Si Sa Che Le Piante Grasse Hanno Vita Lunga! Cactus – Tightrope

cactus tightrope

Cactus – Tightrope – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Non so in quanti si ricordino dei Cactus, gruppo di Long Island formato nel 1969 dall’ex sezione ritmica dei Vanilla Fudge, ovvero il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice (*NDB Io si! https://discoclub.myblog.it/2016/10/28/ci-riprovano-lennesima-volta-cactus-black-dawn/ ) . Fautrice di un hard rock con copiose iniezioni di blues (che li aveva fatti definire da qualche critico troppo entusiasta “i Led Zeppelin americani”), la band ebbe il suo momento di gloria dal 1969 al 1972, con la pubblicazione di quattro album che diedero loro una discreta popolarità; poi Bogert e Appice si unirono al grande Jeff Beck per registrare il seminale Beck, Bogert & Appice ed il gruppo si dissolse. Una prima reunion si ebbe nel 1976 per mano del cantante originale Rusty Day, ma la nuova formazione non consegnò alcunché ai posteri: per avere un nuovo album dei nostri bisognerà attendere il 2006 quando i redivivi Bogert e Appice (insieme anche al chitarrista originale Jim McCarthy, ex Detroit Wheels) pubblicheranno Cactus V, un lavoro peraltro abbastanza ignorato, cosa che peraltro capiterà anche a Black Dawn, uscito nel 2016.

Ora a sorpresa la band dello stato di New York ritorna con Tightrope, il loro settimo lavoro in studio: Appice è ormai rimasto l’ultimo tra i membri originali (Bogert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno, ma non faceva più parte del gruppo già da anni) e si è circondato di onesti mestieranti come il chitarrista Paul Warren (per anni con Rod Stewart), il bassista Jimmy Caputo, l’armonicista Randy Pratt ed il cantante Jimmy Kunes, con McCarthy che si limita ad una comparsata in un paio di canzoni. Devo dire in tutta sincerità che non mi aspettavo nulla di buono da questo nuovo lavoro della band, sia perché Appice è uno che per soldi suonerebbe anche nella sigla di Peppa Pig, sia per il fatto che il gruppo in sé è formato da comprimari, ed anche perché la Cleopatra (etichetta di Los Angeles che distribuisce il CD) spesso non è garanzia di qualità. Invece in parte mi devo ricredere: Tightrope non è certamente un capolavoro, ma neppure una ciofeca, ed in poco più di un’ora (forse anche venti minuti in meno sarebbero bastati) riesce ad intrattenere con una bella dose di rock-blues di matrice hard, un suono decisamente robusto che negli anni 70 andava per la maggiore.

Appice sarà quello che sarà, ma quando si siede ai tamburi picchia ancora come un fabbro, Kunes è un cantante sufficientemente potente ed espressivo e le parti chitarristiche non sono disprezzabili, anche se qua e là i suoni sono un po’ tagliati con l’accetta. Si parte in maniera potente con la title track, rock-blues roccioso con reminiscenze zeppeliniane sia nel sound che nel cantato: forse il songwriting non è proprio di prima scelta ma lo scopo viene comunque raggiunto grazie ad una buona tecnica ed una discreta dose di feeling. Papa Was A Rolling Stone è proprio la vecchia hit dei Temptations, anche se qui il pezzo viene completamente stravolto diventando una rock song sanguigna alla quale l’armonica dona un sapore blues; All Shook Up invece non è quella di Elvis ma una canzone nuova, un rock’n’roll con chitarre al vento e steroidi a mille, mentre Poison In Paradise è una riuscita ballatona elettrica dai forti umori blues, notturna, cadenzata e sinuosa.

Con Third Time Gone si torna a pestare duro, ma il suono di fondo ha forti connessioni southern, a differenza delle solide Shake That Thing e Primitive Touch che rimandano ancora all’ex gruppo di Page & Plant, pur non raggiungendo gli stessi livelli di eccellenza (e ci mancherebbe). Preaching Woman Man Blues è appunto un buon blues saltellante, adatto per la voce arrochita di Kunes ed abbastanza coinvolgente grazie anche all’ottima prestazione di tutta la band; Elevation, puro hard rock ancora dalle tinte blues, porta al pezzo centrale del CD, ovvero la lunga Suite 1 And 2: Everlong, All The Madmen, rock ballad soffusa e quasi psichedelica che rimanda decisamente al sound di fine sixties, con la chitarra di Warren che nel finale si erge a protagonista assoluta. La vivace Headed For A Fall, puro blues dal ritmo acceso, ed il rock anni 70 di Wear It Out chiudono un disco che, pur non essendo affatto imprescindibile, è molto meglio di quanto avessi previsto.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 15. Un’Opera Lussuosa, Costosa Ed Esauriente, Anche Se Leggermente Incompleta! Pink Floyd – The Later Years 1987-2019. Parte I

pink floyd later years front

Pink Floyd – The Later Years 1987-2019 – Parlophone/Warner 5CD/6BluRay/5DVD/2x45rpm Box Set

Prima Parte.

Tra i numerosi cofanetti usciti in questa parte finale del 2019 (altri verranno recensiti su queste pagine virtuali anche durante il prossimo Gennaio 2020) uno dei più importanti è sicuramente The Later Years 1987-2019, che si occupa di documentare la parte finale della carriera dei Pink Floyd, ovvero la fase post-Waters con David Gilmour al timone di comando, box che arriva a due anni di distanza dallo splendido The Early Years 1965-1972, lasciando dunque in sospeso il periodo “di mezzo” della band britannica, che poi è quello in cui sono usciti i loro album più famosi (non credo che sorvoleranno con la scusa che erano già stati pubblicati gli “Immersion Box Sets” nel 2011, anche perché Animals e The Final Cut, non venivano presi in considerazione: secondo me stanno preparando qualcosa per il 2021 o giù di lì). Ancora prima di uscire però The Later Years si è attirato una marea di critiche (devo dire non del tutto ingiustificate), prima di tutto per il prezzo esageratamente alto, ben oltre i 300 euro, ed in secondo luogo per le ripetizioni presenti nei vari dischetti audio e video che allungano il brodo fino a 16 supporti complessivi (più due 45 giri), quando dopotutto nel periodo preso in esame i nostri hanno prodotto solo tre album di studio e due dal vivo. Il manufatto è splendido, un cofanettone pesante in formato LP (ma leggermente più largo) ricco di materiale scritto e fotografico: un librone con copertina dura, cartoline, poster, adesivi, tre tour programs ed un libro con tutti i testi del periodo…oltre ovviamente alla parte che più ci interessa, cioè i contenuti musicali.

E qui il fan che è in me deve lasciare spazio al critico, e devo ammettere che i giudizi negativi sul rapporto fra costo e contenuti non sono del tutto campati in aria, dato che volendo ci si sarebbe potuti limitare al materiale presente nei sei Blu-Ray: se però trovo giustificata la presenza dei cinque CD (molti ancora oggi privilegiano il supporto audio rispetto al video, ed io sono tra quelli), si è voluta bissare l’antipatica iniziativa già presente in The Early Years di ripetere i contenuti dei Blu-Ray all’interno di altrettanti DVD, cosa che serve solo a far salire il prezzo del prodotto finale. Un’altra magagna non da poco visto appunto il costo (a proposito, esiste anche un estratto del box su singolo CD, ma secondo me doveva essere almeno doppio) è l’assenza di parecchio materiale del quale si conosce l’esistenza negli archivi, la cui inclusione avrebbe se non altro reso l’opera più completa, visto che molti si sono lamentati anche del valore artistico della musica presente (ma non bisognava arrivare nel 2019 per scoprire che Waters sta, almeno dal punto di vista compositivo, su un altro pianeta rispetto a Gilmour). Cercherò di elencare in breve queste mancanze alla fine della recensione, mentre ora vado ad occuparmi di quello che all’interno del box c’è.

CD 1. Il primo dischetto presenta una versione remixata ed aggiornata di A Momentary Lapse Of Reason, album del 1987 dei nostri che all’epoca venne criticato in quanto sembrava più un disco solista di Gilmour che un lavoro di una vera band, oltre che per un suono qua e là troppo anni ottanta. Infatti allora Richard Wright non faceva neanche ufficialmente parte del gruppo, ma era trattato come un sessionman (venne “reintegrato nella tournée seguente) e Nick Mason non era neppure l’unico batterista presente, dato che si divise i compiti con due luminari del calibro di Jim Keltner e Carmine Appice. In questo box l’album viene invece riproposto con un nuovo mix che elimina in parte le sonorità eighties e soprattutto dà molto più spazio a Wright, del quale sono state aggiunte parti inedite di tastiera prese anche da concerti del tour 1987-88 (con il risultato di avere un suono molto più arioso), e addirittura Mason ha risuonato ex novo tutte le parti di batteria, anche quelle non sue (e si sente, il sound è molto più diretto), giustificando quindi il “2019” nel titolo del box dato che la carriera dei nostri come band si è interrotta nel 2014 con The Endless River. Anche con questi accorgimenti A Momentary Lapse Of Reason si conferma un album imperfetto, con una sola grande canzone (On The Turning Away), un paio di pezzi più che buoni (l’orecchiabile singolo Learning To Fly, la potente Sorrow), il discreto strumentale d’apertura Signs Of Life ma anche diversi riempitivi di lusso che ai tempi di Waters non sarebbero mai stati presi in considerazione (One Slip, The Dogs Of War, Yet Another Movie, Terminal Frost).

CD 2-3. Delicate Sound Of Thunder, album live registrato nel 1988 al Nassau Coliseum di Uniondale, NY, e pubblicato lo stesso anno in doppio LP e doppio CD, viene qui riproposto totalmente remixato e rimasterizzato, con un suono davvero ottimo (l’originale era un po’ “fangoso”) e soprattutto con ben otto bonus tracks (sette rispetto al doppio CD dell’epoca, che rispetto all’LP aveva in più Us And Them), che quindi ci consentono di ascoltare per la prima volta lo show completo. Ed il concerto è decisamente potente e suonato alla grande, con i tre Floyd coadiuvati da una band di cinque musicisti e tre coriste: il primo dei due CD, dopo l’avvio con la straordinaria Shine On You Crazy Diamond, è interamente basato sui brani di A Momentary Lapse Of Reason, con ottime versioni di Learning To Fly e Sorrow, una The Dogs Of War molto più grintosa (in studio era un po’ spenta) ed una fantastica On The Turning Away con un formidabile assolo finale di Gilmour (che il remix ha ulteriormente allungato). Nella seconda parte i nostri ci presentano diversi classici, gran parte dei quali non venivano suonati in pubblico da più di dieci anni: spiccano una trascinante One Of These Days, la sempre toccante Wish You Were Here, un’ottima Welcome To The Machine (che fa parte degli otto inediti), la maestosa Us And Them ed il gran finale con una tiratissima Run Like Hell.

CD 4: forse il dischetto più interessante, dato che è l’unico che presenta degli inediti di studio. Si comincia comunque con altri cinque brani dal vivo che in passato erano apparsi solo come lato B di singoli: due ottime One Of These Days e Astronomy Domine del 1994 e tre registrate ad Atlanta nel 1987 (The Dogs Of War, la sempre splendida On The Turning Away e Run Like Hell). I sette inediti di studio sono presi dalle sessions del 1993 per The Division Bell (anche se viene erroneamente indicato 1994, che è l’anno in cui è uscito l’album), sei strumentali ed uno solo cantato. Si inizia con Blues 1, un godibilissimo e ritmato rock-blues dominato dalla chitarra e dall’organo, con i nostri che suonano in scioltezza (sono solo in quattro, al basso c’è il produttore Bob Ezrin); Slippery Guitar è una languida ballata d’atmosfera, pulita, rilassata ed eseguita in maniera superba, un pezzo che avrebbe meritato di essere completato con un testo, mentre Rick’s Theme è un altro slow di ottima fattura in cui lo strumento guida è il piano di Wright, con una linea melodica notevole. David’s Blues è un brano fluido e raffinato che purtroppo non è stato sviluppato (bella performance chitarristica di Gilmour), ed è seguito da Marooned Jam, che come suggerisce il titolo è un’improvvisazione basata sullo strumentale che finirà su The Division Bell, e dalla roccata e coinvolgente Nervana, che verrà poi riesumata e rielaborata per The Endless River. Chiude il CD una prima versione di High Hopes, non ancora maestosa come quella poi pubblicata ma già decisamente bella.

CD 5. Sette canzoni dal vivo che documentano la partecipazione completa dei Floyd al concerto benefico del 1990 a Knebworth, una serata che vide alternarsi sul palco acts del calibro di Eric Clapton, Dire Straits, Genesis, Robert Plant, Elton John e Paul McCartney e che fu chiusa proprio da Gilmour e soci, con ospiti come la bella Candy Dulfer al sax ed il produttore/arrangiatore Michael Kamen alle tastiere. Quasi un’ora di musica per uno spettacolo che vide i nostri ricompattarsi giusto per quella sera, dato che nel 1990 non erano in tour: scaletta forse prevedibile (Shine On You Crazy Diamond, The Great Gig In The Sky, con la vocalist Clare Torry, già presente nella versione originale, a gorgheggiare da par suo, Wish You Were Here, Sorrow, Money, Comfortably Numb e Run Like Hell), ma performance solida e potente. Solo gli ultimi due brani erano usciti all’epoca sulla compilation dedicata al concerto, il resto è inedito.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Seconda

jeff-beck 1968Jeff_Beck_1972

Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Seconda parte, segue…

Il primo Jeff Beck Group: Truth e Beck-Ola

220px-Jeff_Beck-Truth Jeff_Beck-Beck-Ola

E’ nato prima l’uovo o la gallina? Chi lo sa? E’ nato prima il Jeff Beck Group o i Led Zeppelin? Il lato A di Beck’s Bolero, sempre del marzo 1967, era Hi Ho Silver Lining, con John Paul Jones al basso, Clem Cattini alla batteria, Beck chitarra e voce , e Rod Stewart come backing vocals. Quindi si direbbe che il primo ad avere pensato alla formula sia stato Jeff Beck, visto che Truth, registrato a maggio, esce negli USA ad agosto, mentre il primo disco dei Led Zeppelin fu registrato tra settembre ed ottobre (quindi dopo l’uscita di Truth) anche se sarà nei negozi solo a gennaio del 1969: ma Page e soci, prima come New Yardbirds e poi come Zeppelin erano già in tour da fine ’68, e quindi se l’idea fu di Beck , Page fu più veloce a realizzarla e sfruttarla e Jeff all’epoca si “incazzò” non poco per essere stato “fregato” dall’amico Jimmy. Poi sulla qualità di entrambe le band non si discute. Truth è comunque un grandissimo album risentito anche oggi: un cantante fantastico come il giovane Rod Stewart, Ronnie Wood, ex chitarrista dei Creation, che suona il basso con uno stile aggressivo e risonante, l’ottimo Micky Waller alla batteria, come “ospiti” Nicky Hopkins al piano in quattro brani e John Paul Jones al piano e all’organo in altri quattro, oltre a Moon, accreditato come “You Know Who” alla batteria in una versione leggermente diversa di  Beck’s Bolero, nonché in Tallyman sempre dalle sessions del 1967.

La critica a posteriori lo ha presentato, come fecero per i Led Zeppelin, come un diretto antenato dall’heavy metal e dell’hard rock, ma qui come classe siamo su un altro pianeta grazie al lavoro di un chitarrista stratosferico come Jeff Beck e ad una manciata di canzoni veramente gagliarde: Stewart canta alla grande, sentite gli assoli di El Becko in alcuni classici del blues rivisitati, ma mentre nel caso degli Zeppelin, Page e Plant per non “affaticare” i bluesmen come Willie Dixon che li avevano scritti e che quindi poi avrebbero dovuto assumere dei contabili per gestire gli incassi delle royalties , avevano pensato di firmarli loro direttamente, Beck e soci cambiano “solo” i titoli e gli arrangiamenti, con l’eccezione di You Shook Me, che in entrambi i casi mantiene autore ed arrangiamento molto simili alla versione di Muddy Waters, più corta e stringata quella di Beck, più lavorata quella degli Zeppelin, grande brano comunque.

Let Me Love You firmata da Jeffrey Rod (ma allora avevano anche loro il vizietto!) è molto simile a quella di Buddy Guy, Rock My Plmsoul è “ispirata” da Rock Me Baby di B.B. King e Blues Deluxe, un lento fantastico, mutuato da un altro pezzo di King (e ne ricordo una versione notevole di Bonamassa sul suo disco omonimo). Tutte queste canzoni hanno comunque il sound duro e potente del miglior rock-blues “bianco”, con Beck che mulina la sua Fender in modo travolgente anche in Shapes Of Things, in una versione più tirata di quella degli Yardbirds, in Morning Dew e anche in I Ain’t Superstitious. Nella versione Deluxe del CD del 2005, che è ancora in catalogo a special price, ci sono la bellezza di 8 bonus, tra cui versioni differenti di You Shook Me e Blues Deluxe senza gli applausi fasulli presenti nella versione dell’album, oltre a ai due lati del singolo del ’68, Love Is Blue e I’ve Been Drinking, e altre chicche, che lo rendono ancora più indispensabile di quello che sia già.

In Beck-Ola dell’anno successivo, uscito a giugno del 1969, la formula viene ripetuta, con un nuovo batterista Tony Newman e Nicky Hopkins che fa parte in pianta stabile della band: sono solo sette brani (più le quattro bonus dell’edizione in CD) che confermano la forza e la grinta di una band che, purtroppo, forse delusa dal mancato successo di vendita (anche se comunque arrivano nei Top 20 americani), se confrontato con quello dei Led Zeppelin, decide di abbandonare dopo questo album, con cui qualche critico dell’epoca non fu molto tenero, nello specifico, per fare i nomi, Robert Christgau, rispettata firma del Village Voice, sostenendo che la presenza di Hopkins era troppo preponderante, ma sono pareri personali e il disco, benché inferiore a Truth fa sempre la sua porca figura. In copertina un dipinto di René Magritte, “La Chambre D’Ecouté” (citazione colta) e all’interno del disco una serie di brani notevoli, tra cui spiccano All Shook Up e Jailhouse Rock,  due  brani di Elvis, in versioni veramente poderose, con assoli torcibudella di Beck e Stewart che canta come se non ci fosse futuro, Spanish Boots che ricorda molto i rivali Led Zeppelin, come pure The Hangman’s Knee (sempre con il dubbio di chi copiava chi, ammesso che fosse vero), Plynyh (Water Down The Drain), altro brillante esempio del loro hard-blues-rock, come pure il veemente strumentale Rice Pudding, con Beck ed Hopkins a stimolarsi a vicenda, mentre tra le bonus  troviamo una splendida rilettura del grande slow blues di B.B. King Sweet Little Angel, dove il chitarrista mette in mostra tutta la sua tecnica e un feeling mostruoso.

Stewart e Wood fondano i Faces, Hopkins va suonare con i Quicksilver e poi con gli Stones, mentre Jeff Beck è costretto da un incidente automobilistico a restare a riposo per qualche tempo, obbligandolo quindi a posporre di due anni e mezzo il suo nuovo progetto con la sezione ritmica dei Vanilla Fudge, Tim Bogert e Carmine Appice.

Il secondo Jeff Beck Group e Beck Bogert & Appice.

Jeff_Beck-Rough_and_ReadyJeffbeckgroupalbum220px-Beck,_Bogert_&_Appice_Live_In_Japan_albumcoverBeck_Bogert_&_Appice

Non potendo realizzare il power trio con Bogert & Appice, il nostro amico decide di “ripiegare” su un altro quintetto, con nomi meno altisonanti, ma sempre di sicura efficacia:  il batterista Cozy Powell era uno dei migliori su piazza all’epoca, Max Middleton  un tastierista meno brillante di Hopkins, ma forse più solido ed eclettico, Clive Chaman un buon bassista e Bobby Tench un eccellente vocalist mai considerato per il suo giusto valore. Questa formazione registra due dischi, Rough And Ready, uscito nel 1971, più orientato verso il soul, il R&B, da sempre suoi grandi amori, e qualche deriva jazzata, ovviamente “l’amico” Christgau lo stronca, mentre il resto della critica è più benevola, ed alcuni brani, sempre risentiti oggi, sono veramente notevoli: l’iniziale Got The Feeling con Powell e Middleton che imperversano a batteria e piano, e Beck che va alla grande di wah-wah e slide, mentre lo spirito melodico della voce nera di Tench non passa inosservato, Situation con un riff trascinante, e la pregevole New Ways Train Train,con la guizzante solista di Beck sempre sul pezzo.

L’omonimo Jeff Beck Group, registrato a Memphis, Tennesse nel gennaio del 1972, con la produzione di Steve Cropper che firma anche un pezzo con Jeff, esce in primavera, nuovamente un buon album, con una cover a sorpresa di un pezzo di Bob Dylan, Tonight I’ll Be Staying Here With You, sospesa tra country e soul, inizia la sequenza di brani di grandi autori che Beck riprenderà nel corso degli anni a seguire, c’è anche un brano di Stevie Wonder, la poco nota I Got To Have A Song, e soprattutto la sua versione di Going Down di Don Nix, che rimarrà un cavallo di battaglia dei concerti fino ai giorni nostri; il lato rock è rappresentato dalla tagliente Ice Cream Cakes, dal R&R Glad All Over e dallo strumentale Definitely Maybe che anticipa gli album jazz-rock degli anni ’70, con la chitarra moltiplicata, protagonista principale ed unica del sound, e vista la bravura di Beck è un bel sentire.

Ma prima c’è da sbrigare la pratica Beck Bogert & Appice, con la sezione ritmica che terminati gli impegni con i Cactus è libera di registrare, a cavallo tra ’72 e ’73, insieme a Beck, il loro unico album omonimo di studio, co-prodotto con Don Nix, è un buon disco, ma non la bomba che avrebbe potuto essere: classico power trio rock, ma si sente la mancanza di un vero cantante, anche se l’uso delle tre voci spesso all’unisono cerca di ovviare, con parziale successo, al problema; comunque Black Cat Moan, con Jeff al bottleneck, è un poderoso blues-rock, anche Lady con i suoi continui stop e ripartenze è ricca di intensità febbrile con Bogert e Appice gagliardi come sempre, e Superstition, che all’inizio Stevie Wonder, con cui Jeff collaborò alla realizzazione del brano creando uno dei riff più famosi della storia del rock, aveva pensato di donare come premio al chitarrista, si rivelò un’altra solenne “fregatura” a livello commerciale, visto che per vari problemi il singolo di Wonder uscì prima e il nostro Jeff ancora una volta rimase con il cerino tra le  mani.

Tra i brani dell’album ricordiamo anche Why Should I Care e la cover di I’m So Proud di Curtis Mayfield, tutte canzoni che nello splendido doppio dal vivo pubblicato solo per il mercato nipponico Live In Japan, assunsero ben altro nerbo, con il chitarrista in forma strepitosa che esplorava quasi ai limiti le possibilità della sua solista con una serie di effetti prodigiosi, tra cui l’uso del Talkbox che Frampton avrebbe portato al grande successo solo due anni dopo, ma che altri come Steppenwolf, Iron Butterfly e Joe Walsh usavano da tempo, benché le sonorità di Jeff Beck , che chiamava l’effetto voice bag, erano quasi ai limiti del paranormale, sentirne l’uso devastante in Jeff’s Boogie, Superstition e nell’intro di Black Cat Moan. Comunque in tutto il live, che purtroppo si trova a grande fatica, ma è uno dei dischi dal vivo più eccitanti di sempre, i tre suonano come delle “cippe lippe” irrefrenabili in versioni da sballo anche di Morning Dew, Lose Myself With You e Plynth/Shotgun.

Fine seconda parte, segue…

Bruno Conti

Ci Riprovano, Per L’Ennesima Volta! Cactus – Black Dawn

cactus black dawn

Cactus – Black Dawn – Sunset Boulevard Records

Dieci anni fa i Cactus avevano effettuato una prima reunion, che vedeva l’uscita del loro quinto album di studio, intitolato appunto con grande fantasia V, lo stesso anno avevano girato gli Stati Uniti e l’Europa con alcune date dal vivo per rinverdire le glorie passate: in quel primo giro era ancora presente il bassista originale Tim Bogert, che poi ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 2011. Tra alti e bassi e cambi di formazione continui la band ha proseguito a suonare dal vivo, pubblicato due o tre Live tra il 2012 e il 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/10/10/giuro-che-lultimo-questanno-cactus-tko-tokyo-live-japan-2cddvd/ , e ora, con la formazione stabilizzata intorno ai membri originali Carmine Appice alla batteria, Jim McCarty alla chitarra e i nuovi Jimmy Kunes alla voce (ex Savoy Brown, ma solo per un anno nel 1986, senza peraltro incidere nulla con loro, fa solo curriculum per le recensioni), Andy Pratt all’armonica e Pete Bremy al basso (anche nella nuova versione dei Vanilla Fudge), pubblicano il loro sesto album di studio Black Dawn, per una etichetta Sunset Boulevard, che poi sarebbe il nostro “viale del tramonto”, spero non il loro.

Come hanno dimostrato nelle varie esibizioni live i Cactus propongono ancora il loro classico hard-rock-blues che ai tempi li aveva fatti definire “ i Led Zeppelin americani” e anche se è la solita minestra riscaldata si gusta ancora, soprattutto per gli appassionati del genere. Carmine Appice picchia sempre come un fabbro sulla batteria (ma con classe e ritmo) e gli altri lo seguono come un sol uomo, Kunes ha la classica voce dello shouter rock, McCarty è sempre un signor chitarrista, tutti elementi che convergono nell’iniziale poderosa title track, dove i vecchi Jim e Carmine ci danno dentro di gusto ai rispettivi strumenti, forse idee poche ma monolitiche. E pure Mama Bring It Home non aggiunge molti elementi di novità (ma qualcuno se li aspettava?), sono passati 46 anni ma nulla è cambiato; Dynamite vira verso un boogie molto pompato e duro con qualche tocco di slide di McCarty, Juggernaut è un hard slow blues sempre in ricordo dei vecchi tempi con Kunes che cerca di impersonare il suo miglior Plant (o Gillan, o Bon Scott, persino Steve Marriott, sostituire a piacere, gli originali sono comunque sempre meglio).

Andy Pratt all’armonica, che aveva taciuto fino ad ora, ha finalmente occasione di mettersi in luce in Headed For A Fall, un incalzante rock-blues, tra le cose migliori del disco, con sprazzi della vecchia classe grazie ad un indiavolato groove creato da Appice e soci; You Need Love è un titolo classico, da Muddy Waters agli Small Faces, passando per la Whole Lotta Love degli Zeppelin, questa è la variazione sul tema firmata Cactus, onesto e grintoso rock, ma nulla di più. The Last Goodbye è un altro slow blues di quelli duri e tirati con McCarty che dà il meglio di sé alla solista in questo brano strumentale e Walk A Mile addirittura aggiunge elementi elettro-acustici e leggermente psych alla tavolozza del CD, ma è un attimo poi all’interno del pezzo si riprende subito a picchiare in un brano gagliardo che ricorda molto i Led Zeppelin e anche i vecchi Cactus, e le grandi band hard-rock di inizio anni ’70. Qui in teoria finirebbe l’album, ma Carmine Appice ha scovato un paio di gemme inedite incise dalla formazione originale, quella con Rusty Day e Tim Bogert: quindi inizio anni ’70: una Another Way Or Another che già dal titolo rimanda al passato, uno strumentale di gran classe e C-70 Blues, un poderoso blues lento con un grande Rusty Day, e la carica dirompente di Bogert e Appice, una delle migliori sezioni ritmiche della storia del rock, brano dove dimostrano perché erano considerati la controparte americana dei Led Zeppelin. Indovinate quali sono i brani migliori del disco!

Bruno Conti

Occhio Alla Fregatura, Sembra Diverso? Pat Travers & Carmine Appice – The Balls Album

travers & appice the balls album travers & appice  it takes a lot of balls

Pat Travers & Carmine Appice – The Balls Album – Cleopatra Records 

A chi è capitato di leggere le mie recensioni sa che, per usare un eufemismo, non sono un fan particolare delle produzioni dell’etichetta californiana Cleopatra Records, non tanto per la qualità dei contenuti, ma spesso proprio per i contenuti stessi. Mi spiego: l’arte del riciclo, soprattutto per quanto riguarda il problema dei rifiuti, è una iniziativa nobile, ma quando viene applicata alle produzioni discografiche incontra meno la mia approvazione. Spesso e volentieri nelle loro produzioni (e penso soprattutto ai tributi, ma anche ai cosiddetti dischi “nuovi”), i nostri amici di Los Angeles hanno l’abitudine di riciclare vecchi dischi già usciti, con nuovo titolo e copertina, ma con lo stesso contenuto, però senza dirlo o scriverlo sul CD, e questo è un comportamento da veri str…zi (sono stato autorizzato a usare il termine, quando ci vuole ci vuole). Qualche mese fa mi era capitato di parlarvi di The House Is Rockin’ il tributo a SRV, da loro pubblicato nel 2015, ma già uscito nel 1996 come Crossfire per un’altra etichetta http://discoclub.myblog.it/2015/08/14/sembra-nuovo-the-house-is-rockin-tribute-to-stevie-ray-vaughan/ , succede spesso anche con i dischi di Judy Collins e vari altri titoli.

Ora la storia si ripete, in quanto questo The Balls Album è praticamente la ripubblicazione di It Takes A Lot Of Balls (questa volta non hanno nemmeno cambiato il titolo di  molto), pubblicato in origine dalla SPV/Steamhammer nel 2004, naturalmente con la sequenza dei brani mescolata, senza dichiararlo da nessuna parte, anzi aggiungendo pure due brani come bonus. Oltre a tutto non stiamo parlando di un capolavoro assoluto della discografia, questo disco dell’accoppiata Travers/Appice non entrerà certo negli annali della storia, ma gli amanti di questo hard-rock-blues di grana grossa comunque non mancano e penso che non faccia piacere comprarsi lo stesso titolo due volte. Se però vi manca e l’accoppiata (che ha registrato vari album insieme) vi attizza, i due picchiano come fabbri, in brani che rispondono al nome di Taken, un poderoso boogie-blues che sembra il figlio bastardo di certe composizioni degli ZZ Top, con la chitarra di Travers che taglia in due l’etere e Carmine che una o due cose su come si suona la batteria comunque le conosce, in fondo neanche male. Better From A Distance alza subito la quota heavy e da lì in avanti non si fanno più prigionieri.

Il bello (o il brutto) è che anche i titoli cambiano leggermente, la prima canzone perde il sottotitolo Iguana Song, il successivo brano Escape The Fire, aveva un prefisso Can’t che nella nuova versione sparisce, e nonostante intermezzi acustici è sempre durissimo, per quanto, bisogna ammettere, ben suonato. In Rock Me, anche se sembra un pezzo degli Sweet gonfiato con il testosterone, Travers brandisce la sua chitarra con vigore e wah-wah a manetta, mentre la batteria di Appice è di una potenza devastante, e pure I Don’t Care è una fabbrica di riff, Remind Me To Forget You è hard rock brutale, con tocchi di slide, però una ballata pseudoacustica come Hey You non mi sembra nelle loro corde, anche se il lavoro della solista è sempre pregevole, e pure il reggae alla Police di I Can’t let you go era meglio lasciarlo alla band di Sting che lo faceva molto meglio: per il resto c’è molto hard rock violento, con titoli come Keep On Rockin’ o Gotta Have Ya (pure leggermente rappata?!?, ma per favore) e simili. Le due bonus Tonite e una cover di Never Gonna Give You Up, una cover di Barry White quasi metal, non sono memorabili. Proprio se siete in astinenza di “air guitar” davanti allo specchio.

Bruno Conti