In Svezia Fanno Anche Dell’Ottimo Blues-Rock. Patrik Jansson Band – IV

patrik jansson band IV

Patrik Jansson Band – IV – Sneaky Foot Records

Non conosco perfettamente la situazione locale svedese per quanto riguarda le band di impianto blues, anzi direi che personalmente conosco solo i Blues Pills di Elin Larsson (che peraltro hanno un musicista americano nella line-up) e in ambito hard’n’heavy (categoria chitarristi “esagerati”) c’è il celebre Yngwie Malmsteen: volendo in ambito rock potremmo ricordare i Cardigans, i più raffinati Mando Diao, Soundtrack Of Our Lives, Basko Believes, i Plastic Pals, collaboratori di Ed Abbiati, l’espatriato a New Orleans Anders Oborne, nel passato il grande Bo Hansson, qui finisce la mia cultura sulla musica rock svedese, se lasciamo perdere Roxette e Abba. Anzi no, mi pare nel 2014, avevo recensito un album di T-Bear And The Dukes, una onesta e solida band di blues-rock che non so se sia ancora in attività, ma aveva sicuramente qualche affinità con Jansson. https://discoclub.myblog.it/2014/05/03/anche-il-blues-svedese-mancava-allappello-t-bear-and-the-dukes-ice-machine/ .

E arriviamo a Patrik Jansson e alla sua band, che come dice il titolo sono arrivati al quarto album, e devo dire non sono malaccio: influenze citate, ma non sempre necessariamente estrinsecate, che partono dal rock classico, inglobano una passione per il blues texano di SRV e Johnny Winter, ma anche Buddy Guy, i vari King del blues, e in ambito più contemporaneo Joe Bonamassa, Gary Moore, Walter Trout, Jeff Healey, Robben Ford. Sono così bravi come parrebbe dai nomi citati? Probabilmente, anzi certamente, no, ma suonano con costrutto ed intelligenza, in formazione c’è anche un tastierista Lars Eriksson, molto bravo e una robusta sezione ritmica con Thomas Andersson e Martin Forsstedt, a basso e batteria. Il gruppo vorrebbe provare a farsi conoscere anche sull mercato americano, quello dove impera la buona musica, e quindi l’apertura molto groovy con la raffinata She Ain’t Gonna Come Back Any More è un buon biglietto da visita, organo molto alla Brian Auger anni ‘60, la bella voce del leader che poi imbastisce un solo di matrice southern alla Toy Caldwell e la ritmica molto agile che interagisce ottimamente con i due solisti.

A Love Like Yours va più di funky-rock-blues sempre con l’organo vintage di Eriksson in bella evidenza a duettare con la chitarra jazzy alla Robben Ford di Jansson, che canta anche con grande souplesse, mentre Love Will Find A Way è una bella ballatona blues con Eriksson che passa al piano e ci regala un bel assolo ricco di tecnica, mentre anche Patrik lavora di fino. Brani mai molto lunghi, tra i 4 e i 5 minuti, estremamente godibili, come l’ottimo blues bianco di Same Thing All Over Again, dai retrogusti jazz, o il notevole boogie-swing dello strumentale She Said What? di eccellente fattura, che mi ha ricordato i vecchi Sea Level o i primissimi Ten Years After, ma non manca il classico Chicago shuffle della vibrante Play Me The Blues, di nuovo con il dualismo ricercato tra il piano di Eriksson e la chitarra di Jansson.

Sound che si fa più aggressivo nelle volute rock della vibrante Someone Who Treats You Right, con una serie di pregevoli assoli della solista di Patrik, veramente un ottimo musicista. Chiude Only The Lonely, un brano che mi ha ricordato, con i dovuti distinguo, ma però ci siamo, i mai dimenticati Blind Faith, anche grazie all’organo di Eriksson sulle orme inarrivabili del grande Stevie Winwood, comunque un gran bella canzone e un ottimo gruppo di cui vi consiglio di appuntarvi il nome per cercare Il CD, anche se la reperibilità al solito non è massima: Patrik Jansson Band, ne vale la pena.

Bruno Conti

Ci Mancava Un Ennesimo Bel Tributo A Bob Dylan! Various Artists – Take What You Need

take what you need uk covers of bob dylan songs

Various Artists – Take Whay You Need: UK Covers Of Bob Dylan Songs 1964-69 – Ace CD

Uno degli infiniti modi per capire l’importanza di Bob Dylan è notare che nel 2017, a 55 anni dal suo esordio discografico, sono usciti ben tre tributi alla sua arte, e tutti da parte di artisti di una certa importanza (Old Crow Medicine Show, Willie Nile e Joan Osborne, il tutto mentre Bob era sempre più impegnato ad omaggiare Frank Sinatra): ora la Ace, etichetta londinese indipendente che aveva già pubblicato How Many Roads: Black America Sings Bob Dylan, ha ideato questo originale Take What You Need, che come recita il sottotitolo si occupa di radunare alcune cover dylaniane da parte di artisti britannici, uscite negli anni sessanta. Quella era infatti la decade nella quale Dylan, oltre che essere già importante, era anche “cool”, e se volevi essere al passo coi tempi dovevi giocoforza incidere una sua canzone prima o poi; in diversi casi le cover ottennero più successo degli originali (per esempio Blowin’ In The Wind di Peter, Paul & Mary o la Mr. Tambourine Man dei Byrds), in altri si occupavano di canzoni che Bob non aveva neppure pubblicato (Farewell Angelina di Joan Baez o The Mighty Quinn dei Manfred Mann), in altri, assai raramente, la rilettura surclassava nettamente la versione di Dylan (una su tutte, All Along The Watchtower di Jimi Hendrix). Take What You Need è interessante in quanto racchiude tutte cover abbastanza poco note, certamente rare (non inedite, ma vi sfido a trovarle comunque in giro) anche se va detto che in quasi nessun caso superano l’originale.

L’ascolto è però tutto sommato piacevole, grazie anche al libretto incluso che fornisce note dettagliate canzone per canzone, ma soprattutto per la bellezza dei brani stessi. Si inizia con The Fairies, un gruppo-meteora che fece uscire appena tre singoli, con una deliziosa Don’t Think Twice, It’s All Right, tra folk-rock e country, con la melodia del brano che si presta alla perfezione a questo trattamento, in contrasto con la voce arrochita e “beat” del cantante Dane Stephens. Una giovanissima Marianne Faithfull ci presenta una Blowin’ In The Wind molto leggiadra, tra folk e pop, gradevole anche se un po’ barocca, diciamo che quello della folksinger non era il vestito giusto per lei; la corale Oxford Town dei Three City Four (un gruppo folk che comprendeva Leon Rosselson alla voce e soprattutto il grande Martin Carthy alla chitarra) ha il sapore dei vecchi canti appalachiani, con il banjo come strumento guida, mentre Ian Campbell ed il suo Folk Group rileggono The Times They Are A-Changin’ in maniera rigorosa, con la stessa enfasi dei gruppi del folk revival di casa al Village (cover già datata allora, era il 1965 e Dylan era tre passi avanti ed aveva già attaccato la spina). I Manfred Mann sono famosi per la già citata The Mighty Quinn, ma qui la scelta è ricaduta su If You Gotta Go, Go Now: bella versione, molto Dylan ’65 grazie all’uso di chitarre ed organo; It’s All Over Now Baby Blue (canzone che contiene la frase che intitola il CD) dei misconosciuti The Cops’n’Robbers, un gruppo errebi-garage che sparì dopo tre singoli, si salva per la bellezza della canzone, ma sparisce in confronto con quella dei Them.

Mr. Tambourine Man del duo folk-rock Chad And Jeremy è letteralmente copiata da quella dei Byrds, riff di chitarra compreso, ad un ascolto disattento potrebbe sembrare la stessa canzone, cover senza la minima personalità, mentre Noel Harrison, figlio dell’attore Rex, riesce a fare sua la splendida Love Minus Zero/No Limit proponendo una rilettura di ottimo livello. One Too Many Mornings da parte della folksinger Julie Felix (che allora veniva spacciata per la Joan Baez inglese) è forse scolastica ma comunque bella, pura e cristallina; la grandiosa Visions Of Johanna è materia pericolosa, ma gli sconosciuti The Picadilly Line (è giusto con una “c” sola) la ripropongono con mano leggera, rispettosa e preservando la melodia originale. Il folksinger scozzese Alex Campbell, troppo tronfio, non rende un gran servizio a Just Like Tom Thumb’s Blues, meglio The Alan Price Set, con l’ex Animals che ci regala una versione essenziale, voce e piano, della bellissima To Ramona, mentre The Factotums (un gruppo di Manchester scoperto da Andrew Loog Oldham che però non ebbe fortuna) rilasciano una Absolutely Sweet Marie decisamente dylaniana, ma piacevole e riuscita. I poco noti The Alan Bown sono presenti con una All Along The Watchtower bella, roccata e potente: pare addirittura che Hendrix fu influenzato da questa versione, più che dall’originale di Bob (la voce solista, Jess Roden, poi nei Bronco, sarebbe stato uno dei candidati a sostituire Jim Morrison nei Doors, ma questa è un’altra storia); Boz altri non è che Raymond Burrell, futuro membro prima dei King Crimson e poi dei Bad Company, e la sua I Shall Be Released in veste soul-rock è una delle più belle del CD.

Julie Driscoll e Brian Auger (che sono i due raffigurati in copertina) colorano I Am A Lonesome Hobo di soul-errebi, trasformandola completamente, mentre I’ll Keep It With Mine dei Fairport Convention è fin troppo nota (ma allora perché non mettere la drammatica Percy’s Song?); il quartetto The Mixed Bag è tra i meno conosciuti del CD (hanno all’attivo appena due 45 giri), anche se questa pimpante e divertente Million Dollar Bash è prodotta dal grande Tim Rice ed è tra le più gradevoli. Il chitarrista folk-blues Cliff Aungier non sbaglia con una vivace Down Along The Cove (ma il flauto c’entra poco), mentre i Country Fever, che è uno dei gruppi meno noti tra quelli in cui ha militato il grande chitarrista Albert Lee, si cimentano con la non facile Tears Of Rage e riescono nell’intento, bella versione. Il CD si chiude con due degli artisti più popolari: Joe Cocker alle prese con una Just Like A Woman un po’ troppo pop per i miei gusti (ci suona anche Jimmy Page, ma non fa molto per farsi sentire), e Sandie Shaw, la “cantante scalza”, che propone un’eterea Lay, Lady, Lay, bell’arrangiamento ma voce troppo infantile. In definitiva Take What You Need è un dischetto gradevole, non troppo impegnativo, ma interessante, con diverse buone versioni di classici di Bob Dylan e qualcuna meno valida: mi sento comunque di consigliarlo soltanto ai dylaniani incalliti.

Marco Verdi

Ci Ha Lasciato Anche Keith Emerson, Il Re Delle Tastiere Prog, Aveva 71 Anni.

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Il giorno 10 marzo del 2016 (ma la notizia è giunta solo oggi) ci ha lasciato anche Keith Emerson, morto suicida nella sua casa di Los Angeles, per un probabile colpo di pistola sparato alla testa. Aveva solo 71 anni, ma da qualche tempo era malato, una forma di degenerazione dei nervi del braccio destro che gli aveva impedito l’uso di due dita e quindi poteva suonare le sue amate tastiere solo con otto dita. Probabilmente questo fatto, unito anche alle notizie delle morti di due vecchi colleghi come Lemmy e David Bowie (che forse non a caso erano gli ultimi due Post pubblicati sul suo sito ufficiale) lo avevano gettato in una profonda depressione che sembrerebbe tra le cause del suo gesto. In effetti negli ultimi anni la sua attività concertistica e discografica era rallentata, ma come ha ricordato il suo collega Carl Palmer “Keith era un’anima gentile, il cui amore per la musica e la passione per le sue esibizioni come tastierista, lo renderanno insuperabile per molti anni a venire”. Il musicista inglese, nato a Todmorden, un piccolo paesino dello Yorkshire inglese, aveva cominciato a farsi conoscere, quando verso la metà degli anni ’60, sulla scia delle esibizioni  di Jack McDuff, un grande musicista jazz, si era innamorato del suono dell’organo Hammond, che grazie anche a Jimmy Smith, iniziava a furoreggiare nella musica di allora. Ai tempi c’erano anche molti tastieristi impegnati nel soul, Booker T Jones in America per esempio, e sulla stessa lunghezza d’onda soul-pop, in Inghilterra anche Ian McLagan degli Small Faces, Stevie Winwood, Matthew Fisher dei Procol Harum. Lo stesso Emerson iniziò la sua carriera nei Nice come gruppo di accompagnamento di P.P. Arnold, una grande cantante di soul-pop di stanza in Inghilterra https://www.youtube.com/watch?v=DydIhsjS5SI.

Ma in quegli anni forse non c’era ancora il grande tastierista, c’erano gli organisti citati e moltissimi pianisti, ovviamente di jazz, ma anche di R&R e soul, tanto per fare due nomi, Jerry Lee Lewis Ray Charles (oltre a mille altri), ma non c’era ancora il grande nome che univa i due strumenti nella stessa persona. O meglio, forse i primi due furono proprio Keith Emerson e Brian Auger, il suo grande rivale nel campo, leader dei Trinity: tra l’altro entrambi, oltre che per il classico, il jazz e il soul, erano uniti da una grande passione per Bob Dylan. Forse non è molto noto che praticamente in tutti i primi album dei Nice c’era una rivisitazione di un brano di Dylan, She Belongs To Me, Country Pie My Back Pages, per Emerson, This Wheel’s On Fire, cantata da Julie Driscoll per Auger https://www.youtube.com/watch?v=FkCBVZHrstE . Poi da lì a poco sarebbero arrivati gli organisti (e pianisti) rock, Jon Lord, Rick Wakeman, Rod Argent, Dave Greenslade, Ken Hensley, Rick Wright e tanti altri, Ma sicuramente Emerson, se forse non il primo fu uno dei precursori dell’uso delle tastiere nella musica rock: prima nei citati Nice, che hanno lasciato un pugno di ottimi album, in studio e dal vivo, e poi con la formazione di uno dei primi super gruppi della storia, con gli Emerson, Lake & Palmer, E L &P per tutti, in attività soprattutto negli anni ’70, ma anche con una reunion negli anni ’90 e poi nel 2010.

L’immagine di Emerson è comunque legata quasi inscindibilmente con l’uso del moog, strumento scoperto ascoltando un disco di Walter Carlos, e poi già utilizzato nelle ultime fasi dei Nice e perfezionato negli EL&P, soprattutto nei primi album, i migliori, anche se l’uso massiccio delle tastiere elettroniche è forse più evidente in un disco come Brain Salad Surgery https://www.youtube.com/watch?v=pmtWExgQYs4  o nel triplo dal vivo Welcome My Back, My Friends… L’immagine di Keith Emerson come lo showman che pugnalava il suo organo con un coltello o si spostava con la tastiera a spasso sul palco era già presente nei Nice, ma poi sarebbe diventata più evidente in spettacoli pantagruelici come la rivisitazione di Picture At An Exhibition di Mussorgsky o le battaglie con l’armadillo corazzato di Tarkus https://www.youtube.com/watch?v=WKNOlDtZluU , che avrebbero portato poi agli eccessi successivi. Però dischi come il primo omonimo, dove la presenza di Greg Lake (arrivato dai King Crimson) ammorbidiva e variava con la sua vena melodica, la tendenza all’istrionismo esagerato di Emerson, che non per nulla vinceva tutte le classifiche di settore come miglior tastierista: brani come Take A Pebble Lucky Man  https://www.youtube.com/watch?v=89g1P_J40JA  , bilanciavano le sarabande classicheggianti di The Barbarian Knife-Edge nel primo disco, e in Trilogy, uno splendido brano pop come From The Beginning  https://www.youtube.com/watch?v=89g1P_J40JA  , si trovava a fianco di Abaddon’s Bolero.

Poi negli anni a venire Keith Emerson avrebbe avuto successo anche con le numerose colonne sonore e, soprattutto in Italia, con la divertente rivisitazione di un vecchio boogie-woogie come Honky Tonk Train Blues, che grazie al fatto di essere stato per un paio di anni la sigla della trasmissione RAI Odeon, lo rese popolarissimo nel nostro paese  https://www.youtube.com/watch?v=1kSZWkYe09g (per la gioa imperitura del Mollicone nazionale)! Però stavano per arrivare il punk e la new-wave, gli arcinemici del prog rock, e soprattutto una serie di boiate a livello discografico, qualcuno ha detto Love Beach?, per interrompere la carriera del trio. Da allora Emerson si è barcamenato, tra improbabili riunioni della band, con e senza Carl Palmer (sostituito da Cozy Powell, così l’acronimo non cambiava) e una serie di album di studio, senza infamia e senza lode, ma più tendenti alla prima. Negli ultimi anni avventure anche nell’hard rock con tale Marc Bonilla, su cui non vorrei spendere parole, e se comunque dal vivo la vecchia classe e la tecnica mostruosa ogni tanto facevano capolino, i fasti del passato erano ormai alle spalle. Si può amare od odiare Keith Emerson (per molti non ci sono vie di mezzo) ma il periodo con i Nice, tra il 1967 e il marzo del 1970, e quello con Emerson, Lake And Palmer, fino al 1973, gli hanno sicuramente assicurato un posto come miglior tastierista prog-rock (e non solo) di quell’epoca, oltre ad alcuni album che risentiti ancora oggi, ovviamente se non siete solo amanti di roots-rock, blues e folk, hanno mantenuto un loro fascino, magari “perverso” se volete! Così che riposi in pace anche lui, in questo inizio di 2016, ricco di morti eccellenti.

Bruno Conti