Quello Bravo Dei My Morning Jacket E’ L’Altro, Anche Se… Carl Broemel – 4th Of July

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Carl Broemel – 4th Of July – Stocks In Asia/Thirty Tigers

Ovviamente quello bravo, o meglio, quello più bravo, dei My Morning Jacket, è Jim James Yim Yames, a seconda di come si sveglia alla mattina, lider maximo della band, voce solista, autore di tutte le canzoni e una delle due chitarre soliste del gruppo. Di Carl Broemel si potrebbe dire che dal 2004 è il suo fedele Kit Carson, “seconda pistola” nelle epiche cavalcate chitarristiche della band di St. Louis e spalla ideale per le derive extra -rock di James, vista la sua passione anche per folk, soft-rock e comunque per un approccio più da singer-songwriter che applica ai suoi dischi solisti. L’anche se…l’ho aggiunto dopo il secondo o il terzo ascolto, perché ammetto che dopo il primo ero rimasto abbastanza deluso nel complesso dall’album, anche se, appunto, non avevo particolari aspettative, sapendo che quello bravo e più completo era l’altro. Broemel ha realizzato altri due album solisti, il primo, Lose What’s Left, realizzato nel 2004 primo di entrare nei MMJ, è una prova prettamente acustica, neanche l’ombra delle epiche cavalcate elettriche per cui poi è diventato famoso, ma anche neppure l’ombra di una chitarra elettrica, una mezz’oretta di folk da cantautore, forse piacevole, ma che non lo avrebbe certo reso una celebrità. Il secondo disco, All Birds Say, sono andato a risentirlo perché non lo ricordavo proprio, meglio ma neppure quello memorabile, sembra una via di mezzo tra un disco di George Harrison e uno di James Taylor, con steel, slide e acustiche, dove Broemel eccelle, spesso in evidenza, ma ripeto, niente per cui stracciarsi le vesti.

E invece 4th Of July mi sembra comunque migliore, non imprescindibile neppure questo, ma un disco dove le otto canzoni, di cui tre molte lunghe, quasi sei, oltre i sette e la title-track che supera di poco i dieci, sono decisamente più varie e ben concepite rispetto al passato: Carl ci ha lavorato con calma, in quasi tre anni e mezzo, nelle pause del lavoro dei My Morning Jacket, dei quali, il tastierista Bo Koster e il bassista Tom Blankenship hanno partecipato alle registrazioni del disco, insieme ad altri ospiti di pregio, in primis Laura Veirs Neko Case. Broemel questa volta non si esibisce al sax, almeno fino al finale, uno strumento che ogni tanto suona con i MMJ; ma le chitarre elettriche, la pedal steel e la slide sono spesso protagoniste di ottime incursioni strumentali. In particolare nella lunga 4th Of July, che nella parte centrale e conclusiva della canzone, ci regala due vere scariche di chitarra elettrica, furiosa, acida e psichedelica, come nei migliori brani della band, due assoli veramente fantastici che alzano il tasso qualitativo del disco. e se tutto il contenuto fosse stato di questa pasta saremmo a parlare di un mezzo capolavoro. Il brano parte in un leggero crescendo, sognante e pigro, poi entrano le voci di Neko Case Shelly Colvin, segue una pausa più riflessiva dove entra una chitarra acustica arpeggiata con valentia e poi il sound si anima sempre di più fino al climax dei ripetuti interventi della solista.

Anche il primo brano è molto valido e decisamente più complesso dei passati lavori di Broemel, una Sleepy Lagoon dal ritmo ondeggiante e molto laidback, tra pop e rock, con la chitarra sempre pronta ad animarsi in gradevoli interventi solisti, non dissimili da certe cose alla MMJ, con la voce di Broemel più convinta del solito. Non male puree la terza traccia, Rockingchair Dancer, quasi a tempo di valzer, con la seconda voce di Laura Veirs ad accompagnarsi a quella di Broemel, in un delizioso e delicato ondeggiare tra folk e morbido rock, che ricorda proprio quello gentile e poco mosso di un cavallo a dondolo. Il resto dell’album mi pare meno interessante dei primi tre brani. Anche se Snowflake, sulle ali di un piacevole groove della ritmica e una melodia molto seventies si dipana attraverso il fingerpicking dell’acustica e qualche intervento delle tastiere e dell’elettrica appena accennati e un cambio di tempo nel finale con fischiettata che forse ci potevano risparmiare. Landing Gear, l’altro brano che supera i cinque minuti, grazie alla pedal steel che l’attraversa, in congiunzione con la chitarra elettrica, ha un mood quasi Westcoastiano e pastorale, non dissimile da certi episodi meno movimentati di Jonathan Wilson, con un bell’intervento del piano di Koster e armonie vocali quasi beatlesiane.

In The Dark ritorna allo stile da cantautore folk, brano “carino” (in mancanza di termine migliore) ma poco incisivo, francamente succede veramente poco nel corso della canzone. E anche l’acustica e strumentale Crawkspace non rimarrà negli annali della musica. Rimane la conclusiva Best Of, dove Carl Broemel imbraccia il sax per l’unica volta nell’album, una ballata di nuovo sognante che rimanda, come ricordato all’inizio. a certe cose di George Harrison, citato per l’album precedente, mentre il timbro della voce del nostro amico mi ha ricordato per certi versi, non so perché, quella di Rufus Wainwright, una specie di vaudeville leggermente psichedelico e demodé, in virtù degli intermezzi strumentali sempre raffinati e gradevoli, ancorché un po’ fini a sé stessi, e tirati poi per  le lunghe negli oltre sette minuti del brano. Insomma, una buona prima parte e poi un graduale decadimento qualitativo, per un album che raggiunge la sufficienza a pieni voti ma non va oltre: magari l’aiuto di un produttore sarebbe stato importante in certi episodi,

Bruno Conti