Un Album Molto Bello…E Facciamo Finta Che Sia Anche Nuovo! John Wort Hannam – Love Lives On

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John Wort Hannam – Love Lives On – Rebeltone CD

Se non avevate mai sentito nominare John Wort Hannam state tranquilli, non siete i soli. Quando ho avuto in mano questo Love Lives On da recensire ho provato ad indagare online, e ho scoperto che trattasi di un ex insegnante canadese (originario dell’Alberta, ma nato in UK)) che nel 2001 ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione: la musica. Una scelta rischiosa quella di mollare un lavoro sicuro per una professione oggi purtroppo effimera se non hai l’appoggio di una major, ma Hannam è andato dritto per la sua strada, facendo sacrifici ma riuscendo a pubblicare ben sette CD da allora ad oggi, uno dei quali ha addirittura vinto un Canadian Folk Music Award come album dell’anno. Hannam è quindi uno dei segreti meglio custoditi in Canada, ed i suoi dischi non sono facilissimi da reperire: addirittura il lavoro di cui mi occupo oggi, Love Lives On appunto, è datato 2015, e nel frattempo il nostro ha pubblicato nel 2018 Acres Of Elbow Room (finanziato con il crowdfunding, distribuito in proprio e candidato ai Juno Awards, i Grammy canadesi)), che a tutt’oggi è il suo ultimo album https://www.youtube.com/watch?v=Ff9E5ERa6NU .

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Siccome però fino a ieri John era per me un totale sconosciuto, faccio finta che Love Lives On sia nuovo, e devo dire con mia gradita sorpresa che mi sono trovato di fronte ad un artista vero, un songwriter dalla penna sopraffina e decisamente bravo anche come performer. La scuola è quella classica canadese, un songwriting puro e classico di matrice folk, ma il nostro è anche capace di gradite incursioni nel country e nel rock, grazie anche ad una serie di sessionmen (non li nomino, tanto sono altre carneadi) di ottimo livello che cuciono intorno alla voce di John un ricco accompagnamento a base di chitarre acustiche ed elettriche, mandolino, dobro, steel guitar, violino, organo, pianoforte e fiati (oltre ovviamente alla sezione ritmica), un suono coinvolgente ben prodotto da Leeroy Stagger, che è anch’egli un cantautore canadese però maggiormente conosciuto rispetto a Hannam.

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L’album parte bene con Roll Roll Roll, una deliziosa folk song elettrificata con implicazioni tradizionali nella melodia, pochi strumenti, un tamburello a tenere il ritmo ed il violino a doppiare la voce del leader. La mossa Over The Moon è più elettrica, e possiede una melodia limpida che contrasta piacevolmente con una slide che macina riffs sullo sfondo (ed il refrain è di quelli vincenti), Labrador è una ballata fluida basata su voce, chitarra e poco altro, con una bella armonia vocale femminile ed un feeling non comune, a differenza della title track che è un godurioso country-rock chitarristico dalla melodia tersa e decisamente orecchiabile, un brano che ci fa capire che John è un cantautore completo e versatile https://www.youtube.com/watch?v=QgXkH5cn6Fc . Chasing The Song ha il passo lento ma un motivo di base profondo che si sviluppa su più livelli fino all’ingresso spettacolare ed inatteso di una sezione fiati che fa tanto The Band, mentre l’intensa Man Of God è puro folk cantautorale che, vista la terra d’origine del suo autore, paga il giusto tributo all’influenza di Bruce Cockburn, un songwriter del quale ci si dimentica sistematicamente quando si indicano i grandi del pentagramma.

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Gonna See My Love, tesa ed affilata, sta a metà tra folk e blues ed è dotata di un background sonoro che la rende una della più accattivanti del CD, ed ancora più bella è Write Me Back In, una country ballad elettroacustica dalla linea melodica splendida ed un sound molto californiano. Il disco si avvia al termine in deciso crescendo: Heart For Sale è vintage honky-tonk, un brano acustico ma dal ritmo coinvolgente e con un delizioso assolo pianistico da saloon, Molly & Me è un’altra bellissima ballata con organo e fiati che le danno un sapore sudista (e qui l’influenza del leggendario ex gruppo di Robbie Robertson è abbastanza evidente), e la conclusiva Good Nite Nova Scotia è un folk tune puro e cristallino. Quindi un dischetto bello ed inatteso questo Love Lives On, anche se non nuovissimo…ma d’altronde non abbiamo sempre detto che la buona musica è senza tempo?

Marco Verdi

Recuperi Di Fine Anno 3: Una Vena D’Oro Tutt’Altro Che Esaurita. Bill Callahan – Gold Record

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Bill Callahan – Gold Record – Drag City

Bill Callahan, meglio conosciuto ad inizio carriera con lo pseudonimo Smog, è un tesoro prezioso da conservare o da scoprire, per chi ancora non ha avuto la fortuna di conoscerlo. Presentatosi sulla scena alla fine degli anni ottanta, quando cominciava a farsi strada la tendenza del lo-fi tra i cantautori e i gruppi del rock alternativo americano (Beck o i Pavement, tanto per citare due nomi noti), Bill ha subito trovato modo di farsi apprezzare da pubblico e critica grazie ai suoi acquerelli minimalisti che scavano a fondo nell’animo umano portandone alla luce i recessi più cupi in cui dominano angoscia ed alienazione, facendo uso di un tessuto sonoro scarno ma originale, basato perlopiù su fraseggi nervosi delle chitarre. Dopo undici album a nome Smog (e vari EP) Callahan decide di continuare ad incidere col suo nome senza per questo stravolgere la sua concezione musicale, fino alla lunga pausa che va da Dream River del 2013 all’ottimo ritorno nel 2019 con Shepherd In A Sheepskin Vest.

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Photo by Hanly Banks Callahan

Durante questa pausa creativa si è sposato con la fotografa e regista Hanly Banks ed è diventato padre, due eventi che hanno modificato in modo sensibile il punto di vista dei protagonisti delle sue storie, non più ingabbiati nell’ individualismo dettato dalla loro solitudine, ma finalmente inseriti in contesti in cui famiglia e vita sociale hanno una nuova e spiccata rilevanza. Il nuovo lavoro, Gold Record, ha avuto una gestazione del tutto particolare: nove canzoni su dieci sono stati pubblicate come singoli, con cadenza settimanale, a partire dallo scorso giugno, prima dell’uscita dell’intera raccolta, avvenuta all’inizio di settembre. Va anche detto che si tratta di brani composti in tempi diversi durante i trascorsi decenni e poi accantonati dal loro autore fino a questo definitivo restyling. Malgrado ciò il disco si presenta compatto e non dispersivo, dotato del consueto suono ridotto all’osso ma denso di piacevoli soluzioni grazie anche alla bravura dei musicisti che accompagnano il leader, il chitarrista Matt Kinsey, il bassista Jamie Zurverza e il batterista Adam Jones.

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In Hello, I’m Johnny Cash, con un incipit che cita volutamente quello di At Folsom Prison dell’uomo in nero, Callahan ci immerge subito nella suadente e rilassata atmosfera dell’iniziale Pigeons, tra deliziosi tocchi di chitarre e una tromba sullo sfondo che aggiunge solennità alla calda voce narrante del protagonista https://www.youtube.com/watch?v=PSv60b7PWpU . Impossibile non tracciare un parallelo col maestro Leonard Cohen per le due successive perle acustiche Another Song e 35. Come il grande e compianto canadese Bill possiede la capacità di rendere importanti e dense di significato le normali vicissitudini della vita quotidiana, come nella splendida The Mackenzies in cui racconta dell’incontro con i vicini di casa in seguito ad un suo problema con l’auto https://www.youtube.com/watch?v=hMMEUgts6i0 , oppure nell’intimo frammento di vita famigliare che è descritto in Breakfast https://www.youtube.com/watch?v=_kw6NHEVia4 .

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Con lenta cadenza blues, in Protest Song il suo autore descrive se stesso seduto in poltrona di fronte ad un collega che in tv si sforza di far approvare al pubblico i suoi inni di protesta, mentre il solare arpeggio della delicata Let’s Move To The Country (l’unico episodio già apparso in forma diversa su un album precedente, Knock Knock, del 1999) richiama certe luminose ballate del primissimo Bruce Cockburn https://www.youtube.com/watch?v=Em6BszKzA9o . Il fischiettio e il suono di tromba che ricompare nella lenta Cowboy ci trasportano in una dimensione atemporale ed è impossibile non apprezzare l’omaggio che Bill fa ad un altro gigante, Ry Cooder, nell’omonima ballata ricca di citazioni testuali, da Buena Vista a Chicken Skin https://www.youtube.com/watch?v=m74apAtI2X8 . Il finale è affidato all’intensa As I Wonder, poetica riflessione sulla propria vita e sulla professione del cantautore in tempi difficili come quelli che stiamo attraversando. Bill Callahan ha saputo nobilitare l’una e l’altra con un disco importante per il mese in cui è stato pubblicato, ma addirittura perfetto per riscaldare le dure giornate di questo gelido inverno.

Marco Frosi

Un “Big Man” In Più Per Il Capitano Jerry! Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989

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Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 13: September 16th, 1989 – ATO 2CD

Con tutte le uscite d’archivio dei Grateful Dead (solitamente due all’anno, una in primavera ed una in autunno, ed in più ci sono anche i Dave’s Picks) diventa difficile seguire anche l’analoga operazione denominata Garcia Live, riguardante appunto i tour da solista del leader Jerry Garcia ed anch’essa rinnovata più o meno con cadenza semestrale (senza considerare che ogni tanto vengono pubblicati live album del grande chitarrista anche al di fuori della serie, come per esempio Electric On The Eel). Lo scorso dicembre per esempio avevo soprasseduto, un po’ perché le mie finanze erano già provate dalle spese natalizie, ma soprattutto perché il dodicesimo volume della serie riguardava per l’ennesima volta un concerto di Jerry con il tastierista Merl Saunders, un binomio a mio giudizio già ampiamente documentato in passato, dal famoso Live At Keystone in poi.

A soli quattro mesi da quel triplo CD ecco però arrivare l’episodio numero tredici, e qui è stato molto più difficile resistere: innanzitutto stiamo parlando di un concerto del 1989 (per la precisione il 16 settembre al Poplar Creek Music Theatre di Hoffman Estates, un sobborgo di Chicago), cioè il primo anno di quello che per me è il miglior triennio di sempre della Jerry Garcia Band in termini di performance, e poi perché come ospite speciale in aggiunta ai soliti noti di quel periodo (oltre a Garcia, Melvin Seals alle tastiere, John Kahn al basso, David Kemper alla batteria e le backing vocalists Jaclyn LaBranch e Gloria Jones) abbiamo un sassofonista “abbastanza” conosciuto: Clarence Clemons, in quel periodo non troppo impegnato come d’altronde tutti i membri della E Street Band, che Bruce Springsteen aveva sciolto all’indomani del tour di Tunnel Of Love. Ma la presenza del “Big Man” non è la classica ospitata in cui il nostro si limita a soffiare nel suo strumento in un paio di pezzi, in quanto Jerry aveva chiesto a Clemons di entrare a far parte del suo gruppo per cinque concerti interi del tour. Ed il binomio funziona alla meraviglia, in quanto Clarence non è per nulla un corpo estraneo alla JGB ma anzi è integrato alla perfezione al suo interno, ed i suoi interventi portano un tocco di “Jersey Sound” in canzoni che in origine stavano da tutt’altra parte. Se aggiungiamo che lo stato di forma del resto del gruppo è a livelli eccellenti (soprattutto Seals, strepitoso all’organo), che Jerry canta per tutto lo show quasi senza sbavature (mentre la sua performance chitarristica è stellare come sempre) e che il suono del doppio CD lascia a bocca aperta, mi sento di affermare che questo Volume 13 è uno degli episodi migliori di tutta la serie.

Il concerto, 14 pezzi in tutto, inizia con gli unici due brani a firma Garcia-Hunter, una solidissima Cats Under The Stars, con Jerry che mostra da subito il suo stato di forma eccellente (e Clarence che dona alla canzone un tocco soul), e They Love Each Other, una bella ballata che è anche un classico negli show dei Dead, leggermente spruzzata di reggae, con un ottimo refrain ed una notevole performance strumentale collettiva (e Seals che fa i numeri all’organo). Negli spettacoli solisti di Garcia non mancano mai dei pezzi di Bob Dylan, ed in quella serata Jerry ne suona tre: due lunghe e rilassate versioni di I Shall Be Released e Knockin’ On Heaven’s Door (splendida la prima, con organo e sax che portano idealmente il sound ben al di sotto della Mason-Dixon Line), ed il finale con una pimpante Tangled Up In Blue, dove forse l’unica cosa superflua è il coro femminile. C’è anche un match tra Beatles e Rolling Stones (che si chiude in parità), con una solida e riuscita interpretazione di Dear Prudence, ancora ricca di umori sudisti estranei all’originale dei Fab Four (ed il suono è davvero uno spettacolo), mentre le Pietre Rotolanti sono omaggiate con una grintosa e coinvolgente Let’s Spend The Night Together, dall’arrangiamento funkeggiante ed i cori che danno un tono gospel.

I nostri poi pagano il giusto tributo al rock’n’roll (una strepitosa Let It Rock di Chuck Berry, nove minuti che Clemons tinge ancora di umori soul), all’R&B (una saltellante How Sweet It Is di Marvin Gaye, qui più che mai godibile e riuscita) ed al blues (una sinuosa ed elegante resa di Someday Baby di Lightnin’ Hopkins, davvero eccelsa, ed una ripresa quasi rigorosa di Think di Jimmy McCracklin, con un gran lavoro da parte di Seals e Jerry che si cala alla perfezione nei panni del bluesman con una prova chitarristica sontuosa). Infine, non mancano tre omaggi alla canzone d’autore, con una scintillante Waiting For A Miracle di Bruce Cockburn, tra le più belle versioni mai suonate da Garcia di questo brano, e le altrettanto imperdibili Evangeline dei Los Lobos (rilettura irresistibile e trascinante) e The Night They Drove Old Dixie Down, superclassico di The Band cantato piuttosto bene da Jerry e non massacrato come altre volte, a conferma che la serata di fine estate del 1989 è tra quelle in cui tutto funziona a meraviglia. In definitiva Garcia Live Volume 13 è un live da accaparrarsi senza troppe esitazioni, nonostante l’infinito ed inarrestabile fiume di pubblicazioni inerenti ai Grateful Dead e dintorni.

Marco Verdi

Il Meglio Del 2017 In Musica Secondo Il Blogger Di Disco Club: Appendice Finale.

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Mi ero riservato la possibilità di aggiungere una seconda lista di titoli che secondo il sottoscritto meritano di entrare tra i migliori usciti nel 2017 (e ce ne sarebbero molti altri): come per la precedente classifica non è in ordine preciso di preferenza ma in ordine sparso. Nel post dello scorso mese http://discoclub.myblog.it/2017/12/11/un-classico-come-tutti-gli-anni-il-meglio-del-2017-in-musica-secondo-disco-club-parte-ii/  l’unico titolo in evidenza era l’album postumo di Gregg Allman Southern Blood che sicuramente occupava la prima posizione: e vi do una anticipazione, è pure al n°1 del Poll annuale della redazione e dei collaboratori del Buscadero di Gennaio che sarà in edicola nei prossimi giorni. Ecco il meglio del resto, partiamo con un trio di cofanetti:

fairport convention come all ye the first ten years inside box

Fairport Convention – Come All Ye/The First Ten Years

https://www.youtube.com/watch?v=5zKpQa_n1E0

natalie merchant the collection

Natalie Merchant – The Collection

https://www.youtube.com/watch?v=_932kTYjRi8

dr. john atco alnum collection

Dr. John – Atco Album Collection

https://www.youtube.com/watch?v=G5zPqgQ67yo

Proseguiamo con il resto, sempre in ordine sparso, partendo da Bruce Cockburn di cui vi ho parlato ieri.

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Bruce Cockburn – Bone On Bone

jason isbell the nashville sound

Jason Isbell And The 400 Unit – The Nashville Sound in arrivo

carole king tapestry live in hyde park

Carole King – Tapestry: Live In Hyde Park

https://www.youtube.com/watch?v=G5zPqgQ67yo

mitch woods friends along the way

Mitch Woods – Friends Along The Way

https://www.youtube.com/watch?v=RpueGuEccIU

father john misty pure comedy

Father John Misty – Pure Comedy

shannon mcnally black irish

Shannon McNally – Black Irish

zachary richard gombo

Zachary Richard – Gombo

https://www.youtube.com/watch?v=iRMY_Llzd-I

carrie newcomer - live at the buskirk-chumley theater with friends

Carrie Newcomer – Live At The Buskirk-Chumley Theater With Friends

https://www.youtube.com/watch?v=M1WrNisRhDU

weather station weather station

The Weather Station – The Weather Station

chris hillman bidin' my time

Chris Hillman – Bidin’ My Time prodotto da Tom Petty

https://www.youtube.com/watch?v=uLtLy4u45z0

winwood greatest hits

Steve Winwood – Greatest Hits Live

https://www.youtube.com/watch?v=FXoEnqldH1E

guy davis poggi Sonny & Brownie’s last train”

https://www.youtube.com/watch?v=omyMs__YPgE

Potremmo andare avanti per 50 anni, ma poi diventa una succursale dell’elenco telefonico (ormai in via di estinzione), per cui “last but not least” aggiungo anche l’album di Guy Davis Fabrizio Poggi Sonny & Brownie’s Last Train, entrato pochi giorni fa nella cinquina dei candidati ai Grammy nella categoria Best Traditional Blues Album, disco di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2017/11/28/se-amate-il-blues-quasi-una-coppia-di-fatto-guy-davis-fabrizio-poggi-sonny-brownies-last-train/ , una bella soddisfazione per un italiano innamorato del Blues!

Per il 2017 è tutto (forse).

Bruno Conti

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Un Trittico Dal Canada 3, Il Migliore Dei Tre! Bruce Cockburn – Bone On Bone

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Bruce Cockburn – Bone On Bone – True North/Ird

Bruce Cockburn è stato (ed è tuttora) uno dei più grandi talenti espressi dalla scena musicale canadese. Negli anni ’70 la sua produzione rivaleggiava con quella dei grandi di quei tempi (assolutamente alla pari con gente come Tom Petty, Bob Seger, ma anche Van Morrison, Springsteen, Dylan, Joni Mitchell, la Band e pochi altri musicisti di quegli anni). Sull’altro lato dell’oceano anche Joan Armatrading, come Cockburn, non sbagliava un disco: gli album di quella decade, che uscivano con precisa cadenza annuale, spesso erano splendidi, penso a Sunwheel Dance, Night Vision, Joy Will Find A Way, In The Falling Dark, il doppio Live Circles In The Stream, ma un po’ tutti erano dischi superiori alla media della produzione di quasi tutti i suoi contemporanei e con una qualità costante. Forse proprio quello del 1979, Dancing In The Dragon’s Jaws, fu quello ad avere il maggiore successo negli Stati Uniti, arrivando fino al 45° posto delle classifiche americane e il LP conteneva una canzone Wondering Where The Lions Are, che arrivò a sfiorare perfino i Top 20 https://www.youtube.com/watch?v=L6Lpx6JIMmk . Da lì in avanti i dischi successivi, salvo rari casi (penso a Nothing But A Burning Light, Dart To The Heart, forse The Charity Of Night e qualche altro che ora non mi sovviene) non hanno più raggiunto quei picchi qualitativi, ma ci sono miriadi di cantautori pronti a firmare un patto con il diavolo per avere prodotto una serie di dischi comunque così consistenti. Dagli anni 2000 ha ulteriormente diradato le sue uscite discografiche, solo tre album più un Live, e e nell’ultima decade ci ha regalato un solo disco, Small Source Of Comfort. uscito nel 2011, un buon album che lo riavvicinava al sound e ai valori artistici espressi negli anni d’oro, e nel 2014 è uscito anche quello splendido Box da 8 CD più un DVD, Rumours Of Glory, che oltre ad essere una summa della sua produzione, conteneva anche molto materiale raro ed inedito http://discoclub.myblog.it/2014/09/20/altra-bella-notizia-forse-i-portafogli-bruce-cockburn-rumours-of-glory/ .

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https://www.youtube.com/watch?v=vmeZppIah8Y

Ma quando sembrava che Bruce Cockburn avesse quasi metaforicamente appeso la chitarra al chiodo, almeno per ciò che concerne il materiale nuovo, ecco che arriva questo Bone On Bone, un disco (dovrebbe essere il numero 30, antologie escluse) che rivaleggia con il meglio della sua produzione. Prodotto dal vecchio sodale Colin Linden, e registrato tra la California, Nashville e l’amato Canada, con l’aiuto di un eccellente gruppo di musicisti, dove spiccano il bassista John Dymond (che si alterna con l’ottimo contrabbasso di Roberto Occhipinti), il batterista Gary Craig, il nipote di Bruce, Aaron Cockburn alla fisarmonica; in più nella veste di ospiti Mary Gauthier (di cui a fine gennaio attendiamo il nuovo album Rifles And Rosary Beads), la brava cantante Ruby Amanfu, il cornettista e suonatore di flugelhorn Ron Miles, Brandon Robert Young, altro bravo cantautore e infine Julie Wolfe, alla produzione in 3 Al Purdys’ , una delle più belle canzoni, in un disco che è comunque ricco di brani di grandi valore. Il nostro amico anche se non è più un giovanissimo (quest’anno va per i 73 anni), non tradisce la attese. I testi sono sempre complessi e immersi nella realtà del mondo che ci circonda, la voce è più vissuta, ma non troppo dissimile dal suo timbro abituale, come certifica immediatamente l’iniziale States I’m In, tipico folk-rock energico ed incalzante nella sezione ritmica, con la chitarra acustica di Bruce subito in bella evidenza, mentre l’organo di John Whynot aggiunge spessore al sound e la voce della Amanfu sostiene a tratti quella di Cockburn, sembra quasi uno dei suoi classici degli anni ’70. Anche Stab At Matter (che “gioca” nel titolo sullo Stabat Mater latino per ideali religiosi e cristiani sempre presenti nei suoi testi) è un altro brano eccellente e grintoso, sempre elettroacustico https://www.youtube.com/watch?v=kLLE_1CjvKg , con qualche sapore blues, perfino cajun grazie alla fisarmonica del nipote e anche gospel per la presenza del San Francisco Lighthouse Chorus(il coro della parrocchia della città dove vive Cockburn) mentre il contrabbasso di Occhipinti e la slide di Linden si muovono sullo sfondo.

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https://www.youtube.com/watch?v=gjOZGihvAVk

Forty Years In The Wilderness è una delle splendide ballate folk-rock che da sempre costellano la carriera del canadese, ancora con l’ottima presenza dell’accordion del nipote John Aaron Cockburn e con la seconda voce della bravissima Mary Gauthier che la impreziosisce ulteriormente, insieme al coro gospel e con un suono d’assieme che ricorda a tratti anche il Jackson Browne più intimista. Non manca anche il blues, un elemento sempre presente nella discografia del nostro, per esempio nella vibrante Café Society, con un bel lavoro delle chitarre sia acustiche che elettriche, dell’armonica di Bruce e della cornetta di Miles che comincia a scaldare lo strumento. La citata 3 Al Purdys, ispirata dal lavoro di quello che viene considerato il massimo poeta canadese del 20° secolo, Al Purdy, è uno dei brani migliori del disco, e ruota attorno ad una sorta di talkin’ blues and jazz, tra poesia e recitar cantando, con la ricorrente cornetta di Ron Miles che si fa protagonista nel lirico finale, mentre le varie chitarre (e strumenti a corda vari, mandoguitar, charango e altro) suonati da Linden e Cockburn cesellano le loro partiDeliziosa anche Looking And Waiting, danzante ed intensa folk song acustica che però si avvale di ottimi interventi anche dell’elettrica, oltre che di un dulcimer, forse e di qualche strumento etnico. Per chi non lo sapesse Bruce Cockburn, oltre che cantautore di vaglia, è anche un eccellente chitarrista come dimostra nella title track strumentale Bone On Bone, dove il suo lavoro all’acustica è assolutamente splendido (e il sottoscritto, se consentite un ricordo personale, può testimoniarlo, visto che per motivi contingenti ero proprio sul palco a vedere il suo concerto al Palalido di Milano nel 1979 e ho visto la sua maestria da pochi centimetri di distanza).

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https://www.youtube.com/watch?v=FhBXirzp3Ic

La jazzata Mon Chemin, con charango e dulcimer in evidenza, si avvale ancora di Aaron alla fisarmonica, di Miles alla cornetta e dell’ottimo lavoro della sezione ritmica, altro brano tipicamente cockburniano (se si può dire), cantato in francese, come succedeva spesso nei primi anni e di tanto in tanto ancora oggi. Eccellente anche la lunga False River, altro pezzo dove si apprezza la fisarmonica, ma anche il contrabbasso di Occhipinti, la slide di Linden, l’acustica di Cockburn e tutta la band in generale, in un brano in lento ma inesorabile crescendo dove tutti i presenti sono al servizio della complessa melodia creata da Bruce per l’occasione, molto belle anche le armonie vocali corali. Jesus Train è l’altro brano decisamente bluesato di questo album, un country-folk-blues nuovamente molto composito e dalle atmosfere sospese ed intriganti, con la voce ancora in grado di reggere la parte senza problemi, ben supportata dal coro, mentre la chitarra cesella come sempre in piena libertà, sembra quasi di sentire i Pentangle. L’ultimo brano Twelwe Gates To The City è un traditional a cui Cockburn ha aggiunto delle parti non snaturando comunque l’aspetto gospel-blues del brano, dove si apprezza ancora il San Francisco Lighthouse Chorus e la “trombetta” di Ron Miles. Che dire ancora? Uno dei migliori dischi di questo 2017 appena concluso.

Bruno Conti

Uno Dei Migliori Volumi Della Serie! Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 8

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Jerry Garcia Band – Garcia Live Volume 8: November 23rd 1991, Bradley Center – ATO 2CD

Il doppio CD uscito nel 1991 intitolato semplicemente Jerry Garcia Band (quello con in copertina un dipinto raffigurante una sala da concerto su sfondo grigio, da anni fuori catalogo) a mio parere non è solo una delle cose migliori mai messe su disco da Jerry Garcia (Grateful Dead compresi), ma uno dei migliori album dal vivo degli anni novanta. Questo ottavo volume della serie Garcia Live, da poco uscito, prende in esame un concerto tratto dalla stessa tournée (avvenuto al Bradley Center di Milwaukee, circa un anno dopo il concerto del live del 1991, che era stato inciso al Warfield di San Francisco) e con la stessa formazione: in quel periodo Jerry era al massimo della forma, e suonava come forse non aveva mai fatto in carriera, un misto di creatività, esperienza e maturità che lo rendevano un musicista inimitabile (e non erano ancora rispuntati i problemi di salute che lo avrebbero portato alla morte dopo solo quattro anni); in più, la JGB era una formazione a prova di bomba, in grado di suonare davvero qualsiasi cosa, e con una scioltezza incredibile: oltre alla chitarra del leader, abbiamo due vecchi compagni di viaggio come il grande Melvin Seals all’organo (e, ahimè, qualche volta ai synth) ed il bassista John Kahn, mentre alla batteria c’è l’ottimo David Kemper, di lì a qualche anno nella touring band di Bob Dylan, oltre ai cori soulful di Jacklyn LaBranch e Gloria Jones, utilissimi ad aiutare la voce di Jerry, da sempre il suo unico tallone d’Achille.

E questo ottavo volume della benemerita serie di concerti live di Jerry è indubbiamente uno dei migliori della serie, forse addirittura il migliore, gareggiando in bellezza con il già citato doppio del 1991: ci sono alcune canzoni in comune (ma si sa che Garcia non suonava mai lo stesso brano due volte allo stesso modo), ma anche alcune sorprese che rendono più appetitoso il piatto. Lo show è strutturato nel modo tipico dei concerti di Jerry, cioè qualche brano tratto dai suoi album solisti, diverse cover e nessun brano dei Dead: la differenza poi la fa la qualità della performance, nella fattispecie davvero eccellente. Il primo dei due CD (incisi come sempre in maniera perfetta) si apre con Cats Under The Stars, forse non tra le migliori composizioni di Jerry, ma che serve come riscaldamento (più di nove minuti, all’anima del riscaldamento…) e con il nostro che ci fa sentire da subito che la sua chitarra in quella sera farà faville; They Love Each Other è una canzone migliore, più simile allo stile dei Dead, tersa e godibile (peccato per quelle tastiere elettroniche), con un leggero tempo reggae che non guasta. Il concerto entra nel vivo con la prima sorpresa: Lay Down Sally, uno dei pezzi più popolari di Eric Clapton, in una versione sontuosa, con il laidback tipico del Manolenta degli anni settanta, ritmo spedito e la chitarra spaziale di Jerry a dare il sigillo con i suoi assoli stratosferici (e stiamo parlando di un brano di Clapton, non certo un pivellino); The Night They Drove Old Dixie Down è una delle grandi canzoni del songbook americano (canadese per la precisione) e questa rilettura è molto diversa dall’originale di The Band, più lenta, decisamente fluida e dal grandissimo pathos strumentale (Jerry qui ha qualche difficoltà a restare intonato), con Seals che tenta di eguagliare in bravura il suo leader e quasi ci riesce.

Reuben And Cherise è gradevole e con il tipico Garcia touch nella melodia (quelle tastiere però…) e prelude ad un trittico da favola formato da Money Honey (di Jesse Stone), roccata e trascinante, con Jerry che suona in modo divino e Melvin che si conferma una spalla perfetta, la vivace e breve (“solo” quattro minuti) My Sisters And Brothers, dal sapore errebi-gospel (era una hit dei Sensational Nightingales) e la splendida Deal, una delle migliori canzoni del Garcia solista, stasera eseguita in maniera stellare. Il secondo dischetto è ancora meglio, ed inizia con una rarissima Bright Side Of The Road, uno dei classici di Van Morrison, in una versione strepitosa, suonata in modo rispettoso ma con una verve chitarristica che l’originale non aveva: Jerry canta bene ed il brano ne esce ulteriormente abbellito. Segue un’altra grande canzone, Waiting For A Miracle di Bruce Cockburn, che Jerry rivolta come un calzino rendendola sua al 100%, con la band che segue compatta. Think non è il noto successo di Aretha Franklin, bensì un oscuro blues di Jimmy McCracklin, molto classico, ed anche il Jerry bluesman funziona alla grande, con un lungo assolo di una liquidità impressionante (e vogliamo parlare dell’organo?); Shining Star è una soul ballad originariamente dei Manhattans, lunga, dilatata, limpida e suonata con classe sopraffina, tredici minuti di puro godimento, mentre Ain’t No Bread In The Breadbox è un pezzo di Norton Buffalo che Jerry e compagni intrepretano in maniera decisamente vitale. Il concerto si chiude con due classici: That Lucky Old Sun è uno standard interpretato negli anni da mille artisti diversi, ed il nostro la personalizza con il suo solito mestiere, rallentandola e tirando fuori il meglio dalla nota melodia, mentre il finale è appannaggio di un brano di Dylan, un autore che nei concerti di Garcia non mancava mai: Tangled Up In Blue è il pezzo scelto, altri undici minuti di grande musica, con il solito suono compatto e fluido allo stesso tempo del gruppo e le due coriste che aggiungono pepe alla nota melodia.

So che tra Grateful Dead e Jerry Garcia solista il mercato negli ultimi tre anni è stato letteralmente invaso di nuove pubblicazioni, ma questo Volume 8 fa parte certamente di quelle da accaparrarsi.

Marco Verdi

Passano Gli Anni, E Dopo Le Regine Questa Volta Tocca Ai “Re”, Ed E’ Sempre Grande Musica! Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings

blackie and the rodeo kings kings and kings

Blackie And The Rodeo Kings – Kings And Kings – File Under Music Label

Passano gli anni, e la scena musicale canadese conferma la sua vitalità con gruppi ormai storici come I Blue Rodeo o i Cowboy Junkies, mentre Great Big Sea e Crash Test Dummies tacciono, i City And Colour non li conosce quasi nessuno, gli Arcade Fire hanno preso una piega che non ci piace, i New Pornographers sono abbastanza discontinui, come pure i Tragically Hip, peraltro molto popolari in patria, tra i più recenti ricordiamo i No Sinner; non mancano i componenti della famiglia Wainwright, e si potrebbe andare avanti per ore. Per esempio citando anche Lee Harvey Osmond che è la “band” sotto cui si nasconde Tom Wilson, uno dei tre componenti dei Blackie And The Rodeo Kings, gruppo nato per rendere omaggio alle canzoni di Willie P. Bennett, e che negli anni ha prodotto una serie di album spesso di assoluta eccellenza. Insieme a Wilson, ci sono Stephen Fearing (anche cantautore in proprio, con un album recentissimo, Every Soul’s A Sailor, appena uscito e autore pure di pregevoli dischi in coppia con Andy White) e Colin Linden, anche lui con una carriera solista interessante, forse più orientata verso il blues, oltre ad essere uno dei produttori più bravi e ricercati in circolazione (Lindi Ortega, il grande amico Cockburn, Colin James), direttore musicale della serie televisiva Nashville (dove vive).

I tre amici, sei anni fa, nel 2011 ebbero una idea “geniale”: un disco di duetti con una serie di voci femminili (cosa mai avvenuta prima, l’ironia è voluta), dove molte volte però è l’esecuzione e la scelta dei partecipanti che delineano il risultato, in questo caso, manco a dirlo, eccellente http://discoclub.myblog.it/2011/07/20/blackie-and-the-rodeo-kings-re-e-regine/, infatti in quel disco apparivano cantanti come Lucinda Williams, Amy Helm delle Olabelle, Cassandra Wilson, Patti Scialfa, Julie Miller (col marito Buddy al seguito, presente anche in questo nuovo capitolo), Janiva Magness, Emmylou Harris, Mary Margaret O’Hara, Holly Cole e svariate altre, di cui potete leggere al link qui sopra. Per la serie, forse i nomi non saranno tutto, ma sono comunque molto importanti, vi ricordo anche i nomi dei musicisti impiegati in questo nuovo Kings And Kings (si tratta forse di una serie di duetti con voci maschili e gruppi? Indovinato!) oltre ai tre leaders del gruppo, Gary Craig, alla batteria, Johnny Dymond al basso, John Whynot piano e organo, Kenneth Pearson anche lui tastiere (che sarebbe il Ken Pearson che suonava in Pearl di Janis Joplin), Bryan Owings, anche lui alla batteria e infine Kevin McKendree, che pure lui si alterna alle tastiere, con Colin Linden che suona tutto il resto che serve.

Il disco al sottoscritto piace parecchio, fin dalla iniziale Live By The Song una rara canzone firmata da tutti e tre insieme, che è una sorta di autobiografia in musica del loro gruppo, con l’ospite Rodney Crowell del tutto a suo agio nel roots-country’n’roll di questo bellissimo brano che rievoca le atmosfere care alla Band, con chitarre e tastiere spiegate in uno sfolgorio di pura Americana music di grande fascino, splendida apertura; Bury My Heart, scritta da Linden e che vede la presenza del countryman dall’anima rock Eric Church è un’altra notevole ballata mid-tempo, dalla melodia avvolgente e con quel suono caldo e raffinato che è caratteristica tipica dei Blackie And The Rodeo Kings, sempre con la chitarra di Linden pronta a scattare verso la meta. Beautiful Scars, scritta da Tom Wilson (o se preferite Lee Harvey Osmond), vede la presenza di Dallas Green (anche in questo caso si dovrebbe parlare di City & Colour, la magnifica band di Green, con una copiosa discografia da investigare), un’altra canzone dalla costruzione complessa ed affascinante, cantata con grande pathos e passione, perché questa signori è musica rock di qualità superiore, e per High Wire Colin Fearing si inventa un pezzo degno del songbook di Roy Orbison, per sfruttare al meglio la splendida voce di Raul Malo dei Mavericks.

Fino ad ora una canzone più bella dell’altra, nessun segno di stanchezza o ripetizioni, altro cambio di genere per il country-rock-blues della mossa Playing My Heart che vede la presenza di Buddy Miller, che coniuga con il resto della band un mood quasi sudista, dove le chitarre si prendono i loro spazi. E il più avventuroso Wilson chiama alla collaborazione anche i Fantastic Negrito di tale Xavier Dphrepaulezz  (che lo ammetto, non conoscevo, ma investigherò) per un soul-funky blues futuribile di fascino indefinito e sostanza come Biiter And Low; e per Secret Of A Long Lasting Love, scritta da Fearing con Andy White, i tre chiamano a collaborare uno dei maestri del “pure pop & rock” britannico come Nick Lowe, altro limpido esempio del grande talento che è stato schierato per questo eclettico album, una composizione folk-rock dall’animo gentile, cantata in solitaria da Lowe,  impreziosita da melodie che si assimilano subito nella loro raffinata semplicità (non è un ossimoro)! E poi arriva uno dei miei preferiti di sempre, uno dei più grandi cantautori mai prodotti dal Canada, Bruce Cockburn, uno che negli anni ’70 ha realizzato una serie di dischi di straordinaria qualità (rivaleggiando con l’altro Bruce), ma poi ha continuato a fare musica sempre di elevata qualità, spesso prodotta dal suo amico Colin Linden, che probabilmente ha scritto A Woman Gets More Beautiful con in mente proprio Cockburn, una ballata delicata e sognante, cantata in inglese e francese, che è uno dei momenti migliori in un album splendido, dove i “Re” della musica spesso si superano, con Bruce e Colin impegnati in un delizioso interplay vocale e chitarristico.

Land Of The Living (Hamilton Ontario 2016) è un’altra magnifica ballata a due voci che vede alla guida del brano l’accoppiata Tom Wilson/Jason Isbell, con l’ex Drive-by Truckers che si conferma una volta di più come uno dei migliori nuovi musicisti in ambito roots music. Non posso che ribadire, veramente una canzone più bella dell’altra, e anche Long Walk To Freedom, dove l’ospite è il cantante e chitarrista Keb’ Mo’, si colloca nell’ambito ballate, stile dove Blackie And The Rodeo Kings veramente eccellono, questa volta tocca a Fearing affiancare la voce maschia di Kevin Moore, ottimo anche alla slide, in questo brano che ha anche accenti blues e gospel, con uno squisito lavoro dell’organo che adorna da par suo il tessuto del brano. Un disco dei BARK non si può definire tale se non c’è almeno una cover dall’opera dello scomparso Willie P. Bennett: per l’occasione viene ripescata This Lonesome Feeling, una sorta di lamento di un cowboy, che vede il supporto vocale e strumentale di una delle leggende del lato giusto di Nashville, ovvero Vince Gill, un brano folky quasi “tormentato” e minimale, lontano mille miglia dal country più bieco della Music City. Che viene ulteriormente rivisitata anche nella conclusiva e mossa Where The River Rolls, scritta da Colin Linden, che per interpretarla ha chiamato i cosiddetti The Men Of Nashville, che poi sarebbero alcuni degli interpreti della serie televisiva Nashville della ABC, citata all’inizio e curata proprio da Linden, che nel brano ci regala un piccolo saggio della sua perizia alla chitarra, anche se il brano, una country song piacevole con piccoli tocchi gospel, non raggiunge forse i livelli qualitativi del resto del disco, veramente di grande spessore, uno dei migliori usciti in questo scorcio di inizio 2017!

Bruno Conti