giusta dose di elettricità e “sudismo”.

https://www.youtube.com/watch?v=aoA-KwmUaAk

La divertente (nel testo) Dress Like An Icon ha anch’essa un bel tiro e non fa calare la tensione di un disco fino a questo momento sorprendente; God And Guns la conoscevamo già nella versione proprio degli Skynyrd (era anche il titolo di un loro album del 2009), e se il testo è una dichiarazione di intenti a favore di Donald Trump (o di chiunque vincerà le primarie repubblicane), musicalmente il brano è un southern rock teso ed affilato, con un trascinante finale a tutta potenza. Just Call Me Hank è invece una ballata scorrevole e molto più country, ma con un suono sempre deciso, la saltellante Mental Revenge (un classico di Mel Tillis, ne ricordo una bella versione anche dei Long Ryders) è scintillante e godibilissima; la title track è invece un country-rock dalla melodia contagiosa che conferma lo stato di ottima forma di un musicista spesso bistrattato.     L’album si chiude con il rutilante swing roccato di The Party’s On, la lunga Wrapped Up, Tangled Up In Jesus, puro gospel del Sud ( e ci sono le McCrary Sisters ai cori), dal ritmo sempre sostenuto e con un tocco swamp, e con la travolgente Born To Boogie (titolo che è tutto un programma), nella quale Hank divide il microfono con Brantley Gilbert, Justin Moore e Brad Paisley, il quale rilascia anche un assolo chitarristico dei suoi.

Bando agli snobismi: Hank Williams Jr. non sarà certo diventato all’improvviso un genio della musica, ma It’s About Time è un bel disco, e questo bisogna riconoscerglielo.

Marco Verdi