Un Ottimo Esempio Di American Music Dal Più Britannico Dei “Cantautori”In Circolazione. Ray Davies – Americana

ray davies americana

Ray Davies – Americana – Sony Legacy

Sir Raymond Douglas Davies, detto Ray (anche lui è stato alla fine nominato baronetto, o Knight Bachelor se preferite, per il suo servizio alle arti britanniche, molto più tardi di altri colleghi, ma in modo doveroso) pubblica con questo nuovo album Americana quello che probabilmente è il suo miglior album solista, in una carriera che in questo senso non è stata fulgida, ma i meriti acquisiti in oltre 50 anni alla guida dei Kinks lo sono certamente e lo indicano come uno dei più grandi “cantori” della scena musicale inglese, londinese in particolare, nello specifico Fortis Green, nel quartiere di Muswell Hill, nel nord della capitale britannica, in una famiglia non certo agiata, con sette tra fratelli e sorelle, e una provenienza “proletaria”. Ma Ray Davies è stato anche il Dandy per eccellenza, grande appassionato e studioso dei costumi e delle usanze della Terra di Albione, ma pure innamorato della musica americana, anzi “Americana”, che è pure il titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2013 e di cui questo album avrebbe dovuto essere la controparte audio, costruito come una sorta di adattamento di quelle memorie sotto forma di canzoni e brevi intermezzi parlati.

Devo ammettere che ad un primo ascolto il disco non mi aveva colpito in modo particolare, pur essendo il sottoscritto un grande fan della sua opera omnia con i Kinks, ma i dischi solisti in passato non mi avevano mai colpito più di tanto, a partire dal primo Return To Waterloo del 1985, che era una sorta di rimasticatura parziale di brani già usciti in Word Of Mouth dei Kinks, e che non era uscito a nome della band a causa dei soliti continui ed immancabili dissidi con il fratello Dave Davies. Anche The Storyteller del 1998 era stata una occasione per ripercorrere la sua storia e quella del gruppo, sotto la ragione sociale della famosa trasmissione televisiva americana; Other People’s Lives, il CD del 2006, quello di maggior successo commerciale in ambito solista, sarebbe stato un eccellente disco per chiunque, ma non per Ray Davies, in definitiva buono ma non eccelso, come pure il successivo Working Man’s Café del 2007, probabilmente comunque il suo migliore fino ad oggi. In mezzo ci sono state varie reunion dei Kinks, dischi celebrativi con orchestra e un album di duetti nel 2010, con grandi ospiti, See My Friends, peraltro piuttosto bello, ma accolto da critiche assai contrastate.

Invece questo nuovo Americana sta ricevendo un nugolo di giudizi positivi, alcuni addirittura entusiasti, altri più composti, ma non si può negare sia un eccellente album, forse, ancora una volta, non un capolavoro assoluto, ma un disco intriso delle influenze americane di Davies filtrate attraverso il suo essere tipicamente british: non per nulla il tutto è stato inciso con una band americana, i Jayhawks (e con altri musicisti), ma nei Konk Studios di Tottenham, in piena Londra. Le canzoni raccontano proprio il rapporto di Ray Davies con gli Stati Uniti, a partire dalla iniziale title track Americana, una morbida (e splendida) ballata che si apre sui tocchi di un pianoforte e delle chitarre acustiche, poi entra una pedal steel, Melvin Duffy, le chitarre e le tastiere degli altri Jayhawks, che con le loro armonie vocali costruiscono una atmosfera sonora molto West Coast, ma con le peculiarità del nostro, che con pochi tratti ci fa immergere in questa sorta di sogno glorioso ad occhi aperti. Anche John Jackson, il co-produttore con Ray e Guy Massey (anche brillante ingegnere del suono) del disco, ha i suoi meriti, e le sue chitarre aggiunte sono tra  i punti di forza del sound, oltre all’uso continuo delle tastiere, Karen Grotberg, Ian Gibbons e lo stesso Davies, molto ben inserite negli arrangiamenti ariosi e complessi.

Prima del secondo brano c’è un breve intermezzo parlato, che evidenzia lo spirito quasi “teatrale” di questa narrazione ( e che forse prelude a futuri sviluppi in tal senso di questo progetto), ma che; a mio modesto parere; spezzano il fluire della musica: in ogni caso The Deal, in viaggio verso la vita dorata di Los Angeles, è un altro brillante esempio della grande facilità con cui il musicista inglese è in grado di costruire melodie che ti entrano subito in circolo e la sua proverbiale abilità nei testi si conferma in questo idilliaco, ma anche sardonico, quadretto della società americana, quasi a tempo di valzer e con un ritornello insinuante, secondo la sua famosa opinione per cui le canzoni devono avere un verso, il ritornello e il bridge e difficilmente si discosta da questo credo, forse gli mancano i riff del fratello Dave, ma Poetry è decisamente più rock, con la sua tipica e unica voce in bella evidenza, mentre le melodie ricordano il periodo classico di fine anni ’60- primi anni ’70, non più solo la band pop dei singoli, ma quella raffinata di album come Village Green Preservation Society, Arthur, Lola Muswell Hillbillies, trasferite sul suolo americano, nazione che agli inizi di carriera li aveva rifiutati, ma poi in seguito li aveva accolti a braccia aperte, ovviamente nella visione di Davies la “poesia” non c’è, sostituita dal consumismo, ma glielo e ce lo dice, con una soavità e una ironia sopraffine, e con melodie avvolgenti e deliziose. Good Time Gals, è meno brillante dei tre brani precedenti, uno schizzo quasi acustico, malinconico, dove comunque si apprezza la bella voce di Karen Grotberg che duetta con la sua voce soave con Ray, tra piano, tastiere e chitarre acustiche appena accennate. Mentre nella successiva A Place In Your Heart la Grotberg viene utilizzata di nuovo, ma in modo più dinamico e mosso, in un brano dove si vira anche verso improvvise aperture sonore country e vaudeville, delicati valzeroni con fisarmonica e archi, oltre alle armonie vocali della premiata ditta Jayhawks. 

Mystery Room rievoca il famoso episodio di New Orleans, dove viveva all’epoca, quando un incontro ravvicinato con un rapinatore quasi gli costò la vita e il brano assume le sonorità scure e misteriose della città della Louisiana, anche se non mi sembra tra le più riuscite del disco, forse fin troppo carica e drammatica, ma visto l’argomento trattato ci sta. La narrazione si lega a quella di Rock’n’Roll Cowboys, una canzone dedicata a Alex Chilton, preceduta da un breve talking Silent Movie, in cui Ray rievoca il loro ultimo incontro a New Orleans, dove entrambi abitavano all’epoca, e i loro discorsi sulla musica e soprattutto sulle canzoni, di cui tutti e due sono stati formidabili autori, e il fatto che mentre chiacchieravano amabilmente in questo commiato la televisione iniziò a trasmettere un vecchio film in bianco e nero sui cowboys, e così nasce la canzone, qualche anno dopo, un tributo ai vecchi rockers che sono come i cowboys, una razza forse in via di estinzione, anche se a giudicare dal brano non si direbbe, uno dei più riusciti e sentiti dell’intero album, con un bellissimo break di chitarra elettrica nella parte centrale, e sicuramente uno dei brani più “americani” nel suono del CD. Change For Change, per quanto sempre interessante nel testo che racconta dei cambiamenti in corso nella società americana, a livello musicale è una specie di blues futuribile, giocato su una chitarra acustica, piccole percussioni, piano e trattamenti elettronici, però abbastanza irrisolto, mentre la successiva, breve, narrata, The Man Upstairs cita all’inizio la celebre All Day And All Of The Night, ma è proprio un intramuscolo. Heard That Beat Before è una pigra e delicata canzone, un misto del Ray Davies classico e un blues molto old fashioned e laidback, pure questa piacevole ma non memorabile.

Long Drive Home To Tarzana viceversa è un brano tra i migliori del disco: “New England To Hollywood Seems So Far Away…” narra Ray, in questo breve trattato sul Sogno Americano e la sua realizzazione, in una strada che è pero lunga ed impervia e non sembra mai arrivare ad una conclusione, ma il protagonista ci prova comunque ad arrivare verso questo Paradiso bramato che è la California dei suoi sogni (quella di Hollywood Boulevard in Celluloid Heroes forse?), e lo fa appunto in una ballata deliziosa, con le “solite” armonie vocali, le chitarre accarezzate e la voce suadente e complice di Davies, e un sound morbido e molto tipico della West Coast evocata dalla canzone. The Great Highway è uno dei rari pezzi rock del CD, molto vicino al sound dei Kinks del periodo americano, della Second Coming, quella riuscita di fine anni ’70, primi anni ’80, con le chitarre che ruggiscono a tutto riff  e Ray che canta con grinta e c’è persino spazio per un assolo dell’elettrica di Gary Louris. Ma, come detto, in precedenza c’era stato un primo tentativo, in cui la band inglese era stata respinta dalla American Federation of Musicians,e bandita per quattro anni, e quindi gli Invaders erano stati ricacciati in Inghilterra, dove avrebbero continuato ad influenzare i musicisti americani (tra cui i Jayhawks stessi) e ad essere a loro volta influenzati dalla musica americana, come dimostra peraltro il sound di questo brano, tutto chitarre acustiche, mandolini, fisarmoniche e un’aria roots corale che fa più Nashville che Londra. A chiudere il cerchio non manca il lieto fine, presunto o vero, di una Wings Of Fantasy, dove i sogni giovanili di Davies “belle ragazze, cowboys, soldi e successo” sembrano realizzarsi nella “land of the free”, come diceva la precedente canzone: il pezzo è più rock e brillante di altri, con la consueta costruzione preferita dal musicista di Fortis Green, ricordata prima, ovvero verso, ritornello, bridge, e una bella melodia, che non manca mai. Per concludere, un buon disco, a tratti brillante in alcuni brani, magari non memorabile, per quanto probabilmente il migliore della sua carriera solista e con più di un eco del glorioso passato, come si suol dire, averne di dischi così: non male per un presunto bollito quasi 73enne sul viale del tramonto!

Bruno Conti

Una Cantautrice “Anomala” Ma Interessante. Sallie Ford – Soul Sick

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Sallie Ford  – Soul Sick – Vanguard/Concord/Universal

La prima cosa che balza all’occhio ( e all’orecchio) è che Sallie Ford non è la tipica cantautrice americana, anche se, come lei stessa dice in fase di presentazione, questo è un album di tipo “confessionale”, ovviamente a livello lirico, con testi che parlano delle sue paure, insicurezze e depressioni, mentre le canzoni del passato  vertevano di più intorno ad argomenti come rabbia e sesso. Quindi i temi sono quelli della cantautrice, sia pure anomala, ma l’esecuzione della parte musicale è diversa da ciò che abitualmente si associa alle autrici più tradizionali: presentata dal New Yorker come un incrocio tra Liz Phair e Buddy Holly, lei preferisce definirsi una via di mezzo, un misto tra i Kinks e Skeeter Davis, oppure PJ Harvey e Billie Holiday. In effetti, fin dalle sue prime avventure musicali con i Cold Outside, Sallie Ford ha privilegiato un tipo di approccio sonoro molto legato al passato, ma visto in una ottica indie, un suono che risente della British Invasion ( i citati Kinks e i Troggs), ma anche ? & The Mysterians, oltre a girl groups come Shireless o Ronettes, con un approccio garage, potremmo definirlo “retro indie” per questo Soul Sick, con un uso marcato di chitarre elettriche fuzzy e distorte a tratte, vecchi organi Farfisa e Hammond, ritmi R&R, il tutto però cantato con una voce fascinosa e calda, che è in grado di incazzarsi ma anche di rilasciare belle melodie.

Per realizzare tutto questo la Ford si è affidata ad un produttore ed ingegnere del suono anomalo come Mike Coykendall, uno che ha lavorato con M Ward, She And Him, Bright Eyes, Richmond Fontaine, ma ha anche fondato, con Garth Klippert, anche lui nell’album, una piccola etichetta che produceva cassette, e nel passato è stato il leader degli Old Joe Clarks, grande band roots-rock degli anni ’90. Tutti questi elementi confluiscono in questo disco di Sallie Ford, che, è bene dirlo subito a scanso di equivoci, a mio parere non è un capolavoro, ma si lascia ascoltare e scorre tra piacevolezze e momenti più “urticanti”. Nel disco suonano altri musicisti della scena indie americana, come Kris Doty (Modern Kin), Ben Nugent (Dolorean), o Ralph Carney, sassofonista storico di Tom Waits, ma di recente anche con case/lang/veirs o i Drive-by-Truckers: si parte subito “vintage” con l’incalzante Record On Repeat, tra organi filanti, chitarre taglienti, belle armonie vocali, una ritmica decisa e la voce da rocker di Sallie Ford, sulla scia di gente come Aimee Mann, Chrissie Hynde, Carla Olson, una piccola gemma simil-psichedelica o di garage morbido, ben strutturata e con un suono delineato e ben arrangiato, anche se il testo già si incanala sui cattivi pensieri ricorrenti nella narratrice della canzone. Che poi rincara la dose in Screw Up, ancora più pessimista e depressa, ma a tempo di una deliziosa traccia pop che profuma di spensierati anni ’60, con coretti tra doo-wop e Mamas And Papas, organetti divertenti, chitarrine insinuanti. Loneliness Is Power, su un drive alla Bo Diddley innesta un gagliardo psych-garage, con chitarre e basso fuzzati che sembrano provenire da qualche vinile d’epoca degli Standells o della Chocolate Watch Band. E addirittura nella successiva Get Out, il primo singolo tratto dall’album, che sembra il figlio bastardo di qualche derivazione dei Them, spunta un assolo di wah-wah che è psichedelia pura, gagliardo!

Sempre proseguendo il trend “positivo” delle canzoni abbiamo anche Failure, una squisita confezione di puro doo-wop pop alla Spector, con armonie vocali adorabili e una costruzione sonora perfetta, su cui si adagia l’ineffabile voce della Ford e un assolo di clarinetto tanto retrò quanto gustoso (ho quasi esaurito gli aggettivi). Middle Child è una canzone “stupidina” che non mi fa impazzire, anche se l’intervento del flauto è assolutamente inaspettato. Torna il retro garage in Never Gonna Please, sempre con la squillante voce di Sallie adagiata sulle solite chitarre acide e ritmi scanditi, mentre Romanticized Catastrophe (e ridagli) è parzialmente irrisolta, una lunga intro con schiocchi di dita a tenere il ritmo e vocalità doo-wop meno riuscite all’inizio, poi evolvono in una solare canzone che smentisce il testo e si affida all’intervento del sax di Carney per movimentare il finale. Altra variazione sul tema è Hurts So Bad, in questa sorta di concept album sulle “disgrazie della vita”, con le tastiere a fare compagnia alla cristallina voce della Ford, mentre Kris Doty e Jill Coykendall forniscono il consueto brillante supporto vocale. Unraveling è ancora più spectoriana, cantata a voce spiegata, quasi fosse un’emula di kd lang, molto vocal groups anni ’60, sempre delicata e raffinata, con la conclusiva Rapid Eyes che ci racconta della fine del trattamento per curare paure e depressioni, “find memories of pain, and make them lose their strength”, questa volta con accenti quasi soul e dispiego di fiati. Da mettere accanto alle vostre ristampe della Sundazed .

Bruno Conti