Non Gli Avranno Portato Sfortuna? Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years

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Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years – Morello/Cherry Red 5CD Box Set

Una spiegazione per l’ironico titolo del post: il cofanetto di cui mi accingo a parlare non è uno di quei casi di “instant anthology” messa fuori da una casa discografica per capitalizzare la recente morte di un artista, ma era già stata messa in cantiere quando Jerry Jeff Walker, grande singer-songwriter scomparso lo scorso 23 ottobre, era ancora in vita, e la conferma di ciò si trova nel libretto incluso nel box, che parla del musicista newyorkese ma texano d’adozione al presente e non fa riferimento al triste epilogo. Oggi non sono qui per commemorare il countryman nato Ronald Clyde Crosby (per questo vi rimando al mio post di ottobre https://discoclub.myblog.it/2020/10/25/purtroppo-e-arrivato-quel-tempo-da-venerdi-scorso-il-texas-e-un-po-piu-povero-a-78-anni-se-ne-e-andato-mr-bojangles-jerry-jeff-walker/ ), ma appunto per parlare nel dettaglio di questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, un pratico cofanettino con dentro cinque CD rimasterizzati, ma senza bonus tracks, risalenti a due periodi ben diversi della carriera del nostro, e cioè i suoi tre primi album da solista dopo gli esordi con i Circus Maximus e due lavori di fine anni settanta, quando Jerry Jeff era già diventato famoso grazie ai dischi pubblicati con la MCA (e ristampati qualche anno fa dall’australiana Raven, che purtroppo ha chiuso i battenti da alcuni anni).

Ascoltando questi cinque dischetti uno ad uno si tocca quasi con mano l’evoluzione di Walker come songwriter e musicista: già pronto a farsi notare con il primo album in cui piazza subito la sua canzone più famosa, lo lasciamo dopo il terzo lavoro per poi ritrovarlo maturo e texano al 100% con il primo dei due LP per la Elektra, nei quali paradossalmente si rivolge quasi totalmente a brani altrui. Ma iniziamo da Mr. Bojangles (1968), esordio prodotto dal grande Tom Dowd e con una band capitanata da David Bromberg: tutti i brani presenti sono scritti da Jerry Jeff, a partire dalla leggendaria title track, che diventerà un classico assoluto della canzone americana e verrà portata al successo due anni dopo dalla Nitty Gritty Dirt Band, ma discretamente famosa sarà anche lo scintillante bluegrass Gypsy Songman, che diventerà uno dei soprannomi del nostro.

Altri brani di punta di un debutto niente male sono l’intima e deliziosa Little Bird, la spedita I Makes Money (Money Don’t Make Me), altro bluegrass coi fiocchi, la vivace ed orecchiabile Round And Round, la folk tune Broken Toys, molto anni 60 e con il piano di Gary Illingworth in evidenza, e la complessa The Ballad Of The Hulk, brano che in sette minuti tratta diversi temi, dalla politica al Vietnam passando per il controllo delle nascite e le compagnie discografiche, e che musicalmente paga tributo a It’s Alright Ma di Bob Dylan.

Dopo un album con la Vanguard (Driftin’ Way Of Life) Walker torna alla Atco e nel 1970 pubblica Five Years Gone con la produzione di Elliot Mazer, che si farà poi un nome con Neil Young e Linda Ronstadt, e l’aiuto di un gruppo di “Nashville Cats” con personaggi del calibro di Norbert Putnam, Kenny Buttrey, David Briggs, Hargus “Pig” Robbins, Charlie McCoy, oltre al ritorno di Bromberg. Nonostante il disco sia inciso nella capitale mondiale del country, l’album presenta diversi stili, a partire dalla rockeggiante Help Me Now, con tanto di chitarra “fuzz”, per proseguire con Blues In Your Mind, dal chiaro sapore soul, e con la leggera psichedelia del country cosmico About Her Eyes.

Non mancano episodi di songwriting classico come le toccanti ballate Seasons Change e Janes Says, e tra i pochi brani mossi di un disco molto intimista segnalerei il bel country-rock Dead Men Got No Dreams, con il backing sound tipico dell’epoca (pensate a Nashville Skyline di Dylan), l’elettrica e godibilissima Happiness Is A Good Place To Visit, But It Was So Sad In Fayetteville e l’irresistibile country song dal tocco vaudeville Born To Sing A Dancin’ Song. C’è anche una ripresa acustica della sempre splendida Mr. Bojangles, registrata durante un broadcast radiofonico del 1967 e quindi antecedente al primo album.

Sempre nel 1970 Jerry Jeff concede il bis con Bein’ Free, che vede il ritorno di Dowd in consolle e con i Dixie Flyers in session, un gruppo collaudato che comprende Jim Dickinson e Mike Utley al piano, Charlie Freeman alle chitarre e Tommy McClure al basso. Si inizia in modo divertente con il contagioso honky-tonk corale I’m Gonna Tell On You e si prosegue con la limpida ballata Stoney e con l’ironico country-rock Where Is The D.A.R. When You Really Need Them?

In generale questo è il migliore dei tre dischi targati Atco, e lo dimostrano A Secret, che profuma di folk song irlandese, l’intenso slow But For The Time, con piano e chitarra a lavorare di fino, il rock’n’roll with a country touch Vince Triple-O Martin e la bella e toccante More Ofter Than Not, scritta da David Wiffen. Facciamo un salto di qualche anno per ritrovare nel quarto CD un Walker decisamente più “texano” ed in generale migliore come musicista anche se, come ho già accennato, si affida al 90% a brani non suoi.

Jerry Jeff (1978) è comunque un signor disco, un lavoro grintoso e molto più rock che country, con una band tostissima guidata dal chitarrista Bobby Rambo e dalla nostra vecchia conoscenza Reese Wynans alle tastiere. Jerry porta in dote solo una canzone, la solare e quasi caraibica Her Good Lovin’ Grace, mentre tra gli altri pezzi meritano un cenno lo splendido slow pianistico di Mike Reid Eastern Avenue River Railway Blues posto in apertura, la roccata e trascinante Lone Wolf di Lee Clayton, con assolo potente di Rambo (d’altronde con quel cognome…), il country-rock venato di errebi sudista Bad News di John D. Loudermilk (ma che JJW ha imparato da Johnny Cash), il coinvolgente rock’n’roll scritto da Rambo Boogie Mama e l’intensa ballata Comfort And Crazy dell’amico Guy Clark.

Nel 1979 Jerry pubblica Too Old To Change, altro ottimo disco composto esclusivamente da canzoni scritte da altri, prodotto dallo stesso Jeff e con più o meno gli stessi musicisti del precedente lavoro. A parte belle versioni di un classico assoluto (Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson) e di un brano che lo diventerà (I Ain’t Living Long Like This di Rodney Crowell), sono da segnalare anche lo strepitoso honky-tonk I’ll Be Your San Antone Rose, scritto da Susanna Clark (moglie di Guy) e cantato dal nostro in duetto con Carole King, l’acustica Hands On The Wheel, il puro Texas country Cross The Borderline e la profonda Then Came The Children di Paul Siebel.

L’invasione di ristampe, antologie e cofanetti tipica della stagione natalizia potrebbe far passare inosservato questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, ma sono sicuro che gli appassionati del buon vecchio country-rock texano lo avranno già inserito nella loro “wish list”.

Marco Verdi

La Conferma Di Una Delle Più Intriganti Band Americane A Guida Femminile. Native Harrow – Closeness

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Native Harrow – Closeness – Loose Records

Una delle più piacevoli sorprese dello scorso anno in ambito folk-rock e dintorni (e non solo, anche in generale) era stato l’album Happier Now dei Native Harrow, il primo con una distribuzione adeguata, dopo due dischi diciamo più autarchici, distribuiti in proprio https://discoclub.myblog.it/2019/07/18/un-duo-decisamente-interessante-lei-una-voce-affascinante-native-harrow-happier-now/ . Parliamo di gruppo, ma in effetti sono un duo, basato a New York, e che ruota soprattutto intorno alla bellissima voce di Devin Tuel, una autrice che rimanda a quella felice stagione dei cantanti folk fine anni ‘60, primi anni ‘70, che esploravano nuove strade sonore dove il folk si arricchiva di morbide derive rock e di arrangiamenti più complessi ed avventurosi.

La nostra amica aggiunge anche elementi attuali di certo alternative rock ed indie, quello più raffinato e ricercato: la Tuel si occupa di chitarre, elettriche ed acustiche, oltre che di “giocare” con la propria voce, che grazie alle possibilità delle tecniche di registrazioni viene spesso moltiplicata, frequentemente con risultati affascinanti, mentre il suo pard, coautore e co-produttore Stephen Harris, suona quasi tutto il resto, tastiere, basso elettrico ed acustico, oltre a molte altre chitarre, quasi a cascata, affidando l’uso della batteria ad Alex Hall, membro aggiunto, e ingegnere del suono, già presente nel precedente CD, e che suona anche vibrafono, percussioni ed altre tastiere, quindi il suono alla fine risulta molto ricco e spesso avvolgente.

Registrato come Happier Now in quel di Chicago tra fine 2019 e i primi giorni del 2020, quindi poco prima dell’avvento della pandemia, e permettendo alla band anche un piccolo tour prima dello stop alla musica live, Closeness si apre con la mossa e grintosa Shake, dove sulle ali di una chitarra elettrica fuzzy e mille altri strumenti si apprezza subito la vocalità calda e radiosa della Tuel che scalda il cuore dell’ascoltatore. The Dying Of Ages è molto anni ‘70, soffice e sinuosa, ma con una orecchiabilità che non è delitto di lesa maestà, bensì un pregio della musica dei Native Harrow, che cercano di non impegolarsi in un sound volutamente oscuro e troppo “moderno”, spesso senza costrutto, come ribadisce il folk più classico della dolce Smoke Burns, più intima e solenne, sempre con quella voce deliziosa e senza tempo in azione, c’è spazio anche per brani più ritmati ed immediati come Same Every Time, dove il suono di un Moog Synthesizer vintage e qualche breve citazione in francese aggiungono un fascino d’antan, mais oui. Carry On è del tutto degna delle migliori cose di Carole King e Laura Nyro, con retrogusti soul, piano e un organo filante, che fanno da apripista ad un bellissimo assolo della elettrica, il tutto che rimanda nuovamente ai gloriosi primi anni’70, con la voce celestiale di Devin in multitracking https://www.youtube.com/watch?v=d48A0HZXqbU .

If I Could addirittura vira verso un funky-folk ispirato dal sound di Bill Withers, con un approccio più bianco, ma sempre con la moltiplicazione dei ritmi e delle voci. In un album come questo non può mancare un chiaro accenno ad atmosfere jazzy, risolte nella notturna Turn Turn, dove vibrafono e organo rimandano anche allo stile felpato di Melody Gardot o di Rickie Lee Jones, bellissimo comunque; Even Peace, con il suo baroque pop potrebbe appartenere a qualche disco perduto di Judy Collins, o a una woman band, sempre la Tuel, che con le sue voci sovraincise ricorda i Mamas And Papas dei brani meno noti https://www.youtube.com/watch?v=cx_sNWHxBoI , e anche la squisita ballata pianistica Feeling Blue, ci rammenta le cantautrici che popolavano in quegli anni la West Coast (qualcuno ricorda la compianta Judee Sill, Wendy Waldman o la prima Carly Simon?), mentre per la conclusiva orchestrale Sun Queen, non possiamo non citare l’inglese Sandy Denny, oppure la “regina” assoluta Joni Mitchell, che aveva un timbro vocale diverso, ma in qualcuna delle sue diverse fasi ha sicuramente influenzato Devin Tuel, che aiutata dai suoi Native Harrow ci ha regalato un altro album di grande spessore e anche estrema piacevolezza.

Bruno Conti

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Seconda Parte.

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Seconda Parte.

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Music – 1971 Ode/Epic – ***1/2

E per la serie l’ispirazione inarrestabile non finisce mica qui, a dicembre dello stesso 1971 ecco già pronto un altro album Music, sempre prodotto da Lou Adler, con il consueto nucleo di musicisti dei dischi precedenti, a cui si aggiungono Bobbye Hall alle percussioni e un nutrito gruppo di fiatisti. Non è un altro capolavoro, e come potrebbe essere, ma ancora un ottimo album. Proprio nell’iniziale Brother, Brother si apprezzano le percussioni di Mrs. Hall che danno quasi un’impronta soul alla Marvin Gaye al sound, con il sax in bella evidenza, It’s Going To Take Some Time, uno dei tre brani scritti con la Stern, ha la allure delle migliori canzoni di Carole, anche se la qualità non raggiunge le vette celestiali del precedente album, pur se una certa serenità di fondo traspare anche nella musica.

Deliziose anche Sweet Seasons e la ripresa della dolcissima Some Kind Of Wonderful, un brano targato Goffin/King che fu un successo proprio per Marvin Gaye. Larkey lavora sempre di fino al basso e il suono complessivo del LP ricorda da vicino quello che anche Laura Nyro stava sviluppando in quegli anni, per esempio nella raffinatissima Surely e nella pianistica title-track Music, graziata anche da uno splendido assolo del sax di Curtis Amy, mentre Song Of Long Ago è una sorta di duetto con la King e James Taylor che vocalizzano insieme nello stile West Coast tipico di Carole che rimane una costante di molte canzoni.

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Rhymes And Reasons – 1972 Ode/Epic ***1/2

Come il precedente anche Rhymes And Reasons arriva ai primissimi posti della classifica Usa: Music al 1° e questo al 2°, ma la qualità rimane sempre altissima. Alla batteria arriva Harvey Mason, David T. Walker si alterna a Kortchmar come chitarrista, Carole King oltre che al pianoforte è impegnata anche a clavinet, Wurlitzer e Fender Rhodes,  e i fiati e gli archi sono sempre presenti nella produzione di Adler. Per l’occasione c’è solo una canzone della coppia Goffin/King, ma ben quattro scritte con Toni Stern, le prime  del disco. Piacevole ma non memorabile per i suoi standard, però l’iniziale Come Down Easy, Peace In The Valley, l’orchestrata First Day In August, la ritmata Bitter With The Sweet e Been To Canaan, quasi alla Bacharach, confermano la classe innata.

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Fantasy – 1973 Epic/Ode – ***1/2

E’ una specie di concept album, anzi un song cycle, che viene portato in tour, pure in Europa, e lo ritroviamo nel bellissimo CD/DVD Live At Montreux 1973, di cui leggete la recensione in altra parte del Blog https://discoclub.myblog.it/2019/09/05/dal-passato-di-una-delle-piu-grandi-cantautrici-di-sempre-una-perla-sconosciuta-carole-king-live-at-montreux-1973/, un disco ancora una volta molto influenzato dalla black music, e dal funky leggero ma con tocchi jazz, visto che è accompagnata da una band “nera”, qualche titolo dei brani migliori lo trovate proprio nella recensione.

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Wrap Around Joy – 1974 Epic/Ode – ***

E’ l’ultimo disco in cui appare Larkey, neppure in tutti I brani, visto che nell’album suonano in metà di mille: comunque ancora un buon disco, in cui troviamo l’iniziale deliziosa Nightingale, un singolo di successo come Jazzman, e un paio di ballate Change in Mind, Change of Heart e We Are In All This Together, ma nell’insieme il disco, con la presenza delle figlie Louise e Sherry alle armonie vocali, è fin troppo lavorato e “zuccherino” in molti brani.

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Se volete crearvi la vostra discografia perfetta di Carole King aggiungete questo box a prezzo speciale con gli album del periodo Ode e aggiungete Tapestry e avrete tutto l’indispensabile della prima parte della carriera.

Vediamo Il Meglio ( E Il Peggio) del Resto.

Mentre invece per gli anni successivi il meglio del periodo seguente lo trovate in questo piccolo cofanetto qui sopra sempre a prezzo speciale.

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In effetti Thoroughbred (1976 -***) sarebbe l’ultimo album per la Ode, ancora con Adler alla produzione, e sulla carta, visti i musicisti presenti, a fianco di Kunkel e Kootch Kortchmar ci sono Waddy Wachtel, Lee Sklar, David Crosby, Graham Nash, James Taylor, JD Souther, Tom Scott, dovrebbe essere eccellente, ma a parte qualche brano, come l’iniziale So Many Ways, Daughter Of Light, il singolo Only Love Is Real, There’s Space Between Us, ogni tanto si sfiora l’easy listening, sia pure di gran classe. Nel 1977 firma con la Capitol, ma si sposa anche con Rick Evers, un tossico, ex homeless, che abusa anche fisicamente di lei, per quanto si dica che pure lei avesse il suo caratterino e rapporti difficili con gli altri ex e con gli “amici”. Dopo una serie di album deludenti giustamente decide di rivolgersi al meglio del suo repertorio passato e pubblica nel 1980 Pearls: Songs of Goffin and King  (Capitol 1980 – ***1/2) dove rivisita dieci canzoni del suo songbook, con l’aiuto del cantautore Mark Hallman, che produce l’album. Non male anche One To One – Atlantic -*** del 1982, sempre prodotto da Hallman, con i rientranti Kortchmar e Larkey, ma poi è notte fonda, City Streets suono orrido anni ’80, vede nel 1989 la presenza di Eric Clapton e Branford Marsalis, ma stenderei un velo pietoso.  Negli anni ’90 esce solo Colour Of Your Dreams, disco del 1993 con Slash alla solista, e ho detto tutto.

Negli anni 2000 ricordiamo il discreto disco natalizio del 2011 A Holiday Carole e soprattutto alcuni notevoli  dischi dal vivo, The Living Room Tour (2005 Hear Music  -***), l’ottimo Live At The Troubadour con James Taylor (2010 Concord ***1/2), registrato nel 2007 e l’eccellente Tapestry: Live In Hyde Park (Sony Legacy 2017 – ****) , registrato nel 2016 per festeggiare i 45 anni del suo disco più bello https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ .

Direi che questo è quanto.

Bruno Conti

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Prima Parte.

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Carole Joan Klein, nasce a New York, anzi proprio a Manhattan, da una famiglia di origini ebree, il 9 febbraio del 1942: durante gli anni al Queens College (un nome, un destino) incontra Gerry Goffin, che nell’agosto del 1959 sposerà a Long Island in una cerimonia ebraica, in quanto Carole era già incinta della prima figlia Louise. Nel frattempo i due avevano iniziato a scrivere canzoni insieme, in serata, quando erano terminati gli impegni di lavoro, avendo entrambi abbandonato il college per intraprendere la vita coniugale. Ma la King era una predestinata, aveva già frequentato il mondo musicale, quando era alle scuole superiori uno dei suoi primi fidanzati dell’epoca era stato Neil Sedaka, che proprio nel 1959 ebbe un clamoroso successo con Oh, Carol, per il quale Goffin, sulla stessa melodia, scrisse una canzone di risposta (ai tempi usava) Oh Neil,  cantata dalla King, che però non fu un successo, come neppure il lato B scritto insieme, A Very Special Boy, il secondo singolo ad uscire. I due ci misero poco ad aggiustare l’intesa musicale e già nel 1960 scrissero insieme (lei la musica e lui i testi, questa la formula) Will You Still Love Me Tomorrow?, un mega successo per le Shirelles, il primo brano di un gruppo femminile nero ad arrivare al n°1 delle classifiche, con il risultato che entrambi lasciarono il loro lavoro giornaliero per dedicarsi a tempo pieno alla musica, diventando una delle coppie di maggior successo durante

Gli Anni Del Brill Building 1960-1968

I brani scritti in coppia come Goffin-King, tra il 1960 e il 1968, anno in cui si lasceranno e divorzieranno, furono una infinità, ma almeno una cinquantina entrarono nella top 100 (e per Carole KIng, da sola o in coppia, fino al 1999, furono addirittura 118! Per cui il titolo dell’articolo è più che giustificato). Vediamo alcuni dei titoli più celebri o significativi scegliendo anche tra quelli più belli, magari incisi in seguito anche dalla nostra amica: Some Kind Of Wonderful, sempre del 1960, per i Drifters, ma poi anche in una bellissima versione di Marvin Gaye fu incisa pure da Carole King, come sarà per Will You Still Love Me Tomorrow. Nel 1961 Chains per i Cookies, ma anche i Beatles nel 1963 e la sua versione nel 1980; The Loco-Motion per Little Eva, e nell’album Pearls,  appunto del 1980. Nel 1962 Up On The Roof ancora con per i Drifters, poi su Writer il debutto solista del 1970 e incisa anche dalla “rivale” Laura Nyro lo stesso anno. Nel 1963 Hey Girl per Freddie Scott, ma soprattutto One Fine Day per le Chiffons, entrambe riprese nel disco del 1980. Nel 1965 Goffin e King scrivono anche alcuni brani con Phil Spector e lo stesso anno la splendida Don’t Bring Me Down per gli Animals (la faceva anche Tom Petty). Goin’ Back del 1966 per Dusty Springfield, ma come dimenticare la versione dei Byrds, e la stessa Carole l’ha incisa due volte, la stupenda (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, insuperata nella versione di Aretha Franklin, e poi apparsa su Tapestry

e infine nel 1968 I Wasn’t Born to Follow per i Byrds, che apparirà anche nel disco dei

The City –  Now That Everything’s Been Said – 1968 Ode – ***1/2

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Un trio con il futuro secondo marito, il bassista Charles Larkey e con Danny Kortchmar alla chitarra, oltre naturalmente a Carole King alle tastiere e alla voce, e con “l’ospite” Jim Gordon alla batteria. Un disco che non ebbe successo, sia per la riluttanza della King ad andare in tour, sia perché l’album andò fuori catalogo velocemente a causa di un cambio di distribuzione. Ma comunque giustamente rivalutato quando è stato pubblicato in CD, prima nel 1999 e poi dalla Light In The Attic nel 2015: molti dei brani portano ancora la firma Goffin e King, ma al di là della bellissima I Wasn’t Born To Follow è tutto l’album nell’insieme che per certi versi anticipa l’avvento della musica Westcoastiana. Anche perché nel frattempo Carole, nel 1967, si era trasferita a Los Angeles, nella zona del Laurel Canyon, dove aveva incontrato i primi praticanti di quello stile, altri spiriti affini, e alcune canzoni  del disco furono incise dai Monkees (la deliziosa A Man Without A Dream cantata da “Kootch” Kortchmar) , Blood, Sweat & Tears (la bellissima Hi-De-Ho)-, American Spring (la mossa title track, puro Carole King sound) e il brano dei Byrds fu usato anche nella colonna sonora di Easy Rider.

Lei, che anche in seguito non è mai stata considera una grande cantante, usa comunque alla perfezione quella sua voce unica e particolare, che l’ha resa una delle più grandi cantautrici americane di tutti i tempi. Pezzi come Snow Queen, una bellissima pop ballad o un paio di duetti con Kortchmar mostrano già il suo stile perfettamente formato e fanno da prodromo alla imminente carriera solista, che come in molti altri casi raggiungerà le sue vette nei primi cinque o sei album, quelli usciti tra il 1970 e il 1974.

The  Ode Years 1970-1974

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Writer – 1970 Ode/Epic – ***1/2

Pubblicato nel maggio del 1970, Writer presenta 12 brani, ancora tutti a firma Goffin/King, a parte due canzoni con i testi di Toni Stern, e ci sono le nuove versioni ricordate poc’anzi di Goin’ Back e Up On The Roof. Il disco è prodotto da John Fishbach,  ingegnere e musicista, che suona anche il moog nell’album; Charles Larkey, marito di Carole e Danny Kortchmar, rimangono rispettivamente a basso e chitarra come nel disco dei The City.  James Taylor è presente alla chitarra acustica e alle armonie vocali, mentre Joel O’Brien alla batteria e Ralph Schuckett all’organo completano l’organico. Come per Now That Everything’s Been Said siamo di fronte ad un ottimo album, che precede di pochi mesi quello che sarà un capolavoro assoluto del “rock”.

Lo stile del disco, che poi rimarrà costante per la intera carriera della King, sta in quel giusto equilibrio tra soft rock e pop raffinato, come esplicato nella vibrante Spaceship Races, nella splendida ballata errebì No Easy Down, in un’altra piano ballad come Child Of Mine, nel country-rock delicato in puro stile West Coast di To Love o in What Have You Got To Lose dove le chitarre acustiche si inseguono e il gusto di Carole per le melodie e le intricate armonie vocali regna sovrano., ma niente male anche la jazzata Raspberry Jam e il gospel-rock di Sweet Sweetheart. Se poi non avesse sette/otto mesi  dopo pubblicato il suo capolavoro, sarebbe ricordato comunque come un ottimo album, quale è.

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Tapestry – 1971 Ode/Epic – *****

Registrato a gennaio agli A&M Studios di Hollywood, pubblicato a Febbraio, con la produzione di Lou Adler, l’uomo alle spalle della carriera dei Mamas And Papas, che chiama a raccolta la crema della musica californiana: sono della partita Joni Mitchell e di nuovo James Taylor, le coriste Merry Clayton e Julia Tillman, con Larkey, Schuckett, O’Brien e Kootch Kortchmar sempre al loro posto più bravi che mai, con l’aggiunta di Russ Kunkel alla batteria e di Curtis Amy, Terry King e Barry Socher ai fiati, oltre ad un quartetto di archi. Ci sarà un motivo se il disco ha vinto 4 Grammy l’anno successivo tra cui Album dell’Anno, ha venduto complessivamente 10 milioni di copie negli USA e 25 nel mondo? Si, perché è praticamente perfetto: una sequenza di brani magnifici, uno in fila all’altro, che sentiti ancora oggi a quasi 50 anni dall’uscita non hanno perduto un briciolo della loro magnificenza.

Una ispiratissima Carole King questa volta firma da sola (quindi parole e musica) quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di Will You Love Me Tomorrow, il famoso pazzo scritto con il marito Gerry per le Shirelles, bellissima anche nella versione di Carole, e Smackwater Jack un’altra composizione Goffin/King che sarà il secondo singolo estratto dall’album, una sorta si shuffle uptempo, mosso e coinvolgente, con un grande lavoro del dancing bass di Larkey, grande musicista sottovalutato rispetto agli ottimi Schuckett e Kortchmar, e splendidi gli interscambi vocali con Merry Clayton. (You Make Me Feel Like) A Natural Woman scritta da Goffin e King insieme a Jerry Wexler per Aretha Franklin è una ballata pianistica talmente bella che non si poteva evitare di inserirla nel disco, la versione della Queen Of Soul è insuperabile, ma anche Carole King a livello emotivo e pianistico ci mette del suo e il risultato è superbo.

Saltando qui e là ci sono altre due canzoni scritte con Toni Stern: It’s Too Late che raggiunse il primo posto delle classifiche dei singoli nell’aprile 1971 è un’altra di quelle ballate dolenti in cui eccelle la nostra amica, un ritornello cantabile e un lavoro eccellente di tutta la band con l’interscambio delizioso tra la chitarre di Kortchmar e il sax di Curtis Amy, senza dimenticare il piano, l’altro brano firmato con la Stern è Where You Lead, sempre ricca di nuances tra soul e R&B con le avvolgenti armonie di Clayton e Tillman a decorare la voce partecipe della King, in grande spolvero. Rimangono le sette canzoni scritte in solitaria dalla King e sono una più bella dell’altra:

I Feel The Earth Move dà proprio l’impressione, con la sua andatura incalzante e quel pianoforte dal ritmo pressante, di un terremoto sonoro in arrivo, grande brano, e che dire di So Far Away, altra ballata sublime, con la chitarra acustica di James Taylor, e il flauto di Amy a sottolineare l’interpretazione superba della King, sia a livello vocale che per il lavoro del piano, senza dimenticare Kunkel alla batteria e Larkey al basso. Home Again è un’altra perla intima del songbook della cantante newyorchese, un altro brano splendido con il piano a cesellare le note, mentre acustica e ritmica pensano a colorare il suono, Beautiful è viceversa uno dei brani ottimisti e gioiosi, in questa alternanza di temi sonori e tempi musicali, comunque bellissima, seguita giustamente da una canzone più intima e raccolta come Way Over Yonder, con qualche retrogusto jazzato grazie al solito lavoro sofisticato delle “coriste” (anche se è riduttivo chiamarle così) e all’assolo di sax di Amy.

You’ve Got A Friend è uno degli inni universali dedicati all’amicizia più famosi di tutti i tempi, ha pure una bellissima melodia, con gli archi incombenti, il pianoforte accarezzato voluttuosamente, e le armonie vocali di Joni Mitchell e James Taylor, che pubblicherà la sua versione appena un paio di mesi dopo su Mud Slide Slim. Aggiungiamo la title track Tapestry un’altra sontuosa ballata pianistica che certifica le bellezza di questo album impeccabile. Che in CD è uscito in molte versioni: se trovate quella Legacy doppia uscita nel 2008 avete fatto tombola, nel secondo dischetto ci sono versioni dal vivo registrate tra il 1973 e il 1976 di tutti i brani di Tapestry meno uno. Imperdibile, non si può non avere!

Fine prima parte.

Bruno Conti

Dal Passato Di Una Delle Più Grandi Cantautrici Di Sempre Una “Perla Sconosciuta”. Carole King – Live At Montreux 1973

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Carole King – Live At Montreux 1973 – Eagle Vision/Universal

Nella situazione attuale del mercato discografico, diciamo non particolarmente floridissima, con le vendite che si rivelano sempre più declinanti, molti artisti, non solo le ultime leve, ma a maggior ragione anche i “grandi vecchi” della musica, per poter sopravvivere si affidano sempre di più ai concerti dal vivo, che sono diventati la maggiore risorsa di introiti a livello economico: ovviamente facendo i dovuti distinguo tra le cosiddette superstar e quelli chi si arrabattano per guadagnarsi la pagnotta, ma la dimensione live è sicuramente quella che ne garantisce la sopravvivenza. C’è anche tutto quel gruppo di artisti e band di culto che comunque hanno sempre avuto un fedele seguito di fan e da molti anni hanno quindi rivolto verso l’attività concertistica i maggiori sforzi. Carole King a ben vedere forse non rientra in nessuna di queste categorie:i dischi (o video) dal vivo relativi al periodo più fervido della propria carriera si possono contare sulle dita di una mano, anzi di un dito, visto che l’unico album dal vivo di quell’epoca pubblicato dalla King è il bellissimo The Carnegie Hall Concert:June 18, 1971, peraltro uscito solo nel 1996.

Ma poi la situazione è cambiata, anche per le circostanze appena enunciate: nel 1994 è uscito In Concert,  e nel 2005 il Living Room Tour (che poi si è protratto fino al 2008), nel 2010 c’è stato il Live At The Troubadour , insieme a James Taylor, relativo ad una data registrata nel famoso locale a californiano nel 2007, solo in DVD nel 2015 è uscito pure il Musicares a lei dedicato (ok è un tributo, ma la King era sul palco per parecchie canzoni), e infine nel 2017 (ma registrato l’anno precedente) il celebrativo e splendido Tapestry: Live In Hyde Park https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ . E in tutto questo periodo Carole King aveva pubblicato solo un disco natalizio nel 2011, il discreto A Holiday Carole, e nel 2001 l’ultimo album di materiale originale Love Makes The World. Ora nella benemerita serie Live At Montreux (che se la batte con i concerti del Rockpalast come la migliore e più longeva serie di archivio di concerti dal vivo), esce un volume, in CD+DVD, relativo alla serata tenuta al famoso “Jazz” Festival svizzero il 15 luglio del 1973. Nelle note della confezione viene riportato che si tratta della primissima esibizione della King fuori dagli Stati Uniti, ma in effetti la King si era già esibita per la BBC nel 1971 https://www.youtube.com/watch?v=f_uSaKWiEaU , anche se a livello discografico non era stato pubblicato nulla.

Il concerto è comunque bellissimo: accompagnata da una band eccellente, con una sezione fiati di ben 6 elementi, tra cui spicca Tom Scott al sax, dalla fedelissima Bobbye Hall alle percussioni, Charles Larkey al basso (che all’epoca era suo marito, il secondo dopo Gerry Goffin), Harvey Mason alla batteria, Clarence McDonald al piano e David T. Walker alla chitarra, la King sciorina il meglio del suo album capolavoro Tapestry, ma anche brani tratti da Writer, nonché dal disco del momento Fantasy (ma non curiosamente dai due precedenti). Lo stile per l’occasione oscilla tra uno smooth jazz che si stava imponendo all’epoca grazie allo stesso Tom Scott (e le sue future collaborazioni con la “rivale” Joni Mitchell),  a George Benson, ai Traffic di Low Spark, senza mai dimenticare comunque le sue splendide ballate pianistiche e quel pop raffinato californiano che è sempre stato nella sua cifra stilistica. Ecco quindi scorrere capolavori come la splendida I Feel The Earth Move, solo Carole, i suoi riccioli rossicci, e le efelidi, oltre al suo piano, dove dimostra subito una grande abilità, la voce leggermente roca, a tratti fragile, ma unica, della cantautrice, a cui segue Smackwater Jack, altro brano di Tapestry. Esecuzioni brevi e stringate, 18 canzoni in poco più di 63 minuti, ma tanta classe. Bellissima anche la dolce Home Again, la prima ballata, sempre dal disco del 1971, da cui arriva anche Beautiful, mentre Up On The Roof era su Writer (ma fu anche un successo  per i Drifters, estratto del periodo Brill Building come Goffin/King).

A questo punto della esibizione, dopo una deliziosa It’s Too Late, Carole porta sul palco la band di 11 elementi (quasi tutti “neri”) per eseguire la Fantasy Suite, https://www.youtube.com/watch?v=ApacgMtdFLI  praticamente gran parte delle canzoni dell’album, in cui spiccano le funky You’ve Been Around Too Long e Believe In Humanity, le soffuse e sofferte Being At War With Each Other e That’s How Things Go Down  (brano sull’abbandono di una donna incinta), che mettono anche in luce similarità stilistiche con la grande Laura Nyro, grazie agli spunti jazzy. Haywood, pezzo raffinatissimo che sfocia di nuovo nella black music, racconta una storia di dipendenza dalla droga, e il sound anche grazie alla presenza di Tom Scott, anticipa almeno di sei mesi  la svolta della Mitchell con Court And Spark, mentre Corazòn strizza l’occhio alla musica latina, con gran profusione di fiati e percussioni. Nella parte dei bis non mancano i suoi brani più celebri: You’ve Got A Friend, per la gioia del pubblico presente ed una intensa (You Make Me Feel Like A) Natural Woman, entrambe di nuovo solo per voce e piano. Un ottimo documento per una delle più grandi cantautrici della storia. Nei prossimi giorni sul Blog anche un lungo articolo retrospettivo in due parti dedicato alla sua carriera.

Bruno Conti

Il Periodo Migliore Di Un Cantautore “Doc”! James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976

james taylor the warner bros years

James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976 – Rhino/Warner 6CD – 6LP

Gli anni settanta sono stati senza dubbio la decade di maggior sviluppo per il cantautorato americano (e canadese), ed uno dei massimi esponenti del genere è stato indiscutibilmente James Taylor, musicista depositario di uno stile personalissimo ed immediatamente riconoscibile. Il songwriter di Boston ha sempre costruito i suoi dischi con la massima cura ed attenzione, pubblicandoli solo quando riteneva di avere le canzoni giuste e scegliendo sempre i migliori sessionmen in circolazione; James ha sempre preferito le ballate, create perlopiù intorno alla sua voce, la sua chitarra ed al massimo un pianoforte ed una sezione ritmica, ed il suo stile tranquillo, pacato, gentile ed estremamente raffinato è sempre stato il suo marchio di fabbrica, al punto che quando esce un suo disco nuovo il pubblico sa esattamente cosa aspettarsi. Di album brutti Taylor non ne ha mai fatti, ma è all’inizio degli anni settanta che ha sparato le sue cartucce migliori con una serie di dischi, sei, usciti per la Warner e gratificati da un ottimo successo sia di pubblico che di critica (ma il nostro aveva già un album all’attivo, il discreto James Taylor, registrato durante il suo “periodo londinese” e pubblicato dalla Apple).

Oggi il lustro trascorso con la Warner è interamente riassunto in questo bel boxettino intitolato appunto The Warner Bros. Albums 1970-1976, sei CD (o LP) presentati in un cofanetto “clamshell” e stampati nella loro veste grafica originale, con la rimasterizzazione avvenuta sotto la supervisione del noto produttore Peter Asher, dietro la consolle in tutti i primi quattro album di Taylor (compreso quello targato Apple); non ci sono bonus tracks, anche se io avrei inserito almeno i tre inediti del Greatest Hits del 1976, cioè il rifacimento dei due brani più noti dell’esordio Apple (Something In The Way She Moves e Carolina On My Mind) e la versione live di Steamroller. Il cofanetto comunque è imperdibile se non possedete già tutti i dischi contenuti al suo interno, e soprattutto se siete amanti del cantautorato degli anni settanta. Come dicevo prima, James ha sempre amato circondarsi di musicisti di nobile lignaggio, e solo a leggere i nomi di chi ha suonato con lui su questi dischi c’è da farsi venire l’acquolina in bocca: Danny Kortchmar, Waddy Wachtel, Jim Keltner, Al Perkins, David Grisman, Richard Greene, Rick Marotta, Russell Kunkel, John Hartford, Leland Sklar, i fratelli Randy e Michael Brecker, David Sanborn, Craig Doerge, John McLaughlin, David Spinozza, Hugh McCracken, Willie Weeks, Andy Newmark e Herb Pedersen, oltre ai produttori Russ Titelman e Lenny Waronker (e naturalmente il già citato Asher). Presenze fisse sui suoi dischi erano anche Carole King, grande amica sua, al piano e voce, e l’allora moglie Carly Simon sempre alla voce; in più, una serie di ospiti speciali che vedremo a breve nelle disamine disco per disco.

Sweet Baby James (1970): già subito uno degli album migliori di sempre del nostro, un lavoro che contiene la famosa Fire And Rain, splendida ballata che ancora oggi è un highlight nelle esibizioni dal vivo; molto popolare anche la trascinante Steamroller, un blues elettrico con fiati decisamente piacevole e ben fatto. Poi abbiamo la bellissima country song che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di equilibrio e finezza, la raffinata Sunny Skies, leggermente jazzata, la folkeggiante Country Road e l’elaborata Suite For 20 G, esempio di songwriting già maturo. Senza dimenticare tre delicati acquarelli acustici come Lo And Behold, Oh Baby Don’t You Loose Your Lip On Me ed una breve ripresa del classico Oh, Susannah. Come ospiti, Chris Darrow e Randy Meisner, quest’ultimo all’epoca ancora nei Poco.

Mud Slide Slim And The Blue Horizon (1971): l’album più famoso di Taylor, grazie soprattutto alla straordinaria You’ve Got A Friend, scritta da Carole King e portata da James al numero uno in classifica, una delle più belle ballate dei seventies (con Joni Mitchell alle armonie vocali). Con un brano così la strada è in discesa, ma il disco è bello anche per la vibrante Love Has Brought Me Around, la bella Riding On A Railroad, dallo stile countreggiante, la fluida Hey Mister, That’s Me Up On The Jukebox, le note You Can Close Your Eyes (eseguita in perfetta solitudine) e Machine Gun Kelly (scritta da Kortchmar e dedicata ad uno dei più noti ospiti di Alcatraz), e la ritmata e coinvolgente Let Me Ride.

One Man Dog (1972): un disco particolare, una sorta di suite con 18 brani fusi insieme, alcuni dei quali appena accennati ed altri solo strumentali: l’ascolto è comunque gradevole ed appagante, con James che nonostante la struttura atipica non cambia il suo stile. C’è una hit minore, l’elegante Don’t Let Me Be Lonely Tonight, ed alcuni deliziosi bozzetti come One Man Parade, pop song di notevole finezza e dalla ritmica di stampo sudamericano, la rilassata e distesa Nobody But You, tipica del nostro, la bella Back On The Street Again, in cui si incontrano pop e folk, ed una squisita rilettura del traditional One Morning In May con Linda Ronstadt alla seconda voce.

Walking Man (1974): dopo un anno di pausa James ritorna senza Asher ai comandi, sostituito dal chitarrista David Spinozza: Walking Man per la prima volta manca di un hit single, e di conseguenza si rivela il disco meno di successo della decade per Taylor, anche se a livello compositivo si mantiene su buoni livelli. Da segnalare in particolare la piacevole e gentile title track, la vibrante Rock’n’Roll Is Music Now (che come nella seguente Let It All Fall Down vede la partecipazione ai cori di Paul e Linda McCartney), la corale e decisamente orecchiabile Ain’t No Song, una sorprendente cover di The Promised Land di Chuck Berry nella quale James ci dà una sua personale versione del rock’n’roll (quindi sempre con estrema eleganza), e la conclusiva Fading Away, malinconica ma molto bella.

Gorilla (1975): Taylor torna ad assaporare il successo con uno dei suoi album più famosi e più riusciti, merito senz’altro della solare Mexico e della deliziosa cover di How Sweet It Is (To Be Loved By You) di Marvin Gaye, canzoni che si difenderanno benissimo nelle classifiche dei singoli. E’ anche il disco con la maggior parte di ospiti di prestigio: Crosby & Nash alle voci nella stessa Mexico ed in Lighthouse, un brano splendido e melodicamente squisito che vede anche Randy Newman all’organo, e Lowell George alla slide in Angry Blues, un guizzante funkettone. Altri momenti salienti di un album comunque senza sbavature sono Music, classe pura, la toccante Wandering, un brano in cui a James basta davvero poco per emozionare, l’ironica title track con accompagnamento tra jazz e Hawaii e l’incantevole Sarah Maria.

In The Pocket (1976): altro album privo di brani di particolare successo, ma solido e brillante, che inizia con la nota Shower The People, splendida ballata dal suono tipicamente californiano, e prosegue con la pregevole A Junkie’s Lament, in cui la voce di Taylor è affiancata da quella angelica di Art Garfunkel. Altri highlights sono la mossa e pianistica Money Machine, l’immediata Everybody Has The Blues, melodicamente ineccepibile, l’intensa Captain Jim’s Drunken Dream e Don’t Be Sad ‘Cause Your Sun Is Down, con Stevie Wonder all’armonica (e co-autore del pezzo). Troviamo di nuovo Crosby & Nash alle voci (Nothing Like A Hundred Miles) e, in Family Man, anche Bonnie Raitt.

Dopo questi album Taylor passerà alla Columbia e continuerà a pubblicare album di pregevole fattura fino ai giorni nostri (i miei preferiti tra tutti sono JT, That’s Why I’m Here, Hourglass, New Moon Shine, October Road e l’ultimo Before This World, uscito però per la Concord), il tutto senza perdere mai il suo stile raffinato e confidenziale, né la capacità di scrivere canzoni semplici ma mai scontate.

A differenza dei capelli, che rimarranno ben presto un ricordo.

Marco Verdi

Non Proprio Una Ristampa Visto Che Il Concerto E’ Comunque Inedito: Uscita Posticipata Al 14 Giugno . Carole King – Live At Montreux 1973

carole king live at montreux 1973 cd+dvd

Carole King – Live At Montreux 1973 – CD+DVD – CD –  LP- DVD Eagle Rock/Universal – 14-06-2019

Curiosamente di Carole King, almeno a livello video (perché come CD esiste il bellissimo The Carnegie Hall Concert: June 18, 1971, uscito però solo nel 1996 per la prima volta), fino ad ora non era disponibile nulla della sua età dell’oro, ovvero i primi anni ’70. Come DVD si trovano alcuni concerti pubblicati nel corso degli anni: penso a In Concert, relativo ad una data del 1994, Welcome To My Living Room. uscito in DVD nel 2007, ma riguardante una esibizione californiana del 2005, nonché A Musicares Tribute To Carole King,  facente parte della serie di concerti annuali per un personaggio che si è distinto per il suo impegno nella filantropia, ma anche per la sua statura artistica (nella serie ci sono DVD dedicati a Springsteen, Neil Young, Brian Wilson, Paul McCartney, James Taylor, tanto per citarne alcuni, serate in cui illustri colleghi rendono omaggio a queste stelle della musica reinterpretando le loro canzoni, ma in cui spesso si esibiscono anche i musicisti oggetto del tributo). Infine il DVD probabilmente più bello dedicato alla King è https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ , una magnifica serata londinese di un paio di anni fa (facciamo tre), dove Carole eseguiva integralmente il suo capolavoro Tapestry, insieme a parecchie altre “perle” del suo repertorio.

Ma adesso arriva questo Live At Montreux 1973, categoria ristampe per la data da cui proviene, ma comunque inedito: un concerto destinato ad arricchire ulteriormente la sua opera omnia. In effetti, come vedete qui sopra, Carole King si era esibita per la BBC proprio nel 1971, l’anno della sua consacrazione, ed il concerto, per quanto breve, è splendido, ma non è mai stato pubblicato purtroppo a livello ufficiale. Ora la Eagle Rock farà uscire la sua esibizione al Festival di Montreux di due anni dopo, con il meglio di Tapestry, ma anche dei due album successivi, Fantasy Writer: nelle note per il lancio del Live, presi forse dall’entusiasmo, viene detto che si trattava della sua prima esibizione fuori dagli Stati Uniti, ma come abbiamo appena visto in effetti aveva già suonato a Londra due anni prima. Ecco comunque la tracklist completa dell’evento, che venne registrato alla Maison Des Congrés il 15 luglio del 1973.

  1. I Feel The Earth Move
  2. Smackwater Jack
  3. Home Again
  4. Beautiful
  5. Up on the Roof
  6. It’s Too Late
  7. Fantasy Beginning
  8. You’ve Been Around Too Long
  9. Being At War With Each Other
  10. That’s How Things Go Down
  11. Haywood
  12. A Quiet Place To Live
  13. You Light Up My Life
  14. Corazon
  15. Believe in Humanity
  16. Fantasy End
  17. You’ve Got a Friend
  18. (You Make Me Feel Like A) Natural Woman

E qui sopra trovate un breve trailer relativo all’uscita prevista per il 31 maggio, che però è stata posticipata al 14 giugno. Se non siete amanti dei DVD potete comprarlo anche in CD o in LP. Dopo l’uscita naturalmente ci ritorneremo diffusamente per la recensione completa del manufatto.

Alla prossima.

Bruno Conti

Torna Lo Springsteen Della Domenica: Giovane, Affamato E Già Grandissimo! Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy 1975

bruce springsteen roxy 75

Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy, West Hollywood, CA October 18, 1975 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Le scorse feste natalizie hanno rallentato le spedizioni e gli arrivi dei nuovi volumi degli archivi live di Bruce Springsteen (io non scarico, ordino ancora il caro vecchio CD), al punto che mi sono ritrovato in arretrato di quattro pubblicazioni, che recupererò tra oggi e le prossime settimane. La prima di esse è anche quella con la data di performance più “antica” di tutta la serie finora, e cioè il concerto del 18 Ottobre 1975 al Roxy di Los Angeles: era già uscito un live del ’75, ma si riferiva allo show di Capodanno a Philadelphia, e quindi successivo. All’epoca di questi sei concerti al Roxy (in quattro serate, quello di cui mi accingo a parlare è il primo dei due spettacoli della terza sera) Springsteen era considerato non più il futuro del rock’n’roll ma già il presente, avendo stupito l’America pochi mesi prima con la pubblicazione di Born To Run, ed essendo a pochi giorni dalla celeberrima simultanea apparizione sulle copertine di Time e Newsweek.

Gli show del Roxy sono sempre stati tra i più amati dai fans del Boss, e dopo l’ascolto di questo doppio CD (14 brani, poco meno di due ore) mi è facile capire il perché, in quanto ci troviamo di fronte ad una di quelle prestazioni che hanno creato la leggenda del nostro come live performer, una festa musicale fatta di grande rock’n’roll e di struggenti ballate, con la E Street Band che girava già a mille (erano solo in sei più Bruce, sia Patti Scialfa che Nils Lofgren sarebbero arrivati molto dopo). La serata è subito magica, con una versione intima di Thunder Road, solo Bruce alla voce e armonica e Roy Bittan al piano: è anche l’unica canzone già nota del concerto, essendo quella che apriva il famoso cofanetto quintuplo Live 1975/85; la band al completo entra per una spumeggiante ancorché sintetica (quattro minuti) Tenth Avenue Freeze-Out, per poi intrattenere il pubblico già caldo con due rimandi ai suoi esordi, una fulgida Spirit In The Night dal primo album e soprattutto, dal secondo, una splendida The E Street Shuffle di ben 14 minuti e dal mood quasi southern soul, specialmente grazie all’organo di Danny Federici ed alla slide di Little Steven, e con un finale in cui viene accennato il tema di Havin’ A Party di Sam Cooke.

Scintillante è la parola giusta per definire la cover di When You Walk In The Room (scritta da Jackie DeShannon e portata al successo dai Searchers), complice una chitarra jingle-jangle che la fa sembrare suonata dai Byrds: davvero bellissima. Dopo una fluida e coinvolgente She’s The One, brano chiaramente influenzato da Bo Diddley, il primo CD si chiude con Born To Run, che seppur con pochi mese sulle spalle è già un classico (e fa un certo effetto non trovarlo tra i bis), e con la sempre toccante 4th Of July, Asbury Park (Sandy), contraddistinta come di consueto dalla splendida fisarmonica di “Phantom Dan” Federici. Il secondo dischetto presenta le performance che rendono il concerto imperdibile: le straordinarie e potenti Backstreets e Jungleland, entrambe con uno strepitoso Bittan, già basterebbero, ma in mezzo c’è l’highlight della serata, e cioè una monumentale Kitty’s Back di ben 17 minuti, in assoluto la più bella versione da me mai sentita di questo classico minore del Boss, elettrica, pulsante, trascinante e magnifica. Finale con la poderosa Rosalita, 12 minuti, e con altre due cover che chiudono lo show: una rarissima Goin’ Back (di Carole King e Gerry Goffin), mai più suonata da Bruce dopo questi show al Roxy, e lo scatenato rock’n’roll Carol (dedicato al suo autore Chuck Berry dato che era il suo compleanno), altri sette minuti irresistibili.

Ancora un live imperdibile dunque per Bruce Springsteen: nella prossima puntata andrò avanti di qualche anno, non molti per la verità, e mi occuperò di due show che potrei definire “nucleari”.

Marco Verdi

L’Altro Elvis: Un Ritorno Alla Forma Migliore Per Mr. McManus. Il Disco Pop Dell’Anno? Elvis Costello & The Imposters – Look Now

elvis costello look now

Elvis Costello & The Imposters – Look Now – Concord/Universal CD – Deluxe 2CD

Ho sempre seguito con simpatia ed interesse la carriera di Elvis Costello, uno dei pochi artisti a non soffrire di un calo di ispirazione durante gli anni ottanta, decade problematica per molti grandi musicisti della prima e seconda ora. Anzi, proprio nei “Big Eighties” Elvis (nato Declan Patrick Aloysius McManus) ha prodotto quelli che, insieme agli esordi della seconda metà dei settanta, sono da considerare i suoi album migliori, inclusi quelli che per il sottoscritto sono i suoi due capolavori assoluti: Imperial Bedroom e King Of America. Ma Costello è sempre stato uno che non si è mai adagiato sugli allori, anzi ha sempre fatto quello che ha voluto, anche a discapito delle vendite: infatti, dopo due deliziosi album pop a cavallo tra gli ottanta ed i novanta (Spike e Mighty Like A Rose), ha cominciato ad alternare dischi nel suo tipico stile ad altri più inattesi, e se alcune collaborazioni avevano una loro logica (come quelle con Burt Bacharach ed Allen Toussaint), altre erano decisamente più cerebrali ed ostiche, tipo quella con il Brodsky Quartet per The Juliet Letters o l’album For The Stars con il mezzo soprano svedese Anne Sophie Von Otter, o ancora l’opera classicheggiante Il Sogno (ma anche nel 1981 aveva dimostrato di fare il cavolo che gli pareva con lo splendido Almost Blue, un disco di puro country in un momento in cui il country non interessava a nessuno, e per di più in una nazione, l’Inghilterra, che non aveva mai amato questo genere tipicamente americano).

I primi anni duemila sono stati per il nostro un po’ altalenanti, in quanto ha alternato lavori ottimi (The Delivery Man, National Ransom), buoni (Secret, Profane & Sugarcane), ad altri incerti (il velleitario North ed il poco ispirato Momofuku), mentre nella decade attuale le cose stavano andando anche peggio, in quanto l’unico lavoro pubblicato da Elvis è stato Wise Up Ghost (2013), un lavoro pasticciato e bruttino in collaborazione con il gruppo hip hop The Roots (*NDB Però negli anni duemila il nostro amico ha realizzato uno show televisivo fantastico come https://discoclub.myblog.it/2010/04/20/elvis-costello-spectacle-season-1-5-dvd-box-set/.) Le mie aspettative per il nuovo CD di Costello, Look Now (dalla copertina orribile), non erano quindi altissime, e la mia sorpresa una volta ultimato l’ascolto è stata doppia, in quanto non solo mi sono trovato davanti ad un disco splendido, ma a mio parere uno tra i suoi più riusciti degli ultimi 25 anni, forse addirittura il suo migliore da Mighty Like A Rose (quindi 1991) in poi. Per l’occasione il nostro ha riformato gli Imposters (Davey Faragher al basso, Pete Thomas alla batteria e Steve Nieve alle tastiere), una sorta di evoluzione degli Attractions e sempre presente nei dischi migliori del nostro nel nuovo millennio, affiancandoli di volta in volta con una sezione di archi o fiati. Ed il risultato è un bellissimo disco di puro pop, proprio nella miglior tradizione dell’occhialuto musicista inglese: Costello per questo disco si è ispirato alle orchestrazioni di Phil Spector, ma lavorando con mano più leggera rispetto al mitico produttore americano, ed arrangiando con estrema finezza le varie canzoni, che anche a livello compositivo sono comparabili a quelle dei suoi album più celebrati.

Brani che si alternano tra pop, blue-eyed soul e rhythm’n’blues, con performance vitali ed energiche ed un suono davvero splendido, basato molto su ogni tipo di strumento a tastiera (pianoforti di vari generi, organo Hammond e Vox Continental, mellotron, celeste), suonati ovviamente per la maggior parte da Nieve ma pure da Costello stesso, che si occupa anche di tutte le parti di chitarra. Per l’occasione Elvis rispolvera anche la collaborazione a livello di scrittura con Burt Bacharach (in tre brani, due dei quali vedono anche il compositore americano intervenire al pianoforte) e ne inaugura una nuova con la grande Carole King, co-autrice di un pezzo (che pare i due abbiano impiegato vent’anni a terminare). L’album inizia benissimo con Under Lime, una deliziosa pop song dal leggero sapore soul, suonata in maniera potente e con reminiscenze anni sessanta: il miglior Costello, vicino ai più riusciti episodi dei suoi album del periodo classico, e brano giustamente scelto come primo singolo. Don’t Look Now è una gradevole e melodiosa slow ballad che è anche la prima di quelle scritte con Bacharach, suono asciutto e diretto, solo Elvis, Burt e gli Impostori; Burnt Sugar Is So Bitter è invece il pezzo composto con la King, uno squisito errebi, ritmato e vibrante, dalla melodia immediata ed un ottimo arrangiamento corale spolverato dai fiati: un altro potenziale singolo. Splendida Stripping Paper, una ballata pop tersa e dalla melodia notevole, che rimanda a certe cose di Imperial Bedroom, e con la chiara influenza dell’amico Paul McCartney; Unwanted Number è ancora pop-errebi di grande spessore, un brano coinvolgente e quasi perfetto nel suo arrangiamento anni settanta, e Nieve bravissimo al piano.

Con tutta la fiducia che potevo dare a Costello, un avvio del genere non me lo aspettavo. Bellissima anche I Let The Sun Go Down, una ballata nuovamente basata sul piano, con una sezione d’archi usata con grande finezza, un motivo toccante ed un corno francese a dare un sapore beatlesiano. La cadenzata Mr. And Mrs. Hush non scende dal treno dell’errebi bianco, e la sicurezza con cui Elvis affronta la materia lo fa sembrare un esperto del genere, Photographs Can Lie è il secondo brano che vede Bacharach nel doppio ruolo di co-autore e pianista, ed il pezzo sembra provenire di botto dalle sessions di Painted From Memory, ma con una freschezza nuova, mentre Dishonor The Stars, che vede solo Costello e gli Imposters, è l’ennesima bella canzone di un album sorprendente, con una strumentazione basata su piano, chitarre acustiche e delicati rintocchi di vibrafono. Suspect My Tears è una ballatona classica, forse l’unica con un’orchestrazione un po’ invadente e che la rende un po’ zuccherosa, ma Why Won’t Heaven Help Me? ha maggior forza e vigore pur restando nello stesso ambito pop-errebi; chiude il CD la tenue e raffinata He’s Given Me Things terzo ed ultimo dei brani scritti con Bacharach.

Esiste però una versione deluxe con un CD aggiunto, un EP della durata di un quarto d’ora intitolato Regarde Maintenant e comprendente quattro canzoni: la lenta e toccante Isabelle In Tears, solo Elvis e Nieve, la bizzarra ma gradevole Adieu Paris (L’Envie Des Etoiles), cantata un po’ in francese un po’ in inglese, l’immediata The Final Mrs. Curtain, puro e semplice pop, e l’orchestrale e quasi sinfonica You Shouldn’t Look At Me That Way. Un secondo dischetto discreto, che non aggiunge molto ad un album che andava già benissimo così. Sinceramente non pensavo che Elvis Costello avesse ancora nelle sue corde un disco della portata di questo Look Now: senza dubbio tra le sorprese più piacevoli di questo 2018.

Marco Verdi

Erano La Seconda Band, Ora Riformata, Di Iain Matthews Dopo I Fairport Convention: Sempre Ottima Musica. Matthews Southern Comfort – Like A Radio

matthews southern comfort like a radio

Matthews Southern Comfort – Like A Radio – MIG Made In Germany

Iain Matthews (con due I nel nome,  la seconda non la usa quasi nessuno) ha militato in almeno tre “grandi” band nel corso del suo percorso musicale: prima nei Fairport Convention, di cui è stato uno dei membri fondatori, presente nel primo album omonimo e fino al 1969, poi à stato schiacciato dalle personalità prorompenti di Sandy Denny e Richard Thompson, lasciando la band appunto nel 1969 e fondando i Matthews Southern Comfort, che con la loro splendida versione di Woodstock di Joni Mitchell, peraltro uscita all’inizio solo come singolo, ebbero un successo strepitoso, arrivando in cima alle classifiche in tutto il mondo, pur se l’arrangiamento della canzone era diverso sia dalla versione di CSN&Y, sia da quella della Mitchell, perché Matthews non riusciva a raggiungere le note più alte di Joni, che comunque disse di preferire quell’arrangiamento.

Nel frattempo la band pubblicò tre album che furono tra i primi dischi in assoluto a fondere folk, country e rock morbido, dei veri antesignani del country-rock e della roots music a venire, poi ribadite negli splendidi album solisti di Iain Matthews per la Vertigo e la Elektra (magnifico Some Days You Eat The Bear And Some Days The Bear Eats You del 1974, con Jeff “Skunk” Baxter, David Lindley, BJ Cole e Andy Roberts, che fu suo compagno di avventura anche nei Plainsong, la terza grande band in cui militò il nostro amico, autori di un altro disco splendido come il concept album In Search Of Amelia Earheart, dedicato alla storia della trasvolatrice americana). Nel corso degli anni Matthews è ritornato periodicamente a pubblicare album (anche d’archivio) di tutte le sue “creature”, alternandoli ai suoi dischi solisti, spesso con risultati lusinghieri, anche se i dischi del periodo 1969-1974/75 sono tra le cose migliori rilasciate da un cosiddetto singer-songwriter, in possesso di una voce dolce, espressiva e malinconica, Iain è stato oltre che autore di pregio anche grande interprete di canzoni di altri, penso a Ol’ 55, sempre nell’album Elektra citato poc’anzi, che a mio modesto parere è più bella forse dell’originale e di quella degli Eagles, ma anche, oltre al brano della Mitchell, canzoni di Jesse Winchester, degli Steely Dan, di Gene Clark, dei Crazy Horse, di Richard Farina, dell’amico Richard Thompson, di James Taylor, e potremmo andare avanti per ore, perché si è capito che amo moltissimo la musica e la voce di Iain Matthews. 

Anche in questo Like A Radio Matthews non ha perso un briciolo del suo fascino senza tempo, anche se della band originale non c’è più nessuno, sostituiti da tre musicisti olandesi, Bart Jan Baartmans, Bart de Win e Eric De Vries, comunque funzionali al classico suono morbido, ma venato di rock, dei vecchi Matthews Southern Comfort, tra chitarre elettriche ed acustiche, tastiere, soprattutto il piano, sia acustico che elettrico e una ritmica discreta, il musicista inglese sciorina una serie di nuove canzoni che sicuramente piaceranno ai vecchi fans ma che possono essere apprezzate da tutti. Molti dei brani nascono da idee incomplete o non sviluppate del tutto che Matthews ha usato in queste nuove composizioni:, senza dimenticare versioni di Darcy Farrow che era sul secondo disco del 1970 dei MSC, sempre splendida ed evocativa, tra piano e slide sognanti https://www.youtube.com/watch?v=lX0562Qr-BI , o cover di brani di Carole King e James Taylor, una Something In The Way She Moves( presente nelle bonus tracks) già incisa nei dischi solisti, ma sempre con una melodia avvolgente e radiosa, grazie anche alle armonie vocali da sempre marchio di fabbrica della band.

Tra le canzoni nuove molto bella l’iniziale The Thought Police con quei guizzi elettroacustici che non si sono mai spenti nel songbook di Iain, ma anche il folk-country-rock senza tempo della deliziosa To Love, cover dell’appena ricordata Carole King che è illuminata dal lavoro della chitarra elettrica dell’eccellente Eric De Vries, o ancora la malinconica ballata Right As Rain che rivaleggia con le migliori canzoni di Iain Matthews, malinconica e dolcissima come i suoi brani migliori. Anche Chasing Rainbows ci ricorda quel suono solare West Coast con cui il nostro amico ha flirtato negli anni ’70, mentre la conclusiva Phoenix Rising, tra mandolini, chitarre acustiche e piccole percussioni è ancora legata ad un suono più dichiaratamente folk e Jive Pajamas è uno strano shuffle-swing magari non riuscitissimo ma che segnala la voglia di diversità https://www.youtube.com/watch?v=-zGiVPuwLEw , meglio estrinsecata nella bucolica Age Of Isolation, sempre con ottimi intrecci vocali o nel country-rock della mossa Bits And Pieces, altro brano che si lega alle vecchie avventure sonore di Iain Matthews, qui riproposte ancora una volta.

Insomma ci sono a tratti momenti del vecchio splendore e questo per chi ama il musicista 71enne di Scunthorpe può bastare.

Bruno Conti